Riccia nella Storia e nel Folk-lore

Berengario Galileo Amorosa

 

PARTE TERZA. FOLK-LORE

 

 

POPOLANA.

Fot. di A. Ciccaglione.

 

Capitolo I. — Leggende di origine storica. — Sul nome di Riccia - Torre Madama - La campana dell’Annunziata - Pesco del Zingaro - Pesco del Tesoro - Pesco di Faggio e Ripa della Ciayola - Contrade  291

 

Capitolo II. — Usi e costumi. — La Maitenata - Carnevale - Quaresima, S. Giuseppe, Pasqua - U majo e i fuochi di S. Vitale - Pellegrinaggi e Sagre - La Corella - Nascite, matrimonii e morti - Usi nuziali antichi - La corsa del palio ed altri usi  298

 

Capitolo III. — Proverbî, motti e indovinelli. - Proverbî - Motti di Pistola, Eufrasio, Ciocco e Mastiacuccio - Indovinelli  311

 

Capitolo IV. — Fiabe. - Fate omicide - La perla ripescata - U munellucce - Arsieri - Stella Diana  325

 

Capitolo V. — Superstizioni e credenze. - Superstizioni scomparse - Gli spiriti della casa - Streghe e fatture - Il licantropo - I cercatori di tesori ed altre superstizioni - Ricette d’altri tempi  341

 

Capitolo VI. — Giuochi. - A piveze a muro - A piveze n terra - A piveze n fossa - A strúmmolo - A spacca spacca - A scarcalabotto - A scarda scarda - A scala santa - A nix nox mazzox - A cacastrèttela - A ssotta cappello - A vota pezzo - A pezze de càscio - U tocco - Altri giuochi bambineschi - Le tiritere  349

 

Capitolo VII. — Canti popolari  359

 

Capitolo VIII. — Appunti grammaticali  372

 

 

 CAPITOLO I. Leggende di origine storica.

 

 

            Sul nome di Riccia. — Le leggende di origine storica erano considerate, in altri tempi, quali narrazioni contrarie al buon senso ed alla ragione, o quali fantastiche creazioni dell’immaginativa popolare, specialmente quando la loro orditura era intieramente arruffata o la produzione spontanea priva di alcuna causalità apparente. Attualmente, invece, potendosi risalire fino alle origini dei racconti a cui accennano, la loro importanza è cresciuta a dismisura, sia che i racconti medesimi non trovino riscontro in nessun documento, sia che, rannodandosi ad altri eventi, vengano studiati in relazione con questi ultimi. Non volendole, quindi, tutte confondere con le altre credenze che costituiscono il retaggio della fantasia popolare, noi raggrupperemo in questo capitolo quelle poche che potemmo raccogliere, e che ci parvero degne di nota.

 

Dato alle fiamme da un nostro feudatario l’archivio dell’Annunziata, contenente tutte le carte che, con la esposizione degli averi e dei diritti comunali, mostravano le usurpazioni commesse dagli antenati del tristo incendiario, la tradizione afferma fosse stata distrutta dalle fiamme anche una storia manoscritta su Riccia. Tale documento era stato letto, nella sua gioventù, dall’Arciprete D. Gaspero Sassani, il quale, divenuto vecchio e cieco ed essendo facile compositore di versi latini, dettò un’elegia in cui riassumeva il documento storico incenerito. In questa elegia che per l’incuria dei discendenti andò smarrita, si attribuiva la fondazione di Riccia ad una potente e ricchissima signora nomata Ortensia Ricca, che vuolsi avesse dato il nome al paese. Le peripezie subite da tale tradizione confermano la nessuna credibilità del fatto ; ma la leggenda potè sorgere e svolgersi con la personificazione della ricchezza del nostro agro un tempo fertilissimo.

 

 

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Un’ altra tradizione pretende che il paese abbia preso il nome dalle pietre ricce che costituiscono le prominenze su cui sorgeva l’antica Riccia. Ma pietre di tal natura non se ne osservano; e perciò nessuna considerazione possiamo fare su questa bizzarra fantasia delle origini.

 

Sulla porta d’ingresso della vecchia casa comunale era scolpito lo stemma del paese, consistente in un riccio con la leggenda undique tutus (dovunque sicuro). Ora questo animale, come è noto, raggomitolandosi e presentando da ogni lato i pungenti aculei di cui è rivestito, si preserva dalle aggressioni. Essendo il nostro paese naturalmente ben munito e sicuro, così un’altra versione, paragonandolo alla sicurezza del riccio, vuole che da questo animale abbia Riccia tratto il suo nome, o che per lo meno sia derivato dalla gran copia di tali bestie sparse per l’agro. E ovvio il dimostrare che se dalla esposta circostanza il paese avesse tratto la sua denominazione, allora non Aricia sarebbe stato il suo appellativo latino, ma Erinacea.

 

Infine l’identità dell’ arma del nostro paese col blasone della insigne casa Ricci, ha fatto immaginare che qualcuno di tale schiatta abbia potuto dar nome alla nostra terra, anche perchè nelle vicinanze di Portici detta nobile famiglia possedeva un latifondo che formava la contrada Riccia. Certo i cognomi Ricci e Riccitelli sono comuni nel nostro paese ; ma nessuna analogia hanno con la. illustre stirpe citata, poichè essa non è stata mai compresa nell’elenco delle famiglie nobili e civili del paese.

 

Fra tutte queste tradizioni leggendarie niente si trova che possa convenientemente chiarire l’origine ; e perciò presentammo, nella parte storica, la ipotesi che dalla colonia, uscita dalla città latina fondata da Ippolito figlio di Teseo, e dal nome di sua moglie, chiamata Aricia, fosse stato appellato il nostro paese.

 

 

            Torre Madama. — In contrada Lauri, sopra un poggio s’elevano ancora i ruderi d’una piccola torre quadrangolare. Intorno, la campagna ubertosa è ricca di vigneti, d’uliveti e di frutteti ; mentre il clivo è coperto di un folto boschetto che, fra le sue chiome, ravvolge il resto della solitaria torre. Una leggenda narra che la regina Costanza di Chiaromonte, poscia che fu impalmata da Andrea de Capua, avesse in tale recesso passati dei giorni tristissimi al doloroso ricordo di tutta la sua passata grandezza, distrutta dalla malvagia ambizione di casa Durazzo. Il suo singhiozzo ancora si ripercuote con debole eco fra le macerie, nelle notti in cui il vento squassa le chiome del boschetto, e la tempesta brontola di lontano. Allora tace il gufo che vi si annida, fuggendo giù per la profonda vallata; ed il singhiozzo pare si spanda intorno come un desiderio di ricordanza e un’elegia di perdono.

 

 

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È l’anima di Madama Costanza che ritorna al solingo nido, mentre nella sua tomba, da noi descritta, le sue ossa fremono di corruccio. Questa è la leggenda della pietà popolare.

 

Un’altra, meno pietosa ma più consona alla verità, racconta che Torre Madama fosse stata abitata da una bellissima Dama, concubina di un Principe. Essa ogni domenica si recava ad ascoltare la messa nella vicina chiesa del Refugio, chiusa in una portantina e coverta di un fitto velo per non essere riconosciuta. Il feudatario che spesso andava a visitarla, un dì seppe che la bella Dama, invaghita d’un giovane cacciatore, avesse ceduto alle costui voglie. Ed ecco che due sicarii ricevono l’ordine di spiare e di colpire senza misericordia. A notte alta si nascondono nel folto della selvetta. Nel silenzio sentono venir dalla torre indistinte voci rotte da baci. Essi aspettano; e quando verso l’alba s’apre la porta per farne uscire l’amante, vi si precipitano ed a colpi di pugnale lo finiscono una alla Dama. Così nelle notti lunari tornano le belle ombre alla torre fatale, come una nuvola di candidi mughetti macchiati qua e là di sangue ; e si rinnova l’amore e si rinnova la strage.

 

Riferite le leggende, non è possibile credere che nella troppo angusta torre avesse potuto abitare una Dama, se non si ammette l’ipotesi che, annessi alla torre, vi fossero stati altri fabbricati di cui non esistono tracce. È cosa certa che la torre, con molti terreni d’intorno, appartenesse ai de Capua; ed è anche certo che vi avessero, ad un tiro di fucile, un altro fabbricato più vasto, secondo attestano i ruderi esistenti in contrada Tratti della Corte. Non è, infine, cosa strana il ritenere che la denominazione del fabbricato e le leggende che lo riguardano, siano derivate dalla dimora fattavi da qualche signora appartenente alla famiglia baronale e magari da qualche amica dei Principi.

 

 

            La campana dell’Annunziata. — Era un Principe addolorato, perchè dal suo matrimonio non ancora aveva potuto ottenere l’erede sospirato. La sua signora era giovane, bella e robusta; ma il talamo coniugale era rimasto infecondo. Molte preci e voti, a loro devozione, si fecero ne’ più lontani ed accreditati Santuarii, molte cure avevano prescritto i medici più rinomati ; ma la Principessa non aveva potuto sentir palpitare nelle visceri le gioie della maternità. E per questo fatto il palazzo feudale era muto: non più canti di trovatori, non accordi di liuti, non più fulgori di dame, di sorrisi e di danze. Ma finalmente le preghiere furono esaudite, ed un’onda di gioia serenò l’animo di tutti. La Principessa fu riconosciuta incinta, e la gestazione si compì felicemente sino al terzo mese. Ma in un giorno di festa, mentre la processione girava per le vie del paese,

 

 

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le campane sonavano a distesa a maggior gloria del Santo, e quella dell’Annunziata superava il suono grave delle altre con squilli acuti e penetranti. Tal suono eccitò e sconvolse i nervi della gestante a tal segno da determinarne l’aborto. Ed allora il Principe, accecato dall’ira e dal dolore, fece cannoneggiare e ridurre in frantumi la campana. Ma l’atto sacrilego non ebbe l’effetto desiderato, poichè dai cento rottami vibrarono cento squilli sonori, ed allora cessò il frastuono assordante di essi, quando il Principe stesso, impaurito e maravigliato, li fece raccogliere e rifondere a sue spese in una nuova campana.

 

Questa leggenda è riferibile al fatto che verso la metà del XIV secolo la campana s’infranse, e col suo bronzo se ne fusero due, come narrammo nell’ultimo capitolo della parte storica.

 

 

            Pesco del Zingaro. — È un gran masso calcareo, che sembra a prima vista erratico. È sito poco al di sopra della sponda destra della Succida, dirimpetto alla roccia colossale che sostiene il Castello. Da esso scaturisce un filo d’acqua potabile. Dice la leggenda: Quando le streghe di Benevento abbandonavano il noce, per scorazzare nelle limitrofe regioni, drizzavano il volo sinistro verso Riccia, armate di mortai e cavalcando una scopa. Ciò facevano più specialmente le notti delle due fiere di S. Angelo e di quella di S. Margherita, alle quali accorrevano numerosi zingari d’ambo i sessi, ritenuti allora dalla facile credenza popolare amici e complici delle streghe nel preparar malie e compiere altri atti di malvagità. Il popolo che odiava a morte i nomadi mercantelli, ottenne un’ordinanza con cui non permettevasi loro l’accesso in paese se non nelle tre fiere, e soltanto di giorno ; mentre, dal tramonto al sorgere del sole, dovevano ritirarsi presso il detto Pesco ed ivi pernottare. Le streghe continuarono i loro notturni viaggi, senza che i loro conciliaboli con gli zingari intorno al Pesco producessero alcun danno ai cittadini.

 

L’immaginario racconto trova le sue fonti in questo fatto storico. L’ordinanza di sopra citata fu emessa per dare al paese sicurezza e tranquillità avverso le zingaresche gesta che, per la nessuna vigilanza, la notte si commettevano con certa impunità a danno dei cittadini. Quindi la sera, al calar del sole, era fatto obbligo agli zingari di uscire dall’ abitato e di accamparsi accanto al Pesco, mentre si chiudevano tutte le porte per impedir loro il furtivo ritorno in paese.

 

La credenza nelle streghe pigliava consistenza nella popolare superstizione dalla via mulattiera che, passando vicino al Pesco, mena a Benevento, e che anche oggi è percorsa dai viandanti dei paesi del Fortore, i quali si recano in quella città.

 

 

            Pesco del Tesoro. — È un’altra gran roccia calcarea che si eleva sulla Montagna, dirimpetto al casino della famiglia Sedati,

 

 

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da cui è diviso dalla via che porta a Gambatesa. Era anticamente chiamato Pesco delle Fate. Questi candidi spiriti leggiadri, protettori delle oneste fanciulle, con bianchi veli ondeggianti trapuntati di odorose corolle, dalle chiome d’oro e dagli occhi cilestri, danzavano intorno alla cresta del masso ; e d’inverno dai loro corpi eterei e dai loro lunghi camici di veli scendeva propizia e calma la nevicata, mentre d’estate stillava la rugiada ristoratrice. Tale leggenda si accosta moltissimo a quelle della tirolese Bercht, della Freya cantata nelle saghe del Beno e dell’Elba, dell’Holda scandinava, delle Vily slave : tutte fate di cui la fantasia del volgo, con diversi nomi, ma con forme e costumi poco variabili, popolava le notti. Non è difficile risalire alle origini di questa poetica credenza. Nel silenzio notturno frappe strane di nebbia, vaganti intorno al Pesco ed illuminati dai riflessi della luna, poterono colpire l’osservazione dei pastori, sovraeccitandola ad una maravigliosa allucinazione che trasformò il fenomeno meteorico in danza di spiriti aerei, da cui piovevano nevi e rugiade, e da cui trasse il nome la roccia.

