L'altomedioevo nel Molise. Proposte per nuove ricerche di storia

Francesco Bozza

 

I. SEGNI DI PRESENZE BIZANTINE NEL ‘SAMNIUM’ MOLISANO DELL’ALTO MEDIOEVO (476-1054)

 

 

1 - Prima del medioevo: condizioni e situazioni  8

2 - Accadimenti storici e fatti religiosi  10

3 - Elementi di storia dei rapporti religiosi  27

4 - Segni della cultura greco-bizantina in Molise  35

 

 

1. Prima del medioevo: condizioni e situazioni

 

Una possibile ricostruzione della geografia insediamentale del primissimo medioevo (secoli dal V all’VIII), riferita al territorio dell’attuale Molise, porta a dover registrare una fase critica di declino per le aggregazioni abitative in genere e, più ancora, per i municipia (Venafrum, Aesernia, Bovianum, Saepinum, Terventum, Fagifulae ed <A>larinum), imposti, a suo tempo e nella logica di preservare quanto più possibile le strutture aggregative di origine sannita, dalla razionalità, tanto pragmatica quanto funzionale, delle romanizzazioni per il controllo e per l’amministrazione del territorio.

 

I motivi di questa lunga fase di crisi, del tutto nuova per le cause e che nulla ebbe in comune con i mutamenti e gli sconvolgimenti profondi seguiti al feroce genocidio con cui la brutalità di Siila (il quale soleva ripetere che, “fin quando vivrà un solo Sannita, Roma non avrà mai pace"), nel I secolo a.C., "così distrusse le rovine stesse delle città, che oggi non avresti la possibilità di trovare più niente di sannitico nello stesso Sannio" [1], erano di diversa natura: socio-economici, climatologici e religiosi.

 

Il nuovo modello socio-economico e di sviluppo proposto dalla romanizzazione aveva portato all’abbandono del modo di essere ‘vicatim (= sparsi)’, tutto sannitico, nel rapporto con il territorio e, contemporaneamente (ma nei tempi lunghi), allo svilupparsi, mentre venivano abbandonate le aggregazioni più piccole, di strutture insediamentali più o meno grandi (i ‘municipia’), nelle quali, e, per molti versi, intorno alle quali, sta per emergere una classe aristocratico-senatoriale, nelle cui mani vanno a concentrarsi, con conseguente scomparsa della proprietà piccola e media, le disponibilità, fondiarie ed armentizie, sempre più consistenti (i ‘latifundia’). Un medioevo anticipato, dove, eccettuate le aree in prossimità dei centri abitati, tale modello aveva favorito l’estendersi di grandi zone di bosco, di macchia e, comunque, di incolto, solo in parte utilizzato a pascolo.

 

Pur se risultano poco indicativi i dati dell'andamento demografico esistenti (ma le prospezioni archeologiche ricognitive del Barker, che ha valutato a circa 1/3 i siti sopravvissuti alle distruzioni sillane, confermano che, nei primi secoli d.C., mai si ebbe una significativa ripresa ed il dato relativo alla consistenza della popolazione non subì, durante l’intero periodo, variazioni apprezzabili) [2], ad accentuare la crisi è, a partire dalla seconda metà del IV secolo, un consistente raffreddamento del clima (con riduzione media di tre o quattro gradi), che durerà per circa quattro secoli, con frequenza, sempre maggiore, dei venti provenienti dal nord e dal nord-est rispetto a quelli originati dai quadranti meridionali. Ben si possono immaginare gli effetti di un tale calo della temperatura (cui sarebbero da aggiungere i danni provocati dalle conseguenti alluvioni, diventate sempre più frequenti [3], e dagli sconvolgimenti tellurici) applicati al modello socio-economico di concentrazione antropica e produttiva. Non è da escludere la possibilità di riferire alle conseguenze della 'glaciazione il fenomeno delle migrazioni e, con il conseguente stanziarsi sul territorio, delle invasioni per conquista, tutte significativamente provenienti dalle regioni del nord e/o del nord-est, da parte delle popolazioni barbariche.

 

Da ultimo, e non per importanza, si accennava alle motivazioni, con le quali una nuova religione, favorendole, si inserisce tra le dinamiche della crisi delle strutture insediamentali romane.

 

 

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Il Cristianesimo, dopo i primi secoli vissuti, più o meno di nascosto, sull’accettazione entusiastica, e per motivi diversi (lo schiavo ha un motivo di rivendicare la sua propria affrancazione, che è certamente diverso da quello che spinge il ‘dominus’ alla conversione), della nuova fede, sta per proporre un modello di sviluppo socio-economico, la ‘curtis' (con un monasterium, che è il riferimento della struttura produttiva e della gestione del prodotto), che, basato sulla autosufficienza e su un rapporto nuovo, almeno nelle fasi iniziali, tra il ‘dominus’ ed il ‘servus', mette in crisi, dopo averne, pur se solo parzialmente, mutuato lo schema di strutturazione, l’organizzazione romana della ‘villa' posta al centro di un ‘latifundium’.

 

Quanto alla presenza organizzativa, il Cristianesimo, la religione nuova che, per radicarsi sul territorio, per soppiantare le antiche credenze e le ritualità pagane con l’imporne di nuove e per diventare cultura, necessariamente dovrà impiegare tempi lunghi [4], si stabilisce, in posizione decentrata e nelle zone marginali rispetto al 'palatium' del potere, in quei centri demici (le ‘civitas’, che tali sempre rimarranno nella percezione dei contemporanei, quando e se vi si esercitano il potere tanto civile che religioso) che erano, o erano stati, già sedi di ‘municipium’ con le proprie ‘diocesi (= distretto)’, affidate ciascuna alle cure di un ‘episcopus (= amministratore)’.

 

Ed, a questo punto, se è vero che “le diocesi molisane documentate negli albori del Cristianesimo sono quelle di Venafro, Isernia, Trivento, Bojano, Sepino e Larino” [5], insediamenti tutti di origine pre-romana, tutti sede di ‘municipium’ e, nella continuità storica, tutti centri abitati sopravvissuti ed ancora esistenti, perché non attribuire il ruolo di 'diocesi anche al 'municipium' di Fagifulae, al quale era stata assegnata dalla romanizzazione la funzione amministrativa e del controllo sull’intero territorio della media valle del Biferno? E, poiché per Fagifulae mai ne risulta documentata la diocesi, perché non riferire quel ruolo ad un insediamento ad esso marginale, che, come viene dimostrato in altri lavori [6], ben potrebbe essere stato affidato e svolto da Tiphernum, “antica città destrutta” probabilmente dai Saraceni? Tanto più che sarebbe da riferire proprio ad essa la sede (si noti, a motivo del fenomeno linguistico del betacismo, dovuto alle influenze ed alle commistioni della cultura longobardo-nordica con quella romano-latina degli autoctoni, la trasformazione dell’etimo) di quel “gastaldatus Biffernensis" o, che è lo stesso, del “gualdo ad Biferno"., la struttura amministrativa longobarda con un suo ‘palatium’ dal quale, nel 718 (e tale data, oltre a provare la avvenuta scomparsa definitiva - durante la guerra greco-gotica? - di Fagifulae, è la più antica a dimostrare l’esistenza di una entità politico-amministrativa sul territorio molisano), ne veniva, già ed ancora, gestito il potere. La credibilità per una tale ipotesi deriva dal fatto che, quando, contemporaneamente alla scomparsa del “gualdo ad Biferno" e del suo insediamento di riferimento (Tifernum e, dopo, Bifernum), a breve distanza da esso viene ad emergere Musane (l’attuale Limosano), che, come etimo nei documenti lo si incontra per la prima volta nell’818 [7], ha già una sua propria e ben definita diocesi, che suggerisce a chi se ne è occupato, dopo aver ammesso che “la prima consacrazione ... potrebbe essere riferita ai primi secoli del Cristianesimo”, di collegarla ad un insediamento che, come Limosano, “sorge entro i limiti giurisdizionali del municipio romano di Fagifulae" [8].

 

Se non tutti gli altri vescovi molisani, che nella loro opera evangelizzatrice, come mostra la ‘epistola’ che nel 459 papa Leone I indirizza ai vescovi delle diocesi campane, picene e “per Samnium" per denunciarne devianze dottrinali e modi di vivere ancora pagani, incontravano resistenze e difficoltà serie a far accettare le manifestazioni cultuali e delle ritualità della nuova religione,

 

 

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di certo gli 'episcopi delle sedi diocesane del Molise centrale ed intemo (Sepino, Bojano, Samnia [?] e Tiphernum [9]), partecipano, nel 499 e durante i primissimi anni del VI secolo, ai sinodi convocati a Roma da papa Simmaco (a favore del quale si era schierato il re goto Teodorico alla ricerca di una sua legittimazione e della autonomia dal potere imperiale di Costantinopoli, diventata la nuova Roma, erede, dopo la caduta dell’impero d’Occidente, della ’romanitas’) per controllare e contrastare lo scisma laurenziano del 498, che andava già ad inserirsi nelle controversie dottrinali intorno al decreto imperiale dell'Henotikon. Tale partecipazione ai concili romani permette di ipotizzare sia collegamenti delle autorità religiose molisane con quelle gote e sia, come si vedrà, una certa diffusa presenza di nuclei goti, che, nel corso degli anni, erano venuti e continuavano a stabilirsi sul territorio dell’attuale regione, contribuivano a rivitalizzarne, per quanto poco fosse ciò possibile, la presenza demografica ed entravano in relazione, influenzandola e condizionandola, con la cultura degli autoctoni. In più suggerisce di indagare il problema, troppo trascurato, della posizione delle chiese locali sia nei rapporti con i ‘poteri’ (religioso e civile) e sia nelle discussioni teologico-dottrinali, così come nei modi delle manifestazioni della religiosità (culti e ritualità). Ma, prima di fare e per fare ciò, occorre dare dei riassunti, che la natura del presente lavoro costringe a far risultare necessariamente sintetici, degli accadimenti storici e dei fatti religiosi, seguendone separatamente il loro avanzare.

 

 

2. Accadimenti storici e fatti religiosi

 

Fatto di scarso significato solo apparentemente potendo significare almeno un arretramento delle posizioni di difesa, il V secolo si apre con lo spostamento (402) della capitale della 'pars Occidentis’ dell’impero da Milano a Ravenna, la città, quest’ultima, che risulterà la più bizantina dell’Occidente alto medioevale.

 

Prima delle gentes Langobardorum, tra le diverse popolazioni barbariche che si misero in marcia (si accennava già ai motivi da imputarsi, probabilmente, alla ‘glaciazione’ del clima in atto) e, con fenomeni assai complessi fatti di migrazioni di massa e per conquiste, presero la direzione della penisola italica (che risulta essere diventata zona del tutto marginale per la carenza della decisionalità politica rispetto alla centralità di Costantinopoli, la nuova Roma capitale dell’impero), potendosi assegnare ruoli ed effetti ininfluenti a tutte le altre (Vandali, Unni, Eruli), quella che lasciò maggiormente il segno sul territorio, che è ancora il ‘Samnium', fu la stirpe dei ‘Goti’, pur nella distinzione tra Visigoti ed Ostrogoti.

 

E, sempre agli inizi del V secolo avviene che

 

“il 24 agosto del 410, .... malgrado un tributo versatogli dal senato perché desistesse dai suoi propositi, il capo goto Alarico entrò con i suoi a Roma e per tre giorni sottopose la città a un pesante saccheggio”,

 

che

 

“suscitò ovunque scoramento, terrore e scandalo, e inferse una ferita insanabile alla psicologia dei sudditi dell’impero, che vedevano allora messa a ferro e fuoco per mano dei barbari la culla dell’impero romano e cristiano” [10].

 

Alarico con le orde dei suoi Visigoti non si arresta a Roma e, disseminatala di spoliazioni, di rovine e di ‘cancellazioni’, diretto in Africa “si spinge a devastare anche la Campania, il Sannio, la Lucania, il Bruzio" [11], che corrisponde all’attuale Calabria, dove sul fiume Busento, nelle vicinanze di Cosenza, trova la morte.

 

 

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Per un’idea, pur se assai pallida, degli “effetti del debilitante passaggio dei Visigoti di Alarico del 410-412", basterà ricordare che “nel 413 Onorio concesse al Samnium, all'Apulia e ad altre regioni dell’Italia centro-meridionale il condono di quattro quinti di tutte le tasse per cinque anni, con effetto dal 411-12 (Cod. Theod, 11.28.7)” [12]. Cosa che, con ogni evidenza, rappresenta la prova dell’aggravamento, seppur ci si trova solo al momento iniziale, di quella situazione in cui è difficile non immaginare un notevole ulteriore decremento di popolazione sia nelle campagne che nelle città, dove i monumenti pubblici in rovina, romano-pagani e romano-cristiani, per quanto e per come questi ultimi potevano già essere emersi, “erano ormai un ricordo dei giorni più prosperi”. Il dato archeologico conferma la possibilità di collocare in questo momento storico la fase iniziale e più accentuata degli sconvolgimenti nella geografia antropica.

 

Da un lato un’evidente arrendevolezza politica della classe senatoriale, che consegna ripetutamente la ‘pars Occidentis' a generali di origine barbara (Stilicone, Ezio, Ricimero, Odoacre), rinunciando di fatto a governarla e favorendovi il crollo della amministrazione statale, ed una tipologia della incursione finalizzata esclusivamente al soddisfacimento del bisogno di predoneria e di saccheggio più che alla invasione vera e propria, dall’altro, sono i due elementi caratterizzanti quella che, fino alla uccisione di Odoacre (493), può essere considerata come una prima fase dell’intervento barbarico. Durante la quale, nettamente diversa dalla seconda che presenta la connotazione del vero stabilirsi sul territorio mediante l’appropriazione ed il possesso, il Cristianesimo “nella metà orientale dell’impero potè mantenere anche successivamente la precedente forma della chiesa imperiale, con gli obblighi e i diritti imperiali in materia di fede e di organizzazione ecclesiastica, mentre la dissoluzione (discessio gentium) non restò limitata alla sfera statale, ma si manifestò anche nell’organismo della Chiesa imperiale” nella parte occidentale, dove quei diritti “ricomparvero nuovamente sotto l’impero di Giustiniano” [13].

 

Dopo un secondo sacco di Roma, “nel 455, ad opera di Genserico, re dei Vandali, <che> passò quasi inosservato” [14] nella ‘pars Orientis’ (ma che, nei fatti, non fu meno doloroso del primo), e dopo la deposizione, nel 476, di Romolo Augustolo, l’ultimo imperatore romano della pars Occidentis, Odoacre assunse il potere in Italia con il titolo di ‘rex', che gli viene, però, riconosciuto solo da quei soldati barbari, che pretendevano la concessione della ‘tertia’ del territorio, mentre “non sembra che Zenone, l’imperatore d’Oriente, abbia mai riconosciuto, ufficialmente, il suo governo in Italia”. Cosicché “nessun accordo fu rotto, quando nel 489, temendo una diretta aggressione gotica contro Costantinopoli, il basileus inviò contro Odoacre un altro condottiero barbaro. Teodorico, re degli Ostrogoti” [15]. Al quale bastò solo qualche anno per sconfiggere definitivamente il generale sciro e, dopo avergli fatto credere di poter governare insieme, per assassinarlo a tradimento e per eliminarne l'intera famiglia. Disfattosi, nel 493, di Odoacre, il goto Teodorico, che da giovane si era formato negli ambienti culturali ed imperiali bizantini, “venne proclamato rex a Ravenna dall'exercitus barbaro che egli aveva guidato alla vittoriosa conquista e chiese prontamente a Costantinopoli la legittimazione quale signore dell'occidente, mediante la concessione della vestis regia, che peraltro dovette attendere per cinque anni” [16] e, cioè, sino al 498 prima di ottenerla.

 

“La dinastia, di cui Teodorico fu il capostipite, governò l’Italia fino al 537. Benché i re barbari avessero chiesto e, finalmente, ottenuto il riconoscimento da parte dell’imperatore d’Oriente e rispettassero rigorosamente le istituzioni romane,

 

 

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le relazioni fra la corte regia di Ravenna e quella imperiale di Costantinopoli rimanevano piuttosto tese. Altrettanto tese erano le relazioni ecclesiastiche fra la vecchia e la nuova Roma a causa dello scisma cosiddetto acaciano che ebbe inizio nel 484 e si protrasse fino al 519. Gli argomenti più discussi di questa controversia fra il papa, l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli riguardavano l’interpretazione del primato romano e il non riconoscimento da parte di Roma dell’Henotikon, un editto imperiale che - invano -aveva proposto una formula di compromesso, accettabile tanto per gli ortodossi quanto per i monofisiti. Sembra un paradosso, ma i re goti di religione ariana e i pontefici della Chiesa Romana si sostenevano a vicenda nei confronti degli imperatori: infatti, l'intransigenza dei papi, soprattutto di Gelasio I (492-496) e di Ormisda (514-523) nei riguardi delle esigenze politico-religiose della Chiesa costantinopolitana contribuì ad un raffreddamento generale dei rapporti fra i <Romani> in Occidente e in Oriente. D’altra parte, i pontefici vivevano e agivano più indipendentemente sotto il governo dei re, che in genere non s’immischiavano negli affari della chiesa cattolica, che non sotto quello degli imperatori romani che insediavano e deponevano con disinvoltura i patriarchi le cui sedi appartenevano al loro dominio. (...]. I papi, quindi, avevano modo di confrontare l’autoritarismo in materia religiosa, praticato dall’imperatore bizantino, con la relativa neutralità, manifestata dagli eretici re barbari.

 

Le relazioni fra i tre poli politici, Ravenna, Roma e Costantinopoli, venivano in genere mantenute da membri del senato romano. Nel senato sedevano innanzi tutto i membri delle vecchie famiglie senatoriali, appartenenti alla curia per nascita. La maggior parte di queste famiglie era ancora ricchissima, nonostante la confisca e la ridistribuzione di una parte delle loro terre ai soldati barbari, sotto Odoacre e all’inizio del governo di Teodorico. Ad eccezione del consolato, in genere non accettavano cariche o funzioni ufficiali alla corte regia, o almeno non per un lungo periodo di servizio, poiché la loro vita non s’incentrava a Ravenna, bensì a Roma. Un secondo gruppo comprendeva gli esponenti di una specie di noblesse de robe; essi erano spesso dei provinciali, che avevano fatto la loro carriera a Ravenna, all’interno dell’amministrazione regia. Pochi, veramente una quantité négligeable, erano i membri del senato di origine gota” [17].

 

Ma in una tale situazione generale come si inserisce la particolare situazione del Molise?

 

Come inizia ad evidenziare anche il dato archeologico, “il Molise, per la parte che a quell’epoca era compresa nella provincia del S annio, fu una delle regioni meridionali maggiormente interessate alla occupazione gota, come è testimoniato da certa onomastica e dai frequenti riferimenti che si incontrano nella epigrafia e nelle Variae di Cassiodoro. Gli stanziamenti militari furono consistenti anche nel Sannio. Cassiodoro ricorda il viaggio fatto a Ravenna dalle milizie gotiche del Sannio e del Piceno per partecipare ad una manifestazione militare” [18].

 

E, se e vero che “l'exercitus ostrogoto che Teodorico guidò in Italia doveva essere composto da circa 20-25mila guerrieri, per un totale di 100-125mila individui (compresi, cioè, coloro che non combattevano: le donne, i minori), in massima parte (ma non in via esclusiva) di stirpe gota”, e se vero è anche che

 

“nell’insieme si trattava di una quantità relativamente modesta e di certo largamente minoritaria rispetto alla copia dei romani, con cui i goti si trovarono a convivere, anche se l’impatto dei nuovi immigrati deve essere calcolato in proporzione non tanto alla massa degli abitanti della penisola, quanto, piuttosto, al ceto dei possessores, cioè al ceto dirigente romano, al quale essi si affiancarono per rango e funzioni” [19],

 

 

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è possibile, con ogni ragionevolezza e probabilità, pensare ad una ipotesi sulla presenza gota “in Samnio" composta, al più, solo da qualche migliaio di individui, che andava ad inserirsi in un ambiente antropico in cui risulta evidente sia la crisi demografica in atto che una proprietà di dimensioni medie. Sembra, inoltre, possibile immaginare quella presenza, come conferma anche il dato archeologico, nelle vicinanze degli insediamenti e dei percorsi viari.

 

I fattori della crisi e, poi, del conseguente fallimento dell'esperienza del "Regnum Gothorum" in Italia, pur con le riduttive limitazioni imposte dalle schematizzazioni, sono: “il nodo della mancata fusione tra goti e romani, con il mantenimento di una società bipartita” [20]; la manifesta e palese non riconducibilità alla ‘cultura’ dei Goti, e viceversa, delle concezioni politiche e, ad esse intrecciate, di quelle religiose, con il conseguente riavvicinamento alle posizioni imperiali ed orientali sia delle élites romane che degli esponenti del Cristianesimo occidentale; la risposta autonomistica alle pressioni teodoriciane da parte del potere religioso romano, che, diversamente da quanto avveniva nella pars Orientis dove la discussione era prevalentemente teologica, preferiva argomenti di carattere economico e giurisdizionale e, comunque, legati all’immediato controllo del papato, che sta sempre di più diventando una entità economica di rilievo [21].

 

Alla scelta delle aristocrazie gote, sotto la reggenza di Amalasunta (526-535) e contro le intenzioni di quest’ultima, che, figlia ai Teodorico, ne avrebbe voluto privilegiare l'atteggiamento collaborazionistico, di una posizione rigida e non più conciliante corrisponde, da parte di Costantinopoli, la ricerca dell’uniformità religiosa per tutte le regioni dell’impero, iniziata da Giustino (518-527), che, assai vicino alle posizioni ‘romane’, perseguiva esclusivamente finalità religiose, e proseguita, con scopi politici e di riconquista, da Giustiniano (527-565). E, conseguenza assai logica, quella guerra, che, combattuta, dal 535 al 553, ferocemente sul suolo italico da due eserciti, il goto ed il greco-bizantino, non italici, può essere considerata il più “significativo momento di cesura tra gli assetti dell'Italia tardoromana e quelli che il paese doveva conoscere nell’età medievale” [22] e di reale definitiva cancellazione di ogni forma della 'romanitas'. Così, l’emanazione da parte del ‘basileus Giustiniano della Prammatica Sanzione del 13 agosto 554, se, sancendo il reintegro all’impero dell’Italia e rendendo nulli ed inefficaci tutti i provvedimenti dei re goti contro la proprietà, formalmente mirava a ripristinare lo status quo politico, amministrativo e socio-economico anteriore alla esperienza teodoriciana, nei fatti rappresentò, ivi comprese religione e cultura, l’imposizione del potere greco-bizantino all’indebolita italicità ed il totale annullamento di ogni concreta autonomia, politica, religiosa ed amministrativa della penisola rispetto a Costantinopoli.

 

"L’aspetto complessivo del paese restava miserevole rispetto a un passato non troppo remoto: la popolazione era drasticamente ridotta (anche se calcoli precisi rimangono impossibili), esposta a carestie ed epidemie, e vaste regioni erano interamente disabitate. I campi coltivati erano di conseguenza arretrati di fronte all’incolto, con l’estendersi di boschi e acquitrini, che modificavano profondamente il paesaggio modellato nei secoli dell’impero romano per opera dell’uomo, alterando le condizioni generali di vita. Molte delle grandi strade romane caddero in disuso, per lo svuotamento dei territori che attraversavano; nei centri urbani la scarsità dei residenti comportò una ridefinizione degli spazi” [23].

 

 

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Pur se è necessario evitare quelle estremizzazioni, per le quali

 

“l’Italia bizantina, insegnataci dai migliori manuali classici, è divenuta un racconto dei controversi rapporti religiosi tra l’Oriente e l’Occidente, oppure una provincia bizantina senza Greci" [24],

 

è impossibile non registrare, a guerra conclusa, il totale allineamento, in materia religiosa e dottrinale, della posizione occidentale a quella greco-bizantina. Cosi che nel 553, in concomitanza della fine dello scontro, si ha la immediata firma di condanna, che “aveva sigillato - almeno ufficialmente - la pace fra l’imperatore e la Chiesa romana” [25], dei ‘Tre Capitoli’ da parte di papa Vigilio (537-555), il quale, seguito anche da un certo numero di vescovi italiani,

 

“con un gruppo di chierici romani, già prima della conquista di Roma (nota: era ancora il 546) da parte di Totila, si era trasferito a Costantinopoli, più o meno costretto da un ‘invito’ dell’imperatore, che aveva chiamato il pontefice per fargli firmare il decreto imperiale contro i 'Tre Capitoli’, che, prodotto dalla teologia imperiale, e giudicato non accettabile dalla maggior parte dei vescovi italiani, costituiva un ennesimo tentativo di riconciliare ortodossi e monofisiti” [26].

 

Pur se la storiografia tende a minimizzarne gli effetti, le conseguenze, nel lungo periodo, di tale allineamento furono che

 

“nei territori intorno a Ravenna, a Roma e nell’Italia peninsulare il dominio greco era incontrastato e la supremazia dell’imperatore non era qui contestabile, anche se non sempre e non continuamente si manifestava in tutta la sua forza; in ogni caso, i vescovi romani necessitavano di conferma da parte dell'imperatore o dell'esarca. Di fronte al duro attacco dei Longobardi, i vescovi romani e l’esarca di Ravenna erano generalmente naturali alleati, come per esempio al tempo di Gregorio Magno (590-604). Dalla prima metà del VII secolo fino all’inizio delI’VIII secolo,

 

Roma può in larga misura essere definita città greca. Il gran numero di profughi dall'Oriente dava all'antica capitale dell’impero un aspetto greco:

 

con l’adozione di titoli e denominazioni greche per le funzioni pubbliche, il latino grecizzante e l’uso della lingua greca nei sinodi. Dei tredici vescovi romani tra il 678 e il 752, solo due erano di origine romana; tutti gli altri erano siriani, greci, siciliani. Questa interferenza greca imponeva ai vescovi romani la massima cautela nel loro atteggiamento e nelle loro prese di posizione politiche. Ciò è mostrato dal destino di papa Martino I (649-655), al quale, prevalentemente per motivi politici, fu intentato a Costantinopoli un processo per alto tradimento, anche se la successiva versione locale dei fatti volle attribuire ciò piuttosto alla difesa di questioni dogmatiche. In questo contesto si inserisce anche la condanna lungamente discussa e mal confacentesi all'immagine storica primaziale, che il VI Concilio ecumenico a Costantinopoli (680-681) e, più tardi, la chiesa Romana pronunciarono contro papa Onorio I (625-638). L'iconoclastia, che, ..., sconvolse la parte orientale dell’impero e solo alla metà dell’VIII secolo si concluse in modo insignificante, ebbe per l’Occidente - quindi soprattutto per Roma e per l'Italia - importanza minore; e non fu l’unica causa per cui i territori dell’Italia meridionale ancora soggetti all’influenza greca si sottrassero alla giurisdizione dei patriarchi occidentali (romani) e si sottomisero direttamente al patriarca di Costantinopoli. La perdita dei patrimoni inflisse un grave danno alla chiesa romana, e causò secolari conflitti di giurisdizione. Fino allo scisma dell'XI secolo, l’autorità dell’imperatore di Bisanzio prevalse, anche in materia di fede, sull'autorità dei vescovi romani" [27].

 

Pur se, quantitativamente e qualitativamente, poche e del tutto frammentarie le testimonianze, che, come è stato già visto, le cancellazioni posteriori ad opera della, e finalizzate alla, riaffermazione della ‘latinitas’ rendono oscuri quei secoli, è, tuttavia, possibile proporre una ipotesi di ricostruzione degli accadimenti che toccarono, perfettamente in linea con i fatti italici, il ‘Samnium’.

 

 

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Sembra, come riferisce Procopio di Cesarea, che già dalle prime fasi della guerra almeno

 

“una parte del Molise passò presto in dominio dei Bizantini in quanto Pitzas, il capitano goto che la presidiava, una volta a conoscenza della occupazione di Roma, avvenuta nel dicembre del 536,

 

'diede in mano a Belisario se stesso e i Goti che colà con lui abitavano ed una metà del Sannio marittimo, fino al fiume che corre in mezzo a quella regione. I Goti, però, che erano stabiliti al di là del fiume, non vollero né seguire Pitzas, né assoggettarsi all’imperatore'.