 

Ma la leggenda subì una profonda trasformazione, e ne sparve, perciò, anche il nome. Ad un certo momento coloro che erano costretti a transitare nelle vicinanze del Pesco, cominciarono a sentire da un foro di esso un rumore di passi concitati, che facevano risonare l’interno di tutta la roccia. Agl’indiscreti osservatori del bizzarro fenomeno i misteriosi abitatori del Pesco promettevano in regalo una secchia di monete d’oro, se gliel’avessero portata piena di calce per chiudere il predetto buco. Ma nessuno osò tentare il cambio vantaggioso.

 

Narra un’altra leggenda che nel masso cavo sta una chioccia con sette pulcini d’oro. Gli otto volatili si nutrono di perle, e sono destinati ad esser dati in premio ad una madre ed a sette sue figlie maritate, che tutte possono egualmente lodarsi delle rispettive suocere. Ma la cosa è talmente difficile, data la natura increscevole e litigiosa di queste ultime, che l’animato tesoro seguiterà a restar dentro il Pesco, ed un motto popolare dice che le maritate non prenderanno mai la chioccia e i pulcini.

 

In base a tutte queste bizzarre fantasie, spesso i gonzi praticarono degli scavi a’ piedi della roccia; e da questi sciocchi tentativi, come pure dalla immaginosa fiducia in ricchezze ivi nascoste, prese il nome di Pesco del Tesoro.

 

 

            Pesco di Faggio e Ripa della Ciavola. — Il forte Cacciatore e la bella Laureana si amavano di tenerissimo amore. Egli scovava fra i boschi e le rocce del contado la selvaggina più squisita, ed ogni sera offriva a lei il ricolmo carniere, rinnovando nel tempo Stesso i giuramenti del suo cuore innamorato,

 

 

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Nell’imminenza degli sponsali fu stabilito che il banchetto dovesse essere apparecchiato ai convitati coi prodotti della caccia; e perciò lo sposo alacremente cominciò a scovarla per la vallata e la montagna. Alla vigilia della festa, risalendo le rocce ed i pendii ripidi, che serrano il corso della Succida, perseguitò un daino fin dentro una grotta ignorata, ove l’agile animale scomparve quasi per forza d’incantesimo ; ed il forte Cacciatore si trovò di fronte a gran quantità, di storte, lambicchi, barattoli, fornelli, clessidre ed altri utensili. Dei pipistrelli volavano in alto, un cranio giaceva impolverato in un angolo: era l’antro di un mago. Preso dal dispetto per la perduta preda, il Cacciatore mandò in frantumi i fragili arnesi del misterioso proprietario, e continuò pei boschi la caccia fortunata.

 

La sera delle nozze la bellissima Laureana era riccamente vestita; i convitati si aggiravano per le sale con allegro vociare, ed il forte Cacciatore riceveva gli auguri di tutti con un mal dissimulato sentimento d’orgoglio. Ad un tratto, accostatosegli un gentil cavaliere, gli susurrò delle frasi che lo fecero impallidire e, nel tempo stesso, lanciato uno sguardo di sprezzo alla fidanzata, abbandonò rapidamente la sala.

 

Giunta l’ora del solenne scambio degli anelli, il forte Cacciatore fu cercato in ogni crocchio, in ogni sala, in ogni angolo : ma la ricerca riuscì infruttuosa. Laureana svenne fra le braccia delle sue amiche; gl’invitati, l’un dopo l’altro, in preda a viva costernazione, abbandonarono la festa ; e la notte e il lutto avvolsero la casa in cui fu rotto il tripudio così violentemente e misteriosamente. La misera giovanetta fu presa da un accesso tale di disperazione che, fattasi alla finestra, si precipitò nel sottoposto burrone. Ma non permisero i dolci spiriti protettori che il bel corpo andasse ad infrangersi sui macigni del torrente, e la trasformarono in una cornacchia (volgarmente detta ciàvola), la quale svolazza pe’ fianchi della profonda ripa, e si lagna col suo continuo gracchiare.

 

Intanto il bel Cacciatore, dopo una lunga corsa attraverso i campi, giunse in riva al mare, ma lo strazio del dolore lo aveva reso irriconoscibile. E mentre, lamentando la sua insoffribile sventura, voleva buttarsi tra i flutti, una voce sonora lo chiamò e gli disse :

 

— O forte Cacciatore, la tua Laureana era innocente e pura; e fu menzogna ciò che insinuò nell’animo tuo il falso cavaliere, il quale altro non era che il mago a cui tu rompesti nella spelonca la suppellettile del suo mestiere.

 

A tale rivelazione il Cacciatore balzò in piedi, ed accecato da gran furore, rifece la strada percorsa, e tornò sulle sponde della Succida, penetrando nella grotta, per vendicarsi inesorabilmente del mago ingannatore e malvagio.

 

 

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Ma la trovò deserta e piena di verdi roveti fra cui strisciavano serpi e ramarri. Si diresse, pertanto, all’abitazione di Laureana; però in sua vece vi trovò la ripa scoscesa, intorno a cui volava e si lamentava una cornacchia. Valicò il torrente, risalì il pendio, e vide la sua casa cambiata in Pesco. Fuor di senno si arrampicò sul macigno, ed invocando il nome della sua perduta Laureana, vi si lasciò morire di fame. Ma dal suo corpo germogliò un faggio il quale agita le ramaglie dirimpetto alla dolente ripa, e dà riposo al mestissimo uccello, quasi ad eternare la tragica storia d’amore.

 

Nelle mitologie classiche e nelle numerose credenze nordiche noi troviamo molte trasformazioni di simil genere. Dante anima la foresta dei suicidi, Tasso popola

 

d’umani sospiri e di singulti

 

la foresta incantata a scapito dei. Crociati; le Waldmutter delle Alpi tedesche vivono negli alberi ; le Selige Fräulein sono gli spiriti dei boschi germanici; la Attjis-ene dei Lapponi muta in anitra la fidanzata del re; Ham è trasformata in uccello dalla saga di Frithjof; nell’Edda, nei Nibelunghi e nelle leggende di molti paesi troviamo le donne cigni ; e dovunque le metamorfosi strane sono epiloghi di amori e di sdegni, di gelosie e di vendetta. Così la leggenda del nostro agro fa supporre qualche drammatico episodio, in cui la passione violenta di due anime fu calunniosamente spenta da qualche tristo denigratore o rivale disprezzato.

 

 

            Contrade. — Ma se si dovesse risalire all’ origine dei nomi di tutte le contrade del nostro estesissimo agro, non solo bisognerebbe superare le non lievi difficoltà della ricerca, ma gran mole assumerebbe un lavoro particolareggiato e completo. E forse ci troveremmo di fronte ad un disinganno; perchè la tradizione è così saltuaria ed annebbiata da offrire materiali insignificanti. Indubbiamente ogni pezzo di terra trae la sua storia dall’impronta che vi lasciarono il lavoro dell’uomo e le umane vicende. Da ogni zolla, da ogni siepe, da ogni confine corre il pensiero ad affermazioni di diritti stabiliti bonariamente dagli agricoltori, o ad usurpazioni perpetrate dalla prepotenza dei ricchi a traverso il corso dei secoli. Ma il difficile consiste appunto nel risalire a quei momenti per dare ai nomi delle contrade il proprio valore etimologico.

 

Abbiamo nel territorio riccese parecchie contrade che si indicano con nomi di persone. Paolina, Piano dell’Amelia, Guado Virgilio, Morge di Stefano, sono nomi degl’individui a cui le stesse terre appartenevano.

 

 

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Altre prendevano il nome della situazione topografica, come Montagna, Colli, Chianeri ; ovvero dalla natura del terreno, come Morriconi, Morgette, Pescheti ; ovvero da piante in esse vegetanti, come Toppo dellè Tiglie, Selvotta, Bosco, Valle Finocchio. Non di rado fu una fontana a dare il battesimo alla località, come Sfonerata e Fontana della Macchia; o un torrente, come Rivosecco e Vallone Cupo; o un lago, come Pantano Ferrone. C’ è la contrada Crocella, perchè in essa è piantata una croce, forse a ricordo di qualche omicidio o disgrazia ; c’ è la Piana dei Pellegrini, perchè attraversata dai pellegrini che si recavano ai santuari delle Puglie ; c’ è la contrada Tratti della Corte e quella del Casino, così detta la prima perchè apparteneva alla corte baronale, e la seconda perchè comprendeva tutta la zona costituente il parco principesco.

 

E potremmo seguitare a far cenno di altre contrade, se non temessimo di varcare quei confini che solo uno studio speciale e diffuso può slargare. Certamente simil genere d’illustrazione non mancherebbe d’interesse e di attrattiva, e gli studiosi di Riccia potrebbero dilettarsi a metterne su i materiali necessarii, come da scrittori di altri paesi si è tentato di fare con molto successo. E sarebbe completato, anche sotto quest’aspetto, il folk-lore della nostra Terra natia.

 

 

             CAPITOLO II. Usi e costumi.

 

 

            La Maitenata. — Nella notte, fra S. Silvestro e Capodanno, rompe i sonni ai Riccesi o rallegra le veglie di quelli che ancora si trovano raccolti intorno al focolare, un rumore di tamburelli e pifferi, alternato ad un recitativo di frasi e strambotti augurali. Generalmente l’augurio comincia così :

 

Quante me pare belle questa case,

pare che so’ ’rrevate ’mparavise;

so’ mo ’rrevate e tutte ve salute,

cumme saluta l’Angel’a Maria:

Bon capedanno a tutt’a Signuria (1).

 

Quando si giunge innanzi alla porta di un ricco, l’augurio è più altisonante :

 

 

(1)

Quanto mi pare bella questa casa.

pare che sono giunto in paradiso;

sono ora arrivato e tutti vi saluto,

come l’angelo saluta Maria;

Buon Capodanno a tutti lor Signori

 

 

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Ma so’ ’rrevate a stu palazzo sante,

sante da u curnecione a u pedamente;

palazze d’oro e de cannune armate;

i femmene daientre sonne fate,

l’ommene sonne principe e barune,

e bone capedanno a lor Signuri (1).

 

Quindi, dal padrefamiglia fino alla domestica, ognuno è felicitato da speciali complimenti. Se c’è una giovinetta da marito, l’augurio dice :

 

Sta maitenata a faceme a Caruline

a puzzama vede’ spusata crammatine.

E cu bonni

e cu bon anno

bone feste capedanno (2).

 

Se c’ è un prete, gli si recitano i seguenti versi :

 

Bonni, bon amie, sante saciardote,

che quella bella messa celebrate

pe refrescà quill’aneme devote,

che stanne dint’ u foco abbannunate.

Pe vuj da u cele seenne Gesù Criste

pe spenzà i grazie seje a bone e a triste.

Vuj ve ne stete sempe vigilante,

quanne ve chiamene i campane sante;

currete a chiesia cu piacere e rise,

cumme s’isseve dint’ u paravise;

currete a chiesia capecote l’anne,

ve lasse lu bonni de capedanne (3).

 

E così via di seguito.

 

 

(1)

Ora sono arrivato a questo palazzo santo,

santo dal cornicione alle fondamenta;

alazzo d’oro e di cannoni armato

le donne dentro sono fate,

gli uomini sono principi e baroni;

e buon Capodanno a lor Signori.

 

(2)

Questa mattinata la facciamo a Carolina;

la possiamo veder sposata domattina

E col buon giorno,

e col buon anno,

buona festa di Capodanno.

 

(3)

Buon dì, buon anno, santo sacerdote,

che quella bella messa celebrate

per suffragare quelle anime devote,

che stanno dentro al fuoco abbandonate.

Per voi dal cielo scende Gesù Cristo

per dispensare le sue grazie ai buoni e ai tristi.

Voi ve ne state sempre vigilante,

quando vi chiamano le campane sante;

correte in chiesa con piacere e riso,

come se andaste dentro al paradiso;

correte in chiesa per tutto l’anno,

vi lascio il buon dì di capodanno.

 

 

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Il giorno di capodanno, poi, sonando i medesimi strumenti, ritornano innanzi alle case per ricevere i piccoli regali in danaro o in cereali.

 

Il più ricordato improvvisatore di maitenate fu un tal Crescenzo Raguso, soprannominato Iritillo. Arguto motteggiatore, non risparmiava ne’ suoi augurî la facezia, e qualche volta la cambiala addirittura in festevoli improperii. Ad un sarto claudicante, chiamato Marco, così augurò il Capodanno :

 

Sta maitenata a faceme a Marchitte

u puzzama vede’ sempe

cu na cossa storta e n’aveta diritte (1).

 

E ad un altro :

 

Sta maitenata a faceme a ‘Ntonio du Turco;

u puzzama vede’ cunsumato e strutto;

e ncape de n’anne

senza manco nu cencione de panne.

Crammatine, pe darete u bon giorne,

veje, e te scoppe i come (2).

 

E finalmente, giunto alle ultime case del rione Casale, da cui si scorge il camposanto, chiudeva il suo giro augurale, facendo la maitenata anche ai defunti :

 

Sta maitenata a faceme ai morte,

lloco eme da mini, ce averne torte (3).

 

 

            Carnevale. — Senza parlare delle solite maschere, più o meno concettose, in carnevale si balla una o due volte della settimana in molte case di contadini e di artigiani.’ Il ballo più comune è la tarantella, accompagnata dal suono di nacchere, tamburelli e chitarre. Tra un ballo e l’altro si mangiano varie specie di fritture, chiamate struffoli, scurpelle, zeppole, innaffiate da frequenti libazioni di vino; e si eseguiscono molti giuochi che non si descrivono, perchè troppo noti. A volte se ne fanno alcuni stravaganti, come è quello del Sansone.

 

 

(1)

Questa mattinata la facciamo a Marchetto,

lo possiamo veder sempre

con una coscia storta e un’altra dritta.

 

(2)

Questa mattinata la facciamo ad Antonio del Turco,

lo possiamo vedere consumato e distrutto;

e dopo un anno

senza neppure uno straccio di panni.

Domattina, per darti il buon giorno,

vengo e ti rompo le corna.

 

(3)

Questa mattinata la facciamo ai morti;

costà dobbiamo venire, e abbiamo torto.

 

 

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Si corica resupino sul pavimento uno della brigata, che fa da Sansone. Tutti gli altri, muniti di fazzoletti annodati, gli girano intorno, cantando il ritornello : Muoia Sansone con tutti i Filistei. Ad ogni giro si fermano, ed uno di essi, inginocchiandosi dinanzi a Sansone, si curva e lo bacia. Indi si alza, e si prosegue il giro, ripetendo la solita cantilena, fino a che non piaccia a Sansone di abbrancare uno di quelli che lo baciano. Ed allora tutti gli altri tirano coi fazzoletti colpi da orbi sulla schiena del malcapitato, insino a che ei non si svincoli dalle strette di Sansone.

 

Si racconta che, in una serata di carnevale, v’ era un animato divertimento in casa di un ricco massaio. Ivi piacque ad un burlone proporre un premio per chi avesse avuto il coraggio di recarsi a mezzanotte al cimitero. La proposta fu accettata ed eseguita da un certo Zi Carlo, uomo ingenuo ma niente pauroso. Ritornando egli dal cimitero, uno de’ sei furbacchioni che lo avevano pedinato, gli disse :

 

— Bravo ! Hai vinto il premio, e noi te lo raddoppieremo, se, abbandonandoti sulle nostre braccia, saprai fingerti morto, dando a credere a coloro che ci aspettano, di essere stato ucciso dalla paura.

 

E Zi Carlo, accettata la seconda proposta, si abbandonò, penzoloni e senza fiatare, sulle braccia degli scaltri compagni che, di peso, lo introdussero nella casa da cui erano partiti.

 

E tutti gli astanti, credendo ch’ei fosse stato realmente vittima della paura, ne rimasero oltremodo costernati. Se non che, quando i sei furono in mezzo alla sala, lasciarono di botto cadere Zi Carlo sul pavimento. Ed egli, pel grave dolore delle scapole ammaccate, piangendo esclamò :

 

Mo so morto, no tanne ! (Ora son morto, non prima).

 

Tutti si sganasciarono dalle risa, meno Zi Carlo, che dovette per tutta la quaresima scontare in letto gli effetti del proverbîo che dice : In carnevale ogni scherzo vale.

 

Fra tante maschere, ne girano anche certe a scopo di ricavare un utile dal loro divertimento. Sono, per lo più, dei giovanetti, vestiti da Pulcinella ed armati di un grosso spiedo, i quali, picchiando alle case di persone agiate, cantano il ritornello :

 

Carnevale, musso vunto,

scoppa pane e fa panunto (1).

 

E ciascuno infila al loro spiedo due dita di salciccia o un pezzo di lardo o qualche nnoglia (parte di budello suino disseccato),

 

 

(1)

Carnevale, muso unto,

spezza il pane e fa il pane unto.

 

 

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tornando così la sera alle loro case con discreta quantità di roba. L’ultimo giorno non si mangia che di sera. E sono scorpacciate di maccheroni e carne, che suggellano il periodo della spensieratezza carnevalesca. Si mangia, mentre gli ultimi e più ostinati capi scarichi, sonando campanacci, e impugnando lumi a bengala, fra pianti e gemiti contraffatti, vanno a precipitare un fantoccio che rappresenta carnevale, giù per la Prece che è la rupe del Castello. Ma ecco che prima di mezzanotte suona la campana della parrocchia. È la voce di Dio che richiama alla penitenza i mortali. Allora i popolani rimettono in tavola i resti della cena, e li divorano prima che entri la quaresima. All’indomani le salacche, le aringhe, il baccalà... aumenteranno le ultime indigestioni di carnevale.

 

 

            Quaresima, S. Giuseppe e Pasqua. — Nel dì delle ceneri i bambini sospendono ad una trave una pupattola con rocca e fuso e sotto i piedi una patata a cui sono infisse sette penne di gallina, rappresentanti le sette settimane di cui costa la quaresima. Ogni domenica si toglie una penna e la si brucia tra le fiamme del camino. Tutti i venerdì, alle due pomeridiane, i fedeli si raccolgono nella chiesa dell’Annunziata per assistere alle funzioni della Via crucis, e i più devoti seguono il prete innanzi ai quadretti della Passione con pesanti croci di legno sulle spalle, in memoria del gran dramma dell’umana redenzione.

 

Viene poi la festa di S. Giuseppe, ed è giorno di abbondanza per tutti i poveri del paese. Moltissime famiglie invitano in quel giorno tre pezzenti: una donna, un uomo anziano ed un ragazzo, rappresentanti la Sacra Famiglia. Essi siedono a tavola dopo aver recitato delle preghiere, e sono serviti con tutto amore e spirito religioso. Le pietanze debbono essere tredici, numero corrispondente ai tredici privilegi di S. Giuseppe; e sono maccheroni, legumi, baccalà ed altri intingoli tutti conditi di magro. In ultimo sono dispensati alcuni lavori di pasta imbottiti con ceci pesti col miele, con riso o con cipolle, denominati nell’idioma riccese cavezuni (cialdonelli). Dopo il pasto gl’invitati hanno un pane benedetto una quantità di cialdonelli e sono licenziati. Certamente non tutti i poveri possono avere tale fortuna, ed allora nel pomeriggio, girando, i non invitati a pranzo, di porta in porta, hanno aneli’essi il pane benedetto, i cialdonelli ed altri resti.

 

Questa filantropica costumanza somiglia alle feste saturnali di Roma. In esse, a ricordo del secolo d’oro, goduto ai tempi di Giano che ospitò ed ascoltò i consigli di Saturno, gli schiavi ed altre persone povere del volgo erano invitati a mense sontuose, assistiti e serviti dagli stessi padroni.

 

 

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Nella domenica delle palme i giovani inviano alle loro fidanzate una bella palma tutta adorna di nastri con qualche oggetto d’oro; e da esse il giorno di Pasqua hanno in ricambio la così detta pigna, specie di torta imbottita di uova e di formaggio fresco.

 

Le sere di mercoledì, giovedì e venerdì della settimana santa, non appena finite le sacre funzioni, si riversa nella chiesa una folla composta per lo più. di fanciulli e giovinetti, armati di bastoni, martelli, raganelle, traccagliole e valecature (1). Ad un cenno del clero si cominciano a vatte i terme; di guisa che queglino forniti di bastoni o martelli si danno con essi a picchiare su banchi o travi con tutta forza, e gli altri dan moto alle loro raganelle e sbatacchiano le traccagliole. Il rumore assordante dura circa dieci minuti ; e ci vuole tutta l’energia degli scaccini e di qualche sacerdote per far cessare il frastuono.

 

Il giovedì santo si aprono alla visita dei fedeli i Sepolcri della Chiesa madre e del Convento. Dodici fratelli dell’Arcieonfraternita, vestiti di lunghi camici bianchi, rappresentano gli Apostoli. Essi, dopo la lavanda dei piedi, ricevono un pane benedetto e vanno ad inginocchiarsi dinanzi al sepolcro della chiesa madre, dove restano in adorazione sino al giorno seguente.

 

Molte beghine sogliono fare il così detto trapasso, digiunando, cioè, dal mattino di giovedì santo sino a quello di sabato santo.

 

Nella settimana santa v’ è un gran da fare nei forni per cuocervi biscotti, fiadoni, piccellati, pizzipalummi e crapiozze (2): tutta roba che insieme all’agnello di rito si consuma nel giorno di Pasqua e nelle scampagnate della settimana in albis.

 

 

            U majo e i fuochi di S. Vitale. — Nella prima domenica di maggio ricorre la festa di S. Vitale, le cui ossa, come dicemmo, furono traslatate in Riccia nel XVIII secolo. In quel giorno vedesi girare per le vie del paese u majo, consistente in un grosso e bel fantoccio, vestito tutto di fiori, e portante in mano i primi frutti della stagione. Essendo vuoto internamente, vi può stare, senza esser veduta, una persona che, camminando e ballando, lo porta in giro innanzi a ciascuna casa, accompagnato da sonatori di tamburelli e chitarre, che cantano :

 

 

(1) Raganella è lo strumento di canna con girella usato nella settimana santa. Traccagliola (tabella), arnese di legno, che ha due sportelli mobili, i quali, sbatacchiando contro la tavoletta a cui stanno impernati, fanno un rumore assordante. Valecaluro strumento di legno che fa il rumore della gualchiera in moto, che per epentesi e per attenuazione del gu in v, diventa in dialetto nostro valechera, donde valecaturo.

 

(2) Fiadoni, sono grosse mezzelune di pasta, imbottite di cacio fresco e uova. Piccellati, sono grosse ciambelle di farina impastata con uova, zucchero e cannella, o semplicemente di farina impastata con acqua e pepe. Pizzipalumme, sono lavoretti di pasta a foggia di paniere, contenenti tre o quattro uova sode, a seconda della grandezza. Crapiozze, si dicono delle bambole di pasta, che hanno il grembialino rilevato da un uovo sodo.

 

 

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Écchete a majo

ca mo è menute,

isci qua fore

ch’ u truve vestute.

Bone venga lu majo,

bone venga lu majo (1).

 

Poi l’augurio comincia a specializzarsi alle persone di famiglia, e la cantata, ad esempio, è la seguente :

 

Ècchete a majo cu li sclure belle

Cristo ce varde Donna Razielle.

Bone venga lu majo,

bone venga lu majo (2).

 

Coi nomi personali si fanno rimare gli aggettivi fino, fresco, odoroso, turchino, rosso ecc. che si aggiungono ai nomi dei fiori.

 

Finita la cantata d’ augurio, ognuno regala alla comitiva pochi soldi.

 

Un anno, parecchi forbiciari di Campobasso si trovavano a Riccia in tale ricorrenza. Nel vedere girare u majo infiorato, si presero beffe dei Riccesi, dicendo che facevano mascherate anche fuori carnevale. Intanto, giunta la brigata col fantoccio in piazza, essi furono i primi a farle cerchio per godersi lo spettacolo e sentire gli strambotti augurali. Il ricordato Iritillo che capitanava l’allegra brigata, avendo inteso il beffardo apprezzamento di questa usanza, si rivolse alla folla, e, facendo le fiche ai Campobassani, improvvisò :

 

Èccheve a majo di sciure cuperte :

Cumm’ acchiamlntene sti voccaperte ! (3).

 

Uno scroscio di risa echeggiò in piazza, ed i critici inopportuni si dileguarono umiliati.

 

Il majo è uno scherzo antichissimo. Nei codici Teodosiano e Giustinianeo è chiamato maiura, ed era un allegorico fantoccio infiorato, che i giovani piantavano innanzi alle porte delle innamorate.

 

 

(1)

Eccoti il maggio

che ora è venuto,

esci qua fuori

che lo trovi vestito.

Ben venga il maggio,

ben venga il maggio.

 

(2)

Eccoti il maggio coi fiori belli,

Cristo ci guardi Donna Graziella.

Ben venga ecc...

 

(3)

Eccovi il maggio di fiori coperto;

come guardano questi scemi !