 

Il Grimaldi, nei suoi Annali, desumendo dai fatti che seguirono, argomenta che si arresero ai Bizantini i territori a nord del Biferno, mentre quelli meridionali ‘rimasero saldi nella loro fede' Infatti, subito dopo, nel 537, sarà proprio Pitzas che, con le truppe fornitegli da Belisario acquisterà all’Impero d’Oriente la rimanente parte del Sannio fino a Benevento, mentre il generale greco resisteva all’esercito di Vitige, che lo aveva assediato in Roma in attesa di rifornimenti e rinforzi. In suo soccorso venne Zenone il quale, secondo la narrazione di Procopio, giunse a Roma con 300 cavalieri dopo aver attraversato il Sannio e la via Latina”. [28]

 

Pressoché contemporaneamente, nel risalire dal sud con l’evidente scopo di fissare il controllo diretto nella fascia adriatica della penisola, il comandante grecobizantino

 

Johannes, vero, ... Samnitium regionem ingressus est, Atemoque oppido espugnato, Tremonem Gothorum ducem cum suis prosternit. Ortonam similiter invadit, Picenum depredans, Ariminum occupat” [29].

 

Ai goti, i quali, di origine nordica, per statura, come mostra il dato archeologico [30], erano sensibilmente più alti rispetto sia ai greci che agli autoctoni italici, mediterranei di razza, fu necessario, costretti dalle sorti della guerra a ritirarsi verso la pianura padana, qualche anno per riorganizzare la riscossa militare e politica alla occupazione bizantina. Fino a quando, nel 542, Totila, re dall’anno precedente, dopo essersi rapidamente impadronito delle città poste lungo la strada, di notevole importanza strategica, che collegava Ravenna a Roma, invade il Samnium e la Campania ed occupa Benevento con l’obiettivo di spostare il fronte nel mezzogiorno.

 

E che, tra il 545 ed il 546, lo scontro si stava disputando nel meridione lo conferma l’arretramento del comandante 'Johannes', bizantino, nell’Apulia e nel Sannio.

 

Dopo la battaglia di Gualdo Tadino, in cui lo stesso Totila aveva trovato la morte, il successore Teia, proveniente dal Piceno, nell’autunno del 552 attraversa il Sannio, seguendo probabilmente quella strada adriatica, che, per Lanciano ed attraverso la zona di Cascapera dell’agro di Limosano, la “Strada Langianese”, arrivava a Benevento, prima dello sfortunato scontro, decisivo per le sorti della guerra, ai Monti Lattari, scontro quest’ultimo, che fu preceduto di pochi giorni da quello del 553 sul Fortore [31].

 

L’importanza strategica, che sta assumendo il Samnium come nodo centrale di raccordo, sicuramente anche stradale, tra il nord, specialmente la fascia adriatica con Ravenna, e l’intero meridione (Apulia, Campania e, destinata per più secoli a notevole emergenza storica, Benevento), è confermata anche dal passaggio dei franco-alemanni (e goti) di Leutaris e Butulino, nel 553, proprio nel Sannio, da dove, dopo essersi divisi, il primo si diresse verso l’Apulia ed il secondo verso la Campania.

 

E’ il segno, evidente, di un significativo cambiamento in atto nei ‘nuovi’ rapporti di forze e degli assetti delle geografie della penisola. Esso, che, quanto a collocazione temporale, sicuramente è anteriore all’arrivo della gens Langobardorum e, perciò, non riferibile a tale evento, riceve grande accelerazione dalla ‘bizantinizzazione’, che, con l’affermarsi ed il diffondersi capillarmente, sta mettendo sul territorio radici assai più profonde di quanto si sia abitualmente portati a pensare.

 

 

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Con tale processo, che molto lo interessò,

 

“il Molise rientra nella circoscrizione provinciale sannitica che ebbe a capoluogo Benevento e di essa l’epigrafia ci ha conservato alcuni nomi di presidi, quali Avonio Giustiniano e Mecio Felice[32].

 

Inoltre, dall’elenco “degli ufiziali greci, .... sott’i greci augusti", sappiamo di un certo “Sisinnio Giudice, e Governatore del Sannio, quando fu invaso da’ Longobardi, 569...” [33].

 

Quanto agli aspetti del processo di ‘bizantinizzazione’ ed agli strumenti impiegati per realizzarla, nonostante quella lamentata manchevolezza, certamente frutto di un tipo di storiografia avvezza alle falsificazioni, per cui dell’Italia e dei suoi abitanti si parla ben poco, va subito precisato che la prima e grande premura del basileus fu il mandare direttamente dalla pars Orientis la ‘nuova’ classe dirigente, e, cosi come mostrano i nomi greci dei funzionari inviati “in Samnio", i quadri amministrativi, di formazione e di cultura greco-bizantina per ottenerne una provata fedeltà e la scarsa corruttibilità. Il fatto, poi, che già “all’inizio del VII secolo perdiamo le tracce della vecchia aristocrazia senatoriale” [34] ne sarà conseguenza assai logica e normale.

 

Ciò premesso, occorre registrare, relativamente alla condizione amministrativa ‘civile’, che lo strumento ed, allo stesso tempo, il fine del “funzionamento, dal VI all’XI secolo, delle istituzioni bizantine in Italia” era quella “chiarezza dell’amministrazione fiscale”, che “veniva esercitata con regolarità” spietata e con l’estrema puntualità di una macchina fiscale perfettamente a punto [35].

 

Circa, poi, la caratterizzazione di quel condizionamento religioso, che sfocia nella vera e propria sudditanza della ‘vecchia’ Roma verso Bisanzio o, a seconda del punto di vista, nella preminenza di quest’ultima sulle istituzioni della penisola (basti, per una idea anche sulla durata temporale, solo considerare che gli o tto ‘concili’ del primo millennio cristiano, di cui ben quattro svolti proprio a Costantinopoli, furono tutti tenuti nella pars Orientis), essa nasceva da quella convinzione, generalmente condivisa ed accettata da tutti, per cui “l'autorità assoluta dello Stato, dato che questo è di origine divina e che l’Imperatore è l’unico rappresentante di Dio in terra, congloba anche l’amministrazione dell’ortodossia e del dogma” [36].

 

Per formulare una ipotesi assai probabile sugli accadimenti di quel periodo anche “in Samnio", sembra opportuno riportare quanto, relativamente all’anno 575, scriveva già il Di Meo:

 

... i Greci,..., per aver seguaci de loro errori innalzarono delle nuove sedi (vescovili).; e che poi i Romani Pontefici istituissero qualche nuova Sede, e molte ne ristabilissero. Pur tuttavolta in numero assai maggiore erano i Vescovadi nel nostro Regno di quello, che sono al presente, primaché le tante, e sì doviziose Città di esso venissero barbaramente sterminate dà Longobardi. (...), Mevania, ..., Samnia..." [37].

 

Ne emerge, a ben riflettere, quella straordinaria capillarità di penetrazione e nel fissarsi sul territorio del processo di bizantinizzazione, che - la cultura e l’arte non mentono -sembra ben confermata dal fatto che “notevole fu l’influenza culturale di Bisanzio, specialmente nell’arte, che sotto Giustiniano ebbe un momento di grande sviluppo e che nel Molise si trova esemplata nella decorazione scultorea di alcune chiese" [38] ed, a riprova che esso fu fenomeno di assai lunga durata, generalizzato ed affatto marginale anche in tutta l’area dell’attuale territorio regionale, nei “Santi in costume bizantino della cappella <di> S. Lorenzo alle fonti del Volturno” [39] e negli affreschi, di evidente influenza bizantina, della cosiddetta “cripta di Epifanio” sempre a S. Vincenzo al Volturno.

 

 

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Tutti questi elementi portano a ritenere che la via romano-latina del cristianesimo della pars Occidentis, a partire dagli ultimi anni del V e per l’intero VI secolo, viene arrestata e, per il tramite di imposizioni di cui sfugge ogni entità (i goti erano ariani e non dovettero mancare contrasti con il tipo ‘autoctono’ di religione cristiana), se non sostituita, quanto meno modificata, durante e per mezzo della ‘bizantinizzazione’, con una via greco-bizantina, appunto, della religione. Tale via favori la diffusione, oltre che del tipo di amministrazione e di scelta nelle discussioni teologico-dommatiche e dottrinali, anche delle esteriorità rituali, che dureranno, a partire dal VI secolo e sino a dopo lo scisma del 1054, per ben cinque secoli ed oltre, nelle manifestazioni di culto.

 

Mentre si concretizzava un tale intervento di 'bizantinizzazione', che, assai diffuso sul territorio e, se è vero che

 

i Greci,..., per aver seguaci dé loro errori innalzarono delle nuove sedi (vescovili).” [40],

 

molto più radicale e profondo di quanto le successive ricostruzioni portino a ritenere, non trova ostacolo alcuno e non verrà bloccato, nel Sannio si ha la penetrazione, lenta e finalizzata allo stabilirsi sul territorio, delle “gentes Langobardorum", che, come è stato notato per quel “regnum Gothorum", che durante un sessantennio ebbe assai scarso radicamento nella realtà italica, necessariamente dovrà essersi concretizzata in tempi assai lunghi per diventare realtà culturale. Contrariamente a quanto gran parte della storiografia propone,

 

“un’invasione, come quella longobarda, non fece tabula rasa del passato né la storia longobarda si svolse come qualcosa a sé, separata dalle vicende della Chiesa, di Bisanzio e degli altri regni barbarici. L’Italia della fine del VI secolo, ma soprattutto dei secoli VII e VIII non è la storia di un’Italia bizantina e di un’Italia longobarda rigidamente separate, senza osmosi" [41],

 

ma una realtà dinamicamente complessa e nella quale, nel mentre che avviene il radicamento sul territorio e tra gli abitanti, si trovano ad interagire moltiplicatori molto diversi, che, però, si mischiano e si confondono tra loro.

 

Relativamente a quanto avvenne “in Samnio", le scelte strategiche susseguenti ad una strana sottovalutazione contemporanea, e non solo (che porta a farle interpretare come una vera “cesura degli interessi, sia politici, sia storiografici, dei Bizantini nei confronti dell’Occidente"), e le opzioni nel comportamento, che pure farebbero pensare ad un significativo controllo bizantino sui territori della fascia collinare ed adriatica, sarebbero dimostrate dal fatto che “attraverso le valli del Sangro e del Volturno la presenza longobarda giungeva fino al Sannio, dove Benevento costituisce il centro di riferimento” [42].

 

Pur se “la resistenza bizantina si rivelò debole e concentrata soltanto nelle città fortificate” [43], la fase iniziale, all’incirca determinabile nel ventennio conclusivo del secolo VI e nella prima metà del seguente, dello stabilirsi delle “gentes Langobardorum" sul territorio italico fu caratterizzata da devastazioni e saccheggi, frutto naturale della atavica ferocità che le contraddistingueva e che le rendeva particolarmente violenti e crudeli [44]. Circa la data del loro arrivo "in Samnio", contrariamente a quanto venga proposto meccanicamente dalla storiografia tradizionale, l’ipotesi e

 

”la supposizione tuttora più probabile dovrebbe essere che Faroaldo (primo ‘duca’ di Spoleto) e Zottone (indicato come primo ‘duca’ di Benevento sin dal 570 o 571) abbiano intrapreso le loro conquiste al centro e al Sud della penisola durante l’interregno (574-584) e che, ciascuno secondo le sue concrete necessità, si siano accordati con i Bizantini, per ottenere sussidi in quanto federati" [45].

 

Che sia stato necessario un periodo di tempo lungo alcuni decenni a che le gentes Langobardorum diventassero soggetto politico e fossero espressione di un reale potere sul territorio (a parte le iniziali scorrerie, razzie e predonerie),

 

 

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lo dimostra il fatto che “non è dubbio che in principio avesse poca estensione il suo (= di Benevento) ducato, composto solamente della città di Benevento e delle terre più prossime” [46]; e che le unità politico-amministrative longobarde risultano tutte delle ‘enclaves’ circondate da territori soggetti alla diretta influenza bizantina. Tanto è vero che “Capua cadde, probabilmente nel 597” e solamente “nell’anno 595, anche Venafro era stata presa dai Longobardi” [47]. Circostanza, questa della scelta di espandersi verso ovest, che potrebbe far pensare a consistenti difficoltà incontrate nella espansione verso i territori abruzzesi, molisani e pugliesi della fascia adriatica per la resistenza bizantina. Difatti,

 

"a presidi bizantini dell’itinerario che proprio dalla piana di Bojano lungo la valle del Biferno discendeva verso il mare ed alle vicende connesse alla loro occupazione da parte longobarda appaiono con ogni evidenza riferibili le fasi più tarde di occupazione di due abitati romani a Castropignano, e a Casalpiano di Morrone del Sannio” [48].

 

Ad essa si è accennato, così che se ne trova ulteriore motivo di giustificazione, anche nel momento di riferirne i percorsi scelti per avanzare sul territorio.

 

Furono la lunga durata, appunto, ed i tempi non brevi della invasione che

 

“determinarono un accentuarsi della crisi della zona non solo dal punto di vista economico, ma anche demografico; sintomatica è in proposito una lettera di papa Gregorio Magno alla fine del VI sec. : in essa il pontefice chiede ad un suddiacono che vengano dati a Sisinnio, un importante personaggio dell’amministrazione statale della provincia Samnii, venti decime di vino e quattro soldi l’anno per sopperire alle sue condizioni di estrema povertà [a]. Fanno eco a questa situazione le parole di Gregorio Magno: Eversae urbes, castra eruta, ecclesiae destructae, nullus terram nostram inhabitat [b]. La regione, che nel primo impero aveva conosciuto un notevole sviluppo economico e demografico, appare dunque all’inizio del VII sec. in una fase di crisi. Sebbene diverse fonti si levino ad attestarne lo spopolamento, la situazione del Sannio non appare tuttavia molto dissimile da quella che si riscontra in tutto il meridione [c]” [49].

 

Fenomeno culturale di lungo periodo occorre tenere presente che “un’espressione di incisivo mutamento nell'Italia longobarda rispetto agli equilibri anteriori fu rappresentata dal modo di organizzare amministrativamente il territorio nelle sue strutture di base. Difatti, dopo la prima, tumultuosa, fase della conquista, la necessità di ordinare le regioni di cui si era assunto il controllo politico e militare in forme coerenti e funzionali a un’attività di governo stimolò un’evoluzione in senso territoriale dell’istituto ducale: i duchi si andarono così progressivamente trasformando da comandanti di distaccamenti militari a figure che esercitavano un potere su di un ambito spaziale definito, indicato in genere dalle fonti con i termini di civitas o di iudicaria. Ciascuna di tali distrettuazioni si svolgeva a partire da un centro - chiamato a sua volta civitas - che era la sede del potere politico e, sovente, anche di quello episcopale e che coincideva con una città di tradizione romana. I nuovi distretti longobardi (nei quali i confini pubblici potevano tendenzialmente sovrapporsi a quelli diocesani,.) non si identificavano, comunque, con i vecchi distretti municipali dell’Italia tardoromana, anche perché spesso erano differenti i centri prescelti dai barbari come loro sedi principali d’insediamento rispetto alle maggiori realtà urbane romane. A molte citta di primaria importanza in età imperiale i longobardi preferirono, infatti, realtà un tempo minori, ma dotate ora di peculiare rilevanza strategica nei quadri territoriali in parte mutati” [50].

 

 

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Nonostante possa risultare assai difficile che i Longobardi, durante i primi decenni, incidessero sulle relazioni, per così dire, di osservanza religiosa e sui rapporti tra l’oriente bizantino e l’occidente latino, un ulteriore elemento da non sottovalutare, ma fu cosa dettata da evidente motivazione ‘politica’, se il Di Meo già registra, proprio all'anno 641, uno scontro (che si conclude con la vittoria degli autoctoni, anche se gli sconfitti ripararono “in region de ‘ Sanniti, ove avvezzi alla preda, viveano ne ‘ monti, e nelle selve, finché potessero passare altrove, o avessero l'aiuto dai loro") sul fiume Aufido tra “gli Sciavi, o sieno Schiavoni dell’Illirico”, i quali “erano sbarcati con gran moltitudine di navi, per depredare la Puglia", ed i beneventani, è che “negli ultimi suoi anni, pare che Arechi, il quale mori assai vecchio nel 641, vivesse in piena pace co’ Greci” [51].

 

Per una interpretazione, la più possibilmente corretta, sia di una tale scelta che di tutta la geografia relazionale alla metà del secolo VII, occorre tenere presente la continua elezione a papa di elementi originari dal mondo bizantino. E questo proprio nel periodo di tempo, al quale la storiografia normalmente riferisce la conversione dei longobardi. Episodio rilevante, ma che, come si vedrà in seguito (qui occorre solo registrarlo), si presta ad una considerazione interpretativa ‘particolare’.

 

“Una spinta determinante all’awicinamento tra longobardi e romani, fino alla reciproca fusione, fu costituita dalla conversione dei primi al cattolicesimo, processo completatosi nel corso del secolo VII e ufficialmente sancito, al vertice, dal ripudio dell’arianesimo nel 653 e, quindi, dal riassorbimento del cosiddetto scisma tricapitolino nel 698. La fusione è provata dalla commistione dei nomi e dalla condivisione della medesima lingua (con l’VIII secolo il longobardo sembra essere scomparso dall’uso)” [52],

 

che, un latino ‘barbarizzato’,

 

“si è evoluto spontaneamente obbedendo ancora alle sue leggi interne, ma che, per tanti altri, accogliendo nel tempo volgarismi, grecismi e barbarismi, si piega, dal punto di vista della fonetica, al betacismo e, per quanto attiene alla grammatica, a quel particolare disordine e scompiglio dei casi, che lo corromperanno in maniera tale da dare inizio, da questo momento storico, a tutte quelle trasformazioni che porteranno alla nascita delle lingue nuove” [53].

 

Un certo ritardo per il miglioramento delle condizioni socio-economiche e demografiche, nella seconda metà del VII secolo, potrebbe essere imputato al fatto che nel 663 l’imperatore bizantino Costante II, nel suo tentativo di riconquistare l’Italia, dopo essersi spinto sino ad Ortona e dopo aver raso al suolo Luceria, evitando, perché, forse, scarsamente abitato e poco adatto alla rapidità del suo intervento militare, il territorio molisano, Beneventanorum fines invasit, omnesque pene, per quas venerat civitates cepit (= invase i confini dei Beneventani e prese quasi tutte le ‘civitates' attraverso le quali era venuto). Già nel 667, però, con l’evidente scopo di stabilirvi un controllo amministrativo e militare e di ripopolarle, Romualdo, duca di Benevento, assegna le civitates poste in un ampio territorio dell’attuale Molise centrale ai Bulgari di Alzeco,

 

"quos Romoaldus dux gratanter excipiens, eisdem spaziosa ad habitandum loca, quae usque ad illud tempus deserta erant, contribuit, scilicet Sepinum, Bovianum et herniam et alias cum suis territoriis civitates, ipsumque Alzeconem, mutato dignitatis nomine, de duce gastaldium vocitare praecipit." [54]

 

“E’ da credere che ognuna di queste civitates fosse assegnata da Alzeco a suoi compagni nel rispetto dei criteri che regolano il ruolo di un gastaldo. Il riferimento, poi, alle alias civitates (del Molise attuale) appare chiaramente estendere il territorio assegnato ad Alzeco anche ad altri centri circostanti; .... ed è da notare che la carica assunta dallo stesso Alzeco non giustifica l'interpretazione corrente che vuole questo personaggio unico gestore affidatario di queste civitates.

 

 

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Questo dato, insieme a nuovi elementi di carattere archeologico e topografico, ci fanno ipotizzare che la gestione di questa Provincia Samnii resti sostanzialmente invariata rispetto al periodo romano imperiale: i municipi sono, sia pure ridimensionati urbanisticamente, i centri referenti di quella rete amministrativa che i Longobardi fanno propria anche se modificata rispetto al periodo tardo imperiale con la creazione della figura del gastaldo, il cui etimo sembrerebbe derivare dalle influenze e dalla commistione del derivato culturale longobardo-autoctono con la cultura bulgara.

 

In quest’epoca queste città appaiono molto diverse rispetto al periodo romano: le aree occupate si limitano probabilmente alla chiesa ed all'uso di zone centrali come semplici abitazioni per l’élite. Le parti utilizzate delle antiche città romane sono molto minori; diversi degli edifici più significativi dell’amministrazione romana sono in rovina; le possenti mura di difesa costruite dai Romani sono solo un ammasso di macerie, mentre restano ancora vitali gli anfiteatri e forse i teatri delle città romane che, modificate le loro funzioni, divengono i veri punti di riferimento amministrativi e militari degli antichi municipi romani. Se le città continuano a perdere i loro caratteri urbanistici, non per questo perdono il loro ruolo sul territorio ad esse sottoposto; Paolo Diacono parla al riguardo di civitates cum suis territoriis" [55].

 

Ma, dovendo escludere sia Sepino, Bojano e Isernia perché menzionate e sia le troppo lontane e, quindi, improbabili Larino e Venafro, quali le "aliae civitates" (e ciò confermerebbe l’esistenza di almeno una 'civitas’ per il riferimento dell’area del medio Biferno) assegnate ai bulgari, se non Trivento e ‘Tiphernum'?

 

Nel territorio del ‘Samnium’ molisano le caratteristiche di ‘civitas’ (con tale termine deve intendersi quel centro demico, come tale percepito dai contemporanei, che, assurto al ruolo di diocesi in periodo protocristiano o tardoimperiale, manterrà nel suo ristretto della fase longobarda, nonostante la crisi demografica, il ‘palatium’ del potere sia civile, amministrato dal ‘gastaldus’, che religioso, gestito e controllato da un ‘episcopus’ anche quando questi poteva avere difficoltà di residenza e, per periodi più o meno lunghi, la sede della diocesi restava ‘vacante’) vengono certamente mantenute, nel lungo periodo e con continuità, da Venafro, Isernia, Larino, Aufidena, Bojano e Sepino [56] (ed, in questo modo, l’assegnazione di Sepino, Bojano ed Isernia ad Alzecone troverebbe una motivazione ed una spiegazione ulteriore, così come l’ampiezza dello spazio da sottoporre a controllo porta a collocare almeno una delle altre ‘civitates' lungo il Biferno, tra Bojano e Larino), centri tutti che erano già stati espressione del municipalismo romano. E, sempre con la stessa ed identica certezza, le caratteristiche di 'civitas' non può non averle mantenute, nel lungo periodo e con continuità e soprattutto nell’ambito territoriale del medio Biferno, quella Tiphernum, di cui si è detto essere diocesi ed il cui etimo, per la influenza della predominante cultura nordico-longobarda (con le commistioni di quella ‘bulgara’) sugli abitanti autoctoni e per il riferito fenomeno del betacismo, si sta foneticamente evolvendo in ‘Biffernum[57].

 

La risposta ‘politica’ longobarda al tentativo dell’imperatore Costante II, che, nel 663, aveva conquistato finanche Benevento, fu la scelta, così immediata quanto opportunistica, della classe dei dominatori della “gens Langobardorum" del ‘ducatus’ beneventano di adattarsi (e di adattare le proprie espressioni fideistiche) alla religione degli autoctoni. Tanto che essa parteciperà attivamente alla ripresa della fase espansiva del monachesimo.

 

 

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Già

 

“la moglie di Romoaldo, Teodorada, fondò allora, fuori le mura di Benevento, una chiesa e un monastero in onore dell’apostolo Pietro, che fu la prima fondazione chiesastica che si conosca qui, dal tempo della conquista longobardica” [58].

 

E ad essa, quando esercita la ‘reggenza’ per il figlio Gisulfo (689-706), si debbono anche le fondazioni, in aree soggette ai 'bulgari, dei monasteri di S. Maria in Castanieto vicino Piniano, di S. Angelo in Altissimo (o anche “in Altissimis”) nel “galo nostro biferno" (dove quel ‘nostro’ lascia intendere proprio la finalità politica e la volontà di estendere il controllo sul territorio) e, più conosciuto e fortunato, di S. Vincenzo “adfontes Volturni’ per mano ”di tre nobili beneventani, Paldone, Tasone e Tatone, che, contro la volontà de’ lor parenti, si consacrarono alla vita monastica" [59].

 

Il tutto significativamente avveniva mentre, per comprendere i fatti di allora ed il punto di tensione tra Roma e Bisanzio, l’imperatore Giustino II tentava di “far condurre a Costantinopoli papa Sergio (687-701), proprio come l’avo suo Costante avea fatto con papa Martino” [60].

 

Eo siquidem tempore rara in his regionibus castella habebantur, sed omnia villis et ecclesiis plena erant Nec erat formido aut metus bettorum, quoniam alta pace omnes gaudebant, usque ad tempora Sarracenorum” [61].

 

E, mentre risulta difficile credere ad una “alta pace’ ed, ancor meno, alla totale mancanza di tensioni o di guerre, certamente il fatto nuovo, che interesserà molto la parte meridionale della penisola e, quindi, anche il ‘Samnium’, è rappresentato dall’irrompere dei ‘Sarracenorum sulla scena.

 

“Il grande avvenimento del VII secolo, anche per l’Occidente, è rappresentato dall’apparizione dell'Islam e dalla conquista araba” [62], anche se gli effetti della presenza dei ‘Saraceni’ si manifesteranno massimamente nei secoli IX e X e con continuità si avvertiranno per l’intero “periodo, compreso tra il IX ed il XIV secolo, in cui gli arabi si inseriscono nella vita del territorio italiano” [63].

 

Iniziarono ad arrivare per le loro scorrerie sin dalla metà del VII secolo, quando, sbarcati già a Siponto, dove erano venuti

 

“per depredare l’Oracolo di S. Michele Arcangiolo, sito nel Monte Gargano, Grimoaldo piombando su di essi, gli abbatté sino all’ultima strage (Paolo Diacono, IV, 47)”.

 

E, sin da allora, quelli che erano riusciti a fuggire, ripararono

 

in region de ‘ Sanniti, ove avvezzi alla preda, viveano ne ‘ monti, e nelle selve, finché potessero passare altrove, o avessero l’aiuto dei loro[64].

 

Scopo delle incursioni dei ‘Saraceni’, più che il saccheggio ‘corsaro’, sembra essere stato, il traffico degli schiavi, se è vero che, nel 752,

 

“molti Mercadanti Veneziani, venuti a Roma, comperarono gran quantità di schiavi Cristiani, uomini, e donzelle, per andargli a vendere a’ Saraceni in Africa” [65]

 

e, più di un secolo più tardi, nel 865, a Taranto stavano “sei navi, nelle quali erano nove mila schiavi Cristiani Beneventani” [66], pronti, evidentemente, per essere immessi sul mercato. Fu un tale commercio, esercitato senza scrupolo alcuno (tanto che non disdegnarono di parteciparvi anche i grandi monasteri) e, per la forte richiesta (presumibile necessità di forza lavoro per le miniere africane di metalli preziosi) rispetto all’offerta, produttivo, un fatto generalizzato e duraturo.

 

Ma, “il secolo Vili è il secolo dei Franchi” [67], i quali, sollecitati ad intervenire, per il loro essersi convertiti alla osservanza cattolica sin dal VI secolo, da una precisa ‘ scelta' compiuta da una ‘latinitas’, che, nella ricerca di una sua autonomia da Costantinopoli proprio nel momento in cui è cresciuta di molto la minaccia di rimanere schiacciata tra il controllo longobardo e la dipendenza da Bisanzio, era venuta ad evolvere, almeno come fase iniziale, nella direzione della primazialità papale nella gerarchia,

 

 

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riescono ad inserirsi tra le forze presenti nello scenario del gioco politico della penisola italica. Cosa che fu più o meno contemporanea all’intervento arabo; e contribuì, moltiplicando il numero delle forze in campo, a renderlo assai complicato.

 

A dare, per quanto possibile, un minimo di spiegazione alla ‘ scelta 'papale stava il fatto che, appena nel 751, i longobardi del ‘Regnum’, proprio contro le pretese territoriali del papato stesso, si erano impadroniti del territorio dell’esarcato di Ravenna, dipendente, in precedenza, direttamente da Costantinopoli.

 

Una delle conseguenze di simile svolta, o, se lo si preferisce, degli effetti da essa prodotti nella conduzione della politica papale fu che, se, “dei tredici vescovi romani tra il 678 e il 752, solo due erano stati di origine romana, e tutti gli altri furono siriani, greci, siciliani” [68] e, comunque, di estrazione e di cultura 'orientali, a partire da quest'ultima data, che, all'incirca, è quella intorno alla quale è proprio possibile collocare nel tempo la scelta ‘franca’, occorre registrare un radicale capovolgimento, con papi ‘occidentali’. Nei fatti, già

 

“i papi Paolo I e Costantino (II) tennero conto dei mutati rapporti di potere; essi comunicarono ufficialmente, non a Costantinopoli, ma al re franco, rispettivamente nel 757 e 767, la loro avvenuta elezione. In radicale contrasto da quanto era successo fino a quel momento, quando tali analoghe comunicazioni erano state fatte soltanto nei confronti dell'imperatore. A ragione Paolo vide nel re franco l’unico che lo potesse proteggere da un attacco bizantino a Roma" [69].