 

 

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Trova anche riscontro nelle feste di maggio, che, a traverso il medio evo, specialmente a Firenze, si celebravano al risvegliarsi della campagna in fiore, simbolo di giovinezza e di letizia.

 

Ben venga maggio,

E il gonfalon selvaggio.

 

Sull’imbrunire del medesimo giorno, poi, si accendono su tutte le piazze e le strade dei grandi fuochi, intorno ai quali si accalcano ragazzi e giovani d’ambo i sessi, che cantano :

 

Evviva Vitale,

Vitale evviva !

Evviva Vitale,

e chi lo criò.

Quistu Vitale ce l’ha date Die;

mànnece a rascia, e no la carastie (1).

 

Quando la vampa si è abbassata di molto, cominciano i giovani ad attraversarla con un salto; e spesso succedono delle lunghe risate, se qualcuno di essi va a’ cadere co’, piedi sulla bracia.

 

Antichissimo e generale è l’uso di accendere questi fuochi di gioia presso tutti i popoli. Quindi non parrà strano che anche in Riccia sfavillino queste fiamme, circondate dalla festevolezza del popolo che implora dal Santo a cui sono votate, una messe abbondante.

 

 

            Pellegrinaggi e Sagre. — Nella prima quindicina di maggio i contadini mùnnene il grano, vale a dire lo sarchiano, e seminano il granone. Sbrigatisi di questi lavori campestri, incominciano a recarsi in pellegrinaggio ai diversi santuarî. Vanno all’Incoronata di Foggia, a S. Nicola di Bari, a S. Michele del Gargano, a Santa Filomena di Mugnano, a S. Alfonso di Nocera dei Pagani, a Santa Lucia di Sassinoro, alla Madonua di Castelpetroso e di Pompei. E son circa duemila i Riccesi che si spostano annualmente, dalla primavera all’ autunno, per compiere queste visite. Partono, a piedi, a schiere numerose,’ o su carri allestiti per la bisogna, con un fagotto sulle spalle e col bordone in mano, dormendo magari all’aria libera e mangiando di quello che recano dalle proprie case. In questi pellegrinaggi si spendono da sette a otto mila lire annue fra viaggi, donativi, elemosine; e tali spese, senza calcolare la perdita di varie giornate di lavoro, costituiscono un capitale considerevole, che esce dal paese.

 

Se da un lato la fede spinge il popolo a queste periodiche visite, dall’altro è logico riscontrare in tale costumanza un desiderio

 

 

(1)

Evviva Vitale, Vitale evviva !

Evviva Vitale e chi lo creò !

Questo Vitale ce l’à dato Iddio :

mandaci l’abbondanza, non la carestia.

 

 

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di conoscere altri paesi e di obliare per poco, nella varietà dei viaggi, le aspre ed assidue fatiche dei campi e dell’officina. Così molti accorrono pure alle sagre ed alle feste dei limitrofi paesi pe procacciarsi un giorno di svago. Infatti, nel giorno undici di giugno si va a S. Onofrio nell’agro di Castelpagano; il ventisei inglio molti si riversano a Ielsi a godersi la festa di S. Anna, ed altri vanno il quindici agosto all’Assunta in Gambatesa o a S.ta Maria a Quadrano nel bosco di Gildone. Nelle sagre campestri, al rezzo degli alberi secolari, si mangia e si beve allegramente, e si balla sulle erbe dei prati la immancabile tarantella. Dalle armoniche si sprigionano i soliti noiosi motivi, mentre i venditori di castagne, di lupini, di avellane e di cupeta (1) offrono i loro prodotti con inviti insistenti ed assordanti.

 

Si celebrano anche a Riccia con musiche, processioni, fuochi d’artifizio e corse le feste del Corpus Domini, di S. Antonio e di S. Agostino. Ma la maggior pompa si spiega nella festa della Protettrice del paese, che è la Madonna del Carmine. Già nel giorno di S. Pietro la statua si va a rilevare processionalmente dall’elegante delubro che sta fuori del paese, e rimane fino al sedici luglio nella Chiesa madre, da cui, dopo tre giorni di feste solenni, è riaccompagnata al suo tempio. In tale ricorrenza si riversa in Riccia una gran quantità di forestieri, accolti con larga e cordiale ospitalità.

 

 

            La Corella. — Tornati i nostri contadini dalle Puglie, ove si recano ogni anno a mietervi il grano, incominciano la mietitura nei nostri campi. Un cappello di paglia, un grembiule di pelle che scende dal petto alle ginocchia, dei cannelli di canna ove inguaiano le dita della mano sinistra a riparo dei colpi di falce, formano la rozza acconciatura dei mietitori. E sotto la canicola, abbronzati dal sole, allegramente lavorano, ciarlando e cantando insieme alle spigolatrici. Se passa qualche persona per le vie pubbliche limitrofe ai campi, specialmente se forestiere, allora cominciano a caricarla d’improperii e di atroci insulti, senza rispettare nè sesso, nè età, nè condizione. Se è uomo, gli gridano le loro oltraggiose invettive con questo terribile strambotto :

 

Te’, curnute scurnate,

quest’ aveta varrate :

puzz’avè a sorta ch’aveze u crastate,

nasceze curnute e murize scannate (2).

 

 

(1) Cupeta, tavolette di torrone conservate fra due ostie. Dal latino cupedia, che vuol dire leccornia.

 

(2)

Prendi, cornuto scornato,

quest’ altra bastonata !

Possa tu avere la sorte che ebbe il castrato :

nacque cornuto, e mori scannato.

 

 

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Se è una donna rincalzano la dose. Poi si avvicinano al viandante, gli offrono da bere nei loro fiaschi, ed hanno in ricambio tabacco e pochi soldi. E a questa conclusione si arriva da chi conosce tale uso, niente civile a dir vero. Però, qualche volta, questa scena è finita tragicamente, quando, cioè, il viandante ignorava la poco commendevole usanza.

 

Queste ingiurie de’ mietitori costituiscono la corella, forse dal greco χώρα che vuol dire terra coltivabile. Anzi a noi pare che tale uso risalga proprio alla civiltà greca. Nei grandi misteri eleusini, sacri a Cerere, i molti stranieri che si recavano in Eleusi, giunti presso il ponte di un fiumicello chiamato Cefiso, erano villanamente ingiuriati dalla plebaglia. Nè gl’ insultatori se la prendevano soltanto co’ forestieri, ma — al dire di Strabone — davano addosso anche ai più distinti personaggi della repubblica. Or questa scena ricordava le ingiurie che la vecchia Iambea scagliò contro Cerere il giorno in cui — dopo l’affannosa ricerca della sua Proserpina rapita da Plutone — giunse nella pianura d’Eleusi. Ma forse la favola potè sorgere e la barbara costumanza perpetuarsi, considerando che il mietitore, il quale assicura alla società il più prezioso tesoro della terra, può ritenersi in quel momento libero da ogni convenienza e superiore ad ogni persona.

 

A mietitura finita — come pure al termine di ogni lavoro d’arte o d’agricoltura abbastanza lungo — i padroni offrono ai lavoratori il capocanale, cioè un pranzo di maccheroni e carne, come un di più del compenso pattuito. E sulle aie dove i manocchi (covoni) sono stati ammucchiati in artistiche biche, il capocanale finisce sempre con la tarantella. Mietitori e spigolatrici danzano al suono della chitarra sotto il plenilunio diffuso, obliando, in quel tripudio campestre, gli ardori che li estenuarono nella giornata, e le privazioni che forse a loro riserba l’avvenire.

 

 

            Nascite, matrimonii, morti. — Semplici, oltre ogni dire, sono gli usi riccesi in questi avvenimenti. Quando nasce un bambino, la levatrice, insieme al compare ed alla comare, lo va a battezzare. In chiesa, dopo la funzione, i compari regalano la levatrice, il sagrestano e la donna che porta il bambino ; poi tornano a riaccompagnare in casa il piccolo cristiano. Qui si solennizza la cerimonia con dolci e liquori o vino, secondo lo stato della famiglia, e si scambiano gli auguri d’uso. I compari, poi, mandano alla puerpera doni che consistono in galline, paste, zucchero, caffè od altro; e alla loro volta ne hanno, in ricambio, altri doni a Natale o a Pasqua.

 

Per compiere le Solennità nuziali gli sposi sono accompagnati al palazzo municipale ed in chiesa da un lungo codazzo di parenti ed amici. Innanzi va la zita fra due giovanette, seguita da un’altra frotta di donne vestite tutte a colori vivaci.

 

 

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Dopo le donne viene lo sposo fra due parenti o amici, con dietro un altro stuolo di uomini. Quando il corteo nuziale è formato di persone agiate, per le strade succedono vere grandinate di confetti, coi quali si colpisce in malo modo il volto ai curiosi accorsi a vedere gli sposi, mentre la turba dei monelli si precipita sui marciapiedi per raccattare le confetture in un pigia pigia da cui spesso esce qualcuno con le costole rotte. Alla zita si fanno donativi di oggetti d’oro, di fazzoletti e di stoffe. Ordinariamente in casa dello sposo si tiene banchetto; poi si balla sino a mezzanotte.

 

Tutto questo, però, avviene quando gli sposi sono giovani. Ma se contrae matrimonio un vedovo o una vedova, allora la scena muta completamente, e il frastuono che li accompagna dalla casa all’altare e viceversa, chiamasi scurdia. Questa parola dialettale, che equivale a scampanata, deriva dal fatto che gli sposi, ad evitare l’assordante e ridicolo accompagnamento, cercano di sposare o pria dell’ alba o a sera inoltrata, allo scuro, cioè, e con la massima segretezza. Ma raramente riescono a passare inosservati. Ed allora i giovanotti, i capiscarichi, le persone allegre del paese si muniscono di padelle, stagnate, lamiere di ferro e di latta, coperchi, mortai di bronzo e campanacci d’armenti. Il più gioviale va innanzi, quache volta a cavallo ad un asino, con una scopa ed un mastello, benedicendo a destra e a manca. E fra il rumore assordante dei suddetti strumenti, tra gli urli dei sonatori e i lumi che da porte e finestre cacciano gli abitanti, i poveri sposi si mettono gli animi in pace, e sovente ridono anch’ essi alla scrosciante baraonda, che qualche volta si protrae fino a tarda notte sotto la loro abitazione.

 

In caso di morte uno o tutti i preti, secondo la condizione dell’ estinto, e molti amici e parenti accompagnano il cadavere in chiesa e al camposanto. Spesso il funerale è preceduto dalla musica che suona marce funebri, salvo che il defunto non sia un bambino pel quale i motivi sono sempre briosi. Ed è gentile la baricina dei fanciulli. La piccola salma è distesa nella culla, coperta di trine e di veli adorni di fiori, Così, dove i primi sorrisi e le prime aure di vita davan gioia e speranza ai genitori, giace esanime il bimbo cereo; e la cuna, trasformata in feretro, staccando il morticino dagli occhi della madre straziata, lo trasporta in seno alla gran madre terra; mentre i passanti mormorano: Beato te che te ne sei volato in paradiso !

 

Uscito il cadavere di casa, seguono le condoglianze e i riconsoli (pranzi). Nel far le prime si rievocano tutti i pregi dell’estinto e le fasi della malattia che lo condusse a morte. I secondi poi sono i pasti che, giorno per giorno, i prossimi parenti portano alla famiglia del defunto per circa una settimana.

 

 

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            Usi nuziali antichi. — A semplificare le cerimonie nuziali contribuì precipuamente il Cardinale Orsini, nel tempo che resse l’Archidiocesi di Benevento, a cui Riccia appartiene. In un suo editto del 10 àgosto. 1704, egli, rilevando come i Sacramenti debbono essere esercitati con decoro e scevri di ogni azione che possa essere indecente o superstiziosa, ordinò :

 

            1° — « Che nelle nozze non si facciano più le cantilene che sogliono farsi da due Zitelle in atto che gli sposi escono di casa fino al ritorno nella stessa casa, come azione impropria che niente appartiene all’ essenza del sagramento del matrimonio, nè alle cerimonie ordinate dalla Chiesa nella celebrazione di esso, sotto pena di scudi 30 da applicarsi a benefizio della parrocchia, in cui si celebra il matrimonio, e da pagarsi pro rata così dagli sposi come da quelle Zitelle che dette cantilene facessero;

 

            2° — Che si tolga parimenti l’abuso che, posta sulla mensa nuziale la focaccia grande, sia poi rotta sul capo di uno, ed indi, distribuita agli sposi ed agli altri, colla falsa credenza che chi rompe detta focaccia divenga compare cogli sposi, e contragga con loro la vera affinità spirituale, come azione per tali circostanze superstiziosa, vana ed incapace di cagionare l’affinità spirituale, sotto pena di 50 libbre di cera a chi in avvenire ardisse di più commettere simili improprietà, da pagarsi dagli sposi e da chi romperà in tal modo detta focaccia;

 

            3° — Che in Chiesa non si buttino cose dolci, nè fettucce, nè quattrini nell’ atto che si celebra il matrimonio, nè prima, nè dopo, sempre che si sta in Chiesa, e neppure si distribuiscano dalla sposa aghi e spille, come alcune volte è stato malamente praticato, sotto pena di scudi 10 agli sposi o a loro congiunti o amici che dette cose distribuissero;

 

            4° — Che i Parrochi di dette Chiese nelle quali si celebra il matrimonio sieno tenuti a dar avviso alla Curia di tali incidenti che in appresso, dopo l’affissione del presente, si commettessero sotto pena nostro arbitrio; ed affisso il presente editto nei luoghi soliti, vogliamo che obblighi ciascuno, come se fosse stato personalmente notificato ed intimato.»