 

Non è senza motivo il fatto che, mentre la longobardia meridionale continua a stringere accordi con Costantinopoli, è proprio “con il pontificato di papa Adriano <che> scomparve definit ivamente il nome dell’imperatore bizantino dai documenti papali e dalle monete” [70].

 

Di contro, la conseguenza di maggior significato sarà che, subito dopo la sconfitta di re Desiderio, avvenuta un ventennio appena dai primi accordi, essendo intervenuto dietro richiesta di papa Adriano, che, secondo la ricostruzione del Di Meo, l’anno prima “spedì per mare una Legazione a Carlo Magno, pregandolo di soccorrere l’afflitta Chiesa”, “al più tardi dal 5 giugno del 774 Carlo Magno, che nel 768 era succeduto al padre Pipino, portava il titolo di rex Francorum et Langobardorum, re dei Franchi e dei Longobardi. E l’Italia settentrionale e centrale caddero di fatto nelle mani del regno franco, mentre nel sud della penisola continuò ad esistere il ducato indipendente longobardo di Benevento" [71] sotto l’influenza, almeno culturale, di Costantinopoli.

 

Cosicché, nel giro di appena qualche mese, Arechi, ‘dux’ di Benevento, prendendo atto di una situazione che vedeva uscito di scena il ‘rex’ della “Longobardorum gens" e nella quale egli non poteva far più riferimento a nessuno al di sopra di lui,

 

“poiché aveva in moglie la figlia dell’abbattuto Re Desiderio, .... alzata quindi bandiera di sovranità, e prendendo il titolo più luminoso di Principe; si fece solennemente coronare da' Vescovi in una Dieta de ' suoi Grandi, e ciò con somma gioia de’ suoi Popoli, da’ quali, ben lo meritava, era amato con tenerezza” [72].

 

Appare, a questo punto, assai evidente e senza ombra di dubbio alcuno come i ‘Vescovi’, che parteciparono alla “Dieta dei Grandi del ducato per incoronare solennemente ed ungere il nuovo Principe” e che si sa essere stati proprio tutti i titolari delle sedi situate nel territorio della “provincia beneventana" o, che è la stessa cosa, del ‘ducato’, agiscano in aperta contrapposizione con la scelta ‘politica’ del papato. E, molto importante in quanto frutto di una evidente ‘diversa’ tradizione culturale e religiosa, schierati a favore della posizione greco-bizantina.

 

 

23

 

Una tale posizione di forte autonomia dal papato di Roma da parte degli Episcopi della “provincia beneventana" trova una conferma, seppure indiretta ma ugualmente probante anche della collateralità tra la cultura longobarda e quella greca, dal fatto che i rapporti tra i monaci “ex genere Langobardorum" e quelli “ex genere Franchorum" furono contrastanti e contrastati persino nell’ambito di un’unica struttura monastica.

 

“All’interno stesso delle comunità monastiche insorgono conflitti di «nazionalità» tra le varie fazioni in cui si dividono. Clamorosa fu a questo proposito la deposizione, prima del 13 ottobre 778, di Autperto a S. Vincenzo, al quale due anni dopo subentrò il longobardo Potone: il dissidio politico dette luogo a gravi accuse contro costui trasmesse a Carlo Magno dal duca di Spoleto Ildebrando, che era strumento della sua politica verso l’Italia meridionale longobarda; il re franco incarica Papa Adriano di condurre un’inchiesta con la partecipazione di due «missi» per accertare i fatti: Potone si sarebbe rifiutato di cantare all’ora sesta il salmo «pro regis incolumitate», anzi in qualche occasione avrebbe dichiarato che «si non mihi fuisset pro monasterio et terra Beneventana talem eum (cioè Carlo) habuisse sicut unum canem»; Potone fu però scagionato e reintegrato previo giuramento di fedeltà da parte sua e di cinque monaci «ex genere Franchorum» e altrettanti «ex genere Longobardorum»” [73].

 

Indipendentemente dalla conclusione della vicenda, tutti gli aspetti della stessa stanno proprio a dimostrare una marcata divergenza tra le posizioni dei ‘franco-papali e dei 'longobardo-bizantini. Divergenza che non può non attribuirsi anche nell’ambito dell’episcopato, il quale sta, già di suo, attraversando un periodo di riappropriazione di ruoli e di funzioni sul territorio.

 

Ma come mai e perché Carlo Magno, pur con il favore del papato romano (ed è innegabile l’interesse di quest’ultimo ad esercitarvi la sua influenza), è costretto ad arrestarsi davanti al ‘Principato’ longobardo di Benevento? La risposta, assai ‘semplice’, è che i carolingi, nonostante i non facili e contrastati interventi sulle grandi abbazie di Montecassino e di S. Vincenzo al Volturno (sulle quali, però, il controllo romano già precedentemente era di rilievo), sono costretti a fermarsi davanti ai confini della Langobardia minore sia perché questa, con tutto il meridione italiano, rientra nell’orbita delle influenze bizantine e sia perché la presenza ‘Sarracenorum’, poco governata ed ingovernabile, sfuggente e priva di motivazione seria ad appropriarsene, costituisce, a suo modo e nel suo disordine, un ostacolo non indifferente per la conquista militare e politica [74]. Cosa che permette di poter spiegare sia come, da parte cassinese e volturnense, gli interessi patrimoniali fossero indirizzati nella direzione degli Abruzzi assai più che verso i territori della “Langobardia minore" e sia come operazioni di inserimento, con scopi politici, in area molisana vengono operate da quelle due grandi abbazie a partire dal X secolo. E permette di dare una spiegazione al fatto che il ricostituito e riconosciuto impero d’occidente non riesce a (e non ha la forza di) preservare quei complessi cenobitici, soggetti, si dice, all'influenza francopapale, dalle distruzioni degli anni ottanta del IX secolo, che le fecero, per decenni, diventare “nullius hominis habitacio, sed tantum bestiarum possessio (= l’abitazione di nessun uomo, ma solo il possesso delle bestie)”.

 

Difatti, se il tentativo più concreto di spingere la denominazione imperiale franca (di cui l’effetto più significativo è rappresentato dalla vistosa spaccatura che subisce l'Italia, dove, mentre la parte soggetta alla influenza franca vede la formazione delle signorie territoriali, in quella riferibile alla influenza bizantina se ne ha lo sfaldamento) è rappresentato dalle discese di Ludovico II (850-875), queste, tutte, si infrangono o con i Saraceni, come quando, nell’862,

 

 

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“ben più volte a reprimere la loro ferocia, venne in queste parti l’esercito de’ Franzesi, ma nulla profittando, sen tornò per la stessa via, onde era venuto" [75],

 

oppure perché, nell’870

 

“il Principe Adelgiso, a persuasione de’ Greci, fece sollevar contro Lodoico le Città del Sannio, della Campania, e della Lucania, e fece ad esse ricever presidio Greco; <e> a Lodoico fu fatto quel malo ufizio (nota: di farlo prigioniero a Benevento, perché ”volea per se il Principato Beneventano, e Capua”) pro Graecorum vafritia[76].

 

E, nell’873, si arriva al punto che, "essendo giunta in Otranto la flotta de’ Greci spedita dal porto di Costantinopoli, con un Patrizio, in soccorso de’ Beneventani, <questi> promettevano di pagare al Greco quel censo, che davano all'lmperador Francese" [77].

 

In una

 

“situazione, aperta a tutti i colpi di mano, difficilmente riconducibile ad una qualche linea unitaria che non si riveli schematica e incompleta, verso l’ultimo ventennio del sec. IX nell’Italia meridionale le tre grandi iniziative prese da Ludovico II (imperatore ‘franco’), da Basilio I il Macedone (imperatore ‘bizantino’) e da Giovanni VIII (papato) approdarono a risultati di un certo rilievo, anche se - almeno nel caso dell’imperatore carolingio e del papa - diversi e, talora, opposti a quelli sperati. Il fallimento dell’impresa di Ludovico II fu tale non sul piano militare, ma su quello politico: e pure il successo conseguito a Bari contro i Musulmani, mentre favorì lo stesso ritorno vittorioso dei Bizantini, determinò il profilarsi di una linea discriminante tra un ambito (il mezzogiorno) decisamente bizantino, dal punto di vista culturale, istituzionale, economico, nella dimensione di una dominazione politicomilitare attestata direttamente sul territorio e destinata a mantenersi per due secoli; ed un’area longobardo-italica (centro-nord) in cui la realtà cittadina - a differenza da quella dell’area bizantina - è soprattutto collegata con la tradizione di dinastie autonome e gelose del loro esercizio del potere” [78].

 

E mentre il meridione vedeva il ritorno bizantino, da parte sua il Papato aveva ottenuto il riconoscimento, di fatto e di diritto, sia del Patrimonium Sancti Petri che di un proprio ‘primato’ autonomo e non più dipendente da Bisanzio. E, nel contempo e nonostante le mille difficoltà, non ultime quelle dinastiche e successorie, era venuta ad affermarsi l’idea stessa di un imperium ‘occidentalis’ in Occidente.

 

E, se gli effetti di quella presenza, mobile ed anarchica, dei “Sarracenorum" sul territorio del meridione sembrano essere stati sia la cancellazione, anche geografica, di insediamenti antichi (è il caso di Bifernum [già Tiphernum], che viene sostituito, anche nelle funzioni di diocesi, da Musane) con conseguenti spostamenti sul territorio delle nuove emergenze abitative (v. nota 61), con un sistema di ‘pre-incastellamento’ nella nuova strutturazione urbana, verso posizioni più difendibili, meno attaccabili e poco soggette alla offesa e sia (nonostante le più favorevoli condizioni del clima, che, a partire dalla seconda metà del secolo Vili, fa registrare un nuovo riscaldamento) una mancata ripresa nella crescita demografica (almeno per il territorio meridionale), nella parte del ‘nuovo’ impero d’Occidente la contrapposizione tra il potere del papato e quello dell’imperatore, in una condizione di ricerca, finalizzata alla visibilità del proprio ruolo, di autonomia dall'impero bizantino, sfuggita di mano e ad ogni controllo, è all’origine di una situazione di disordine, di debolezza e di confusione.

 

Nella complessità di una tale situazione si inserisce la seconda bizantinizzazione, cui occorre riferire da un lato la fase iniziale (successivamente e per un certo periodo le cause e gli effetti dei due avvenimenti vanno ad accavallarsi e ad intersecarsi tra di loro) del ridimensionamento del pericolo saraceno, che aveva potuto prosperare nel vuoto lasciato dalla frattura, a seguito dell’iconoclasmo, tra la pars Orientis e la pars Occidentis, e dall’altro la risposta dei tentativi franco-germanici di pervenire sul territorio meridionale.

 

 

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Quella, che può farsi iniziare con la riconquista della città di Bari, in cui, avendo essa sollecitato l’intervento bizantino, il primicerio Gregorio entrava nel dicembre 875, può considerarsi portata a termine nell’ottobre 891, quando, avendo già consolidato il potere nell’Apulia, “lo stratega Symbatikios, dopo un assedio ai più mesi, penetrò nella capitale longobarda del principato di Benevento, dove sparito il principe longobardo, egli fissò la sua residenza nel palazzo del principe” [79]. Il rappresentante del potere bizantino, dopo che direttamente

 

"tribus denique annis, novemque mensibus, et diebus viginti, dominatio Graecorum tenuit Beneventum, Samniique Provinciam (= la dominazione dei Greci tenne Benevento e la Provincia del Sannio per tre anni, nove mesi e venti giorni)”,

 

nell’895 da Benevento sposta la sede definitivamente e stabilmente a Bari, facilitando in tal modo il ritorno a Benevento di un potere longobardo assai debole e, per tanti versi, condizionato, se non proprio dipendente.

 

“La conseguenza più grave delle incursioni arabe non furono le uccisioni, ma le deportazioni di coloro che venivano catturati per essere venduti come schiavi” [80].

 

Sfuggono i dati dell'andamento della popolazione di allora (che sarebbe pure un ottimo indicatore degli effetti dell’événement arabo), ma è, per la comprensione di quel periodo, circostanza assai importante il fatto che, immediatamente dopo,

 

“la riconquista bizantina dell’Italia meridionale incise anche in ambito demografico. Durante i lunghi anni di guerra e di incursioni il sud d’Italia aveva subito enormi devastazioni e un notevole regresso demografico: a ogni razzia o conquista araba la popolazione delle località occupate veniva catturata, e chi non poteva riscattarsi era venduto come schiavo oltremare. I pochi atti notarili superstiti, provenienti dall’Italia meridionale, parlano spesso di congiunti o conoscenti degli attori, dispersi in prigionia dei saraceni. [...]. E’ quindi probabile che, al momento della riconquista bizantina, mancasse la manodopera per riorganizzare l’agricoltura” [81].

 

Tanto che, per decenni, Costantinopoli fu costretta a più di un tentativo di ripopolamento, mediante l’utilizzo di schiavi e di servi di varia provenienza, su parti del territorio riconquistato.

 

Per dirla tutta, mentre i Saraceni, facendo tabula rasa e costringendo persino a cambiamenti nelle geografie umane e fisiche, hanno sradicato e depredato ricchezze, persone e cultura, la seconda bizantinizzazione, per ripristinare un minimo di vita e di dinamismo sul territorio, deve, a sua volta, reimpiantare la sua cultura e ripopolarne l'ambiente geografico. Si spiega, così (ma senza lasciarsi fuorviare dal malcelato sentimento campanilistico e, per qualche verso, patriottico, del cronista), e si riesce, in tal modo, a dare un senso al fatto che

 

“una fonte longobarda dell'inizio del X secolo racconta: «vi erano alcuni Greci a Benevento che trattavano gli abitanti come fossero stati loro servi: li minacciavano, li percuotevano, imponevano loro le più svariate corvées, li terrorizzavano in continuazione, senza avere riguardo per nessuno, senza prestar fede a nessuno, senza mai dire a nessuno la verità, senza mai rispettare con nessuno gli impegni presi. Era per essi un gioco in pubblico e in privato infrangere i giuramenti, commettere adulteri, darsi a ogni lussuria e ai furti più svariati; e se un longobardo, sottoposto a violenze, avesse mai osato rivolgersi alla giustizia, doveva ritirarsi avvilito, dopo essere stato preso a pugni e a schiaffi, frustato e battuto: in tal modo risultava evidente che in loro non era alcunché di buono. I seguaci del diavolo affermano a parole e fatti solo ciò che Cristo odia e Satana ama; e per ultimo avevano stabilito in modo irrevocabile di deportare dalle loro terre tutti i cittadini di Benevento e gli altri abitanti di questo principato, legati con catene di ferro, come già un tempo con astuzia il loro infame re Antioco volle fare con i Gerosolimitani. E perciò tutti gli abitanti dell ‘Apulia, del Sannio, della Lucania, della Campania erano uniti dall ‘odio nei loro confronti»" [82].

 

 

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Abitanti che sono tutti quelli della “provincia beneventana".

 

Se l’ebbrezza della riconquista, da un lato, riesce a far spiegare (ma non a farli giustificare) i comportamenti del vincitore bizantino verso i vinti longobardi, la notizia lascia immaginare almeno due cose: la prima è che gli arabi dovettero essere non meno crudeli e spietati; la seconda è che il territorio riassoggettato al potere di Costantinopoli, che evidentemente comprendeva anche il Sannio (e l’attuale Molise), fu assai ampio.

 

Ne deriva che, in assenza di grandi sconvolgimenti, durante l'intero secolo X e sino all’arrivo dei normanni, la parte centro-meridionale dell’Italia di fatto rimaneva sotto il controllo bizantino e la residualità longobarda, indefinita e poco quantificabile, era solo apparente, se non proprio funzionale ad esso.

 

Poiché il ‘tema’ di Langobardia risulta menzionato per la prima volta in un atto dell’892 [83], risulta facile pensare che esso, come tale sentito e considerato dai vertici del potere bizantino ancora verso la metà del X secolo, rappresentasse non solo uno strumento politico (che, per la cultura bizantina, è anche religioso) di presenza e di controllo del territorio, ma anche, e forse più, la codificazione e la presa d’atto di una situazione che veniva da lontano. Cosa che ben giustifica il fatto come

 

“i tre principati longobardi, Salerno, Benevento e Capua (gli ultimi due generalmente soggetti a un unico principe), come i tre ducati campani, Napoli, Amalfi e Gaeta, riconoscessero, in linea di principio, la sovranità bizantina" [84]

 

e non quella dell’imperatore d’Occidente. E, volendo proprio applicate alla realtà del X secolo categorie storico-mentali successive, se pure si tiene che la provincia bizantina del ‘tema’ di Langobardia ‘confinava’ con il principato di Benevento [85], risulta

 

difficile stabilire con precisione il tracciato delle relative frontiere. Mancano, infatti, per i secoli X e XI, fonti che indichino con sicurezza dove finiva il territorio bizantino e dove invece cominciava quello longobardo, ma possiamo presumere che i confini fossero alquanto mobili e che cambiassero di frequente" [86].

 

Ma in un tale scenario come si inserivano le attività della politica del Papato e, sul territorio, quelle delle relative, e connesse, istituzioni secolari e regolari? Per dare una risposta, occorre premettere che, pur di ottenere legittimazione e visibilità del proprio ruolo, la ricerca di autonomia dall’impero bizantino è all’origine di una situazione di generale disordine, caratterizzata da elezioni papali determinate dai rapporti di potere e dalle lotte tra grandi famiglie dell’aristocrazia. E’ ciò tanto vero che “una grande quantità di elezioni vescovili contese, di consacrazioni di vescovi di Roma avvenute senza richiedere l’approvazione dell’imperatore, di tumulti, violenze, destituzioni e atrocità in luoghi sacri (sinodo col cadavere di Formoso) caratterizza le condizioni del IX secolo” [87]. Che, sempre sostanzialmente, rimasero tali per il secolo seguente, il saeculum obscurum della pornocrazia romana, ed oltre, se “dalla prima spedizione in Italia di Ottone I (962) fin verso la metà del secolo successivo si protrasse l’insicurezza della situazione” [88].

 

Ne deriva che solo l’attività patrimoniale dei grandi complessi monastici e delle istituzioni mirava a stabilire, con il controllo, la riconquista del territorio. E, dopo essersi inseriti, serviva ad affermare la forza di una, anziché di un’altra, delle parti in lotta.

 

Sin dalla fine del X secolo e, con intensità e frequenze sempre più insistenti, nella prima metà del successivo stanno arrivando, a gruppi, gli avventurieri normanni per approfittare della disordinata e confusa situazione.

 

 

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E, sempre nel tempo lungo, diventare, con spietata decisione e senso pratico e dopo aver costituito una propria organizzazione politico-amministrativa, padroni dell’intera Italia centro-meridionale, approfittando della situazione di disordine e di degrado. Ma è argomento, quest’ultimo, che non tocca, qui e con il presente lavoro, affrontare.

 

 

3. Elementi di storia dei rapporti religiosi

 

Quella alto medievale, però, fu anche (o soprattutto?) storia religiosa o, meglio, dei rapporti religiosi vissuti tra contrasti, crudi ed aspri, combinati con le contingenze delle situazioni politiche, che spesso risulterebbero incomprensibili ed indecifrabili senza la ricostruzione del divenire dei primi.

 

Appena qualche anno dopo la ‘cancellazione’, nel 476, dell'imperium dalla pars Occidentis (con la deposizione di Romolo Augustolo da parte del barbaro Odoacre), il 'basileus' Zenone nel 482 emana un editto, l’Henotikon, che, ispirato dal patriarca Acacio di Berea (dal nome del quale lo scisma, che ne seguì, fu anche detto “scisma acaciano” [89]) e con chiare finalità di compromesso, aveva come obiettivo quello di imporre d’autorità la soluzione alla lunga controversia ‘monofisita’ e fame cessare le relative discussioni. Contrariamente, però, alle intenzioni imperiali, le tensioni nei rapporti tra la ‘vecchia’ Roma e Costantinopoli, la ‘nuova’ Roma, si aggravarono per il semplice fatto che l’editto ebbe l'immediata condanna da parte di papa Simplicio (468-483), il cui principale obiettivo, in realtà, era di mettere in discussione la validità del canone 28 (preminenza del patriarcato di Costantinopoli) del concilio ecumenico di Calcedonia (451). Alla successiva conferma di condanna dell’Henotikon anche da parte di papa Felice III (o II), il quale, succeduto a Simplicio, aveva preteso dal patriarca costantinopolitano persino che venisse a Roma per giustificare i propri comportamenti, il vescovo romano, per la mancata obbedienza e per i tentativi di intimorire e corrompere i suoi legati, faceva seguire (484) la scomunica di Acacio, fatto dal quale prendeva avvio lo scisma, destinato ad avere una durata ultra trentennale.

 

Con le discussioni riconducibili allo "scisma acaciano", che è di evidente matrice teologico-dottrinale’, vanno ad intersecarsi tutti quei feroci contrasti ‘di potere' legati sia allo "scisma laurenziano”, che, con effetti limitati alla sola area italica, diventa una semplice espressione del primo, e sia alla separata e difficile convivenza tra i goti di Teodorico e gli italici. Difficile, se non impossibile, individuarli; servirebbero, tuttavia ed in quanto coinvolsero la ancora potente classe senatoriale, a gettar luce sulla complessa situazione nella quale, di lì a pochi anni, sta per verificarsi l’avvenimento della guerra greco-gotica e della conquista greca, con relativa sottomissione, dell’Italia.

 

Si sa, però, che, come si è stato accennato, gli ‘episcopi’ delle sedi diocesane del Molise centrale ed interno parteciparono ai sinodi convocati a Roma nel 499 e durante i primissimi anni del VI secolo. E, dalla parte di papa Simmaco (a favore del quale era il re goto Teodorico), è possibile anche immaginare che, in questa fase (nella quale ancora non si è concretizzata la conquista greca), fossero schierati per l'ortodossia goto -italica.

 

Ricomposta, almeno ufficialmente, nel 519 la rottura legata allo scisma acaciano, i contrasti e la discussione sulla natura (o sulle nature) del Cristo erano destinati a continuare, in quanto essi, di fatto, nascondevano motivazioni di carattere politico.

 

 

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Tanto è vero che l’imperatore Giustiniano, dopo aver promulgato l’editto di condanna dei “Tre Capitoli” (543), si adoperava con ogni mezzo per ottenerne la firma di accettazione. E il fatto che, mentre “egli insisteva sulla necessità per la Chiesa romana di adeguarsi alla teologia imperiale, perché nel suo impero non v’era spazio per una politica pontificia autoritaria e indipendente, come quella di Leone I e di Gelasio I, papa Vigilio, da un lato influenzato dai consiglieri teologici occidentali che rifiutavano la condanna dei «Tre Capitoli», dall’altro sollecitato - anche con violenza - dagli uomini dell’imperatore, proseguiva una politica oscillante e dilatoria" [90], sta proprio a dimostrare la natura politica dello scontro. E la successiva firma (poi condannata dai successori e disapprovata sempre dall’occidente) da parte del papa davanti ai padri conciliari presenti al sinodo ecumenico (nel 553, quasi contemporaneamente alla vittoria bizantina in Italia sui Goti e sui loro alleati franchi ed alamanni), oltre ad evidenziare lo stato, se non di una vera e propria sudditanza, almeno di debolezza di Roma (nel VI secolo diversi papi furono deposti e rimpiazzati con altri più accondiscendenti alle posizioni di potere), apriva una nuova situazione di scisma, che, tra alterne vicende, era destinato a rientrare solo negli ultimi anni del VII secolo e ben dopo l’altro concilio del 680-681.

 

Ma quali erano le condizioni e le risposte delle tante chiese locali a tale situazione generale? E, soprattutto, quali le loro specifiche posizioni? Da che parte, insomma, stavano? Quasi impossibile, almeno relativamente all’area ‘beneventana’ (alla quale è possibile riferire tutte le diocesi “per Samnium” e, nello specifico, dell’attuale Molise), che sta per subire o ha da poco subito lo stanziarsi delle "farae' longobarde, dare una ricostruzione precisa ed attendibile, se non per analogia ad altre situazioni particolari.

 

Nonostante ci si sia ben assuefatti all’idea “che l’Italia bizantina, <perché tale> insegnataci dai migliori manuali classici, è divenuta un racconto dei controversi rapporti religiosi tra l’Oriente e l’Occidente, oppure una provincia bizantina senza Greci" [91], cosicché “dell’Italia e dei suoi abitanti si parla ben poco” (e, se possibile, ancor meno di quella peninsulare, geograficamente più vicina a Roma), vi sono tracce di episodi che stanno a dimostrare che le “gentes Langobardorum", anche quando hanno conquistato un territorio, almeno nel breve e medio periodo, se ne sono completamente disinteressati circa la situazione religiosa. Ma, soprattutto, che la riconquista bizantina, oltre ad una sua amministrazione, ha portato condizioni teologico-dottrinali (ed in esse è possibile ricondurre anche le rituali e le cultuali) proprie e certamente diverse da quelle autoctone e, per così dire, romane. Ben lo dimostra il fatto che

 

“nel 590-591, Ingenuino, vescovo di Sabiona, Massenzio <vescovo> di Julia, Lorenzo di Belluno, Augusto di Concordia, Agnello di Trento, un secondo Agnello d’Acelina, Junior di Verona, Fonteius di Feltrina, Felice di Treviso e Oronzio di Veterina, tutti vescovi della Venezia longobarda, riuniti a Marano, scrivono all’imperatore Maurizio: «Anche se, a causa dei nostri peccati siamo sottomessi al pesante giogo dei Barbari, grazie a Dio nessuna pressione ha potuto farci allontanare dall’integrità della fede cattolica. Inoltre, non abbiamo potuto dimenticare il vostro santissimo Stato sotto il quale abbiamo in altri tempi vissuto tranquilli e sotto il quale speriamo con tutte le nostre forze, con l’aiuto di Dio di tornare presto ... Noi che siamo sempre rimasti fedeli ai Tre Capitoli (testi condannati da Giustiniano I nel 543, condanna accettata in seguito dai capi e dalla maggior parte dei vescovi occidentali) [a], abbiamo appreso che il papa, Gregorio, ha ottenuto un editto imperiale contro di noi. Domandiamo che, tornata la pace, possiamo venirci a giustificare al vostro tribunale.

 

 

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Siamo in disaccordo con il papa, non può dunque giudicarci, dato che le leggi imperiali stabiliscono che nessuno può essere giudice nella causa in cui è parte». E il testo aggiunge: «Fino ad ora, ogni vescovo ha dato per iscritto, al momento della sua nomina, al patriarca di Aquileia, che è della vostra giurisdizione, la promessa di conservare intatta la fede del santo Stato. E se uno di essi condanna i Tre Capitoli, nessun ecclesiastico andrà a farsi ordinare da lui, ma ricorreranno tutti ai suffraganei del metropolita di Milano ... Alcuni, ignorando la giustizia divina, l'interesse del vostro santo Stato e le credenze del devoto Impero, che essi non temono di lacerare con i lamenti di tutto il popolo della nostra regione, insinuano Dio sa cosa alTimperatore ...» ecc. [b]. Sarà stato notato in questo rapporto dei vescovi latini, sotto giurisdizione politica longobarda, l’invocazione all'Imperatore contro il superiore ecclesiastico, qui il papa; e quale papa, Gregorio, il discendente di un’antica famiglia romana, il creatore del potere temporale del papato! Questo ha il profumo degli ambienti di osservanza molto stretta: il diritto di ricorrere al supremo tribunale dell’Imperatore per ogni soggetto dell’Impero” [92].

 

Ma, se questa era la situazione religiosa della ‘Langobardia’ settentrionale, qual’era quella dell’Italia centro-meridionale? Pur nella difficoltà, a causa della totale mancanza di documentazione e di fonti al riguardo, di una ricostruzione attendibile, non è difficile immaginare che il quadro dei rapporti politico-religiosi fosse più o meno assai simile. Specialmente se si considera il fatto che

 

“i Greci, ..., per aver seguaci dé loro errori innalzarono delle nuove sedi (vescovili).; e che poi i Romani Pontefici istituissero qualche nuova Sede, e molte ne ristabilissero. Pur tuttavolta in numero assai maggiore erano i Vescovadi nel nostro Regno di quello, che sono al presente, primache le tante, e sì doviziose Città di esso venissero barbaramente sterminate dà Longobardi[93].

 

E ciò anche nel Samnium molisano, come lascia, indipendentemente dalla collocazione del relativo insediamento, ben intendere quella diocesi di ‘Sannia’, indicata dal Di Meo.

 

Con i contrasti politici legati alle lotte per l’affermazione del potere sul territorio da parte delle “farae’ longobarde in danno delle strutture bizantine si intrecciavano, nel corso del VII secolo, le contrapposizioni religiose provocate dalle nuove discussioni dottrinali sulla volontà (thélema), se una o più, per le due nature (divina e umana) del Cristo. La dottrina ufficiale, elaborata da Sergio, patriarca di Costantinopoli (610-638), e condivisa, con l’approvazione, da papa Onorio I (625-638) [94], era imposta e proclamata dal basileus Eraclio (610-641) con l’editto dell’Ekthesis (638). Nell’atteggiamento imperiale sembra evidente la volontà politica di riunificare le diverse posizioni, ivi comprese anche quelle religiose e di fede. Ma la teologia occidentale, dopo la motte di Sergio, di Onorio e dell’imperatore Eraclio (il quale, al fine di condurlo sulle proprie posizioni, fece aspettare circa due anni papa Severino per avere l’autorizzazione ad essere consacrato), con a capo papa Giovanni IV (640-642), rinnegava l’Ekthesis, tornando alla più canonica posizione dottrinale delle due volontà, la divina e l’umana, di Cristo. Del tutto naturale fu che il dibattito, anziché placarsi, infiammasse maggiormente i fautori dell’una o dell’altra parte, che già operavano in condizione di scisma e di rifiuto. A tal punto che il basileus Costante II si vede costretto, pur di ristabilire delle accettabili condizioni di pacificazione, ad emanare (647) un nuovo editto, il Typos, col quale, in materia di fede religiosa, tentava appena di ammorbidire le precedenti posizioni.

 

 

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La risposta ‘romana’ fu la convocazione di un sinodo da parte di papa Marino (o Martino) I, già legato (apocrisiarius) papale a Costantinopoli, appena eletto (649). Tale sinodo, i cui atti furono redatti molto significativamente in greco, si riunì nella chiesa del Laterano e, con la partecipazione di 105 vescovi e 37 esponenti (presbiteri ed abati) 'greci’, si svolse in cinque sessioni dal 5 al 31 ottobre 649. Produsse venti canoni di condanna dell’eresia monotelita e, oltre che dei loro scritti, la scomunica dei suoi autori, primo tra essi il patriarca Sergio. Nella condanna erano ricompresi anche i due editti imperiali (l’Ekthesis e il Typos) prodotti dalla teologia costantinopolitana.

 

Alla pubblicazione dei decreti di condanna prodotti dal sinodo, ai quali sempre si atterrà da ora in poi la teologia occidentale, il basileus Costante replicava con l’impartire all'esarca di Ravenna l’ordine di catturare il papa e di trasferirlo a Costantinopoli. Papa Marino, arrestato a San Giovanni in Laterano il 15 giugno 653, fu portato in catene nella capitale dell’impero, dove, dopo aver subito un processo sommario, venne condannato prima a morte e, poi per commutazione della pena, all'esilio in Crimea, morendovi per stenti nel 655 (settembre).

 

Ma, nel corso di tale situazione complessa e complicata, quali le posizioni delle singole chiese locali? Impossibile che non fossero diversificate.

 

Per una interpretazione, la più corretta, dell'atmosfera di dipendenza, di lunga durata (sia precedente che successiva), dal mondo greco-orientale e di sudditanza da esso degli ambienti religiosi romani, va detto che i canoni del sinodo lateranense del 649, così

 

“come ha dimostrato Rudolf Riedinger, erano stati redatti originariamente in greco da Massimo il Confessore e dalla sua cerchia e che furono tradotti e diffusi poi in latino” [95].

 

E, in più, che l’influenza, culturale e religiosa, della ‘grecità’ fosse fatto predominante e, soprattutto, fosse di antica origine lo sta con chiarezza a dimostrare il fatto che

 

“è negli Atti del Concilio Laterano del 649 che incontriamo ... monaci greci stabiliti a Roma. Trentasette di essi si presentano alla seconda sessione del Concilio, e sono descritti come

 

abbates, presbyteri et monachi Graeci, jam per annos habitantes in hac Romana civitate, nec non in praesenti adventantes

(MANSI, X, 903A)” [96].

 

Le due circostanze provano, indipendentemente dalla posizione nella controversia teologica e dottrinale, sia che la Roma del VII secolo (e, quindi, ben prima dell’iconoclasmo) è fondamentalmente una città ‘greca’ e sia, per il consistente numero (ben 37 esponenti nel rapporto col totale dei 125 vescovi partecipanti al sinodo), che gli “abbates, presbyteri et monachi Graeci" provengono non solo da Roma, bensì da tutta l’Italia peninsulare bizantinizzata [97].

 

Ma, se il fenomeno monastico, sia esso nella forma eremitico-anacoretica che in quella cenobitica, entrambe, in ogni caso, di matrice e di tradizione greco-bizantina, è, all’incirca la metà del VII secolo, già così fortemente presente e significativo [98] e se, per ovvie e comprensibili ragioni, non è proprio possibile ipotizzarne la diffusione durante la prima fase (quella più feroce, più dura ed escludente) della longobardizzazione, a quale periodo datarne l’arrivo, se non, al più tardi, a quello della bizantinizzazione seguita alla guerra greco-gotica? La risposta è che “il monachesimo greco costituisce un momento importante della storia del Mezzogiorno italiano, ove cominciò a diffondersi, insieme ad altri elementi tipici della cultura e dell’amministrazione pubblica bizantina, in seguito alle conquiste realizzate da Giustiniano verso la metà del VI secolo” [99], ed ove esso si manterrà sempre presente, assai intenso e dinamico, anche quando, nei due ultimi secoli del primo millennio e, comunque, dopo che dall’occidente è stata compiuta la s celta ‘franca’ (e solo allora), sarà costretto a subire la ‘concorrenza’ del monachesimo benedettino, il quale è solo con la riforma codificatrice di Benedetto di Aniane (750-821ca) [100] che trova terreno favorevole al suo diffondersi.

 

 

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A partire dalla vicenda di papa Marino, significativa per la comprensione della psicologia storica di quel periodo, sarà necessario poco meno di un quarantennio per un tentativo serio di riconciliazione politico-dottrinale tra le diverse posizioni, che venne operato con il concilio ecumenico del 680-681 svoltosi a Costantinopoli. Quell’intenso quarantennio, durante il quale inizia una serie, pressoché ininterrotta, di papi ‘greci’ [101], è, come visto, caratterizzato dalla spedizione di Costante II (663) e dallo stabilirsi dei bulgari a Sepino, a Bojano, ad Isernia ed in altre ‘civitates’ del ‘Samnium’ molisano. Ed è, per quanto concerne l’aspetto religioso, soprattutto caratterizzato, almeno nella sua fase iniziale, dall’ evénement, che va pure a combinarsi con le prime manifestazioni delle razzie ‘Sarracenorum" sul territorio, della ‘conversione’, lenta e certamente di lungo periodo, agli usi religiosi degli autoctoni da parte delle “gentes Langobardarumi”.

 

Ma queste ultime (e - come dimostra anche l’episodio del vescovo di Benevento, Barbato, che si presta a considerazioni che non è il caso di toccare - chiaramente sono da ricomprendervi i longobardi del ducato beneventano) quale tipo di religione cristiana vanno ad accettare, se si ‘convertono’ proprio mentre il cristianesimo è governat o da papi ‘greci’? E, se sono ‘greci’ gli esponenti di vertice, quale tipo, di cultualità e di ritualità, esercitano i quadri intermedi (o, meglio, gli ‘episcopi’ delle tante diocesi)? Ed, ancora, perché la storiografia tende a ‘concentrare’ quell’evento, che di sicuro dovette avere riflessi considerevoli e consistenti, ad un periodo, di pochi decenni, collocato nel tempo tra il dopo Costante ed il prima (molto prima, se si considerano le fondazioni monastiche di S. Vincenzo al Volturno, di S. Maria di Castagneto e di S. Angelo in Altissimis da parte di Teodorata) dell’iconoclasmo? E, da ultimo, come combinare con l’ evénement della conversione dei longobardi le tradizioni, culturali e religiose, di quei bulgari, appena arrivati da aree soggette all’influenza di Costantinopoli per stabilirsi nelle ‘civitates’ di un "Samnium” (in precedenza scarsamente antropizzato), che “plus de cent ans après bien qu’ils eussent appris a parler latin, n’avaient pas encore perdu l’usage de leur langue originelle" [102] e, con esso, delle usanze, delle credenze e delle ritualità?

 

Un ‘segno’ ed una indicazione, sicuramente minimi ma assai indicativi, per una possibile risposta potrebbe venire dalla particolarità del rito religioso, che caratterizzava l’area ‘beneventana’, all’interno della quale, come visto, “i Greci,..., per aver seguaci dé loro errori (dottrinali e teologici), già da qualche tempo, avevano eretto delle nuove sedi (vescovili)", ai cui vertici non potevano non trovarsi che ‘episcopi, i quali sono, se non di origine, almeno di cultura e di tradizione ‘greco - bizantina’.

 

Questi praticano il rito, conosciuto come ‘benevento’, in modo diffuso sul territorio e per periodi lunghi, in tutta la “Langobardia minore". Esso,

 

“che di «beneventano» ha il luogo di conservazione di alcuni dei suoi migliori manoscritti, non è un rito longobardo ed è molto anteriore all’invasione del 568, anche se i duchi longobardi di Benevento, una volta divenuti cattolici, lo adottano come rito ufficiale e gli danno grande risalto. Si caratterizza per il suo arcaismo e la sua povertà, che riflettono la sua antichità. Poiché per ragioni geografiche esso è stato in contatto con le chiese di rito greco situate nell’Italia del Sud, il rito di «Benevento», più di tutti gli altri riti latini, ha attinto da esse diversi elementi,.” [103].

 

Questo rito, del quale rimane poco ed è conosciuto quasi esclusivamente da fonti e da documenti di data assai tardiva dei più antichi manoscritti ancora conservati e del quale “non esiste più un sacramentario «beneventano», ma già dei messali completi dal contenuto molto carolingio”,

 

 

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doveva essere per forza di cose di emanazione e di derivazione bizantine; e, per moltissimi versi, la ‘longobardizzazione’ è servita a conservarne la integrità. E’ tutto ciò tanto più vero, se si considera specialmente che

 

il continuum culturale tra Oriente ed Occidente sussiste circa fin verso il 650; esso si esprime in particolare nel continuare ad adottare feste orientali, come l’Esaltazione della Croce, nella traduzione di Vite di santi orientali .... e con la notevole rappresentanza greca al Concilio del Laterano del 649. Non vi era quindi nulla che impedisse la ricezione ininterrotta dei modelli greci fino a quest'epoca" [104].

 

La documentata presenza di ‘segni’ residuali (se ne daranno in seguito cenni) di quella ritualità rappresenta la prova che essa continuerà lungamente ad essere praticata nella “provincia beneventana”.

 

Se i compromessi del concilio del 680-681 (il terzo di Costantinopoli ed il sesto ecumenico), significativamente convocato e, dopo averlo concordato con papa Agatone, presieduto nel suo svolgersi dal basileus Costantino IV, riuscivano a codificare i canoni dell'ortodossia e ad indicare delle soluzioni, più o meno conclusive, stabilizzatrici e riappacificanti, alle dispute (le quali, sotto la controversia intorno ad aspetti dottrinali e teologici, mal nascondevano lo scontro che nella realtà era politico) sulle ‘nature’, sulle ‘energie e sulle ‘volontà’ del Cristo, l’VIII secolo, dopo un primo venticinquennio di calma apparente, fa registrare l’esplosione della lotta che, nella posizione ‘iconoclasta’ imposta dall’imperatore, era bizantina e, nella risposta ‘iconodula’, era occidentale.

 

A causa, forse, di influenze esercitate dall'ebraismo e dall’islamismo primitivo e, più probabilmente, per la condivisione di concezioni teologiche ‘puritane’ teorizzate da una corrente all’interno della stessa cristianità cui apparteneva, l’imperatore Leone III (717-741), iniziatore della dinastia ‘isaurica’, per imporre una riforma moralizzatrice e moralizzante alla Chiesa, emanava un editto (726), con il quale, dopo aver dichiarato il carattere idolatrico del culto delle immagini sacre, ne ordinava l’eliminazione dai luoghi di culto oltre che la distruzione. La risposta iniziale da parte dell’occidente, che viveva in una posizione di dipendenza e non poteva accettare la disposizione imperiale, si limitò al tentativo, verso il potere di Costantinopoli, epistolare, pur fermo e deciso, di papa Gregorio II (715-731) di non accettazione e, per metterne in crisi l’autorità imperiale in Italia, alla scomunica delegittimizzante e politica dell’esarca (per perseguire l’obiettivo di appropriarsene del territorio). Successivamente con papa Gregorio III (731-741) lo scontro iniziò a farsi feroce e frontale, tanto che il basileus mette (732) l’intero meridione d’Italia sotto la diretta giurisdizione di Costantinopoli. E tale rimase sino alla reggenza, per la minore età del figlio Costantino VI (780-797), dell’imperatrice Irene, la quale, dopo aver ‘sospeso’ le disposizioni del 726, consente sia di riaprire i monasteri (gli esponenti del monachesimo erano stati i più fieri oppositori dell’iconoclasmo) e sia di riammettere il culto delle immagini sacre nelle chiese. Nel tentativo di dare credibilità politica alle funzioni della sua persona (proprio mentre in occidente sta emergendo la figura di Carlo Magno), convoca un nuovo concilio ecumenico, il secondo di Nicea, nel quale, durato dal 24 settembre al 23 ottobre 787, si riconosceva la legittimità della posizione iconodula, esposta, quanto alle motivazioni teologiche, in una lettera di papa Adriano I (772-795) alla stessa basilissa, ponendo fine, ma solo temporaneamente, alla lotta.

 

Ma, dopo meno di un trentennio (che significativamente coincide con l’ascesa al potere in occidente da parte di Carlo Magno), un nuovo attacco, ancor più violento, al culto delle icone veniva sferrato dal basileus Leone V l’Armeno (813-820).

 

 

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Esso, che, come il primo, favoriva l’afflusso nell’Italia peninsulare di ‘monachi e di esponenti dell’iconodulia, continuò fino all’843, quando, per disposizione di un’altra basilissa, Teodora, reggente per il figlio minorenne Michele III (842-867, ma, con la reggenza della madre, fino all’856), fu possibile ristabilire definitivamente con il “trionfo dell'ortodossia" il culto delle immagini.

 

E’ un fatto che, tanto nella prima quanto nella seconda fase della lotta iconoclasta, sull’intero territorio dell’Italia centro-meridionale e, più segnatamente, dell’area culturale beneventano-cassinese, che qui maggiormente interessa e che, come mostrano anche i dati, rari ed ancora occasionali, della repertazione archeologica (le fibule, per esempio, gli anelli e soprattutto gli orecchini), non è completamente longobarda, ma, sempre provincia di quell’impero che ancora custodisce l’eredità ‘romana’, viene piuttosto influenzata dalla tradizione bizantina ed

 

“è l’area che ebbe una sua propria civiltà artistica; che conservò una liturgia distinta dalla franco-romana; che elaborò una scrittura ostinatamente opposta, anche nella concezione grafica, alla minuscola carolina” [105],

 

arrivano e si stabiliscono con ulteriori e continui apporti rivitalizzanti per quella tradizione (pur se nella, ma non solo, specificità della direzione iconodula), tantissimi esponenti della cultura, religiosomonastica, greca. Ne è chiara prova la testimonianza, tanto preziosa quanto indicativa, di Teodoro Studila (759-826), il quale “ricorda i preti greci ordinati a Roma, a Napoli e in Longobardia" [106].

 

Ma i “monachi greci” ed “i preti greci”, cui occorre necessariamente aggiungere anche un episcopato ‘greco’, erano tutti ‘iconoduli’? Il caso, certamente non isolato (se ne incontrerà uno anche ad Otranto), del vescovo ‘iconoclasta’ di Torino (817- 840), Claudio (che dispose, nell’824, la distruzione delle immagini, arrivando a proibire la venerazione delle reliquie e persino l’uso delle candele), sta a suggerire una risposta negativa. Ed indica potenzialità di indagini, con esiti favorevoli anche per più di una diocesi centro-meridionale, grande o piccola che sia, cui sarebbe possibile applicare, pur non necessariamente contemporanea, anche una duplice (e, forse, triplice) titolarità (un vescovo ‘greco-iconoclasta’ con un vescovo ‘greco-iconodulo’ e/o ‘romano-iconodulo’).

 

Proprio negli spazi lasciati vuoti dalla lotta dell’iconoclasmo, che in oriente, in combinazione con l’espansionismo arabo-islamico della razzia, sta lacerando l’impero custode della ‘romanitas’, vanno in occidente ad inserirsi i Franchi, i quali riescono ad approfittare dell'isolamento in cui erano venute a trovarsi la ‘latinitas’ dell’Italia romana e l’ortodossia della chiesa dell'antica Roma. Così le decisioni della basilissa Irene di reintrodurre il culto delle immagini imponendo il VII concilio ecumenico (peraltro, mai riconosciuto da Carlo Magno, dai vescovi franchi e dalla loro teologia che ora propone la questione del “filioque‘, [107]) si spiegano come il tentativo, più o meno estremo, di ridare visibilità alla legittimazione della imperialità all’occidente, come parte dell’ecumene, di cui il basileus ne è a capo ed il vescovo di Roma può solo godere di un primato di onore, per riannetterlo (sottraendolo all’espansionismo franco), sotto l’idea della romanità, all’impero, che per la mentalità greco-bizantina è espressione unica ed unificatrice di religiosità e di potere politico. E contro la teologia franca si trovano inizialmente schierati sia papa Adriano (772-795) che il suo successore Leone III (795-816).

 

Ed anche dopo la morte di quest’ultimo i papi furono espressione di quella parte della ortodossia, che specie nell'Italia a cultura greco -bizantina ha ancora gran seguito, dell’antica Roma ancora indipendente (o che tale ancora aspira ad essere).

 

 

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Ciò avveniva, seppur tra scontri accesi e spesso violenti tra le fazioni contrapposte, sino all’anno 858, quando, dopo il papato contrastato (da Anastasio il Bibliotecario che era sostenuto dagli imperatori Lotario e Ludovico) di Benedetto III (855-858), riuscì ad essere eletto, e con la significativa presenza diretta dell’imperatore, Nicola I (858-867).

 

Tale elezione avveniva dopo pochi mesi da quando (Natale 857) al patriarcato di Costantinopoli era stato imposto dal basileus, al posto di Ignazio (l’uomo di religione che ne denunciava la vita dissoluta) destituito appena il 23 di novembre, quel protospatario Fozio, che, coltissimo uomo di corte ed ai vertici delle gerarchie del potere, ma ‘laico’, in soli cinque giorni dovette diventare ‘episcopus’.

 

Che le elezioni fossero frutto di manovre politiche sembra sin troppo evidente. Così come risulta evidente il fatto che esigenze teologiche, pur importanti, sottintendevano alle posizioni politiche, che rimanevano sempre prevalenti. Sin dal primo periodo (857867) del patriarcato di Fozio fu condannata (in uno dei tanti ‘concili’ che una parte contrapponeva all’altra, facendovi sempre seguire l’immancabile scomunica) l’aggiunta (per cui lo Spirito Santo procede dal Padre “e dal Figlio") del ‘filioque’ come illegittima, e quindi eretica, al ‘Credo’ niceno. Ma la morte di Nicola I, cui, dopo la parentesi di Adriano (867-872), che faceva scomunicare Fozio dal Concilio dell’869 (non riconosciuto da Costantinopoli come ecumenico), succede Giovanni Vili (872-882, ma assassinato), non meno energico che dotato di straordinaria avvedutezza politica, portò, con l’esilio di Fozio e il ritomo di Ignazio (867-877) al patriarcato, ad un parziale riavvicinamento delle posizioni. Queste, però, peggiorarono nuovamente alla morte di Ignazio, cui tornerà a succedere lo stesso Fozio (877-886) che dal concilio di Costantinopoli (879-880), non riconosciuto da Roma, fece disporre la condanna, con il conseguente scisma, delle decisioni del concilio dell’869, reiterandone i punti di controversia.

 

Quasi contemporaneamente a questi avvenimenti, nella “provincia beneventana”, che sicuramente ancora vive della tradizione e della cultura greca e che, come lascerebbe intendere proprio l’interesse dell’imperialità occidentale, di marca ‘germano-franca’, ad estendervi, dopo essersi impossessato del papato, il proprio dominio, segue la teologia della sola processione dal Padre, si sta concretizzando quella seconda bizantinizzazione che, per qualche anno, farà stabilire nella stessa Benevento i rappresentanti del potere imperiale greco. E farà si che molti greci verranno ad abitare in questa città e nel territorio dell’intera sua ‘provincia’, la cui situazione geografica è possibile ricostruire seguendo quelle che furono le ‘suffragarne’ dipendenti dalla sua ‘metropolia’ religiosa.

 

Il processo di separazione fra la chiesa d’oriente e quella d’occidente (condizionata nel X secolo dalla competizione politica tra ‘romani’ e ‘germani’), pur se coperto dalla cenere di fatti non eclatanti e vistosi e nonostante lo scisma fosse, almeno formalmente, rientrato già nel IX secolo, continuò lento ed inesorabile. Sino al patriarcato di Michele Cerulario (1043-1058), durante il quale si consuma la definitiva rottura con il grande "scisma d'oriente" (o, a seconda del punto di vista, “scisma d'occidente”).

 

Ciò [108], dopo che papa Leone IX (1048-1054) è stato già militarmente sconfitto (18 giugno 1053) dai Normanni in quella Civitate, che, ai confini dell’Apulia, fu raggiunta dal papa ‘tedesco’ seguendo, dopo aver attraversato, provenendo da Montecassino, le ‘civitates’ di Venafro, Isernia e Bojano, quell’antichissima strada lungo il Biferno che passa per il “locus Sale iuxta Bifernum fluvium" dell’agro di Limosano

 

 

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(dove, il 10 giugno, liene un placito per discutere e dare una soluzione ai problemi di durata secolare, riguardanti gli indebiti inserimenti nel monastero d i S. Maria di Castagneto), l’agro di Guardialfiera e, più che probabilmente, quello di Larino.

 

Ed è proprio da Benevento, dove dopo la sconfitta era stato condotto prigioniero ed impedito di tornare a Roma, che Leone IX manda, durante l’inverno del 1054, i suoi legati al patriarca per tentare, pur sempre nella prospettiva di un potenziale accordo politico ancora utile a contrastare l’avanzata ‘normanna’, di ricomporre le questioni in discussione. Ma quello che doveva essere un incontro per confrontarsi e, possibilmente, per riunirsi, divenne tra il Cerulario ed il cardinale Umberto di Silva Candida scontro; che, così come fu l’atmosfera in cui si era svolto, ebbe esiti drammatici. Le posizioni si irrigidirono sino al reciproco scambio (16 luglio) delle scomuniche, che sanciva quella rottura, che, nonostante i tentativi operati il primo dal concilio di Lione (1274) e il secondo con l’accordo firmato il 5 luglio 1439 (che ha durata assai breve e, comunque, fino al 1453), rimarrà definitiva per lunghi secoli. E rimane, tuttora, ancora irrisolta.

 

La situazione geografico-politica delle condizioni religiose nell’Italia peninsulare, immediatamente precedente lo scisma (è sin troppo facile immaginare che quella del 'post sarà, proprio perché ‘condizionata’ dalle cancellazioni e dalle rivisitazioni, assai diversa), vedeva una sorta di pacifica convivenza tra due culture (ciascuna con una propria forma di religione, una propria ritualità, una propria immagine artistica, un proprio pensiero, una propria ricerca filosofico-teologica) differenti l’una dall’altra. Ciò sarebbe tanto più vero e realistico di quanto, e non vi è motivo di dubbio, descriveva il reale stato delle cose proprio Leone IX, che, solo a qualche mese dallo scisma, poteva indicare che

 

cum intra et extra Romam plurima Graecorum reperiantur monasteria sive ecclesiae, nullum eorum adhuc perturbatur vel prohibetur a paterna traditione, sive sua consuetudine; ... (= ritrovandovi dentro e fuori di Roma moltissimi monasteri o chiese, fino ad ora nessuno di essi viene turbato o proibito dalla ‘paterna’ tradizione o dalla sua consuetudine)” [109].

 

Si concretizzava tale convivenza mentre, da almeno un secolo, è in atto, contrapposta ad un movimento greco-bizantino (si pensi alla ‘rifundatio’ delle diocesi - Civitate, Dragonara, Ferentino, Volturara, Tertiveri e la stessa Troia - alla destra del Fortore durante il primo venticinquennio del secolo XI) una vera e propria offensiva latina che, approfittando, quando potrà, anche della confusione portata sullo scacchiere delle relazioni dai normanni, parte da Roma e, per mano delle strutture del clero sia secolare che regolare (basterà, a titolo di esempi, ricordare le istituzioni - 966 e 969 -, che, però e in realtà, furono delle ‘riconferme’ di situazioni precedenti, delle arcidiocesi ‘metropolitane’ di Capua e di Benevento e le tante ‘oblationes’ di monasteri e di chiese che passano continuamente di mano), si realizza con un tirare nella propria orbita le singole diocesi e, assai numerose sul territorio, le strutture monastiche.

 

 

4. Segni della cultura greco-bizantina in Molise

 

Ma, a questo punto, è possibile il tentativo di ricostruire una situazione “in progress” del territorio dell’attuale Molise? E, specificamente, quali in esso i ‘segni’ delle presenze greche? Per interpretarli, occorre seguire un percorso a ritroso.

 

 

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Per ciò che concerne la specificità dell’assetto politico-amministrativo, il territorio molisano, con la razionalizzazione dei normanni che andava ad inserirsi, raccogliendone le eredità, su preesistenti evidenze più o meno autonome, oltre a Venafro che, almeno inizialmente, rientra nell’orbita di Capua (cui era stata assegnata nelle divisioni del ‘principatus’ longobardo di Benevento del IX secolo), vedrà emergere sulla parte collinare e montuosa del ‘Samnium’ più propriamente pentro (e, nel 668, assegnato a quei bulgari, le cui tradizioni, e costumanze, organizzative e di presenza sullo spazio fisico, avevano determinato il significativo mutamento culturale per il quale “ipsumque Alzeconem, mutato dignitatis nomine, de duce gastaldium vocitare praecipit") un "Comitatus Molisi/" ed il “Comitatus di LoriteUoi" sulla parte marittima e di bassa collina che era stata già la ‘Frentania’. Dei due il primo, che vedrà l’affermarsi della famiglia dei "de Molisio", andrà a raccogliere, almeno come formazione del suo nucleo originario, i territori del “Gastaldatus Bovianensis" (che comprende l’intera zona dell’alto Biferno, che, però, è da intendersi in senso assai ampio) e del “Gastaldatus Biffernensis", da cui dipende tutta l’area del medio corso del fiume. Il secondo, invece, sorge su quella che, precedentemente e nella lunga durata, era stata la "contea di Fantasia", che, come sta ad indicarne il nome, fu grecobizantina e sulla quale, relativamente poco conosciuta, occorrerà, pur se solo con qualche cenno, tornare.

 

Per quanto possibile coevo a quello politico indicato, il quadro relativo all'aspetto concernente la tradizione religiosa (più veritiero per le rappresentazioni di lunga durata), è possibile desumerlo dalla situazione di dipendenza delle diocesi, come suffraganee, dalla rispettiva sede metropolitana. Di esse, mentre dipendono sicuramente dalla giurisdizione di Capua quelle di Isernia e di Venafro [110], tutte le altre (Bojano, Trivento, Larino, Termoli, Limosano, Guardialfiera [che, però, è diocesi solo dal 1068] e, forse, Sepino e Morcone) [111] appartengono a Benevento e sono nella "provincia beneventana".