 

Altri usi stravaganti infine scomparvero per opera dello stesso Cardinale, ma di essi parleremo nel capitolo delle superstizioni e credenze.

 

 

            La corsa del palio ed altri usi. — Nel giorno di S. Agostino, protettore del paese, oltre ai soliti festeggiamenti, si fanno anche le corse. Il palio non è l’antico drappo, ma consiste in una specie di alta croce sulle cui braccia sono in mostra stoffe, fazzoletti, tela, vasi di rame e denaro. Verso le quattro pomeridiane, il palio, portato come uno strano stendardo da un incaricato,

 

 

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è accompagnato dalla banda musicale e da gran quantità di popolo nel luogo delle corse. C’è prima la corsa dei ragazzi e dei giovani più robusti, e poi quella degli asini e dei cavalli. Ogni singola gara comincia con un colpo di schioppo. Il popolo si riversa in due ali lungo il percorso, ed incita e sprona i suoi favoriti alla vittoria man mano che passano. Spesso avviene che qualche asino, in, omaggio alla sua proverbîale cocciutaggine, s’impunta, e recalcitra alle legnate dell’ irritato e deluso cavaliero. Allora scoppiano tra la folla degli spettatori scrosci di risa e lazzi. Fatta la distribuzione dei premii esposti sul palio ai vincitori, a suon di musica e seguiti dalla folla, essi ritornano in paese.

 

Il tredici decembre, giorno di S.a Lucia, s’usa la lessata. Nel giorno precedente si fa la questua di legumi d’ogni specie, e si mettono a bollire alla rinfusa in una enorme pentola, per distribuirne un ramaiuolo a chi viene a chiederne per devozione. Questa lessata ci ricorda l’olla potrida degli Spagnuoli, e forse non andremo lontani dal vero asserendo che l’uso potè venirci da quei nostri secolari oppressori.

 

Anche l’uccisione del maiale dà occasione per celebrare una bella festicciuola domestica. Il macellaio, qualche prossimo parente e qualche robusto amico del vicinato compiono il cruento sacrifizio che ha per finale obbligatorio un lauto banchetto.

 

E qui cade a proposito parlare del porco di S. Antonio. I deputati della festa del Santo padovano comprano uno o due maialetti, tagliano loro le orecchie, e li abbandonano pel paese. E questi animali, senza esser mai molestati, andando di porta in porta, vi trovano sulla soglia qualche giumella di ghiande o granoni che divorano avidamente. Così crescono, ingrassano, e il ricavato della loro vendita aumenta i fondi raccolti per le spese della festa. Questa usanza si trova anche in altri paesi degli Abruzzi; ma il pulito animale generalmente non è dedicato a S. Antonio di Padova, bensì a S. Antonio Abate.

 

Nel Santo Natale a Riccia si scambiano gli auguri e i complimenti di rito, che consistono in torroni, capponi, liquori, aranci, castagne ed altro. Immancabili sono i presepi e i zampognari. La vigilia si digiuna durante il giorno, ma la sera le mense fumigano per molteplici vivande condite all’ olio. I maccheroni con le alici, il baccalà mollicato, agrodolce e arrostito, i broccoli e il capitone formano il menu di rito. In ultimo si servono i maccheroni conditi con noci pestate insieme al torrone di Benevento ; mentre per le strade si sparano botte in gran numero, e sotto il camino arde un mastodontico ceppone. Anche i ragazzi, in tale solennità, portano gli auguri alle famiglie dei loro parenti. Essi dicono :

 

 

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Bon giorno, e bone Natale,

damm’ a ’ffette che so quati’ale (1).

 

Ed hanno il loro regaluccio insieme all’amorevole consiglio di crescere buoni e ubbidienti.

 

 

 CAPITOLO III. Proverbî, motti e indovinelli.

 

 

            Proverbî. — Moltissimi sono i proverbî che usa il nostro popolo, e noi ne raccogliemmo in gran numero. Però essi, nella massima parte, si trovano già registrati nelle raccolte del genere, e se mutano nella forma, ne resta invariata la sostanza. Ciò dimostra che i proverbî, di regola, non sono fioriture speciali di questa o quella regione, di questo o quel paese, ma sgorgano limpidi dall’ osservazione collettiva e molteplice di un popolo che ha comuni la razza e la storia, gli usi ed il clima; e talvolta varcano anche questi confini etnografici per raggrupparsi in massime comuni a tutta l’umanità. Ed è perciò che i brevi dettami della sapienza popolare, che s’usano in Riccia, novantanove volta su cento, sono simili a quelli che in altre regioni italiane vanno per le bocche di tutti. Ora nostro compito sarebbe quello di ricordare solamente quell’ uno per cento di proverbî che, nati a Riccia, formano la proprietà speciale ed assoluta del nostro dialetto. Ma tal compito è difficilissimo per non dire impossibile. Infatti, questo lavoro di selezione da farsi col paziente riscontro delle raccolte del Giusti, del Pasqualigo, del Pescetti, del Castagna, del De Nino e di altri molti, poteva riuscire allo scopo ? A parte il gran tempo che esso sarebbe costato, a parte una tenace perseveranza degna dell’Astigian bizzarro, saremmo arrivati ad isolare i proverbî prèttamente riccesi? Ed in caso affermativo, avremmo fatto opera veramente utile e interessante? Noi ne dubitiamo non solo, ma dichiariamo che a tale sottile ricerca ci sarebbero mancati il tempo e forse la perseveranza.

 

Per tale convincimento, noi riporteremo pochi proverbî, se non tutti originali nella sostanza, almeno caratteristici nella forma, tanto per dare un esempio del modo di osservare e di esprimersi del nostro popolo in tal genere di sentenze.

 

Cummùnechete, vecchia, che crai à da muri. — Comunicati,

 

 

(1)

Buon giorno e buon Natale,

dammi a ffetta (regalo) che son ragazzo.

 

A ‘ffetta dal latino affectus prœmio, che vuol dire premiato.

 

 

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vecchia, che domani dovrai morire. Questa frase si dice a coloro che offrono una parte insignificante di ciò che loro si chiede.

 

Chi s’accasa ntu palese seje, veve nta l’àmpela; e chi ntu palese de l’àvete, ntu fiasco. — Chi si ammoglia nel suo paese, beve nel boccale (àmpela da ἄμπελος, vite), e chi nel paese degli altri nel fiasco. La similitudine è bellissima, perchè del boccale, avendo l’apertura larga, si può guardare la parte interna, mentre il collo strettissimo del fiasco non permette di vedere ciò che esso contiene. E non servono altri commenti.

 

Guaie a quella casa addò i jalline caritene e u jalle se sfa cuiete. — Guai a quella casa dove le galline cantano e il gallo sta zitto; poichè è sempre l’uomo che deve dirigere gli affari.

 

A vecchia che magna pullastrelle, i ve’ vulia de carne salata. — La vecchia che mangia pollastrini, ha voglia di carne salata; vale a dire che quando si ha il sacco pieno di cibi squisiti, spesso nasce il desiderio di tracannare qualche grossolano pasticcio.

 

Chi te sputa ‘mmocca, nen te vo’ vedè morte. — Chi ti sputa in bocca, non ti vuol vedere morto.

 

A justizia è cumm ‘a pasta. — La giustizia è come la pasta che si tira come si vuole.

 

A pacienzia è cumm ‘a piscia: tene, tene, e po’ scappa. — La pazienza è come l’orina: mantiene, mantiene, e poi scappa.

 

Chi è muccecate da serpe, da lucègnela à paura. — Chi è morso dalla serpe, ha paura della lucertola.

 

A ‘rrobba de male acquiste, se ne va de carta pista. — La roba di cattivo acquisto, se ne va di carta pesta; cioè se ne va in fumo subito per cose inutili.

 

Robba de stola, sciusce ca vola. — Roba di stola, soffia, che vola. È il denaro accumulato dai preti, che gli eredi spesso in breve tempo consumano.

 

Chi ze còleca chi quatrale, a matina ze trove ca faccia cacata. — Chi si corica co’ bambini, la mattina si trova con la faccia lorda. Non bisogna mai far confidenze a ragazzi.

 

U prime sùleco, nen è sùleco. — il primo solco, non è solco.

 

Chi carose, ‘ntacca. — Chi tosa, intacca. Carosa dal greco κείρω.

 

Mercante e porce ze videno doppo morte. — Mercanti e porci si vedono dopo morti.

 

Die te varde da pedocchie arrammuvite. — Dio ti guardi da pidocchi risuscitati, che risponde a quello dei Toscani: Dio ti guardi da villan rifatto.

 

Archeverie de matina riegne i cutini; archeverie de sere bon tempe mene. — Arcobaleno di mattina riempie le pozze dei torrenti;

 

 

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arcobaleno di sera buon tempo mena. Archeverie o archevenie da arcum veniae.

 

A Sante Semone a neve pi Streppune. — A S. Simone la neve pei Sterponi, che è una contrada di Riccia.

 

Negghia pa valle, acque pi spalle. — Nebbia per la valle, acqua sulle spalle.

 

Quanne sciocc ‘a pile de gatte, ogn’ora palme quatte. — Quando fiocca a pelo di gatto (sottilmente), ogni ora ne fa quattro palmi.

 

Doppo tre gelate, o na chiòbbeta o na sciuccata. — Dopo tre brinate, o la pioggia o la neve.

 

A bona fatija cummatte ca mala stagione. — La buona fatica combatte con la cattiva stagione.

 

Chi ze jàveze de notte, z’abbusc ‘a pagnotta; e chi zejàveze de jorne z’abbusca u corne. — Chi si alza di notte, guadagna la pagnotta; chi si alza di giorno, guadagna un corno.

 

E potremmo continuare ancora, se non temessimo di cadere in un lavoro di ripetizione inutile e noioso.

 

Riferiamo però le qualità argute con cui distinguiamo i singoli abitanti dei paesi limitrofi a Riccia. L’ uso è generale, tanto che i raccoglitori ne registrano moltissime; e noi ci limiteremo a segnalar quelle, che per la vicinanza dei paesi a cui si riferiscono, sono continuamente ripetute dal popolo.

 

Cuppélune di Riccia. — Si chiamano così i Riccesi, perchè non solo hanno per protettore S. Agostino, il quale porta in testa la mitra episcopale, chiamata in dialetto cuppulone; ma anche perchè questo termine indica semplicità operosa e bonaria.

 

Zellusi di Ielsi. — Non perchè i Ielsesi siano tignosi, tutt’altro. Essi sono un po’ teste calde, e per questo sono distinti col nome della nota malattia che brucia la cotenna.

 

Magnaranocchie di Gambatesa. — Gambatesa è un’ amena borgata che sorge presso il Tapino e il Fortore; e siccome questi fiumi sono popolati di ranocchi, così rie venne l’appellativo di mangia-ranocchi agli abitanti del soprapposto paese.

 

Dottorelli di Tufara. — I Tufaroli si chiamano dottorelli, perchè parlano un dialetto molto stringato ed arguto.

 

Brianti di Colle. — Colle Sannita ebbe la sventura di dare un tristo contingente di briganti, e perciò è rimasta affibbiata ai Collesi tale odiosa qualifica.

 

Culeniri di Castelpagano. — Si chiamano culi neri, perchè indossano pantaloni di panno nero.

 

Vicci (gallinacci) di Cercemaggiore. — Sono cosi chiamati i Cercesi, non solo perchè fanno industria di questi animali, ma anche perchè sono alti e robusti, come il tacchino fra i gallinacei.

 

 

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Tiratrave di Pietracatella. — Sono un po’ tirati quei di Pietracatella, e, a dimostrare questa loro qualità, si narra che, fabbricando una casa, avevano per risparmio tagliate le travi troppo corte. Per portarle alla voluta misura, ne legarono con grosse funi le estremità, e tirando nelle direzioni opposte, sudarono inutilmente molte camice per allungarle. Da questa amena leggenda si chiamano tiratravi.

 

Sciuvelate di Macchia Valfortore. — Scivolati, quasi svenevoli, e forse anche pel paese in pendio, che facilmente si presta a far scivolare la gente.

 

Magnasurge di Gildone. — Tutt’ altro che sorci mangiano i Gildonesi; ma tal nomignolo dimostra che nel mangiare non guardano tanto pel sottile.