 

E, se già è importante il fatto che

 

“IN SAMNIO: Metrop. Beneventum hos habet Suffraganeos Episcopos: Telesinum. S. Hagathae. Alifen. Montis Maran. Montis Corvin. AveLlin. Vicanum. Frequentin, Arianen. Bibinen. Asculen. Licerinum. Tortibulen. Draconar, Wlturar. Alarin. Civitaten. Termulen. Toccien. Trivinen. Bivinen. Guardien. Morcon. et Musanen." [112],

 

ancor più importante è il fatto che, a parte quei possibili aggiustamenti, se non a vera e propria ‘cancellazione’ con conseguente sostituzione, dovuti a probabile esigenza di parte ‘latina’ [i sospetti sorgono:

1) per la presenza della diocesi “Guardien.”, che, Guardialfiera, venne istituita nel 1068;

2) per le differenze -l’elenco porta Toccien. e Morcon. al posto di Fiorentini e Lesene - con i 24 suffraganei della porta di bronzo della Cattedrale di Benevento [113];

3) per lo ‘strano’ accostamento di Morcone, che fu diocesi assai antica di osservanza greco-bizantina, con Limosano], l’elenco, riferito a situazione ecclesiastica “de’ secoli XI e XII”, sembra essere, più che una situazione ‘statica’ di tale epoca, una ricostruzione storica ‘dinamica’ da riferire a periodi precedenti, di lunga durata e piuttosto conclusiva.

 

Tutto ciò, ben combinabile, e combinato, con l’ipotesi della larga diffusione del rito greco-bizantino nella ‘provincia’ beneventana, emerge anche da quanto scrive il citato Borgia, che, nelle parti essenziali, seppur lunghe e prolisse, si è costretti a riportare. “Diciamo ora qualche cosa dei due Vescovi di Avellino e di S. Agata rappresentati ne’ quadrati laterali allo stesso modo che figurati si veggono anche gl’altri XXII Suffraganei ripartiti per altrettanti quadrati, che sono dalla parte destra

 

 

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(nota: da dove mancano quelli molisani) nell’ingresso della porta dopo i suddetti due Vescovi quei di Montis Marani, Wlturariensis, Frequenti, Ariani, Ausculi, Bivini, Lucerie, Fiorentini, Tortibuli, Vici; e dalla sinistra (nota: con tutti quelli molisani) i Vescovi Montis Orvini, Alarini, Limosani, Telesie, Lesene, Alipi, Boiani, Treventi, Guardie, Draconarie, Civitatis, Termuli. Vuol qui osservarsi l’atto in cui questi XXIV benedicono, e il pallio del quale tutti sono ornati. E quanto all’atto di benedire, questo è quello che comunemente si dice benedizione alla greca, cioè tenendo ritti i diti ultimo, o sia dito mignolo, il medio, e l’indice, e piegando l’anulare, ed il pollice unendogli, e sovrapponendogli insieme quasi in forma di croce. In questo medesimo atteggiamento di benedire alla greca si vede dipinto l’Abbate di S. Sofia di Benevento nella Cronica di questo Monistero, part. 4 et 5 compilata nel secolo XII. [...]. Il pallio poi è simile a quello, che porta il Metropolitano, se non che l’artefice non vi ha posto in veduta l’aco innanzi il petto dell’Arcivescovo; e quanto alle croci si veggono formate di una maniera più sottile di quelle che sono nel Pallio dell’Arcivescovo, e non si osservano che ne’ Pallj de’ Vescovi di Avellino, di S. Agata, di Wlturara, di Frigento, e di Lucerà, giacché i pallj degl’altri XIX Vescovi privi sono di questo sacro ornamento. Dal pallio, e dalla maniera di benedire questi Vescovi Pompeo Samelli, Memor. Cronolog. de’ Vesc. ed Arciv. di Benev. pag. 107 congetturò, che in que’ tempi nella Chiesa Beneventana si osservasse il rito greco, riferendo l’uso del pallio ne’ Vescovi Suffraganei di questa Chiesa a quella generai concessione, che ne fecero i Patriarchi di Costantinopoli a tutti i Vescovi dopoché, siccome scrive il Baronio, an. 934, $ I, Alberico Tiranno di Roma costrinse Papa Giovanni XI [931-935], che esso teneva ristretto, a concedere a Teofilatto Eunuco Patriarca di Costantinopoli, ed a’ suoi successori, che senz’altro permesso de’ Romani Pontefici potessero adoperare il pallio. [...]. Lodovico Tommasini, Vet. et Nov. Eccles. discipl. Part. I, lib. I, cap. 43, num. 12, anch’esso ripete da’ Greci la frequenza de’ Vescovati, e degli Arcivescovati, che sono nel Reame di Napoli, scrivendo:

 

Obiter hic advertas inusitatam illam Metropoleon, et Episcopatuum multitudinem in Regno nunc Neapolitano, magna ex parte profectam esse ab illa Graecorum aemulatione, qua certabant totidem quasi vinculis opulentas has Porentissimasque tum Civitates, tum Provincias Ecclesiae suae, imperioque arelius astrinqere.

 

Che i Patriarchi di Costantinopoli col favore de’ Greci Augusti tentassero alcuna volta di occupare de’ Vescovati soggetti al Romano Pontefice ..., veggasi nella storia della Legazione di Liutprando di Cremona all’Imperatore Niceforo Foca, ... [...].

 

Abbiamo ... osservato che sul cadere del secolo IX i Greci impadronitisi del Principato Beneventano vi signoreggiarono per alcuni anni, e che Pandolfo Capodiferro, e Landolfo III suo fratello professarono obbedienza al Greco Augusto finché nell’anno 967 tornarono a riconoscere per loro Sovrano l’Imperatore Ottone I il Grande. Potrebbe dunque dirsi che per queste occasioni i Vescovi delle XXIV Chiese notate nella porta di bronzo (nota: quindi erano diocesi! da molti anni!) ottenessero dal Patriarca di Costantinopoli l’uso del pallio,. [...]. E sebbene a ciò si opponga che non tutte le XXIV Chiese notate nella porta di bronzo sussistevano in que’ tempi, perché alcune di esse furono erette dopo l’istituzione dell’Arcivescovato (nota: che, anche se già da tempo Benevento era sede preminente, avvenne nel 969, in epoca, quindi, coeva al principato del nominato Capodiferro), e per conseguenza in tempo, in cui in queste contrade non avevano più alcun diritto i Greci; ad ogni modo non sarebbe fùor di proposito il credere che il Papa per conto di queste Chiese concedesse ai Vescovi delle medesime l'uso del pallio, affinché essi non fossero nella stessa prerogativa d’inferiore condizione agi’altri Vescovi privilegiati dal Patriarcha di Costantinopoli.

 

 

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Fin qui abbiamo riferita e convalidata ancora l’opinione del Samelli” [114].

 

Molti potrebbero essere le considerazioni ed i commenti, se non fosse che le esigenze del presente lavoro non lo permettono.

 

E, per forza di cose, si è costretti a lasciarle alla riflessione del buon lettore. Non è, però, possibile non segnare che, ai fini di una ricostruzione storica che non sappia di superficialità, è necessario procedere alla “identificazione, verso la metà del X secolo (nota: ma il riferimento temporale può e deve essere spostato in avanti di qualche secolo), del territorio diocesano beneventano (nota: che va ricompreso nell’area soggetta alla giurisdizione della organizzazione ecclesiastica bizantina [115]) con quello politico del principato espressa chiaramente in una lettera di Agapito II del marzo 947” [116], che, combinato con l’accertata presenza ad Otranto (così come anche altrove), in periodo precedente la seconda bizantinizzazione, di un "vescovo iconoclasta” [117], dovrebbe indurre a dare uno sguardo sia al problema del rapporto difficile, quando non fatto di vere e proprie contrapposizioni con scontri, tra le gerarchie greco-orientali e quelle ‘romane’ sul territorio dell’Italia centro-meridionale, nel quale le prime avevano sicuramente larga diffusione, e sia all’altro, non meno importante, della quantificazione, proiettata nel lungo periodo, di tali gerarchie. Ricollegabile ad entrambi è, da ultimo, anche quello del come furono vissute nello specifico di tale territorio le dispute relative alle tematiche dottrinali e teologiche (oltre ai tanti scismi, provocati dai contrasti ai vertici, e non solo).

 

Atteso che:

 

 1) Trivento e Termoli, diocesi entrambe ai margini più settentrionali della “provincia beneventana", situavano, come ha ben sotenuto il Klewitz (seguito dal Pratesi) [118], insieme alle altre suffraganee, i cui titolari benedicevano “alla greca", in area bizantina;

 2) è possibile collegare una tale situazione conclusiva (che vede i suffraganei di Benevento tutti con paramenti e con atto liturgico bizantini) con quella che si era formata subito dopo la riconquista giustinianea, quando “i Greci,..., per aver seguaci de ‘ loro errori innalzarono delle nuove sedi (vescovili).; e che poi i Romani Pontefici istituissero qualche nuova Sede, e molte ne ristabilissero" [119];

 3) residualità specifiche di culto e di rito greci (molto probabilmente nella forma della liturgia ‘Benevento’), che ne provano la lunga durata, almeno per la diocesi di Limosano sono documentate dalle testimonianze oculari del ‘Frocessus‘, [120] (primo decennio del XIV secolo), che attestano l’esistenza “in dicta Ecclesia sancte marie de limosano insignia episcopalia videlicet sediam episcopalem mitram Baculum etpastoralem [= nella predetta Chiesa di S. Maria di Limosano le insegne vescovili, e specialmente la sedia episcopale, la mitra, il Bacolo e il pastorale]”(f. 184v) e “mitram unam cronas duas arocnetas et duas sedes quarum una est de ligno et alia fuit lapidea [una mitra, due ‘cronas arochetas’ e due sedie delle quali una è di legno e l’altra di pietra]”(f. 190r) [121]; atteso tutto ciò, non sembra possibile non concludere che le diocesi molisane e, con esse, il clero secolare hanno, sin dal VI secolo, subito l’influenza della cultura e della ritualità liturgica greco-bizantine.

 

Ma, se tale era la situazione delle istituzioni del clero secolare, quale, per esigenza di completezza, quella delle strutture monastiche? Una influenza ‘greca’, certamente di forte significato (e l’episodio suggerirebbe di guardare anche alla complessa rete delle relazioni e dei rapporti tra il monachesimo ‘occidentale’ e quello ‘orientale’), è provata dal fatto che l’Abate del Volturno, Giovanni, nel 998 “... donò a D. Giacomo Monaco, e Abbate de genere Graecorum la foresta di Ferosili, per fondarvi un Monistero (poi detto S. Pietro di Foresta) ma con legge,

 

 

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che

 

ipsum Monasterium de vestris Graecis Monachis sit amodo, et usque in sempiternum; quicumque exinde hanc regulam, quod dicitur, Atticam, in Latinam convertere voluerit, maledictus, et excommunicatus fiat” [122].

 

L’esistenza di motivazioni utili a riferire alla cultura bizantina il territorio molisano dipendente politicamente dal principato longobardo di Capua, oltre che il problema della coesistenza e degli evidenti rapporti, religiosi e culturali, del monastero voltumense con strutture ed elementi monastici “de genere Graecorum", impone qualche domanda. Fu quello documentato un caso isolato? Se, come, nonostante la mancanza di documenti, sembrerebbe probabile, tale non fu, quale consistenza ebbe il fenomeno dei “monachi de genere Graecorum"? Non è che, pur in modo autonomo, più spontaneo e non collegato alle strutture del monachesimo occidentale, esso fosse ampiamente diffuso anche nella "provincia beneventana"? Ed, infine, quale fu l’arco di tempo, cui poterlo riferire?

 

Per il fatto che, se già appare insidioso individuare, sia per la dimensione temporale che per quella spaziale, la collocazione originaria dei primi siti cenobitici, ancor “più difficile riesce quantificare il fenomeno eremitico, di per sé più sfuggente, soprattutto in un periodo di scarsa produzione letteraria e documentaria” [123], risulta affatto semplice, allo stato delle ricerche, rispondere a tali problematiche in maniera quanto meno approssimativa, se non partendo, come pure è stato tentato da qualcuno [124], da alcuni elementi, per così dire, indiretti (posizione, toponomastica, particolarità della titolazione a santi più o meno ‘orientali’ ed ‘antichi’, aggregabilità e riconducibilità dei siti al controllo dell’egumeno e/o dell’ archimandrita, presenza di tali figure, ecc.). Ma questo dovrà essere oggetto di altro lavoro o di lavoro di altri. Qui, atteso che come mostra la ricerca più recente, il fenomeno fu di assai lunga durata e sempre molto diffuso [125] sul territorio, ci si dovrà, per forza di cose e per esigenza di spazio, soffermare solamente su qualche caso.

 

Al riguardo, una delle strutture del fenomeno monastico, che, per i fatti poco chiari che sono ad esso riconducibili, pone non pochi interrogativi (su qualcuno dei quali occorre dedicare attenzione), è il cenobio di S. Illuminata.

 

Nonostante sarebbe da riflettere su qualche circostanza che definire particolare è poco (una per tutte: il cenobio, che figura nella porta di bronzo di quel monastero fusa notoriamente a Costantinopoli già prima del 1071, doveva sicuramente appartenere da diverso tempo a Montecassino), nel giugno 1109 [126] (e l’anno dopo troviamo Gregorio, in precedenza 'monacus' cassinense, essere vescovo di Limosano) avveniva che

 

"Iohannes Triventine sedis episcopus unacum Robberto filio Tristayni Limessani castri domino optulit huic loco ecclesiam sancte Illuminate infra fines predicti castri Limessani loco, ubi dicitur Petra maiore, cum omnibus ecclesiis et pertinendis suis pena indicta centum librarum auri id removere querentibus".

 

Ma, come il cronista si premura di aggiungere, il fatto più importante è che

 

notandum plane videtur nequitiam et fraudulentiam Alferii Triventinensis episcopi hoc in loco inserere. Hic enim dum prepositus in eadem beate Illuminate ecclesia esset, sciens supradictam ecclesiam monasterio sancti Eustasii ab ipso sue constructionis exordio subditam et a Beneventanis principibus in eodem loco concessam simulque cupiens eam a dicione eiusdem monasterii subducere accessit ad prepositum, qui tunc monasterio preerat, eumque rogare suppliciter cepit, ut sibi cartas eiusdem loci ostenderet, dicens sue hereditatis cartas ibidem esse repositas, orare, ut sibi illas exinde auferre permitteret, ne forte temporis vetustate perirent. Prepositus autem nullum in verbis eius dolum existimans dat ei et perquirendi et asportandi licentiam.

 

 

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Tandem igitur inter reliquas preceptum a Beneventanis principibus de ecclesie sancte Illuminate monasterio beati Eustasii factum invenit, quod videlicet lucide satis et aperte continebat, qualiter ecclesia illa a sue constructionis principio monasterio beati Eustasii a Beneventanis principibus tradita fuerat. Huius ille ductus invidia et iniqua debriatus vesania rapuit, abscondit et ad domum propriam reversus illud minutatim incidit. Hec ita acta fuisse ego ex ore Alberti huius nostri cenobii monachi ultimam fere iam elatem agentis audivi, ne quis hoc existimet mendose descriptum" [127].

 

A parte la possibilità di collegare l’intervento, doloso e fraudolento, di Alferio (che sarà poi ricompensato con la nomina a vescovo di Trivento dal 1084) alla riaffermazione, allora in atto, della ritualità romana sul cenobio dedicato proprio a quella S. Illuminata, che altro non è che la trasposizione in latino della greca S. ‘Fotina’, la cui “passio dall’Oriente venne a Montecassino verso il sec. Vili o IX: e in questo protocenobio nasceva circa il IX o X sec. la leggenda di S. Illuminata” [128] (tutto questo e il particolare posizionamento su ‘pescli - ne sono state individuate almeno uattro [S. Silvestro, S. Martino, S. Vittorino e, appunto, S. Illuminata] nel solo agro i Limosano - di molte strutture eremitiche, anacoretiche e/o cenobitiche provano l'antichissima origine e l'ampia diffusione del monachesimo basiliano); a parte l’esordio di Trivento sullo scacchiere politico-religioso; a parte i fatti collocabili, nel tempo, all’XI secolo; a parte queste e le molte altre possibili considerazioni, è sui significati, politici e non, del "preceptum a Beneventanis principibus de ecclesie sancte Illuminate monasterio beati Eustasii factum", proprio nel momento (966) in cui, nella contea di Parnasia, viene iniziata la costruzione ai quest’ultimo, che occorre dedicare un minimo di attenzione.

 

Perché, d’altronde, il cenobio di S. Illuminata (che, peraltro, dispone di numerose chiese e di diverse pertinenze e, probabilmente, è di antichissima origine) viene dai principi di Benevento assoggettato a S. Eustasio, monastero che, costruito negli anni sessanta del X secolo [129], situava nell’ambito territoriale della contea di Parnasia? La risposta è da individuare nelle intenzioni da parte del principato di mantenere, in quel momento e nel segno della continuità con le aree ad influenza bizantina, come potevano essere sia il Gargano e sia la Capitanata per le quali è ampiamente dimostrata [130] la diffusa presenza di strutture “de genere Graecorum" e come era la stessa contea di Parnasia nel cui ambito territoriale è leggibile una forte toponomastica greco-bizantina e per la quale il dato archeologico viene sempre più evidenziando repertazione di monete imperiali [131], i collegamenti ed il controllo sulle strutture religiose ed amministrativo-politiche di aree diverse.

 

E ciò in contrapposizione anche con le aspirazioni che viene a manifestare l’occidente. Si tentava, in altre parole, di mantenere collegato l’ambito territoriale del medio Biferno (con l’insediamento di ‘Musane’, che sulle ceneri di una “antica città destrutta" è emerso da appena qualche secolo per opera di quella "nobile famiglia dePantasij", da cui “a relazion del Vipera ripete Limosano i suoi principi), verso il quale con sempre maggiore insistenza si stanno appuntando gli interessi occidentali, alle più sicure strutture della tradizione orientale, greco-bizantina e longobarda e di tenerlo unito a quest’ultima.

 

Se, prima della seconda bizantinizzazione, era possibile che a Montecassino, del cui monastero ne vengono riportati abitudini e costumanze, nell’856 ancora "cantavano Terza, indi la Messa «venite Benedicti», con canto Gregoriano, in Greco, e in Latino" [132]; se risulta documentabile, come è stato già visto, che nella ‘Longobardia ’ si continuava ad ordinare “preti greci" ancora nei primi decenni del IX secolo;

 

 

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se, tra i tanti ‘segni’ (che qui, dovendosi limitare al solo ragionamento storico, non è possibile dettagliare), la lettura del dato architettonico, assai indicativo perché dimostra la diffusa presenza della cultura, evidenzia che successivamente, come nel caso della chiesa ‘romanica’ di S. Giorgio a Petrella, è stato costruito su elementi bizantini preesistenti; dovendo tenere tutti questi fattori per veri, ne deriva la necessità di dare uno sguardo alle tracce lasciate dall'arte. Si diceva della contemporaneità (tra la fine del VII e i primi anni dell’VIII secolo) di fondazione, su committenza longobarda, dei monasteri (con i quali si riusciva bene a stabilire un controllo ampio sul territorio) di S. Maria in Castanieto vicino Piniano [133] e di S. Angelo in Altissimo (o anche “in Altissimis”) nel “galo biferno[134] con il complesso di S. Vincenzo "adfontes Volturni".

 

Del tutto scomparse le prime due strutture monastiche (delle quali la prima sembra essere stata collegata, pur se in maniera contrastata, proprio a S. Vincenzo, mentre la seconda risulta dipendere dal monastero di S. Sofia di Benevento sempre e per diversi secoli), l’analisi artistica degli affreschi del terzo complesso monasteriale (ed, in particolar modo, della “cripta di Epifanio”) ha evidenziato, pur nonostante "dai postulati bizantini del Bertaux, a quelli carolingi romani e orientali del Toesca, a quelli esclusivamente carolingi del Van Marie e dell’Oertel si è giunti ai postulati siriaci del Francovich; tesi quest'ultima accettata in pieno dal Bologna, il quale peraltro considera Benevento il centro di diffusione di questo stile peculiare, anteponendo al testo, fornito dalla cripta, gli affreschi della Santa Sofia di tale città” [135], l'innegabile esistenza di forti influenze bizantine nella loro realizzazione [136] (IX secolo). La possibile collegabilità di quegli affreschi sia con quanto rimane delle evidenze artistiche della stessa S. Sofia (metà dell’VIII secolo) e sia con gli affreschi della cripta del Duomo di Benevento fanno pensare, per l’intero ‘ducatus’, ad una koiné comune della cultura, delle realizzazioni artistiche e delle espressioni della ritualità cultuale e religiosa [137]. Non solo; ma la contemporaneità della fondazione dei tre monasteri molisani potrebbe far pensare che anche nelle due strutture monasteriali scomparse (Castagneto e S. Angelo), e, con esse, se non su tutto, almeno su una parte assai consistente del territorio longobardo, dai documenti indicato ancora come il ‘Samnium’, erano, come al Volturno, presenti forme e produzioni artistiche riconducibili alle influenze ed alle maestranze orientali. E tutto questo dopo pochi anni (se non proprio mentre) dalla conversione alla religiosità degli ‘autoctoni’ (che in realtà è una accettazione, lunga nel tempo e più o meno interessata, di forme espressive mediante interscambi dei rispettivi patrimoni di culture e di religione).

 

Il ‘continuum’, spaziale e temporale, di tali espressività artistiche, utili, così come le residualità musicali (‘tracce’ di musica greco -bizantina risultano documentabili nel fatto assai significativo che “il canto, cioè la tradizione orale, che è rimasta la più fedele al passato, ... è rimasto vivo circa fino a metà dell’VIII secolo: la messa dei Dodici Fratelli, creata verso il 760, risale all’acquisizione e alla traslazione delle loro reliquie a Santa Sofia”), alla individuazione degli elementi necessari per una ricostruzione, pur incompleta e sommaria, dell’atmosfera culturale, è possibile coglierlo nel fatto che, all’incirca dopo mezzo secolo dalla fondazione di quei tre monasteri, il duca Arechi

 

intra moenia Beneventi templum Domino opulentissimum ac decentissimum condidit, quod Graeco vocabulo □□□□□□□□□ idest sanctam sapientiam nominavit" [138].

 

Tempio che sarebbe "stato costruito ad imitazione dell'omonimo di Costantinopoli. Il Gregorovius afferma pure che

 

«il nome dato da Arechi al Monastero lascia pensare a relazioni ed intelligenze bizantine, e la stessa costruzione della cupola sembra accennare a Bisanzio»" [139].

 

 

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E, indubbia prova di una cultura greca di lunga durata, tutto ciò proprio quando si era al culmine della lotta iconoclasta e gli ambienti fisici erano stracolmi di personaggi orientali e di ellenicità. Tanto è vero che “in questo tempo erano moltissimi Greci in Benevento, e così insolenti, che pretendevano non poter' essere scomunicati, che dal Patriarca di Costantinopoli; onde Papa Giovanni nel privilegio della conferma, intimando la scomunica, replica: sive Graecus, seù quicumque alter homo; perciocché i Longobardi levarono a’ Greci il dominio; ma non discacciarono i Greci cittadini, né impedirono le loro usanze, mentre fra’ barbari alla Greca pure vissero, come si vede dalle statue quasi tutte palliate, e da’ riti grecanici nella stessa Chiesa fin qualche secolo dopo il millesimo,.” [140].

 

E che tale presenza, nella composizione demografica, non sia esclusività della sola Benevento, ma, al contrario, fosse assai diffusa sul territorio della intera ‘provincia’ e, soprattutto, che venisse, nel tempo, da molto lontano, ben lo si desume dal fatto che, nel 787 “tutti i Vescovi del Principato di Arechi <sono> co’ bacoli pastorali, ...” [141], strumenti tipici, come si è visto e come si è trovato anche a ‘Musane’, del rito greco o, anche e meglio, a questo punto, del rito ‘beneventano’, che, nonostante le correzioni di epoca carolingia miranti a farlo rientrare nell’orbita di Roma, fu lungamente, e largamente, diffuso nell’intera area della “Langobardia minore".

 

E, se il tipo di ritualità ‘beneventana’ nella liturgia fu, come è stato dimostrato, preesistente all’arrivo stesso dei longobardi, bisogna proprio concludere che la cultura greca, con tutto quanto (religione, pensiero, atteggiamento, produzione artistica, ecc.) ad essa riconducibile, fu per il Samnium e, parte di esso, per l’intero territorio molisano l’ambiente di fondo, sul quale, formatosi sin dalla lunga prima bizantinizzazione [142], ha camminato per i secoli dell’intero arco dell’alto medioevo il progredire storico.

 

Lasciando, nonostante le successive cancellazioni dovute più alla premeditata volontà che all’incuria del tempo, piccole tracce. Come quella residualità di benedizione alla greca rinvenuta a S. Maria di Canneto [143] (area della provincia beneventana soggetta all’influenza monastica cassinese), la cui struttura, in ambito territoriale triventino, situava lungo il possibile confine settentrionale dell’area longobarda. Oppure come l’immagine di Madonna “Odighitria” in Isernia [144] (area vescovile dipendente da Capua), la cui datazione, allo stato incerta, ben potrebbe essere collocata all’VIII secolo per i motivi riconducibili all’iconoclasmo.

 

Un segno, ulteriore e non cancellato, di tale antica cultura è rappresentato da una “effigie del Vescovo scolpita di rilievo"’ pervenutaci (v. foto) da quel passato.

 

L’espediente, tipico dell’arte bizantina, della postura frontale; l’importanza del personaggio riprodotto, indiscutibilmente un ‘ episcopus’ ; il posizionamento, espressione di una precisa ritualità, delle mani con la forma, assai allungata, delle dita; il complesso stesso dell’opera scultorea (con tutti gli interrogativi che potrebbero derivare dalla parte superiore presumibilmente capovolta) e, più ancora, i paramenti indossati (la ‘dalmatica’, veste ampia e senza cintura, consistente in una tunica a forma di croce con una apertura orizzontale per il collo e due strisce verticali, e maggiormente il ‘pallium’, mantello derivato dall’ himation greco, drappeggiato in maniera libera e, finemente impreziosito, tenuto da un fibione seminascosto dalle mani) sembrano tutti elementi che, insieme al tipo di materiale, molto arcaico, dal quale è stato ricavato, inducono a collocare, come è stato confermato anche da esperti,

 

 

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tra il VII ed il IX secolo la datazione della scultura, ancora esistente, ma evidentemente ricollocata (se non anche riassemblata), all’esterno del muro posteriore (lato ovest) della chiesa (quasi certamente costruita su una struttura preesistente e, forse, dedicata in precedenza a Sancto Johanne et Paulo [v. nota 118-c]) di S. Francesco di Limosano.

 

 

Solo un tale particolare riesce a spiegare il fatto, a dir poco assai singolare, che

 

"nell ‘Inventario de beni dell ‘insigne Convento de Minori Conventuali di san Francesco di questa sudetta antica Città de li=Musani, formato dalla Corte locale d'ordine Regio l'anno 1724, si fa menzione, e si rapportano in quella Chiesa, la Sepoltura de Vescovi di li=Musani, ed i loro Cappelli, al numero ai tre, appesi nel cielo della Chiesa, come anche l'effigie del Vescovo scolpita di rilievo in marmo sopra l’arco dell'altare maggiore, che oggigiorno si vede[145].

 

Tutto ciò nella chiesa annessa a quel Convento, la cui costruzione era stata autorizzata, da Avignone, con la bolla "Sacrae religionis vestrae merita" di papa Clemente V, dei frati conventuali di S. Francesco, del quale, ancora nel 1722, il Pater Franciscus de Amico era il “Custos, Guardianus Archimatrita et Prior".

 

 

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Sembrerebbe proprio, con quella tomba di vescovi (diversi vescovi, quindi, e non un vescovo solo) in un convento di frati francescani, che ci siano delle cose che non quadrano. A meno chè l'effigie del Vescovo scolpita di rilievo non provenga da una preesistente ‘cattedrale’ di rito greco-bizantino. Cosi come, e per tutti i secoli dell’alto medioevo, dovettero essere le altre diocesi molisane, i cui vescovi benedicevano "alla greca" e portavano il pallium del rito greco di tipo ‘benevento’.

 

Già il D’Amico, identificandolo con Castropignano (ma, in mancanza di precisa documentazione, le confusioni sono sempre possibili) poteva indicare, relativamente alle influenze bulgare, che “un fortilizio sul Biferno fu la sede vescovile del proprio rito" [146]. E, relativamente a Jelsi, aggiungeva che “non mancano fortunatamente resti di fabbriche e di manufatti. L’ex cappella dell’Annunziata presenta nel suo prospetto incastrata lateralmente alla porta gotica due finestre di calcare a croce bizantina, cui la patina indica vetustissime. Essa fu certo innanzi alla costruzione della Chiesa Madrice, il tempio primo cristiano dedicato a S. Andrea (nota: devozione tipicamente di derivazione orientale ed assai diffusa nella toponomastica molisana; nell’agro di Ferrara, al confine tra i territori di Limosano e di Lucito, vi è "lapiana di S. Andrea") con rito costantinopolitano.

 

Fra le rovine della chiesetta già extra moenia di S. Biagio è stata recuperata mutila una croce bizantina di pietra con rilievi di rozza fattura. Da muro di casa dell’antico Burghetto Fontana vennero fuori monete bizantine del sec. VIII” [147].

 

Nel centro storico della stessa Campobasso vi era, e tuttora vi mantiene la presenza con l’indicazione di ‘vicolo’, la Via S. Andrea, il cui nome “può essere un ricordo della venuta dei Bulgari a Campobasso. «Questo agglomerato, che fu detto Borgo di S. Andrea, dal nome del Santo, prediletto dai Bulgari, e che è tuttora indicato dal nome di una strada e di alcuni vicoli»” [148].

 

Ed, inoltre e sempre a Campobasso, "riferendosi all’anno 1310 l’Arciprete Nicola Tarantino ha scritto che la Chiesa di S. Bartolomeo «non è altro che una Parrocchia dei Basiliani Greci, ceduta ai Cavalieri di Malta». [...]. La Chiesa è più antica del 1371 e forse anteriore al sec. XIII” [149].

 

Limosano (Campobasso), 11 Novembre 2004

 

 


 

 

1. FLORO, Epitome, I, 16. “Ita ruinas ipsas urbium diruit, ut hodie Samnium in ipso Samnio non requiratur”. Anche “Strabone, autore dei tardo I sec. a.C, fu colpito dalla crisi del Samnium causata dalle devastazioni sillane: erano scomparse tutte le tracce della cultura sannitica (VI. 1.2), molte città erano state interamente rase al suolo, mentre quasi tutte le altre, compresa Bovianum, erano ridotte a villaggi (V.4.11). A lungo si è ritenuto che Strabone esagerasse nel descrivere il declino degli insediamenti, tuttavia e da riconoscere che dopo Siila ci sono difficoltà demografiche ed economiche anche pesanti" (BARKER G., op. cit. in nota seguente, pag. 234, nota 2). Assai indicativa del profondo cambiamento, non meno che famosa, è la frase di Strabone, che (Geografia, V.9.2) scriveva:

 

Itaque per vicos factae fuerunt civitates, aliquae vero radicitus exstintae,.... et aliae quarum ne unam quidam pro digitate censueris civitatem".

 

2. BARKER G., A Mediterranean Volley Landscape Archeology and Annales History in the Biferno Volley, London 1995; traduzione italiana a cura di DE BENEDITT1S G., col titolo “La Valle del Biferno”, Campobasso 2001. La permanente crisi demografica farà che "dal II sec. d.C. molti piccoli siti sparsi furono abbandonati; questo processo continué anche nel III sec., quando nei santuari rurali compaiono gli ultimi segni di attività” (ivi, pag. 273).

 

 

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3. Quanto agli effetti, lungo il Biferno, delle alluvioni, si riporta, a puro titolo di esempio, quanto trascritto dal Borsella (BORSELLA M., Castropignano ed il suo governo feudale, Campobasso 1903, pag. 107 e segg.):

 

“[...] A 20 settembre di quest’anno 1811, per una soprabbondante pioggia, caduta nel Matese, la quale ha cominciato verso le ore 22, ed ha seguitato insino alla mezzanotte, questo fiume (= il Biferno) è cresciuto, ed innondato di maniera da non credersi affatto, alle ore cinque della notte si è sentito in aria un grandissimo rumore.

 

Nella città di Boiano per dove passa uno dei tre piccoli fiumi, e macina un Molino, ed anima un valcaturo, è inondato questo fiume piccolo, che ha empiuta una grande quantità di case, ed ha cacciato fuori tutti i mobili che vi erano: casse, baulli, letti, utensili di cucina, e quanto vi era, ed ha riempito le case di avena (ma dovrebbe forse essere arena). La gente spaventata dallo strepito delle acque, ed assediata dalla inondazione è uscita fuori, e perciò niuno è morto affogato.

 

Il molino di Baranello scoperto, ed arenato, pure è in stato di potersi rimettere.

 

Al ponte de’ Casali Ciprani, a tre arcate ne ha portato via una.

 

Il molino de’ Casali, lo ha spiantato dalle fondamenta ed ha portato via ogni cosa.

 

Il molino di Rocca, o sia di Oratino, lo ha distrutto in tal maniera, che non si riconosce neppure il luogo dov’era situato, se non che per una viarella, che vi conduceva. Ha portato via tutto il materiale, pietre travi, tegole, tavole, marrani, tutto insomma, senza lasciarvi una cosella per segnale; anzi il boschetto ai pioppi ben grandi, e forti, che stava attorno, e dietro, lo ha spianato, e portato via, fuorché pochi, dove il fiume non ha potuto dilatarsi.

 

In questo molino vi esercitavano l’arte due di Castropignano cioè

1°. Antonio Cameli, di anni 44 marito di Cristina Calabrese,...

2°. Clemente figlio di Antonio di anni 7 (???), con altri molti di Baranello, e di Oratino al n. di 17, i quali avvertiti del pericolo, fidati alla superiorità delle stanze del molino, hanno ripugnato di uscire, e così tutti son periti.

 

La Fara di Castropignano, nei tempi antichi era tutta di S. Giacomo.ed in questo alluvione il fiume l’ha ricoperta tutta di pietre, ed ha spiantato, e portato via tutti gli alberi, che vi erano, fuorché uno, e l’ha ridotta inutile.

 

La cartiera in Castropignano è stata appianata al suolo, ed i cartari M. Antonio, la moglie, e altri al n. di 9 fidati alle stanze superiori, dove si erano ristretti, sono periti tutti.

Il molino di Castropignano scoperto, è pieno di arena, così pure il valcaturo, ma niuno è perito.

 

La taverna al ponte è stata appianata al suolo, ed appena si sono recuperate poche tegole.

 

La Chiesa di S. Giacomo abbattuta più della metà nelle mura. La facciata verso il fiume portata via in tutto dalle fondamenta, l’altare portato via per metà e la pietra sacra; non si trova la statua antica di S. Giacomo situata nella sua cona nella facciata dietro all’altare, e trasportata dalle acque insino a Portocannoni, ed ivi si è fermata nel mezzo di due albori, e dico che avendola voluta pigliare alcuni uomini, affatto non poterono muoverla, ma poi essendovi andato il popolo, ed il clero in processione, si fece con facilità trasportare,...

 

Il ponte di Limosano, forte, e magnifico, e costruito con tutta l’arte lo ha appianato al suolo, tutti i molini insino a Campomarino, i quali macinavano colle acque del Biferno, sono stati rovinati e distrutti: di Ferrara, ai Lucito. Lunedì 23 si ha notizia che Boiano è rovinato almeno per la metà in tutte quelle case che stavano nei luoghi bassi. Si sono trovati nei tenimenti di Casali Ciprani alcune caldaia ed altre cose di cucina, e si giudica che siano trasportate da Boiano.

 

In casa del signor Carrelli di Fossaceca si è trovata la seguente memoria notata in un libro

Nell’anno 1634. L’ultimo di settembre fioccò, e poi cominciò a piovere dalli 3 di ottobre e durò insino alti 9 di detto mese. Per le grandi piogge si guastarono i molini di Campobasso, di Montagano, di Ripa, e diroccarono tutte le muraglie dalle sedimenta. Diroccò il ponte di Castropignano: crepò in due parti, il ponte di Limosano, si guastò il molino della Petrella, e molti altri molini: fu carestia di pane, ed in alcune terre non si mangiò pane, ma solamente legumi. [...].”.

 

4. Risulta assai difficile alle nostre categorie critico-mentali, abituate alla grande velocità dei cambiamenti, accettare la lentezza quasi statica dei processi storici.

 

5. DE BENEDITTIS G., Repertorio delle iscrizioni latine - Fagifulae, Campobasso (?) 1997, pag. 30. Qualcuno, come il Violante, ha colto come nelle lettere di papa Gelasio, che scriveva quando era ancora completamente in piedi l’ordinamento amministrativo romano, non è da escludere l'equiparazione: diocesi = municipio; territorio diocesano = territorio municipale.

 

 

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6. Si vedano: BOZZA F., Limosano nella Storia, Ripalimosani (CB) 1999; BOZZA F., Limosano: Questioni di Storia, in corso di stampa; e, in preparazione, BOZZA F., L'antistoria nel medio Biferno.

 

7. II DI MEO (Annali del Regno di Napoli, ad annum 818) riferisce di

 

“una Bolla del S. Padre a Giosuè Abb. Del Volturno, rapportata in quella Cronica, <con cui> gli conferma i Monasteri, le Celle, e Chiese ... in Canneto, in Palene, al fiume Trinto (il Trigno?), in Musano, in Arole, in Planisi, in casale Piano; ... S. Marco in Anglona, S. Pietro in Trite, in Vipera (Gambatesa?), in Vairano,.... in Isernia,...”

 

8. DE BENEDITTIS G., Repertorio ... cit., pag. 30.

 

9. Già il GASDIA (Storia di Campobasso, Verona 1960, pag. 192) scriveva che “Il Lanzoni, ..., identifica Tifernum con Città di Castello, ma se questa città e la nostra sannita, dirò che essa ebbe due vescovi ...”. L'opera citata dal Gasdia è: LANZONI F., Le diocesi d'Italia dalle origini al principio del sec. VII (604), Faenza 1927.

 

10. AZZARA C, L'Italia dei barbari, Bologna 2002, pagg. 11 e seg., passim.

 

11. RUOTOLO N., Il Castaldato di Bojano distrutto dai Saraceni, in Samnium 1967, pag. 106.

 

12. BARKER G., La valle ... cit., pag. 276, passim. Il Barker riprende la notizia da PHARR C., The Theodosian Code. A translation with Commentary, Glossary and Bibliography, Princeton 1952.

 

13. FINK K.A., Chiesa e papato nel Medioevo, ed. italiana Bologna 2000, pag. 14, passim.

 

14. FALKENHAUSEN (Von) V., I Barbari in Italia nella storiografia bizantina, in Magistra Barbaritas, Milano 1984, pag. 305.

 

“A tale proposito, l'unica - o quasi unica - testimonianza che si suole citare è una profezia aggiunta post factum al Liber Heraclidis, un trattato di apologia teologica che Nestorio, l’eretico ex patriarca di Costantinopoli, scrisse nel 451... La pseudoprofezia prediceva come imminente la conquista vandala di Roma e precisava che, per l'occasione, papa Leone I, lo stesso che non aveva impedito la condanna di Nestorio, avrebbe dovuto consegnare ai barbari la suppellettile sacra e le principesse imperiali".

 

15. FALKENHAUSEN (Von) V., I Barbari ... cit., pag. 306.

 

16. AZZARA C., I Barbari ... cit., pag. 40.

 

17. FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti dei ceti dirigenti romani con Costantinopoli dalla fine del Valla fine del VI secolo, in Il mondo del diritto nell’epoca giustinianea, Ravenna 1984 (a cura di ARCHI G.G.), pag. 59 e segg., passim.

 

18. MORRA G., L'Alto Medioevo nel Molise, in AM 1982, pag. 132.

 

“I Goti giungono anche nel Sannio pentro. Qui si sistemano con le loro famiglie, con i servi e il bestiame. La cittadina di Ripabottoni trae il suo etimo da ‘Ripa Ghotorum’; il monte Totila, nel territorio di Sessano, ricorda l’acquartieramento di questi barbari che, mescolandosi col passar del tempo con gli indigeni, danno nome all'attuale comune di Pescolanciano; il monte La Teglia, in agro di Tavenna - nome che deriva da un antico villaggio non più esistente - ricorda, forse, l’ultimo dei re ostrogoti: Teia"

(RUOTOLO N., Il Gastaldato di Bojano distrutto dai Saraceni, in Samnium 1967, pag. 106 e seg.).

 

Cassiodoro (Variae, 3.13) da notizia, e la circostanza sembra assai importante per dimostrare proprio nel Sannio l'integrazione culturale tra diversi ceppi etnici e la dipendenza imperiale (di Costantinopoli) di tale ‘provincia’, del fatto che

 

“in Italia Teoderico aveva ordinato tra il 507 e il 511 al governatore del Sannio che le cause miste tra Barbari e Romani fossero definite secondo le leges imperiali, affinché i due popoli vivessero sotto un solo diritto”

(CORTESE E., Il processo longobardo tra romanità e germanesimo, Settimana CISAM 1994, Spoleto 1995).

 

19. AZZARA C., I Barbari ... cit., pag. 49, passim. Sembra più realistica, e, come tale, da preferire, la stima, prudenziale, di Azzara rispetto a quella del citato Morra, che (v. nota 17) parla

 

“dei 300 mila Goti che erano entrati in Italia, si calcola che fossero 70 mila quelli che si stabilirono nel Sud della penisola e a costoro, secondo il costume dell'hospitalitas già applicato nei confronti dei soldati di Odoacre, fu assegnato un terzo delle terre appartenenti ai possessores”.

 

20. AZZARA C, I Barbari ... cit., pag. 76.

 

21. PIETRI C., Le sénat, le peuple chrétien et les partis du cinque à Rome sous le pape Symmaque (498-514), in Mélanges d’arch. et d’hist. 78 (1966), pagg. 132-139.

 

 

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22. AZZARA C., I Barbari... cit., pag. 85.

 

23. AZZARA C., I Barbari... cit., pag. 86.

 

24. GUILLOU A., L'Italia bizantina, Bari (?) 1966, pag. 1. Vengono riportati ed analizzati dal Guillou anche i legami ed i rapporti di ‘sudditanza’ verso Costantinopoli da parte di vescovi italiani.

 

25. FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti... cit., pag. 83.

 

26. FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti ... cit., pag. 81. Dalle posizioni gote (che, quantomeno, non intaccavano l'aspetto dottrinale), per cui Teodorico aveva potuto 'usare' Giovanni I per ambascerìe all’imperatore e, non avendo ottenuto quanto si prefiggeva, incarcerarlo ed assassinarlo (526) e Teodato, marito di Amalasunta, aveva potuto imporre, ancora nel 536, come papa, Silverìo, sgradito a Costantinopoli, si era passati all’allineamento con la concezione imperiale.

 

27. FINK K. A., Chiesa e... cit., pag. 15 e seg. Relativamente alla condanna di papa Onorio I, il Fink aggiunge: “Nella fondamentale ricerca di G. Kreuzer sono stati trattati particolareggiatamente gli sforzi della storiografia curiale di minimizzare l’episodio fino alle epoche più recenti”. L’opera del Kreuzer, citata dal Fink, è: Die Honoriusfrage ini Mittelaller und in der Neuzeit, Stuttgart 1975.

 

28. MORRA G., L’Alto Medioevo... cit., pag. 133 e seg. Si noti come il passo riportato, oltre che la presenza e le diverse posizioni ‘politiche’ anche tra i goti stabilitisi nel territorio molisano, conferma da un lato l’importanza del fiume Biferno per ogni disegno delle geografie antiche dei Molise e, dall'altro, l'esistenza, alla sinistra e nelle immediate vicinanze di quel fiume in quanto deve situarsi in zona discretamente sicura (doveva, difatti, necessariamente essere già sotto il controllo bizantino) per il passaggio di Zenone, della '□□□□□□□□□□’ ricordata da Procopio (B.G., VI, v, 2), che ben può farsi coincidere (DE BENED1TTIS G., Appunti sulle fonti classiche relative alla viabilità romana nel Sannio, in AM 1988, II, pag: 13 e segg.) con la via, indicata nella Tabula Peutingeriana, che collegava Larinum a Bovianum.

 

Ed, oltre a ciò che non è proprio cosa di poco conto, sembra essere confermata anche la discreta presenza umana su quell’area.

 

29. Additamentum Marcellini Comitis, in M.G.H., XI, Berolini 1894, pag. 105.

 

“Giovanni, durarne, ... entrò nella regione dei Sanniti (si noti l’uso del plurale) e, dopo aver espugnato l’oppidum Aterno, sconfisse il capo dei Goti, Tremone. Similmente invade Ortona e, avendo depredato il Piceno (nota: nei documenti di questo periodo storico, assai spesso associato al Sannio), occupa Rimini".

 

La condizione di subalternità del papato al potere civile emerge dal fatto che, dopo un anno dalla elezione imposta dal goto Teodato, viene deposto papa Silverio (che era figlio di Papa Ormisda) e, nel 537, quando la situazione della guerra diventa favorevole ai Bizantini, viene imposto papa Vigilio dal basileus greco. E, da questo momento, si ha che la consacrazione di un papa, eletto come tutti gli altri vescovi dal popolo della civitas, è subordinata alla approvazione da parte di Costantinopoli.

 

30. Corre la notizia (impossibile, tuttavia, ad essere verificata direttamente) dell’avvenuto rinvenimento di tombe, nell’agro di Limosano (zona di Cascapera), con scheletrì di guerrieri, presumibilmente goti, alti tra i 190 ed i 200 centimetri.

 

31. DIEHL C., I grandi problemi della storia bizantina, Bari 1957 e MOSCATI S.G., Collectanea Bizantina, Bari 1970.

 

32. MORRA G.. L’Alto Medioevo... cit., pag. 136.

 

33. DI MEO, Annali... cit., XI, pag. 423.

 

34. FALKENHAUSEN (Von) V., I rapporti... cit., pag. 88.

 

35. GUILLOU A., L’Italia... cit., pag. 2 passim. “L'espressione normale dell’amministrazione bizantina in Italia è il reddito rimesso da questa provìncia al tesoro dello Stato ogni anno”. Inoltre “lo Stato bizantino non delegò mai i suoi diritti e riscosse sempre direttamente le sue tasse,...".

 

36. GUILLOU A., L’Italia... cit., pag. 3. Si veda il caso di papa Martino, il quale, "considerato ribelle alla volontà imperiale, è deportato e morirà nel Chersonese il 15 maggio 655, dopo essere stato condannato regolarmente a morte dai giudici del Boukoléòn per crimine politico” (ivi, pag. 4 e seg.).

 

 

48

 

37. DI MEO, Annali... cit., I, pag. 70.

 

38. MORRA G., L'Alto Medioevo... cit. pag. 136.

 

39. GUILLOU A., L’Italia... cit., pag. 6. Nella nota, che si riporta fedelmente per le indicazioni bibliografiche, il Guillou, il quale, da pag. 5 a pag. 9 del suo lavoro, tratta diffusamente delle testimonianze rimaste delle espressioni artistiche bizantine in Italia, riporta: “Cf.

·       E. BERTAUX, L’art dans l'Italie meridionale, Parigi 1903, pp. 99-103;

·       P. TOESCA, Reliquie d'arte della badia di S. Vincenzo al Volturno, in Bullettino Ist. stor. ital., 25. 1904, pp. 1-56 e

·       Storia dell’Arte italiana, I, Il Medioevo, I, Roma 1927, pp. 408-409;

·       GRABAR, Le Haut Moyen Age du quatrième au 12e siècle (Les Grands siècles de la peinture), Skira, s.d. (1957), pp. 29, 53-54,

hanno più o meno vigorosamente sottolineato le influenze orientali;

·       C. BRANDI, in Boll. Ist. centrale Restauro, 31-32,1957, pp. 93-96, tratta del problema della conservazione degli affreschi;

·       Maria BAROSSO, L'abbazia di S. Vincenzo martire alle fonti del Volturno, Palladio, 5, 1955, pp. 164-167,

ha cercato di definire la pianta del monumento che si trovava sopra la cappella di S. Lorenzo. Gli affreschi sono stati dipinti fra l’826 e l’843”. Cosa, quest’ultima, che dimostra l’influenza della cultura bizantina in un arco di tempo assai lungo e fatto di secoli.

 

40. V. nota 37. L’intervento di ‘bizantinizzazione’ anche nell’area riferibile all'ambito territoriale del medio Biferno sembra venir confermato dal fatto che “nel dialetto di Montagano, ..., si trovano mescolate a parole italiane, osche e latine, delle parole di pura lingua greca. Anche la parola 'aganos' che forma il secondo elemento di cui è composta la parola Montagano, è prettamente greca. Sarebbe adunque Montagano sorta durante la dominazione bizantina, che a Benevento precedette la dominazione longobarda”(GALLUPPI M., Montagano Baronia-Contea- Marchesato del Molise, Campobasso 1979 [opera postuma, completata ed a cura di DI MEO L.]).

 

41. DE ROSA G., La conquista longobarda nella storiografia della Restaurazione, in Questioni e problemi della dominazione longobarda in Italia, Napoli 1966, pp. 7-43.

 

42. DELOGU P., Il regno longobardo, in Storia d’Italia (diretta da GALASSO G.) I, Torino 1995, pag. 26. Sembrerebbe alquanto confusa la seguente ricostmzione di RUOTOLO N. (Il castaldato ... cit.) il quale, a pag. 108, scrive che,

 

“superato il tratto di terra che divide i Bizantini dal Ducato romano, i Longobardi discendono nell'Appennino e costituiscono il Ducato di Spoleto. Ma, mirando sempre al Sud, una forte schiera, con a capo Zottone, attraverso il territorio dei Marsi, s'immette nel tratturo che dal lago del Fucino conduce a Sulmona. A S. Pietro Avellana, invece di andare verso lsemia, Zottone preferisce (nota: è il percorso del tratturo) giungere al Biferno attraverso i territori di Vastogirardi, Carovilli, Agnone, Pietrabbondante; prima di attraversare il fiume pare che si sia fermato a Salectu, la odierna Salcito, e che poi per Morrone del Sannio e S. Elia, volgendo al Sud, sia giunto al passo di Vinchiaturo (nota: a meno di interessi di campanile, questo ritorno indietro sembra strano), indi, per la piana di Sepino, a Benevento".

 

43. JARNUT J., Storia dei Longobardi [trad. it. di Geschichte der Longobarden, Stuttgart 1982], Torino 1995, pag. 30.

 

44. “Longobardi, gens etiam Germana ferocitate ferocior (= I longobardi, anche gente germanica più feroce della stessa ferocità)" VELLEIO PATERCOLO, Historiae Romanae, II, c. 106). E, in precedenza, TACITO (Germania, c. 40) già aveva scritto che “Longobardos ipsa paucitas nobilitat (lo stesso piccolo quantitativo rende forti i Longobardi)".

 

45. JARNUT J., op... cit., pag. 34. L'avanzata longobarda verso il mezzogiorno, oltre che la ricostmzione delle posizioni contrastanti, che non poterono essere solo di qualche anno, nello scacchiere storico di quella fase, viene cosi riassunta e descritta da HIRSCH F. (Il Ducato di Benevento, Torino 1890 [trad. SCHIPA M.], ma si cita da HIRSCH F. - SCHIPA M., La Longobarda meridionale, Roma 1968 [a cura di Acocella N.]) :

 

“Più ostinata resistenza trovarono i conquistatori sul fianco orientale dell’Appennino, dove s'oppose ad essi Ravenna, come anche le città della Pentapoli, sbarrando la via verso la costa; mentre Perugia, prima conquistata anch’essa da' Longobardi, ma subito dopo nuovamente perduta, forniva a’ Greci, nell'interno del paese, la comunicazione ad occidente col territorio romano, il quale mantennesi del pari indipendente. Tuttavia, ciò non impedì l'ulteriore avanzarsi de’ Longobardi. Singole schiere di essi s'inoltrarono, incuranti delle città nemiche, cui lasciavansi a’ fianchi e alle spalle, nell’interno delle terre montuose dell’Appennino, verso il mezzogiorno della penisola, e vi posero pie saldo, e, fin dal tempo di re Alboino, vi fondarono i due ducati di Spoleto e di Benevento, l'ultimo probabilmente nell'anno 571" (pag. 7 e seg.).

 

 

49

 

Ma, come viene indicato all'inizio della lunga nota (la si veda per le indicazioni bibliografiche), siccome “le indicazioni dirette delle fonti sul principio del Ducato beneventano son tutte evidentemente false”, anche la precisa indicazione della data del 571 andrebbe presa con tutte le riserve e le cautele del caso. Vi è anche chi (BOGNETT1 G.P., Tradizione longobarda e politica bizantina nelle origini del ducato di Spoleto, in ID., L'età longobarda, III, Milano 1967, pp. 441-457) propone l’ipotesi, assai condivisibile, che i longobardi presenti a Benevento avrebbero fatto parte di quei contingenti di truppe che avevano militato nell’esercito bizantino contro i goti, che, dopo la definitiva sconfitta di questi nel 552, vennero insediati, come foederati, nel beneventano dal governatore bizantino Narsete e che, solo dopo i grandi successi longobardi nell'Italia settentrionale e la definitiva sconfitta del generale bizantino Baduario (576), avrebbero assunto, venendo in tal modo meno ai loro impegni di fidelitas, un atteggiamento ostile nei confronti dell’impero. Una tale ipotesi, m '' ed interessante, confermerebbe l’antico legame della matrice culturale (e tutto riconducibile) greca dei longobardi di Benevento con l’impero di Costantinopoli.

 

46. HIRSCH F., op... cit., pag. 8. Sembra possibile che i Longobardi iniziano r soggetto politico, per far fronte al movimentismo, finalizzato alla autonomia da Constantinopoli ed alla costituzione di una propria area di interesse, di Papa Gregorio Magno, se è vero che

 

“alla difesa, oltreché a’ bisogni ecclesiastici, dell'infelice paese, cerco provvedere, come potè, il nuovo Papa, eletto nel settembre 590; l'uomo, la cui energia contribuì, principalmente, nonostante la fiacchezza del governo greco, a mantener immuni dal longobardo dominio parte de’ possessi greci d’Italia,..." (pag. 11).

 

47. HIRSCH F., op... cit., pag. 14.

 

48. STAFFA A.R., Bizantini e Longobardi fra Abruzzo e Molise (secc. VI-VII), in AA.VV., I Beni Culturali nel Molise - Il Medioevo, Isernia 2004, pag. 228.

 

49. DE BENEDITTIS G., Il territorio di Roteilo dai Longobardi ai Normanni, in AA.VV., La Contea normanna di Loritello, Campobasso 2002, pag. 42. Il De Benedittis cita;

 

[a] Greg., Ep., il, 32, in MIGNE, PL LXXVII.

[b] Greg., Ep., Ili, 29, in MIGNE, PL LXXVII.

[c] Cfr. G. DE BENEDITTIS, "Considerazioni intorno alle valutazioni demograpche di Paolo Diacono sul Samnium", in AA.VV., Settlement and economy in Italy 1500 BC to AD 1500, Oxbown Monograph 41, Oxford 1995, pp. 331-337.

 

Si rende necessario aggiungere qualche precisazione: 1) siccome Sisinnio, di cui parla papa Gregorio, con ogni probabilità, è lo stesso Sisinnio Giudice, e Governatore del Sannio, quando fu invaso da Longobardi nel 569, che abbiamo incontrato, funzionario bizantino, nell'elenco “degli ufiziali greci,..., sott’i greci augusti", è da ritenere che l’intervento del pontefice mirasse, più che a “sopperire alle sue condizioni di estrema povertà”, alla estinzione di debiti fiscali e/o al versamento di somme dovute a Costantinopoli; 2) siccome l'unica fonte, oltre a Paolo Diacono, longobardo di Cividale nel Friuli della fine dell’VIII secolo ed a nessun altro, per le notizie di questo periodo è papa Gregorio e, perciò, con ogni evidenza di matrice ecclesiastico-romana, esse andrebbero prese (se non fosse per il fatto ehe il discorso sulle ‘cancellazioni’ diventa assai lungo e complicato) almeno con qualche riserva.

 

Diventa, così, assai più vera la circostanza per cui “la situazione del Sannio non appare molto dissimile da quella che si riscontra in tutto il meridione”.

 

50. AZZARA C, I Barbari ... cit., pag. 109 e seg.

 

51. HIRSCH F., op... cit., pag. 17.

 

Le influenze della cultura e dell'arte greca sono comprovate dal fatto che i reperii della necropoli longobarda di Benevento mostrano, con assoluta chiarezza ed evidenza, che l’oreficeria è bizantina e/o bizantineggiante (ROTILI M., La necropoli longobarda di Benevento, Napoli 1977, pag. 27 e seg.).

 

52. AZZARA C., I Barbari ... cit., pag. 104 e seg.

 

53. CILENTO N., Italia meridionale longobarda, Milano-Napoli 1971, pag. 55 e pag. 81.

 

54. PAOLO DIACONO, Historia Langobardorum, V, cap. 29.

 

 

50

 

“Il duca Romualdo ricevendoli (= i Bulgari) con un certo interesse, concesse loro per abitarvi delle ampie località, che fino a quel tempo furono deserte, e precisamente Sepino, Bojano ed Isernia ed altre ‘civitates ’ con i rispettivi territori ed iniziò a chiamare lo stesso Alzeco, cambiandogli il titolo nobiliare, gastaldo anziché duca".