 

Magnalengune di Campobasso. — E un appellativo che vuol dire gente che facilmente crede tutto ciò che si dice.

 

Così quelli di Campodipietra si chiamano pedecrette (piedi crepati), quei di Toro capesalate (teste salate), quei di Volturara-Appula pezzenti allegri. E potremmo seguitare, se l’allontanarsi troppo dall’ ambiente riccese, non costituisse una divagazione inopportuna. Ma potranno bastare questi esempi per dimostrare che dovunque il popolo — per dirla con Giusti — ha il suo sommario di formole schiette e .briose, frutto di severa esperienza e di umorismo ammonitore.

 

 

            Motti. — Ogni paese ha un patrimonio speciale di detti e modi proverbîali, originati da episodi, da burle e da fatti da cui il popolo ha tratta la sua esperienza. In Riccia ne abbiamo parecchi, e la loro grande popolarità non ci dispensa dall’ obbligo di riferirli ed illustrarli convenientemente.

 

Spesso sentiamo citare i nomi di Pistola, Eufrasio, Ciocco, Mastiacuccio e qualche altro, i quali, in grazia del loro arguto spirito o della loro melensaggine, stamparono orme incancellabili nel folk-lore paesano. Alcuni, in mezzo alle aspre miserie della travagliata esistenza, gettarono in faccia alla cattiva sorte sprazzi di buon umore e di fina ironia, quasi ad attenuarne le sofferenze nella ineffabile vittoria dello spirito sulle distrette dello stomaco. Qualche altro, nel torpore della sua psiche, reso più gelido dalla povertà che lo afflisse, arrestò l’altrui osservazione sopra alcuni incidenti della sua vita, che offrirono una situazione nuova, sebbene inconsciente, alla modesta cronaca del paese. E rivissero tutti nell’idioma riccese, a colorirne l’immagine o a rafforzarne la logica; rivissero scolpiti nella memoria del volgo e nelle rifiorenti simpatie delle sopravvenute generazioni.

 

Pistola altri non fu che Pasquale Carriero, mediocrissimo muratore, che visse, per la proverbîale imperizia nel suo mestiere, in estrema povertà.

 

 

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Ma sotto il morso della fame, il suo spirito si raffinava, e le sue burle, le sue trovate, le sue astuzie produssero irresistibili scoppii d’ilarità. Nato il 16 luglio 1783 da Giuseppe e Maria Mastroianni, morì il 17 gennaio 1843, proprio all’aprirsi del carnevale che egli ogni anno aveva esilarato con le sue satiriche maschere e buffonerie. Abitava in una stamberga a pian terreno, sita nel rione Casale. Ecco gli aneddoti ed i motti che si ripetono di lui.

 

Pure i porce vanno armate. — Pistola che pigliava tabacco, entrò un giorno a comperarne in un botteghino. Era ivi un brigadiere di gendarmeria, da poco venuto in Riccia, che celiava col tabaccaio. Questi, alzatosi per servire Pistola, pose in un piatto del bilancino un pezzo di carta alquanto più pesante della dramma collocata nell’altro. Or mentre s’accingeva a cavare il tabacco dalla scatola per pesarlo, si abbassò il piatto Con la carta, la quale fu subito da Pistola presa, ripiegata e messa in tasca. E, volgendo le spalle per andarsene, venne dal brigadiere che non lo conosceva, apostrofato con queste parole :

 

— Ehi! balordo, te ne vai senza tabacco: si vede che sei uno scimunito.

 

Il tabaccaio che aveva capita la lezione inflitta alla sua poca onestà da Pistola, ridendo, lo richiamò, e gli diede una buona cucchiaiata d’erba-santa. Indi lo pregò di trattenersi e di raccontare qualcuna delle sue solite fiabe. E Pistola, tra un’affettata svogliatezza e scempiaggine, così prese a narrare.

 

Ferdinando I, dopo il suo ritorno da Vienna, ordinò, nel regno, un disarmo generale. Molti Riccesi cui dispiaceva privarsi delle loro armi, poscia che le ebbero ben bene impiastrate di sego per salvarle dalla ruggine, vennero a sotterrarle in fondo alla mia casetta. Un giorno che me n’ ero allontanato per soddisfare ad un mio bisogno, vi entrarono i maiali di S. Antonio i quali, attratti dall’odore del sego, cominciarono col grifo a scavare; ed, abboccate alcune sciabole a baionette, con quelle fra i denti, uscirono grugnendo su pel largo del Casale. Alcuni naturali di Ielsi, che si recavano a Riccia pel disbrigo di certi loro negozii, vedendoli, furono presi da grande stupore, di guisa che uno di essi esclamò :

 

— Pi Criste! a stu paiese pure i porce vann’ armate.

 

Terminato il racconto, Pistola andò via salutando ; e il tabaccaio, voltatosi al brigadiere, disse:

 

— Brijatè, applica e fa sapone !

 

E la barzelletta di Pistola è rimasta a dinotare che spesso anche gl’ inetti occupano posti immeritati.

 

I sprune ve cundànnene. (Gli speroni vi condannano). — Alcuni bellimbusti di Ielsi, con sproni ai tacchi e frustini in mano,

 

 

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solevano spesso recarsi nel nostro paese a godersi le feste. Pistola, vedendoli sempre entrare in Riccia a piedi, una volta pensò di umiliarli con una delle sue. Si recò dal giudice, e si querelò che i cavalli de’ Ielsesi, lasciati liberi in mezzo al suo campicello di avena, glielo avevano rovinato. Il giudice allora fece chiamare gli spronati cavalieri, e, fatta loro una buona lavata di capo, li obbligò a pagare a Pistola il danno prodottogli dai loro cavalli. Gli accusati, sulle prime, ebbero a cascare dalle nuvole; ma poi uno di essi, fattosi animo, dichiarò al giudice che essi erano venuti a Riccia pedestri modo.

 

Ma Pistola ribattè:

 

— Nen è a vere: i spruni ve cundànnene.

 

Il giudice capì la satira, e la cosa andò a finire in una sonora risata. Ed oggi con questo motto si berteggiano quei vanitosi che, accusati per celia di danni immaginarii a cui dan corpo le stranezze delle loro ostentazioni, li impugnano, movendo a riso gli astanti.

 

M’eje tota a mia. (Ho preso la mia). — In un basso casolare di un sol vano, posto in cima al Colle della Croce, abitava una vecchietta che viveva di filato e con l’industria delle uova fornitele dalle galline. Le quali, di giorno, precedute da un bel galletto, ruspavano e beccavano all’aperto, su per lo spazio erboso, ch’era dinanzi alla casa; e di notte, per l’angustia dell’abituro, si appollaiavano dietro la porta, presso la gattaiuola.

 

Una mattina la vecchietta, contando le sue galline, si accorse che ne mancava una, la più bella e feconda del suo pollame. Invano si diede a frugare e a chiamarla per tutti gli angoli della casa; invano la cercò per le vie e per le case vicine. Qual grave rammarico ne avesse provato, ognuno se lo può’ figurare! Pensa e ripensa, non sapeva darsi pace; ma le disgrazie non vengono mai sole. All’alba della mattina seguente il gallo non cantò; e sospettando non le fosse capitato un altro guaio, saltò dal letto, accese una lucernetta di creta, e si avanzò verso la porta. Data, però, un’occhiata alle galline, ebbe a fremere di sdegno, non trovandovi più il loro galletto.

 

Che cosa era avvenuto? Quel burlone di Pistola, gironzando attorno alla casa della vecchietta, aveva scoperto il pollaio; ed a notte avanzata, introducendo il braccio per la gattaiuola, tira vasi fuori le galline che mangiava lessate, il giorno seguente, insieme ad un vinaiuolo suo compare. Con cui, fra un boccone e l’altro, fu stabilito di recarsi entrambi, nella terza notte, a rapirne alla vecchia non una ma uri paio, per aggiungere l’arrosto all’ allesso. Ma non sempre le ciambelle riescono col buco.

 

 

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La vecchietta cui la scomparsa de’ due polli non lasciava un sol minuto riposare, si stillava il cervello per iscoprire il ladro. Ed entrata in sospetto non ne fosse qualche volpe l’autrice, si diede a meditare pensieri di vendetta. Venne la sera, ed, armatasi di un grosso bastone, si piantò dietro la porta, brandendolo, con le orecchie tese a qualunque rumore venisse dal di fuori. Dopo di essere rimasta in guardia per circa due ore, parvele di udire delle leggiere pedate innanzi alla porta. Acuita l’attenzione, potè poco dopo avvedersi che una qualche cosa penetrava per la gattaiuola. Piena di rabbia, si trasse alquanto indietro, ed alzando con ambo le mani il bastone, lo calò violentemente sulla mano rapace. Allora Pistola che aveva, per primo, introdotto il braccio, lo trasse fuori, e, senza un lamento, disse al vinaiuolo:

 

— Cumpà, m’ eje tota a mia.

 

E volendo anche costui pigliarsi la sua, fu colpito da un’altra bastonata molto più violenta di quella che aveva ammaccata la mano di Pistola.

 

Capito, a loro spese, il latino, scapparono entrambi con le pive nel sacco, e con grande consolazione della vecchia che loro gridava dietro:

 

Figlie de p..., iate a digerì i pullastre che v’avete magnate (1).

 

Trùvete sempe a cuscì, cumpà. (Trovati sempre così, compare). — Il compare di Pistola soleva ammazzarsi, ogni anno, un grosso e grasso maiale; anzi, quando il negozio del vino gli andava bene, se ne ammazzava anche due. Ma in un anno di gran carestia di vino, essendo scarsi gli affari, non potè comperarne che un solo, e questo assai piccolo e magro.

 

Come accennammo, in Riccia c’ è l’ uso, quando si uccidono i maiali, di mangiarne co’ parenti ed amici più stretti il fegato, soffritto insieme a peperoncini di sapore acutissimo, e di regalare agl’ invitati una buona porzione di filetto.

 

Ora il compare, prevedendo che, se avesse seguita la solita usanza, poco o nulla gli sarebbe rimasto del suo maialetto, per evitare tal danno, pensò bene di consultare, in proposito, il suo caro Pistola. Il quale, dopo di aver a lungo meditato, gli consigliò di uccidere il maiale e di situarlo, a vista di tutti, sul davanzale della finestra. Poi toltolo via a tarda notte e nascostolo, bisognava, il giorno dopo, dare a credere agli amici che gli fosse stato rubato. Avrebbe così fatto due cose buone: esposto al gelo della notte e conservato tutto per sè il maiale.

 

Piacque molto al vinaiuolo il consiglio del compare, e da questo aiutato, eseguì appuntino ciò che gli era stato suggerito.

 

 

(1) Figli di p..., andate a digerire i polli che vi avete mangiato.

 

 

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Indi sedutisi presso il camino, vi si trattennero sino a tarda ora, celiando e trincando. Quando Pistola si accorse che il compare non ne poteva più, datagli la buona notte, se ne partì. E il vinaiuolo, sbarrata la porta, se ne andò a letto, barcollante, e ben presto si addormentò profondamente.

 

Ma l’astuto Pistola non dormiva. Quand’egli credette l’ora opportuna, si recò sotto la finestra su cui era stato esposto il maiale, e fattolo venir giù con un lungo uncino, se lo caricò sulle spalle, e via di corsa verso casa a riporlo in un suo nascondiglio.

 

Svegliatosi, intanto, il vinaiuolo poco prima dell’alba, s’alzò, e si avvicinò alla finestra per ritirare il maiale. Ma, non trovandovelo, sentì tale una stretta al cuore da quasi morirne. Riavutosi, corse tosto dal compare, e lo rinvenne che russava ravvolto nei cenci del suo lurido giaciglio. Lo svegliò, e, tutto arruffato e stravolto, gli disse di non aver trovato il maiale alla finestra. E Pistola, senza scomporsi:

 

— Trùvete sempe a cuscì, cumpà.

 

Ma questi insistette :

 

— Cumpà, ie nun pacceje: u purcello à cagnate casa (1).

 

E l’altro:

 

— Bravo, cumpà: trùvete sempe a cuscì, cumpà.

 

Allora il vinaiuolo, sentendosi più e più montare la stizza, masticando una buona filza di bestemmie, andò via furibondo, mentre Pistola lo accomiatava con l’augurio:

 

— Cumpà, tu puzza magnà ca bona salute (2).

 

Anche ora la furba risposta di Pistola, si dà a chi adduce delle scuse futili, per non rendere un servizio o una cortesia.

 

Il forno di Pistola — Abbiamo detto che Pistola era un muratore, e perciò venne chiamato da una donna di Castelpagano per la costruzione di un forno. Detto fatto: all’indomani il nostro bello spirito si mise all’ opera. Ma fu tale la sua imperizia nel costruirlo, che quando andò per liberarlo dall’armatura, s’accorse che sarebbe rovinato. Allora pensò subito al mezzo per uscirne con non molta vergogna. Sapendo che la donna non poteva pagarlo su due piedi, s’appoggiò con le spalle al forno, per controbilanciare alcuni sostegni che aveva già tolti, e chiese alla padrona il prezzo del suo mal fatto lavoro. Ed avendo questa risposto che glielo avrebbe sborsato fra pochi giorni, Pistola, bruscamente, soggiunse :

 

— O mi paghi subito, o butto a terra il forno.