 

Sui tempi lunghi necessari alle assimilazioni culturali, relativamente a questo stanziamento di Bulgari sui territori molisani, GAY J. (L'Italie méridionale et l’empire byzantin .... Roma 1904, pag. 590) registrava, riprendendo sempre dalla fonte di Paolo Diacono la notizia, che:

 

“après le VII siede, un chef bulgare, avec toute l’armée de son duché etant venu demander des terres aux Lombards, le duc Romuald avait établi ces emigrants dans les lieux deseris du pays des Samnites, à Sepino, Bojano, Isernia; et, plus de cent ans après, ces Bulgares du Samnium, bien qu’ils eussent appris a parier latin, n’avaient pas encore perdu l'usage de leur langue originelle”.

 

Il Gay, però, inspiegabilmente dimentica le “alias cum suis territoriis civitates".

 

55. DE BENEDITTIS G., Il territorio di Roteilo ... cit., pag. 43 e segg.

 

56. VITOLO G., Vescovi e diocesi, in Storia del Mezzogiorno, III, Napoli 1990, pp. 73-151. VITOLO G., San Vincenzo al Volturno e i vescovi, in AA.VV., San Vincenzo al Volturno dal Chronicon alla Storia, Isernia 1995. Riportiamo le indicazioni del Vitolo, anche se la mancanza di documentazione non può e non deve essere ragione per escludere da una sede la presenza della cattedra vescovile.

 

La diocesi di “Venafro è menzionata per la prima volta in una lettera di Gelasio I del 496, ma quasi certamente <era> più antica. [...]. Ricompare poi di nuovo, a metà dell’XI secolo, unita a Isernia, anch’essa probabilmente sede assai antica ma non documentata prima del 943".

 

Della "diocesi di Larino, retta da propri vescovi negli anni 493-501 e 556-561, .... la presenza in essa di un vescovo non è documentata «nuovamente» prima della metà dell’XI secolo".

 

Aufidena è menzionata come sede vescovile solo in una lettera di Gelasio I, attribuibile agli anni 494-495. Il trasferimento dell'episcopio a Trivento è una semplice ipotesi, dato che in quest’ultima è documentato solo a partire dal 946 ed è più probabile che si tratti di una nuova istituzione", anche se quest'ultima sembra ipotesi scarsamente condivisibile.

 

"Dell’episcopato di Bojano, attestato per gli anni 501-502 dagli atti del concilio di papa Simmaco, non si ha notizia fino alla meta del XI secolo, né è dato ai sapere se ed in quale misura abbia influito sulla sua esistenza il terremoto che nell’853 distrusse la città”.

 

“Negli atti del concilio di papa Simmaco compare anche il vescovo di Sepino, di cui in seguito si perdono le tracce”, probabilmente perché, cosi come Morcone, sarà di rito e di osservanza bizantina. La diocesi di ‘Samnia’ o di 'Samnium' viene posta dal Vitolo "tra Sepino e Benevento”, ma senza che vengano addotte le motivazioni di una simile localizzazione.

 

Sembra il caso di aggiungere che un accostamento della diocesi di Limosano a Sepino, diocesi, come si è visto, antichissima e che non riemergerà nei secoli dal IX al XIII, è possibile trovarlo in BORGIA (III, nota a pag. 58 e segg.), il quale, in contrasto con De Vita, scriveva:

 

“[...]. L’epoca del Vescovato di Morcone deve fissarsi dopo il giorno 24 di Gennaro del 1058 (nota: ma, contrariamente a ciò - che è evidente esigenza della storiografia di parte ‘romana’ -, è stato dimostrato essere di qualche secolo più antico e di rito greco-bizantino), nel quale Stefano X confermando con sua carta all’Arcivescovo Oudalrico le Chiese Suffraganee, in numero di XXV, non parla certamente di questa cattedra, la quale quando poi venisse a mancare, se Falcone non la indicasse con rappresentarci che Morcone nel 1122 era un semplice castello, potrebbe dirsi che vi si fosse conservata per più lungo tempo, non essendovi nella biblioteca Beneventana memorie de' Suffraganei di questa Chiesa Tino al 1153. In questo anno Anastasio IV con sue lettere de’ 22 Settembre dirette a Pietro Arcivescovo gli conferma XXII Chiese Suffraganee, ma non già Morcone. Il dottissimo de Vita seguendo l'autorità del Concilio Provinciale di Ugone Guidardi, e con la scorta del Vescovo di Biseglia Pompeo Samelli, conta XXXII Chiese Suffraganee, quante una volta certamente vi avevano nella Provincia Beneventana, e dopo aver parlato di XXVII di queste, così delle altre cinque ragiona:

 

Qui vero reliqui hi sint Episcopatus quinque qui cum XXVII illis superius comprobatis definitum XXXII numerum impleant, vetera produnt monumenta; nam et Episcopatum Aequae putridae, Limusanensem sive Musanensem, Ordonensem, Frequentinum, Sepinensem, (quos inter superiores XXVII praeteritos invenies) memoratos in posterioribus indubiae fidei monumentis habemus, additos scilicet Archiepiscopo Beneventano Suffraganeos. [...].".

 

 

51

 

Sembra possibile scorgere una ulteriore traccia della antichità della diocesi di Limosano e che la situazione conosciuta dalla storiografia nasconda problematiche connesse a differenze dottrinali e/o di rito liturgico.

 

57. La testimonianza, che, nella collocazione temporale, è la più antica che riguardi una 'civitas' posizionata sul territorio dell'attuale Molise, del fatto che Tiphemum sta modificando il suo etimo e, di rilevanza ancora maggiore, che essa è la sede di un centro insediamentale ed amministrativo di buona importanza e con un suo ‘palatium’, dal quale ne vengono gestiti il potere e la giurisdizione, e, per usare la terminologia corrente, di un 'gastaldato' (o anche ‘gualdo’) è il Preceptum Romualdi ducis del 718, col quale, “acto in Gualdo ad Biferno, in palatio, mense octobrio, indictione .ii.”, “Romualdo II duca di Benevento concede a Zaccaria, Paolo e Deusdedit (nota: che è abate di Monte Cassino) dei beni nella località del fiume Lauro” (LECCISSOTTI T., Le colonie cassinesi in Capitanata, 1° Lesina, Montecassino 1937, pag 29 e seg.).

 

58. HIRSCH F., op... cit., pag. 44 e seg. La MONTESANO (La cristianizzazione dell’Italia nel Medioevo, Bari 1997, pag. 54) scrive che "offri l’esempio Teodorada, moglie di Romualdo, che intorno al 670 fuori delle mura della città di Benevento costruì una basilica dedicata a san Pietro". E, dopo aver riferito che “tra la fine del VII e l'inizio dell’VIII secolo la situazione migliorò decisamente, grazie alla conversione dei longobardi al cattolicesimo, al progressivo abbandono dei costumi piu apertamente paganeggianti e alla fusione con i latini", a pag. 55, aggiunge inoltre che “il mutamento nell’attitudine dei longobardi verso la Chiesa e la religiosità cristiana è simboleggiato dalla rilevanza che nel ducato di Benevento assunse in quello stesso periodo il culto dell'arcangelo Michele, per mezzo del quale la tradizione guerriera longobarda ricevette una più decisa impronta cristiana”. E’ appena il caso di aggiungere che tale culto fu, probabilmente sin da allora, parecchio presente anche nel territorio del "galo Biferno".

 

59. HIRSCH F., op... cit., pag. 48. Il Di Meo data al 692 la fondazione del “Monistero di S. Maria a Castagneto, vicino a Piniano”.

 

60. HIRSCH F., op... cit., pag. 48.

 

61. Chronicon Vulturnense, ed. FEDERICI, Roma 1925, 1 - 6. “Similmente in quel tempo rari erano in queste regioni i luoghi fortificati, ma tutti erano pieni di ville e di chiese. E non vi era timore o paura di guerre, perché tutti godevano di una gran pace, sino ai tempi dei Saraceni”.

 

62. LE GOFF J., La civiltà dell’Occidente medievale, Milano 2000, pag. 33.

 

63. RIZZITANO U., Gli Arabi in Italia, in ATTI della XII settimana CISAM di Spoleto, pag. 93.

 

64. DI MEO, Annali... dt„ ad annum 650.

 

65. DI MEO, Annali ... dt., ad annum 752. E, prima del loro stanziarsi, “che la tratta fosse intensa risulta dal trattato di pace (4-VII-836) tra Sicardo, principe di Benevento, e il duca di Napoli Andrea” (Cilento).

 

66. DI MEO, Annali ... cit., ad annum 865. Circa l’importanza dell’aspetto economico, assolutamente prevalente su quello politico o religioso, SALIERNO V. (I Musulmani in Puglia e in Basilicata, Manduria [TA] 2000) scrive, a pag. 21, che

 

“nella frantumazione del potere nell'Italia meridionale ha buon gioco la politica saracena del saccheggio che va esaminato più dal punto di vista economico che religioso o politico in senso strettone scorrerie, viste spesso in termini di devastazioni e massacri, furono con una parola moderna un'operazione commerciale per rifornire i mercati orientali di schiavi: le donne per gli harem, gli uomini per la manodopera, i ragazzi per il servizio delle corti, della nobiltà, dei benestanti”.

 

67. Le GOFF La civiltà ... cit., pag. 33.

 

“La loro (= dei Franchi) affermazione in Occidente, malgrado qualche scacco, per esempio di fronte a Teodorico, è cosa regolare dopo Clodoveo. Il colpo da maestro di Clodoveo è stato quello di convenirsi con il suo popolo, non all’arianesimo, come gli altri re barbari, ma al cattolicesimo. Può così giocare la cana della religione, beneficiando dell’appoggio, se non del papato ancora debole, almeno della potenza gerarchica cattolica e del monachesimo non meno potente. Fin dal Vi secolo i Franchi hanno conquistato il regno dei Burgundi, dal 523 al 534, poi la Provenza nel 536”.

 

68. FINK K. A., Chiesa e... cit., pag. 16. V. nota 43.

 

69. BECHER M., Carlo Magno, Bologna 2000, pag. 77. Dall’elenco ufficiale dei Papi si ha che Paolo I (San) fu papa dal 757 al 767; e Costantino II fu, in realtà, antipapa tra il 767 e il 769.

 

 

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E ciò, appunto, sta a dimostrare la difficile situazione che, relativamente alla scelta ‘franca’, si stava vivendo a Roma.

 

70. BECHER M., Carlo ... cit., pag. 78. Adriano, succeduto a papa Stefano III (768-772), resse il papato tra il 772 ed il 795.

 

71. BECHER M., Carlo ... cit., pag. 55. “All’inizio di giugno <del 774>, dopo quasi nove mesi di assedio, la città di Pavia capitolò. Re Desiderio fu mandato in esilio in un monastero franco. E Carlo si impadronì del tesoro regio longobardo e assunse il titolo di re dei longobardi".

 

72. DI MEO, Annali... cit., ad annum 774.

 

Sembra il caso di annotare che la motivazione politica di Arechi, il quale si rivolge a Costantinopoli e promette sottomissione all’imperatore Costantino VI (tam in tonsura quam in vestibus usu Graecorum perfrui sub eiusdem imperatoris dicione), è da ricercarsi nella volontà di affermare la propria indipendenza sia dai Franchi di Carlo Magno e sia dal Papato, che, per l’autonomia da Bisanzio, na appena compiuto la scelta 'franca', ricevendone in cambio anche il nucleo iniziale dei territori del "Patrimonium Sancti Petri".

 

73. CILENTO N., S. Vincenzo al Volturno e l'Italia meridionale longobarda e normanna, in AA.VV., San Vincenzo al Volturno, Atti del I Convegno (19821 di Studi sul Medioevo Meridionale, Montecassino 1985, pag. 46. Quanto ad Autperto, trattasi del grande “moine et théologien" Ambrogio Autperto, di origine franca e legato da vincoli di parentela con Carlo Magno, che fu abate di S. Vincenzo al Volturno dal 777 al 778. Il longobardo Potone tenne l’abbaziato tra il 780 ed il 783.

 

74. In effetti, solo parte del territorio abruzzese (i sette gastaldati dei Marsi, Valva, Amitemo, Forcone, Aprutium, Penne e Chieti) rientrerà, ma nell’801 e quando cioè Carlo è staro già incoronato imperatore, in mani franche, potendosi più immaginare che intravvedere una linea di confine sulle rive del Trigno.

 

75. Sulla incoronazione ad imperatore di Carlo Magno (Natale 800) e, più ancora, sulla lunga vicenda del riconoscimento da parte bizantina, si veda BECHER M., Cario ... cit., specialmente da pagina 86 in poi.

 

76. DI MEO, Annali ... cit., ad annum 870, Relativamente all'etimo 'vafritia', sembra possibile associarlo alla parola del dialetto limosanese 'marfizia', che corrisponde a ‘malizia’.

 

77. DI MEO, Annali... cit., ad annum 873.

 

78. CAPITANI O., Storia dell’Italia medievale, Bari 1999 (V ediz.), pag. 146 e seg.

 

79. FALKENHAUSEN (Von) V., La dominazione bizantina nell'Italia meridionale dal IX all'XI secolo, Bari 1978, pag. 24.

 

80. DANIEL N., Gli Arabi... cit., pag. 106.

 

81. FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia meridionale bizantina (IX-XI secolo), in AA.VV., I Bizantini in Italia, Milano 1982, pag. 53.

 

82. FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 57. La fonte, di cui trattasi (ma è fonte longobarda e bisognerebbe sentire l’altra campana), è il Catalogus regum Langobardorum et Ducum Beneventanorum, in MGH, Scriptores rerum Lang. et Ital., pag. 406. Il tante volte citato DI MEO, ad annum 895, riporta che

 

“i Greci Signori di Benevento, al dir dell’Anonimo Beneventano, trattavano quei Cittadini da schiavi, con minacce, bastonate, ed angherie diverse. Non vi era più alcun riguardo, ed onor per alcuno, né osservavasi alcuna fede. Gli spergiuri, gli adulteri, non solo privati, ma ancor pubblici, ognissorta di fornicazione, ogni spezie di furto, erano per essi cosa da nulla”.

 

83. FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 56. Anche se la Falkenhausen accusa di “contenuto ambiguo” il famoso passo del “De administrando imperio", che rappresenta “una sorta di manuale di governo scritto fra il 948 e il 952 dall’imperatore Costantino Porfirogenito”, pure, a pag. 57, scrive che

 

il 'tema' di Langobardia non era solo la provincia direttamente amministrata dallo stratego di Bari, ma comprendeva anche i principati longobardi di Benevento, Salerno e Capua e i ducati campani ai Napoli, Amalfi e Gaeta, governali da propri principi e duchi indipendenti, di fatto, da Costantinopoli".

 

84. FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 58 e seg.

 

 

53

 

“Tale riconoscimento veniva espresso in alcuni stali, a esempio Napoli e talvolta anche a Benevento, attraverso la menzione del nome dell'Imperatore e dei suoi anni di governo nella datatio degli atti pubblici e privati”.

 

A questo punto e se è vero che "l'imperatore d’Oriente nella titolatura ufficiale concepisse l'idea di un 'tema' di Langobardia includente tutta l’Italia meridionale con la sola eccezione della Calabria”, non sembra possibile condividere l’esigenza della Falkenhausen, secondo la quale “lo storico moderno deve ben distinguete tra il 'tema' di Langobardia strettamente sotto il controllo dell'amministrazione bizantina e gli stati periferici, più o meno legati all'impero, a seconda della situazione politica del momento". Una tale esigenza di distinzione “ad esludendum", come quella di voler in tutti i modi fissare i confini (di qua è mio e di là è tuo), appartiene a categoria mentale e logica formatasi in periodo di tempo posteriore. Sul fatto, poi, che la sovranità bizantina sui territori longobardi non fosse cosa solo “di principio”, ma ‘reale’, vale la pena di sapere (v. ivi, pag. 61 e seg.) che

 

“Ottone I intanto, nell’intenzione di ricostituire l’impero carolingio, assunse anche le pretese sull’Italia meridionale, e già nel 966 ricevette l'omaggio dei principi di Capua e Benevento, che da decenni tentavano di sottrarsi al dominio bizantino. [...]. Due anni dopo, egli mandò come legato a Costantinopoli il vescovo di Cremona, Liutprando, che doveva trattare con il basileus essenzialmente su tre punti: riconoscimento della dignità imperiale di Ottone, matrimonio del figlio omonimo e co-imperatore di Ottone con una principessa porfirogenita; dominio sull’Italia meridionale".

 

Come noto, su nessun argomento (e neanche sul terzo!) fu trovato accordo, ma della missione resta la “Relatio de legatione Constantinopoiitana" del vescovo di Cremona.

 

85. A titolo di esempio, si vedano, relativamente all’affannosa e deviante indicazione dei confini lungo il fiume Fortore, tra tanti: CORSI P., Le diocesi di Capitanala in età bizantina: appunti per una ricerca, in AA.VV., Ricerche di storia abruzzese, Chieti 1986, pp. 42-90; e il più classico BORSARI S., Aspetti del dominio bizantino in Capitanata. A tal riguardo, il Borsari, che pure accenna al tema dell’attività fondiaria delle grandi abbazie, scrive che "questo fiume rappresentò l'estremo limite dell’impero: solo per brevi periodi la sua autorità si affermò al di la di esso, almeno se dobbiamo attribuire un qualche significato alla datazione di alcuni documenti del basso Molise".

 

86. FALKENHAUSEN (Von) V., L’Italia ... cit., pag. 58.

 

87. FINK K. A., Chiesa e... cit., pag. 25. Si pensi semplicemente agli effetti posti dalla “questione della legittimità di papi che giunsero al governo due o anche tre volte”.

 

88. FINK K. A., Chiesa e... cit., pag. 26.

 

89. “Gli argomenti più discussi di questa controversia fra il papa, l’imperatore e il patriarca di Costantinopoli riguardavano l’interpretazione del primato romano e il non-riconoscimento da parte di Roma deli’/fenotikon, un editto imperiale che - invano - aveva proposto una formula di compromesso, accettabile tanto per gli ortodossi quanto per i monofisiti” (FALKENHAUSEN [von], I rapporti ... cit., pag. 59). La Falkenhausen cita BECK H.G., Die Fruhbyzantinische Kirche, in: Handbuch der Kirchengeschichte, a cura di H. JEDIN, Freiburg-Basel-Wien 1975, pp. 3-15, che riassume cause e sviluppo dello scisma con una simpatia per le posizioni della chiesa orientale.

 

90. FALKENHAUSEN (von), I rapporti... cit., pag. 81 e seg.

 

91. GUILLOU A., L'Italia ... cit., pag. 1.

 

92. GUILLOU A., L'Italia ... cit., pag. 9 e seg. Il Guillou nelle note riporta:

 

[a] Una chiara esposizione tradizionale dei «disordini» causati nel nord d’Italia dallo scisma dei Tre Capitoli è stato redatto recentemente da R. CESSI, Venezia Ducale. - I. Duca e popolo (Deputazione di storia Patria per le Venezie), Venezia 1963, pp. 35-48.

 

[b] Il «suggerimento» dei vescovi riuniti a Murano è edito da P. EWALD - P. L. HARTMANN, M.C.H., Epist., in 4° I, Gregorii I papae Registrum epistolarum I, Berlino 1891, pp. 17 sg. e R. CESSI, Documenti relativi alla storia di Venezia anteriori al mille, I, V-IX (Testi e documenti di storia e di letteratura latina medioevale, I), Padova 1940, pp. 14-20.

 

93. DI MEO, Annali... cit., ad annum 575.

 

94. Papa Onorio I, che durante il suo pontificato istituì la festa dell'Elevazione della Croce, accettò di condividere la formula dell’Ekthesis proposta, allo scopo di riconciliare i monofisiti e i cattolici, dall’imperatore Eraclio.

 

 

54

 

Per tale motivo venne, insieme agli eretici seguaci del monotelismo, condannato e scomunicato dal concilie» ecumenico del 680-681, tenutosi a Costantinopoli. La scomunica, confermata dai pontefici romani, fu in seguito argomento contro la infallibilità del papa.

 

95. CHIESA P., Traduzioni e traduttori a Roma nell'alto medioevo, in Atti delle settimane di studio organizzate dal CISAM (in seguito solo CISAM), XLIX 2001, pag. 455.

 

96. MANGO C., La culture grecque et i'Occident au VIII siécle, in CISAM, XX 1973, pag. 696 (trad. dal testo francese).

 

97. Risultano essere stati individuati a Roma, per il VII secolo, 6 monasteri greci su un totale di 24 monasteri. Vedi: FERRARI G., Early Roman Monasteries, in Studi di antichità cristiana, Città del Vaticano, XXIII1957.

 

98. POLONIO V., Chiesa, chiese, movimenti religiosi, Bari 2001, pg. 139.

 

“Nel Mezzogiorno il monachesimo greco ha esistenza duratura e originale. E’ favorito dalla situazione politica; è nutrito da ripetuti apporti orientali, dovuti a fughe motivate dai soliti contrasti dottrinari, ...; è arricchito da contributi di origine bizantina. Alla fine si costruisce un ambiente non puramente imitativo, bensì mosso da fermenti propri. Una volta regredite le numerose comunità latine (e anche greche) attestate ai tempi di Gregorio Magno, tende a prevalere un sistema eremitico su cui siamo poco informati. Le numerose grotte caratterizzate da segni di devozione (note da tempo ma più sistematicamente ricercate e indagate da una quarantina di anni a questa parte) sono difficilmente databili a motivo della loro elementarità: tuttavia si pensa a una forma eremitica, sia pure non quantificabile, inserita nel quadro di crisi generalizzata .... orientata in prevalenza, ma non esclusivamente, verso lingua e tradizioni greche; ...”.

 

Si veda anche: BORSARI S., Monasteri bizantini dell’Italia meridionale longobarda, in ASPN, n.s. XXXII 1950-51, pag. 1 e segg.

 

Va precisato che sul fenomeno della diffusione, affatto trascurabile, del movimento monastico basiliano ed equiziano (e, comunque, di derivazione 'greco-bizantina') manca, relativamente al Molise, la benché minima ricostruzione.

 

99. PACAUT M., Monaci e religiosi nel Medioevo, Bologna 1989 (trad. da Les ordres monastiques et reiigieux au Moyen Age, Paris 1970), pag. 77.

 

A riprova sia della preesistenza che della lunga continuità nel tempo del fenomeno monastico, occorre tener presente che “il trasferimento di monaci ed eremiti orientali nell'Italia meridionale venne accelerato dall'avanzata araba in vaste porzioni dei domini bizantini”. Questi "monasteri greci, fedeli alla regola basiliana, non si organizzano soltanto nella forma di eremi oppure di cenobi, ma anche secondo una serie di modelli intermedi che giustappongono, dosandole in misure variabili, le due tendenze ascetiche”, per agevolare e permettere ai singoli monaci di riunirsi nella chiesa e nei pochi altri ambienti comuni per le celebrazioni, specie negli ultimi due giorni della settimana, liturgiche comunitarie, per consumare i pasti e per ascoltare le parole e l'insegnamento del loro superiore. “Accanto alle varie forme di aggregazione monastica si moltiplicano anche, numerose e continue sin dopo il Mille, le esperienze di vita solitaria di anacoreti e di piccoli gruppi di eremiti che dimorano in grotte naturali o in insediamenti rupestri diffusi ampiamente" sul territorio.

 

100. Benedetto di Aniane (San), monaco francese, è considerato, per la collaborazione data a Carlo Magno nella riforma con cui intendeva assicurare l'osservanza ai una unica e precisa 'Regola' nei monasteri dell’impero occidentale, il secondo fondatore dell’ordine benedettino, che da allora prese la sua grande diffusione.

 

101. Anche se, già precedentemente e durante la prima metà del VII secolo, si era verificato qualche caso, rimasto però isolato, è tra il 685 ed il 752 che, eccettuato il romano Gregorio II, sono tutti papi greci (o, comunque, originari dell’area soggetta all'influenza ed al potere greco), la cui serie si interromperà con la caduta dell’Esarcato di Ravenna e con il concretizzarsi politico della scelta ‘franca’.

 

102. GAY J., L'Italie méridionale et l'empire byzantin .... Roma 1904, pag. 590. Il Gay riprende la notizia da Paolo Diacono. Riguardo alla scarsa antropizzazione del Samnium di allora, il Gay scrive che “le duc Romuald avait etabli ces emigrants dans les lieux deserts du pays des Samnites".

 

 

55

 

103. BERNARD P., I tempi della Liturgia, in Storia del Cristianesimo, III, Roma 2002, pag. 952.

 

104. BERNARD P., I tempi ... dt., pag. 952 e, nella parte più generale, da pag. 933 e seg. La Bernard aggiunge:

 

"Stando a uno dei <messali> più importanti, copiato all'inizio dell'XI secolo in territorio «beneventano», alcune particolarità sono tuttavia sopravvissute, ma in una forma molto sfumata, poiché sono rare le orazioni che non provengono da Roma. In questo rito, i prefazi propri sono più numerosi che a Roma, e alcune messe - molto rare: cinque in tutto - hanno una curiosa orazione post Evangelium, che sembra sconosciuta altrove. Le rare messe i cui materiali siano pressappoco esclusivamente «beneventani» sono quelle della vigilia di san Benedetto da Norcia, quella dell’apostolo Bartolomeo e quella della Trasfigurazione: è poco” per poterne operare una ricostruzione.

 

Sulla origine, sulla particolarità ed autonomia, sulla durata di lungo periodo e, cosa affatto secondaria, sui successivi interventi finalizzati alla ‘cancellazione’ o, quantomeno, all’allineamento di esso alle posizioni ‘romane’, occorre sapere che “l’Ordo missae e l'anno liturgico di questo rito sembrano essere stati quasi totalmente romanizzati sin dall'inizio dell'epoca carolingia. [...]. «Benevento» ha conservato più fedelmente di Roma i grandi Vangeli delle domeniche di Quaresima, ma il canto, che sembra essere sopravvissuto in gran parte (eccetto la salmodia senza ritornello, l’equivalente del tractus romano), è molto originale e non ha nulla di romano o di carolingio. Come sempre, è il canto, cioè la tradizione orale, che è rimasta la più fedele al passato. Come tutti i canti liturgici ereditati dalla tarda Antichità, esso è rimasto vivo circa fino a metà dell’VHI secolo: la messa dei Dodici Fratelli (1° settembre), creata verso il 760, risale all’acquisizione e alla traslazione delle loro reliquie a Santa Sofia di Benevento fatta dal duca Arechisi II, è ancora in canto «beneventano»”.

 

Per eventuali approfondimenti sull’argomento (collegabile anche con l'altro della datazione, e la presenza in esse del diffusissimo “grecanico rito", delle dodici abbazie insigni, e non solo, dell’arcidiocesi di Benevento) si può vedere: BOZZA F., Considerazioni e ragionamenti sulla abbazia di “S. Maria de Heremitorio" di Campolieto, conferenza, inedita, tenuta a Campolieto (CB) il 24 giugno 2006.

 

105. CAVALLO G., La trasmissione dei testi nell'area beneventano-cassinese, in CISAM XXII 1974, pag. 414. Circa l’origine, lontana nel tempo, e la continuità della tradizione bizantina, il Sestan (SESTAN E., La composizione etnica della società in rapporto allo svolgimento della civiltà in Italia nel secolo VIII, In CISAM V 1957) già annotava che, nel secolo VII,

 

“questa presenza di ecclesiastici greci e orientali provocata spesso da contestazioni e dalla scelta di posizione contraria a Costantinopoli nelle dispute teologiche e dottrinali (Tre capitoli, monoteismo) in tante parti dell'Italia bizantina ha notevole importanza per avere essa influito sulla cultura, sull’arte, sulla liturgia, sul pensiero religioso" (pag. 652 e segg).

 

106. JACOB A. e MARTIN J.-M., La Chiesa greca in Italia (c. 650 - c. 1050), in Storia del Cristianesimo cit., 4°, pag. 370. Gli AA. riprendono la notizia e citano da SANSTERRE J.-M., Les moines grecs et orientaux à Rome aux époques bizantine et carolingienne, Bruxelles 1983, pag. 39.

 

107. Sarà, dopo contrasti e discussioni accese, solo nel 1014 che, appena avvenuta l’incoronazione di Enrico 11, il quale impone al mondo latino la liturgia germanica della messa, il papa Benedetto Vili stabilirà di aggiungere definitivamente il ’Filioque’ nella professione di fede

 

108. PETRUCCI E., Rapporti di Leone IX con Costantinopoli, in Studi medievali, serie 3^. XIV 1973, pp. 733-831.

 

109. LEONE IX, Epist. 100 (a Michele Cerulario) in P.L., CXLIII, col. 764A; ed. WILL C., Acta et scripta quae de controversiis Ecclasiae Graecae et Latinae saeculo undecimo composita extant, Leipzig 1861, p. 81, col. A, 11.3-19.

 

Il citato (v. nota precedente) Petrucci riferisce, a pag. 804 e seg., che

 

“fu proprio durante il viaggio del 1050 che egli (= Leone IX) prese coscienza dei problemi dell'Italia meridionale, abbozzando con tutta probabilità alcune ipotesi di soluzione. La complessa situazione politica e religiosa dovette apparire all’esame del papa, riformatore ma anche politico prudente ed esperto, di una gravità estrema. [...].

 

 

56

 

 In realtà da un lato i Normanni, che nella loro azione di consolidamento e di conquista taglieggiavano le popolazioni e violavano senza esitazioni beni e immunità di chiese e monasteri, dall’altro la presenza in alcune regioni di due organismi ecclesiastici con tradizioni ecclesiologiche e soprattutto disciplinari tanto diverse, costituivano due aspetti di una stessa intricata situazione locale che, per gli uomini della curia dovevano certamente essere affrontati nello spirito della Riforma (cfr. GAY J., L'Italie meridionale et l'Empire byzantin dt., p. 479 sg.)”.

 

E, poiché “risulta che negli ambienti occidentali si pensava a diritti della Santa Sede in Puglia e nell'Italia meridionale”, diritti che possono farsi ascendere, così trovando spiegazione alle aspirazioni del “papa a recuperare i patrimonia della Chiesa Romana nell’Italia meridionale" (pag. 792), proprio al decreto del basileus Leone III Isaurico, appena dopo l’inizio della lotta iconoclasta, di fame dipendere i vescovati direttamente dai Patriarca al Costantinopoli, è possibile che “Roma aveva già progettato per suo conto di intervenire contro quella preminenza e autorità del patriarca bizantino, che, tradizionale in Oriente, era ritenuta dal diritto canonico occidentale come una usurpazione ed un abuso" (pag. 7%).

 

110. Le due diocesi, pur accorpate da Gregorio IX (“von neume gatrennt unter Gregor IX”), nel XIII secolo dipendevano ancora da Capua (v. RUCK W., Die Besetzung der siziliscnen Bistumer unter Friedrich II, dissertazione inedita dell’Univ. di Heidelberg 1923).

 

111. Vedi nota 56. Ma se, a parte qualche dubbio, relativamente legittimo, per Trivento, nulla è da obiettare per Bojano, Larino e Termoli, sulla situazione delle altre quattro diocesi occorre qualche riflessione. Da una “antica pergamena" citata da PIEDIMONTE G. (La Provincia di Campobasso - cenni storici, Aversa [CE] 1905), probabilmente ancora nell’Archivio Parrocchiale di Lucito e scarsamente considerata dalla storiografia, risulta il seguente elenco di 'episcopi’ della diocesi di Limosano:

 

FOTINO anno 1040

GIOVANNI anno 1060

GISOLFO anno 1063

BENEDETTO anno 1085

CELIO anno 1099

ROFFREDO anno 1102

GREGORIO anno 1110

 

Va annotato che quest'ultimo, il quale, già 'Monachus' di Montecassino, “come si ha nel Catalogo degli uomini illustri di quel Monastero", risulta tale dal CIARLANTI G.V. (Memorie historiche .... III, pag. 222), venne fatto ‘Episcopus’ di Limosano probabilmente perché l’anno prima (1109) il cenobio di S. Illuminata, situato nelle immediate vicinanze di tale insediamento, era passato (o, meglio, riceveva una seconda confermazione, sulla quale si tornerà in seguito) nella giurisdizione cassinese (si vedano sia il Registrum Petri Diaconi, doc. n. 571, e sia la Chronica Monasterii Casinensis, M.G.H. ed. Hoffmann 1980, pag. 499 e seg.). Una tale circostanza riesce a far ben superare tutte quelle lamentate difficoltà di chi, per il fatto che all’atto di donazione fu presente il Vescovo di Trivento, è portato, ma la cosa è del tutto improbabile in quanto mai risulta un riferimento limosanese a Trivento, ad assegnare Limosano alla giurisdizione ecclesiastica di tale diocesi.

 

Oltre a ciò, occorre registrare sia il nome stesso di 'Fotino' di evidente origine greco-bizantina e sia che, in netto contrasto con le risultanze della storiografia ‘ufficiale’ romano-papale (v. le sintesi delle diverse bolle, che, motivate da pressanti esigenze di politica religiosa, dalla fine del X a tutto il secolo XI, definiscono, mai indicando quella limosanese, le chiese ‘suffraganee’ di Benevento, negli Annali del DI MEO e riepilogate nello studio, notevole per serietà critica, di PRATESI A., Note di diplomatica vescovile beneventana. Parte II. Vescovi suffraganei (secoli X- XIII), in Bullettino dell’Archivio Paleografico Italiano, n.s., I [1955], pp. 19-91, specialmente pag. 23 e seg.), viene ampiamente documentata l’esistenza di una, se non della, diocesi di Limosano già prima e, comunque, nel particolare periodo dello scontro tra il Papato ed i Normanni e, ancora più importante per le implicazioni motivazionali di quelle eventuali ‘cancellazioni’ che per lunghi periodi di tempo hanno rappresentato l’unico sistema per l'affermazione della ‘verità’ storica, dello scisma d’Oriente (1054) del Patriarca di Costantinopoli Michele Cerulario.

 

 

57

 

Inoltre e in quanto coevo sia allo scisma e sia ad una presenza, esclusa però dalle fonti ‘ufficiali', di un 'Episcopus' (Giovanni, nel 1060) sulla cattedra vescovile di Limosano, un impollante riferimento è la Bolla, datata "a’ 24 di Gennaio di quest’anno” 1058, di “conferma ad Udalrico Arcivescovo di Benevento”, che a tale Arcivescovato

 

“ne dice suffraganei S. Agata, Avellino, Monte Marano, Troja, Dragonara, Civitate, Montecorvino, Tortiboli, Viccarino, Fiorentino, Termoli, Trivenlo, Volturara, Tocco, Quintodecimo, Monte di Vico (Trivico), Alino, Larino, Ascoli, Lucerà, Alifì, Telese, Bovino".

 

Il documento, di fonte 'latina', che pure elenca solo 23 (e non 24) vescovi, nonostante la bolla originale con tutta probabilità doveva portare essere “in numero allora di XXV” (BORGIA, III, p. 60 in nota), sta a dimostrare che Guardialfiera, diocesi dal 1068 ed istituita tale con evidente finalità politica di riaffermazione del culto 'latino', ancora non è ‘vescovado’ e, soprattutto, l'evidente intento della politica papale di assegnare a Benevento il controllo, subito dopo lo scisma, su tutte le diocesi del confine 'bizantino' lungo il Fortore. Un tale obiettivo sembra confermato anche dalla contemporanea, e sospetta, esclusione di Limosano e di Morcone dall'elenco delle sedi suffraganee. Si diceva ‘sospetta’, in quanto, relativamente a Morcone (ed il fatto che tale 'civitas' venga tenuta associata a Limosano farebbe ipotizzare un identico, almeno in certe fasi storiche, destino) risulta (CIRELLI F., Il Regno delle due Sicilie descritto ed illustrato, Napoli 1857, Vol. XIV, pag. 16) che

 

“l’orientale Imperatore Leone il savio, che nel corso del IX secolo, senza l'assenso della Romana Corte, seminò e stabili Vescovi nel regno di Puglia; i quali, seguita la pace tra Costantinopoli e Roma, rimasero confirmati, onorò anche Morcone ai un Vescovado di rito greco. Lo Schelstrate descrivendo un Codice della Biblioteca Vaticana, N. 1184. De Episcopatibus, qui proprii sunt juris, et nullum in subditos exercent ... tanto ne espone. Quindi aggiunge che un Vescovo di Morcone ricevè il Pallio, ed assunse il titolo e gli onori di arcivescovo. Travio, sostenendo che Morcone derivata fosse dall'antica Murgantia, la qualifica città Vescovile del medio evo, allorché i Patriarchi di Costantinopoli spiegarono la loro giurisdizione in Italia. Esistè tal Vescovado pel periodo non interrotto di tre secoli: lo acclara bastantemente il Cardinal Borgia nelle sue Antich. Benevent; non che l’Ughellio nella sua Italia sagra. [...]. Fondato, favorito, sostenuto dal potere Orientale detto Vescovado, non trovandosi sotto la Romana dipendenza, non poterono nei Romani Archivii essere registrati i nomi dei relativi Vescovi. Le vicende dei tempi, e le politiche catastrofi; la espulsione dei Greci dal regno di Puglia, per opera dei valorosi Normanni, col far cessare la greca influenza nelle Chiese alla fine del XII secolo, fecero sparire da Morcone il Vescovado, ed in tempi posteriori trovassi annesso alla Beneventana aiocesi; di cui sommo dove essere l’interesse nello sperderne ed annullarne i documenti. La Diocesi di Morcone estendevasi dalla parie orientale, comprendendo gli attuali paesi di Circello, Colle, Castelpagano, ...; ed i distrutti Forcellata, S. Angelo in Racidinosa, Rocchetella, Decorata e Monte Orsino, esistenti nel perimetro dell’attuale suo lenimento, e di cui si osservano gli avanzi”.

 

112. BORGIA S., Memorie Istoriche della pontificia città di Benevento, Roma 1763, II vol., pag. 135 in nota. Il Borgia riferisce dal “libro Provinciale de' secoli XI e XII, pubblicato dall'Abbate Gaetano Cenni tom. 2 Monum. Dominai. Pontif.”.

 

113. MARRA G., Precisazione della data della Porta di bronzo del Duomo di Benevento, in Samnium 1959, pag. 209 e segg.

 

114. BORGIA S., Memorie ... cit., I vol., pag. 316 e segg.

 

115. Il PRATESI (Note ... cit.) fa, al riguardo, sue le conclusioni del KLEWITZ H.-W., Zur Geschichte der Bistumsorganisation Campaniens und Apuliens im 10 und 11 Jahrhundert, in Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken, XXIV (1932-33), pp.1-61.

 

116. PRATESI A., Note ... cit., pag. 21, in nota. Il Pratesi indica, come fonte, JAFFE’ Ph., Regesta pontificum Romanorum ab condita Ecclesia ad annum post Christum natum MCXCVIII, ed. II, Lipsiae 1885, 3636.

 

117. FALKENHAUSEN (Von) V., La dominazione ... cit., pag. 8. La Falkenhausen riprende la notizia da DVORNIK F. (La vie de Saint Grégoire Décapolite et les Slaves Macédoniens aux IX siècle, Paris 1926, 58), precisando che “l’editore data questo incontro (nota: tra S. Gregorio Decapolita ed il vescovo iconoclasta di Otranto) agli anni '30 del IX secolo", quando era acuta la seconda fase dell'iconoclasmo; ed, in ogni caso, ben prima della seconda bizantinizzazione.

 

 

58

 

118. V. nota 115.

 

119. V. nota 56.

 

120. Archivio Segreto Vaticano, Fondo Avignonese, Collect. t. 61, Benevent. Civit.is & Ducatus Varia 1132-1312, Ms. eh. s. XIV, specialmente dal f. 151 al f. 209. Con tali documenti è possibile provare:

 

a) - che ai tempi dello scisma di papa Anacleto (1130-1138), che peraltro si contestualizza in un'area, quella beneventana, ben predisposta dalla lunga durata bizantina, con la ‘reinscriptio’ del vescovo Gregorio, mentre è anche vescovo Hugo(ne), si hanno due vescovi contemporaneamente;

 

b) - che si tratta, appunto, di una 'reinscriptio', il cui senso di reiterazione farebbe pensare ad una osservanza diversa aa quella 'ufficiale' di Hugone;

 

c) - che nelle Immediate vicinanze di Limosano esisteva una “Chiesa di S. Paolo”, i cui ‘clerici’, forse “de genere Graecorum”, vanno in processione alla Cattedrale di S. Maria e della quale, nel marzo 1012, si era avuta (Registrum Petri Diaconi, doc. n. 328) una Oblatio Johannis presb(y)teri de rebus suis In Sancto Johanne et Paulo de Lemosano a Montecassino.

 

121. Relativamente al ‘bacolo’, che è da intendersi come espressione tipica della ritualità greca, si riporta che il Synodicon Dioecesanum S. Beneventanae Ecclesiae, Benevento 1723 (Card. Orsini), dopo aver sostenuto che era usato dagli abati delle dodici abbazie insigni, lo definisce:

 

“Crossia itaque baculus est Pastoralis, a Pontificali Diversus, Abbatibus nostrae Dioecesis, & cum Graecanico ritu uterentur, & modo etiam communis, ut clarissime omnium praecl. Mem. Predecessor noster Cardinalis Archiepiscopus Sabellius in Synodo Provinciali de anno 1567 ostendit, inquiens: Multi praeterea Abbates, usum Mitrae, & Baculi habentes in ipsa Beneventana Dioecesi existunt (la cosa si spiega con il fatto che solo le tradizioni che si formano nei tempi lunghi ovviamente sono lunghe a morire): duodecimque in ea (tra cui l'Abbate di S. Maria di Faifoli, non lontana da Limosano) inter caeteras extant Abbatiae, que à Beneventano Archiepiscopo conferuntur”.

 

Delle dodici abbazie (ma quante erano le altre 'caeterae', che corrisponde a "diverse altre”?), nelle quali era praticato il rito greco (“cum graecanico ritu uterentur”), almeno sette, quelle evidenziate, situavano nel territorio dell'attuale regione Molise: S. Maria de Strata (Matrice, diocesi di Limosano), S. Maria de Faifolis (Montagano, ma diocesi di Limosano), S. Maria de Heremitorio (Campolieto, diocesi di Limosano), S. Petrus de Planisio (S. Elia a Pianisi, diocesi di Benevento), S. Laurentius de Apicio, S. Maria de Guilleto (Vinchiaturo, diocesi di Bojano), S. Maria de Rocca propr Montem Rotanum (Monterotaro, lungo il Fortore, diocesi di Benevento), S. Maria de Decorata (tra Riccia e Gildone, diocesi di Benevento), S. Maria de Campobasso (Campobasso, diocesi di Bojano), S. Maria de Ferrara prope Oppidum Sabinianum, S. Maria de Venticano, S. Silvestre in Oppido S. Angeli ad Scalam.

 

La titolazione, relativamente alle abbazie 'molisane', di sei chiese su sette (con la sola esclusione di S. Pietro di Pianisi) a S. Maria, culto diffuso, con connessione al movimento monastico, tra i secc. VII e Vili, vale a dire in periodo pre e durante l’iconoclasmo, permette di ipotizzare grande ‘antichità’ di fondazione, oltre che al culto ed al rito greco e, soprattutto, all'ampia diffusione sul territorio, di quelle abbazie.

 

122. DI MEO, Annali ... cit., ad annum 998. "... Il Monastero stesso sia solo del vostri Monaci Greci, e sino alla pne dei tempi; e da ora chiunque volesse trasformare questa regola, che viene detta 'Attica', venga fatto maledetto e scomunicato".

 

L’importante “Monistero di S. Pietro a Foresta, ov’era Abbate Clinus de natione Graecorum" ancora nel 1050 (v. sempre DI MEO), va localizzato nelle vicinanze di Pontecorvo e va interpretato come un episodio, non certamente unico o occasionale, di un fenomeno assai diffuso ed ampio. Esso, “benché il suo fondatore avesse esplicitamente stabilito che la sua fondazione avrebbe dovuto restare per sempre greca,.... nel 1093 fu donato a Montecassino” (BORSARI S., Il Monachesimo bizantino nella Sicilia e nell'Italia meridionale prenormanne, Napoli 1963, pag. 116).

 

Su tale struttura monastica si veda: NICOSIA A., La valle della Quesa e il monastero greco di S. Pietro (Pontecorvo, Esperia), in Benedictina, XXIV 1977, pp. 115-138.

 

123. VITOLO G., Caratteri del monachesimo nel mezzogiorno altomedievale (secc. VI-IX), Salerno 1984, pag. 14.

 

 

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124. SPANO B., La grecita bizantina e i suoi riflessi geografici nell’Italia meridionale e insulare, Pisa 1963. Va detto che il limite, se tale può ritenersi, di questo lavoro e che si ferma quasi esclusivamente all’analisi del territorio della Sardegna.

 

125. Per una prima conoscenza del fenomeno si può utilmente coasultare BORSARI S., Il monachesimo bizantino ... cit.

 

126. Registrum Petri Diaconi, doc. n. 571.

 

Contrariamente a quanto sosteneva BLOCH (Montecassino in The Middle Ages, 1986, pag. 427 e 428), che lo fa dipendere dal monastero di S. Eustasio “de Arcu" di Pietrabbondante, il cenobio limosanese dipendeva, in quanto sottomesso direttamente dalla volontà del principe beneventano, dal monastero di S. Eustasio (o Eustachio) di Fantasia (sito in agro dell’odierno S. Giuliano di Puglia), sin dalla fondazione di quest’ultimo (996, come indica il TRIA [v. nota 129]). Circostanza che ne confermerebbe ulteriormente la tradizione greco-bizantina.

 

127. Chronica Monasteri Casinensis, M.G.H. (ed. Hoffmann) XXXIV, Hannoverae 1980, pag. 499 e seg.

 

"Giovanni vescovo della sede triventina insieme con Roberto, figlio di Tristano, signore del ’castrum’ di Limosano, offrì a questo luogo la chiesa di S. Illuminata sita in località, che si dice 'Pietra maggiore’, all’interno dei confini del predetto ‘castrum’ di Limosano, con tutte le chiese e sue pertinenze, con la specifica pena di cento libbre di oro se qualcuno cercasse di ciò rimuovere. Sembra doversi chiaramente annotare il dolo e la frode di Alferio vescovo Triventinense che si inserì in questo luogo. Costui, infatti, mentre nella stessa chiesa della beata illuminata si trovava il ‘preposito’, sapendo che la suddetta chiesa era stata assoggettata al monastero di S. Eustasio sin dall’inizio della sua costruzione e concessa a quello stesso luogo dai principi beneventani e desiderando parimenti sottrarla dalla giurisdizione di tale monastero andò dal 'preposito', che allora già si trovava nel monastero, e iniziò a pregarlo supplichevolmente affinché gli mostrasse le carte di quello stesso luogo, dicendo che ivi erano riposte le carte della sua propria eredità, ed a chiedergli ai permettere di portarle fuori, perché non andassero perdute a motivo della grande usura del tempo. Ed il ‘preposito’, credendo non esservi dolo nelle sue parole, gli diede il permesso di cercare e di portar via. Ed in effetti tra le altre cose trovò il ‘preceptum’ fatto dai principi beneventani al monastero di S. Eustasio sulla chiesa di S. Illuminata, il quale sufficientemente e chiaramente conteneva ugualmente che quella chiesa era stata assoggettata dai principi beneventani al monastero di S. Eustasio dall'inizio della sua costruzione. Di esso egli accecato dall’invidia e da iniqua cattiveria lo prese, lo nascose e, tomaio alla sua casa, lo distrusse minuziosamente. Che tali cose così andarono io lo appresi dalla bocca di Alberto monaco di questo nostro cenobio quando era avanti negli anni; e l’no riportato affinché non vi sia alcuno che possa ritenerlo falso”.

 

128. MATURO A.E., Gli ‘acia’ di S. Illuminata, in Roma e l’Oriente, VII 1914, 101-118 e 286-291; VIII 1915, 86-90 e 214-230. pag. 87 e seg. Oltre alla edizione crìtica degli ‘acta’, il Maturo, a pag. 88, si chiede:

 

“Come dunque s. Fotina si è trasformata in s. Illuminata? Spontanea si presenta la risposta se noi ci fermiamo ad esaminare il significato greco del nome”. Inoltre, "non è da meravigliarsi che nel sec. in cui traeva origine la leggenda per la Chiesa Orientale, qualche pio Monaco volendo «Christianorum acta fonia, ipsae sanctorum Martyrum res praeclarissimae gestae, perpetuae memoriae monumentis consignerentur», elaborasse, con ia sua fervida fantasia una nuova leggenda. [...]. Così le due sante orientali divennero una Vergine e santa della Chiesa d’Occidente”.

 

129. TRIA G.M., Memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, Roma 1774.

 

130. BORSARI S., Il monachesimo bizantino ... cit.

 

131. DE BENEDITTIS G., Il territorio di Roteilo ... cit., pag. 50. Il De Benedittis, riferendosi alla contea longobarda di Parnasia (per la quale, assai probabilmente greco-bizantina, manca una indagine completa ed esauriente e solo il Tria sembra essersene occupato), riporta che

 

"dal punto di vista topografico essa è ricordata nei nomi di due monasteri, quello di S. Eiena a Pantasia presso S. Giuliano di Puglia da cui proviene un interessante tesoretto di 125 follari datati 914-959 relativi agli imperatori Costantino VII e suo figlio Romano II e quello di S. Maria di Ficarola in agro di S. Elia a Pianisi, ma anche in un casale Pantasia presso Roteilo ricordato in una pianta topografica del Tria”.

 

 

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132. DI MEO, Annali... cit., ad annum 856.

 

133. Alla località “L’Annunziata” ira Casalciprano e Roccaspromonte di Castropignano.

 

134. Per motivi legali alla tradizione unanime, alla toponomastica ed, ancor più importante, alle ragioni più propriamente storiche, non sembra affatto condivisibile la identificazione della chiesa di S. Angelo in Altissimo “con il sito della Morgia S. Michele, a 2 km ad ovest di Castellino del Biferno", recentemente proposta, se ne ignora su quali basi, dall’autorevolissimo Jean-Marie MARTIN (Il Molise nell’alto Medioevo, in AA.VV., I Beni Culturali... cit.).

 

Per l'esatta e precisa collocazione geografica basta rifarsi all’atto (in Archivio di Stato di Campobasso, Fondo Amoroso: Protocolli notarili) del 29 aprile 1739 per Notaio AMOROSO F.A., significativamente rogato "nella Terra di Calcabottaccio, in Provincia, e Contado di Molise". Da esso ancora risultava il

 

“Feudo rustico, detto di Sant'Angelo in Altissimis, sito in questa Provincia, e Contado di Molise, confinante dà una <parte> con li Territorij della detta Terra di Calcabottaccio, dà un’altra con li Territorij della Terra di Lucito, dà un’altra con li Territorij della Terra di Civita Campomarano, et altri, franco, eccetto dell'annuo canone enfiteutico perpetuo di docati doded alla Badia suddetta di Santa Sofia di Benevento; Il luogo si nomina Sant’Angelo in Altissimis”.

 

Molto importante l'identificazione di tale posizione geografica, perché permette di individuare con una certa precisione anche il sito del “galdo biferno" ed, a questo collegato, quello di ’Tiphemum'.

 

135. DE’ MAFFEI F., Le arti a San Vincenzo al Volturno : il ciclo della cripta di Epifanio, in AA.VV., Una grande abbazia altomedievale nel Molise: San Vincenzo al Volturno, Atti del I convegno di studi sul medioevo meridionale (1982), Montecassino 1985, pp. 270-352, pag. 327.

 

136. Prendendo dal citato studio della De’ Maffei, riportiamo, sorvolando sulla tipicità, tutta bizantina, del Cristo ‘Pantocrator’ e sulla importantissima particolarità dell’esistenza di lettere dell'alfabeto greco (che potrebbe far pensare anche ad artisti di provenienza orientale), solo qualche elemento:

 

- “i calzari «degli arcangeli sono di tipo bizantino" (pag. 273);

 

- “la Vergine regge davanti a sé il Figlio in un disco ovoidale, associandosi in tal senso iconograficamente alla «platitera» bizantina, ...“; e "il bambino,..., benedice alla greca con la mano destra” (pag. 289).

 

137. DE’ MAFFEI F., Le arti... cit., pag. 350 e seg.

 

138. LEONE OSTIENSE, I, Capo IX. “Dentro le mura di Benevento fondò al Signore un tempio ricchissimo e bellissimo, che con parola greca chiamò SANTA SOFIA e cioè santa sapienza”.

 

Per le influenze relative alla struttura architettonica si veda: RUSCONI A., La Chiesa di S. Sofia di Benevento, in Corsi di cultura sull’arte ravennate e bizantina, XIV, Ravenna 1967. Inoltre, dalla “Relazione e nota dello stalo e delle entrate dell ’Abatia di S. Sofia di Benevento ... 1609" in Archivio Storico Provincia Benevento, Fondo S. Sofia, Mss. vol. XI, fol. 3, risulta che “La Chiesa di S. Sofia ... è posta dentro la città di Benevento ..., edificata in forma tonda, sostenuta da otto colonne di diversi marmi mischi. E’ assai antica e ha della forma greca,... ”.

 

139. MEOMARTINI A., I monumenti e le opere d’arte nella città di Benevento, Benevento 1889, pag. 368 e seg. Il Meomartini sostiene, con dovizia di prove, che S. Sofia, inizialmente e fino al secolo X monastero femminile, era stato costruito con lo stile bizantino. Se ne riporta qualche brano: "Le basi delle colonnine del chiostro indubitatamente sono bizantine"(pag. 383); e "... vi sono due basi formate da due antichissimi capitelli bizantini”(pag. 384); ed ancora”...; capitelli cristiani primitivi, detti anche bizantini della prima maniera nei quali l’artista, seguendo le tradizioni romane, qualche volta anche greche, col decorarli della foglia di acanto ingegnossi di imitare i capitelli corintii”(pag. 385). Ed a pag. 392 conclude affermando che “quello che a me sembra indiscutibile,..., si è che qui da noi all’epoca longobarda l’intonazione artistica ci veniva d’oriente;... Lo stesso capitello ... nel chiostro di S. Sofia è ritenuto opera di artisti greci dell’VIII secolo. (...). La influenza greca potè molto su di essi (= duchi e principi longobardi), e dobbiamo sempre più convenire che in Benevento spirò l’alito greco".

 

140. SARNELLI P., Memorie ... cit., pag. 57.

 

 

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141. SARNELLI P., Memorie ... cit., pag. 40. Il BORGIA (op... cit., pag. 101 e seg., in nota) è relativamente più preciso e dettagliato nel riferire che "... in que’ tempi le lettere ed i libri non trovarono migliore rifugio, che presso i Monaci, alla diligenza de’ quali noi siamo debitori .... e parte al continuo commercio de ‘Beneventani co' vicini Greci, de'quali in Benevento ve ne era sì gran copia, che ... avevano Chiese distinte, come S. Niccolò de Graecis, e San Gennaro de Graecis, ...".

 

142. STAFFA A.R., Bizantini e Longobardi fra Abruzzo e Molise (secc. VI-VII), in I beni Culturali ... cit.

 

143. MATTIOCCO E., Scultura preromanica nel Molise, in Almanacco del Molise 1981, pag. 177 e segg. Mi dichiaro debitore della segnalazione al Prof. G. DE BENEDITTIS, cui riconosco collaborazione ed incoraggiamenti; e con stima lo ringrazio.

 

144. VITI A., Testimonianze pittoriche altomedioevali in Isernia. Affreschi del VII secolo a S. Maria delle Monache e la “Odighitria" del X secolo nella Cattedrale, in A.M. 1983, pag. 145 e segg.

 

145. AMOROSO F.A. Notaio (in ASC) della piazza di Limosano, Captio possessionis dell’11 ottobre 1753.

 

146. D'AMICO V., Jelsi ed il suo territorio, s.l. 1953 (con ristampa 1997), pag. 44.

 

147. D'AMICO V., Jelsi... cit., pag. 49.

 

Anche a Lucilo vi è, originariamente appena extra moenia, una residualità di chiesetta sicuramente greca.

 

148. DI IORIO E., Campobasso: itinerari di storia e di arte, Campobasso 1977, pag. 50. Il Di Iorio citava da: BERNINI-CARRI A., Lo sviluppo della Città di Campobasso dalle origini agli inizi del sec. XX, in Samnium 1958, pag. 32.

 

149. DI IORIO E., Campobasso ... cit., pag. 51. II Di Iorio cita da: TARANTINO N., Il gran Martire - S. Giorgio Martire, Campobasso 1929, pag. 16.

 

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