 

 

(1) Compare, io non scherzo: il porchetto ha cambiato casa.

 

(2) Compare, te lo possa mangiare con la buona salute.

 

 

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Non valsero le preghiere e le promesse della donna. Pistola, stanco altresì di reggere con le spalle la pericolante fabbrica, si scostò, e la sua opera minò completamente.

 

Ed il popolo dice di una cosa fatta male e di nessuna durata: Mi sembra il forno di Pistola.

 

Si potrebbero riferire altri fatti e burle di Pistola; ma siccome da essi nessun motto speciale è derivato, così li omettiamo.

 

Me pare u tammurre Vufrazio. (Mi sembri il tamburo di Eufrasio). — Si dice così ad uno che chiacchiera per dieci senza conchiudere mai nulla, ed anche ai bambini che infastidiscono co’ loro lunghi pianti senza motivo. La similitudine ce la porge questa volta un tal Eufrasio Sassani, morto circa trent’ anni fa. Era brutto e grosso della persona, aveva una forte voce asinesca, e indossava abiti logori e sfrangiati. In giovinezza strimpellava il colascione, e viveva di quel po’ che i contadini gli regalavano, quando nelle notti lo invitavano a sonare e a cantare sotto le finestre delle innamorate o in qualche convegno da ballo. Ma questo mestiere gli venne in odio, dopo che una notte, cantando per conto di una brigata canzoni ingiuriose presso la casa di una giovinetta, ebbe a soffrire da parte di altra brigata contraria una terribile scarica di legnate che non solo gli ammaccarono le costole, ma gli mandarono in frantumi anche il colascione.

 

In appresso, riavutosi dalle sofferte percosse, si provvide di un grosso tamburo, che sonava instancabilmente, girando di paese in paese, di festa in festa, nelle novene e nelle processioni. Ma sì scarsi erano i guadagni che ricavava dal nuovo mestiere, che la miseria e la fame lo accompagnarono per tutta la vita. Era sempre seguito da un codazzo di monelli che lo motteggiavano e lo tormentavano in mille guise, tanto che spesso reagiva con parolacce e bestemmie da far accapponare la pelle. Esso, come i favolosi centauri, sembrava incarnato col suo tamburo, perchè non lo lasciava nè notte, nè giorno. Viaggiando, portavalo appeso alle spalle, e spesso gli serviva da origliere. E la cadenza monotona, insistente, invariabile che vi produceva percuotendolo infaticabilmente, è rimasta proverbîale.

 

Nè vuolsi tacere di una certa donnaccia che avrebbe potuto fare il paio con Eufrasio, non meno per grossezza e bruttezza, che per la voce aspra e chioccia, che ingrossava tutti i giorni alla fontana ove si altercava continuamente con altre donne. La chiamavano Scurzone; nè di questo c’ è un titolo più dispregiativo, che possa darsi, fra noi, ad una donna per farla orribilmente montare in bestia.

 

Si nu Ciocco. (Sei un Ciocco). — Questo poco gradito complimento si fa a chi commette qualche insulsaggine o dice delle cose insensate,

 

 

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perchè Benedetto Motta, rispondente al nomignolo di Ciocco, era un grande idiota. Possedeva una sola virtù, quella, cioè, d’infrenare qualunque mulo o cavallo indomito. Per la sveltezza delle sue gambe, era spesso adibito come corriere.

 

Una volta il gentiluomo Vincenzo del Lupo mandò per Ciocco a Vincenzo Gigli in Castelvetere Valfortore, una gabbia contenente due canarini. Ciocco partì come un lampo, ma, giunto nel bosco, aprì la gabbia per baloccarsi con quei graziosi uccelletti. Uno di essi volò via, e Ciocco, lasciando la gabbia aperta, corse dietro al fuggitivo. Ma, dopo lungo rincorrere, tornò trafelato verso la gabbia, da cui era scappato anche l’altro canarino. Allora, senza scomporsi, prese la gabbia vuota, e proseguì il suo cammino. Giunto a destinazione, fu richiesto della sorte degli uccelli; ed egli con molta serietà, rispose;

 

— Eh ! so’ vulute remanè ntu vosco. Eh ! forze che massere ze ne vinne nta caiole. — (Eh ! sono voluti rimanere dentro al bosco. Eh ! forse stasera se ne verranno nella gabbia). — Ad ogni proposizione soleva premettere la particella eh!

 

Un’ altra volta Ciocco tornava da Macchia Valfortore in compagnia di Pasquale Fanelli, e portava in mano un paniere di pesce fritto, che non aveva potuto trovar posto nella bisaccia. Ciocco che seguiva il Fanelli dietro il cavallo, vinto dalla gola ed anche dalla fame, uno dopo l’altro, mangiò i pesci, tanto che a Riccia riconsegnò il paniere vuoto. È facile immaginare l’irritazione del Fanelli, constatando la scomparsa del pesce; ma Ciocco si scagionò con queste parole :

 

— Eh! ze ne-so’ rijute a sguazzerià ntu sciume. — (Eh! se ne sono riandati a sguazzare dentro il fiume). — Il Tapino che si varca tornando a Riccia.

 

Questa risposta rivelò in lui un certo spirito; ma non lo salvò, per altro, dalle batoste del Fanelli e dalla taccia d’idiota, rimasta in Riccia proverbîale.

 

Se teneve nu zico de vàreva, addici ‘ Ustine ! (Se tenevo un po’ di barba, addio Agostino !) — È un motto che suol ripetersi, quando uno scampa miracolosamente da un grave pericolo.

 

Agostino Marsiglia, nativo di Cardito, in grazia del suo volto completamente raso, non fu seviziato dai briganti. Tornava da Terra di Lavoro, allorchè fu sequestrato da essi. Frugatolo diligentemente, si appropriarono di tutto ciò che aveva addosso; però lo rinviarono sano e salvo, perchè non portava peli sul viso, essendo in quei tempi considerati liberali coloro che facevano mostra dell’onor del mento. Ed i briganti, in tal caso, non guardavano tanto pel sottile, giacché, quando non mandavano addirittura all’altro mondo il malcapitato, gli strappavano brutalmente,

 

 

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a ciuffi e magari un dopo l’altro, i peli rivelatori de’ suoi sentimenti politici. Fu, quindi, assai fortunato il Marsiglia il quale, giunto in paese, principiò e chiuse la narrazione della sua brutta avventura col motto di sopra riferito.

 

Ngrazia Die! eme miss’ i pede nta restocce. (Grazie a Dio! abbiamo messo i piedi nelle stoppie). — È questo un altro motto che si dice da chi assicura la sua giornata di lavoro e quindi il pane quotidiano; e si deve ad un altro tipo di umorista, che passò pure in mezzo a miserie e dolori nella vita del nostro paese. Si chiamava Nicola Martino, soprannominato Mast’Iacuccio, sonatore di piffero, e fondatore di una musichetta, composta di piffero, acciarino, catuba e piattini, nota in Riccia e fuori col nome di Bandarella de Mast’Iacuccio. Fu aneli’esso un uomo faceto e arguto, che allietava non poco le brigate; e, fra i vari aneddoti a lui attribuiti, narriamo il seguente che si riferisce al motto innanzi riportato.

 

In una rigida notte d’inverno il Martino era coricato, unitamente a Vittoria sua moglie, sopra un meschino pagliericcio ripieno di stoppie. Malamente coperti e forse anche digiuni, il freddo non permetteva loro di chiuder occhio; quindi l’insonnia li costringeva a voltarsi e rivoltarsi sul loro poco tiepido giaciglio. Ma, in uno di questi movimenti, il Martino, stracciata la stoffa del pagliericcio, ficcò un piede dentro le stoppie; e, volgendo in celia il caso e le sofferenze della notte invernale, disse alla moglie:

 

— Vettò, ngrazia Die! eme miss’i pede ‘nta restoccia: nun murime echiù de fame.

 

Ahimè ! La barzelletta passò nel dominio del volgo, ma quelle stoppie che avevano dato molto grano nell’epoca del ricolto, non potevano appagare l’augurio dell’arguto sonatore di piffero.

 

 

            Indovinelli. — Non c’ è giornale o rivista, oramai, che non abbia la sua rubrica enigmistica, promettendo premi ai fortunati solutori. Ora la fonte più schietta e più briosa di simili ingegnosi giuochi di parole è il popolo che, vivendo più presso alla realtà delle cose, ne sa cogliere e mostrare, nel suo linguaggio immaginoso, i rapporti più intimi e più svariati. E così dalla infinita serie di proverbîi e dall’ arguzia de’ suoi motti, va fino all’ indovinello con cui mette a prova l’acume del suo ingegno e passa un’ ora di svago.

 

Noi qui esporremo tutti quelli che raccogliemmo dalla bocca del popolo riccese, e che forse non costituiscono la collezione com pietà. Danno però un criterio abbastanza esatto di quest’ altro genere di letteratura popolare; e se non sono tutti nuovi, se parecchi di essi si ripetono in altri paesi di regioni limitrofe ed anche lontane, pur tuttavolta non sarà inutile ripeterli.

 

 

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Quatte mazze — e na scupazza:

duie pugnente — e duie lucente.

 

Quattro mazze e una scopa: due pungenti e due lucenti. — È il bue che ha quattro gambe, una coda, due corna e due occhi.

 

Ncopp ‘a na muntagna — ce sta Fulippe Spagna;

cu lu cappelle a pizzo — cu nu pede za ‘mmantè.

 

Sopra una montagna ci sta Filippo di Spagna, col cappello a punte e con un piede si mantiene. — E il fungo prataiolo o cardarello, che, sorretto da un gambo, somiglia al cappello degli Spagnuoli.

 

È tunno e nen è munno ; è acqua e nen è funtana. È tondo e non è mondo, è acqua e non è fontana. Ovvero : È verde e nen è jèreva, è tunno e nen è palla, è ruscio e nen è foco, è acqua e nen se veve. È verde e non è erba, è tondo e non è palla, è rosso e non è fuoco, è acqua e non si beve. — È il cocomero o mellone d’acqua, come dicono a Riccia, per distinguerlo dal popone, chiamato mellone di pane.

 

Fa l’onna e nen è mare; te ‘i spine e nen è pesce. Fa l’onda e non è mare; ha le spine e non è pesce. — È il grano.

 

Rusce ruscetla — arriva n piazzetta,

po ve’ u signore — e a fferra pa coda.

 

Rossa rossetta, arriva nella piazzetta, poi viene il signore e la prende per la coda, ovvero pel picciuolo, poichè si parla della ciliegia.

 

È jàveta quante na stella,

e fa a pedate quante na ‘nella.

 

È alta quanto una stella, e fa la pedata quanto un anello. — È la canna, alta e sottile.

 

É longo cuinme nu trave,

e te’ i zanne curarne nu cane.

 

È lungo come una trave, e ha le zanne come un cane. — È il rovo, lungo e spinoso.

 

A mamma è stortarella,

e a figlia é tante bella.

 

La madre (la vite) è storterella, e la figlia (l’ uva) è così bella.

 

Iaveta e iavetarola,

tanta nétere e tant’ova.

 

Alta e altarola (più alta) tanti nidi, tante uova. — È la ghianda che pende dai rami delle querce, incastonata, come in nidi, in gusci legnosi.

 

 

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I mine tisi, e i cacce musce.

 

Li getti (nell’acqua bollente) rigidi, e li cacci flosci: sono i maccheroni, di cui sì largo consumo si fa nel mezzogiorno d’Italia.

 

So janco e giallo e cu marmoria spoglia;

mamma jette ‘nterra me povere figlie,

e tata ze ne fa na maraviglia.

 

Sono bianco e giallo e con marmorea spoglia; mamma getta a terra me povero figlio, e mio padre se ne fa una meraviglia. — Si tratta dell’ uovo, che quando è fatto dalla gallina, spesso è salutato dal canto del gallo il quale, a sua volta, è il soggetto di quest’ altro indovinello :

 

Ze reveglia a mezanotte, cu nu sperone ‘ntu pede e nen è cavalere, cu na curona ‘ncapo e nen è rre. Si sveglia a mezzanotte, con lo sperone al piede e non è cavaliere, e con una corona in testa e non è re.

 

A mamma de Pilepelossa te’ carne, pile e ossa; a figlia de de Pilepelossa nen te’ nè carne, nè pile, nè ossa. La madre di Pilepelossa (la capra) ha carne, peli e ossa; la figlia (la ricotta) non ha nè carne, nè peli, nè ossa.

 

Tengo tre frate,

tutt’ a treje ncatenate,

fanne l’arte di dannale.

 

Ho tre fratelli, tutti e tre incatenati, che fanno l’arte dei dannati. — E sfido ! il treppiede sta sempre al fuoco. Della pentola invece si dice:

 

È jàveta quanto nu jalle, e fa a pedate quanto nu cavalle; cioè è alta come il gallo, e fa la pedata (lascia sulla cenere l’impronta) come quella del cavallo.

 

Chi u fa, u fa pe venne; chi zu ‘ccatta, nen ze ne serve; chi ze ne serve, nen u vede. Chi lo fa lo fa per vendere, chi lo compra non se ne serve, chi se ne serve non lo vede. — È la cassa funebre, chiamata nel dialetto riccese taùto e tavuto, probabilmente da τάφος che in greco vuol dir fossa, rito funebre.

 

È bell’ a vedé, è cara a ‘ccattà;

ignela de carne, e làssala sta.

 

Si parla dell’anello che è bello a vedere, è costoso nel comprarlo; empilo di carne (ficcalo nel dito) e lascialo stare.

 

Na vecchiarella cu nu dente

chiama da na fenestre tutt’ a gente.

 

Una vecchierella con un dente, chiama da una finestra tutta la gente. — È la vecchia campana col suo battaglio,

 

 

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che invita i fedeli al tempio per la messa e per altri riti, fra cui la confessione che è sintetizzata in quest’ altro indovinello :

 

Òmmene e òmmene a punne fa,

Òmmene e femmene a punne fa,

femmene e femmene ‘nna punne fa.

 

Uomini e uomini la possono fare, uomini e femine la possono fare, femine e femine non la possono fare.

 

C’ è poi quello sullo schioppo (a scuppetta), che dice: È longa e stretta, e fuie curarne na sajetta; e quello sulla chiave : Ficca ficcatine, vota vutanne, vota nu poco, e po’ ze reposa; cioè, ficca ficcando, volta voltando, volta un poco e poi si riposa.

 

Ne abbiamo infine alcuni in apparenza osceni, ma nella sostanza innocentissimi, come i seguenti:

 

Tate niro appise steve,

e mamma roscia nculo vatteva.

 

Il padre nero (il caldaio) stava appeso, e mamma rossa (la fiamma) di sotto lo percoteva.

 

È longo e terate,

e repenneleje ‘nnanze a tate.

 

Allude al laccio della mutanda che è lungo e tirato e spenzola innanzi a mio padre; mentre la pedana (pedìa dal latino pedica) che portano le donne all’ orlo interno della veste, è così descritta : Tutt’ i femmene a tinne sotto; chi a te’ sana e chi a te’ rotta: tutte le donne l’ hanno sotto; chi l’ ha sana e chi l’ ha rotta.

 

Il fiasco di vetro (carrafone) :

 

È longo e liscio

e u tij mmano quanne pisce.

 

Val quanto dire che è lungo e liscio, e lo hai in mano, quando con esso mesci il vino.

 

Tata n ‘ngrille e mamma u ‘mmosce. Mio padre lo ingrossa e mia madre lo fa moscio. — È il sacco della farina che l’ uomo procaccia col lavoro e la donna vuota pel pane.

 

Ze cala u cavezone, e jesce u ppennelone. Si cala il Pantalone ed esce il pendente. — È la pannocchia del granone, che, denudata del suo cartoccio, mostra il suo frutto.

 

Chiudiamo infine questo capitolo col riportare un graziose indovinello che racchiude in sè un ingegnoso lavorìo di calcolo.

 

Sette puzzente, sette mazze a puzzente, sette cocchie a mazze, sette panettere a cocchie, sette tozzere pe panettere, quante so’? Sette pezzenti, sette bastoni a pezzente, sette rami a bastone,

 

 

325

 

sette panattiere a ramo, sette tozzi per panattiera, quanto formano? — Il conto non è difficile, ma di primo acchito non darebbe subito la cifra di 16807.

 

 

 CAPITOLO IV. Fiabe (Cunti).

 

L’immaginativa popolare, così impressionabile e multiforme, ha creato una serie infinita di leggende. Anzi il primo scatto di essa, esagerando i contorni della realtà, prese la veste della favola; e formò il primo sapere da cui attinsero non pochi materiali la religione e l’arte di tutti i paesi. E se la scienza ne’ suoi mirabili progressi, assegnando le ragioni dei fenomeni, spazzò via il pregiudizio e l’iperbole, pur tutta volta, nelle geniali tradizioni dell’arte e nella evoluzione del sentimento umano, la leggenda è rimasta a confortare di sorriso e di poesia i cresciuti disagi della vita. Anzi questo generale risveglio di ricerche e di studii che tendono ad illustrare le manifestazioni del pensiero popolare, sembra fatto a bella posta per riaccendere nei cuori la sopita letizia.

 

In Riccia vivono ancora parecchi di questi racconti (cunti) maravigliosi, in cui le fate, gli orchi e i mostri ne commettono di tutti i colori, dotati, come sono ritenuti dagli sciocchi; di poteri soprannaturali. Ma dopo uno studio comparativo, abbiamo potuto stabilire che buona parte di essi si narrano in altre regioni, e già furono pubblicati, come La penna dell’uccello Grifone, La capra dalle sette corna in testa, Lo spillo d’oro, La volpe che si vuol maritare ed altre molte. In questo capitolo, perciò, riferiamo le fiabe che conservano una fisonomia quasi propria nel movimento della narrazione, e qualcheduna che, pur non essendo locale, ha delle varianti che meritano di esser registrate.

 

Ripetiamo, finalmente, ancora una volta, che non intendiamo di aver fatto opera completa. Forse altre leggende narra il popolo riccese nelle sue veglie, e chiediamo venia se alle nostre ricerche sfuggirono, per circostanze non imputabili a cattiva volontà.

 

 

            Fate omicide. — C’era una volta la Fata Regina che aveva giurato di non piegar l’animo suo al giogo d’amore; e perciò se ne viveva solitaria nel suo palazzo d’oro. Molti bei cavalieri avevano richiesta la sua mano, e non solo n’ebbero una sprezzante repulsa, ma rimasero incantati nei boschetti dell’immenso giardino. Invano i genitori ne attesero il ritorno, invano furono ricercati per ogni dove. Ovunque regnava la costernazione e il lutto, e nessuno sapeva spiegarsi la causa di tante misteriose scomparse.

 

 

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Gli anni passavano ed il vuoto fra gli sventurati giovani cresceva, finché la Fata Regina fu assalita dal rimorso. E, volendo mostrarsi più mite, fece scrivere sulla porta del suo palazzo, a caratteri d’argento, queste parole: Chi vuol conquistare l’amore della Fata Regina, deve portarle in dono la fontana a getto d’acqua variopinta, il sole che sorge in oriente e l’ usignuolo che canta storie d’amore.

 

E si rinchiuse nella sua fredda solitudine, mentre migliaia di cavalieri perivano nella fatale impresa.

 

Avvenne che anche tre figli di re, belli, forti e audaci, vollero avventurarsi nell’ardua ricerca di ciò che ambiva la Fata Regina. Infatti il primogenito disse:

 

— Fratelli, io parto per tentare la fatale conquista che mille cavalieri non hanno potuto compiere. Ho quasi la certezza della vittoria ; ma, se dopo un anno, io non sarò tornato, desidero parta il secondegenito ed anche, se occorrerà, l’ ultimo fratello.

 

Preso commiato dal re e dalla corte, fortemente armato, inforcò il suo cavallo favorito, e si lanciò a galoppo per la campagna. A notte inoltrata riposò presso un’umile capanna di boscaiuoli; ma nel sonno un mago venerando si accostò a lui, e, scotendolo, gli disse :

 

— O figlio di re, so che ti sei accinto ad una terribile impresa. Il sole, la fontana e l’usignuolo sono in un pozzo profondissimo. Galoppa trenta giorni verso levante, ed io veglierò su’ tuoi passi.

 

Ed il giovane regale, dopo trenta giorni di galoppo verso oriente, giunse presso un pozzo, dove l’aria era buia come l’inferno, il vento torceva violentemente gli alberi della foresta, e lampi, tuoni e grandine accrescevano l’orrore della burrasca.

 

Il figlio del re non si sgomentò, e calando nel pozzo, intese la voce del mago che così lo consigliava:

 

— O valoroso, hai toccato la meta. Ma, per uscirne vittorioso, guardati dal piegar l’animo alle seduzioni delle fate.

 

Il principe allora spinse impavido una porticina di bronzo, e si trovò in un lungo e stretto corridoio da cui passò in una fulgidissima stanza d’argento. In essa, sopra un letto di gelsomini, era mollemente sdraiata un’affascinante bellezza che lo invitò, con voce melodiosa, a sé e al suo amore. Il figlio del re cercò di essere forte, ma vinto da una malia irresistibile, si abbandonò all’amplesso della fata. Ed ecco che, al primo bacio, le sue membra divennero torpide, e, balzato in un angolo della stanza, restò tramutato in istatua d’argento.

 

Passato un anno, il secondo fratello disse al terzo:

 

— Il nostro buon fratello è perduto; perciò domani partirò io. Se dopo un anno non mi vedrai tornare, tenterai tu la conquista.

 

 

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Galoppa, galoppa, trovò anch’egli il mago; e, dopo trenta dì, giunse al pozzo fatale fra la rabbia degli elementi. Scendendo, intese il monito solenne, e, cacciatosi pel corridoio, penetrò nella stanza d’argento. La fata, col più voluttuoso dei sorrisi, lo invitò al suo bacio; ma il secondo figlio del re fu insensibile alle seduzioni di lei, tanto che, spinta una porta d’argento, si trovò in una stanza d’oro. Qui l’aria era densa di profumi inebbrianti, e sopra un letto di rose giaceva una fata più seducente della prima. Il figlio del re lottò con ogni sua possa, ma anch’egli fu vinto dall’irrompente malia, ed il bacio della fata lo mutò in una statua d’oro.

 

Passato il secondo anno, l’ ultimo figlio del re abbandonò la corte; e, dopo le stesse peripezie, si trovò nella stanza d’argento. La prima fata non potè scuoterne la fermezza, e minor fortuna s’ebbe la seconda; di guisa che egli potè entrare in una terza stanza, di cui il pavimento era di porfido e le pareti e la volta tutte tempestate di gemme e diamanti. Sordo agl’ inviti procaci della fata bellissima che l’abitava, attraversò l’ ultima porta che metteva in un delizioso giardino. Quivi trovò la fontana dal getto d’acqua variopinta, di cui s’impadronì, dopo di avervi ucciso un drago con sette teste infocate, che la custodiva.

 

Ad un tratto intese il gorgheggio dell’ usignuolo, che diceva :

 

— O bel figlio di re, vuoi tu sentire una storia d’amore?

 

Il grazioso uccello era imprigionato in una gabbia spalmata di vischio tenace che avvelenava chi lo toccava. Ma il figlio del re inguantò le sue mani, e s’impadronì dell’ usignuolo.

 

Dirimpetto spuntò nella porpora orientale il sole, guardato da un’aquila terribile a tre teste che, come si tagliavano, rinascevano. Ma il valoroso le spaccò il cuore con una freccia avvelenata; e. preso anche il sole, tornò su’ suoi passi. Nella stanza d’oro, scomparsa la fata, trovò il suo secondo fratello. Anche nell’altra s’incontrò, nel posto della fata, col primo fratello. Ebbri di gioia, si divisero le conquiste, ed, usciti dal pozzo, si avviarono a gran galoppo al palazzo della Fata Regina, già avvertita della sconfitta dalle fate fuggitive.

 

I tre giovani furono ricevuti con tutti gli onori ; però la Fata Regina non volle impalmare il terzo figlio del re. E fu convenuto che, a premiare il gran coraggio dei tre baldi giovani, sarebbe stato loro concesso di rimanere per otto giorni soltanto nella dolce compagnia delle tre fate.

 

Ma le perfide spensero con filtri letali i tre giovani, e la Fata Regina si richiuse nel suo corruccio. Però la fontana perdette i suoi colori, e cacciò dal suo rubinetto acqua torbida; l’ usignuolo non raccontò più storie d’amore, e il sole si oscurò tanto che una eterna notte circonda ancora il palazzo delle fate omicide.

 

 

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            La perla ripescata (1). — C’era una volta un bel principe, chiamato Chiocciolino, che s’era recato oltremonte ed oltremare a sposare la ricca principessa Violante. Mentre il bastimento su cui erano saliti gli sposi per varcare il mare, stava per toccare la riva opposta, un orco, sorto dai flutti, afferrò Violante, e la trascinò seco negli abissi profondi.

 

Colpito al vivo da tale sciagura, il misero Chiocciolino si sarebbe senz’altro precipitato in mare, se quelli del seguito non lo avessero rattenuto e poscia sbarcato con mille precauzioni. Però, giunto sulla riva, non volle assolutamente proseguire il viaggio; e, licenziati tutti i suoi amici, restò seduto sopra uno scoglio esclamando :

 

— Rimarrò qui, finché il mio buon genio non mi restituirà Violante. Lasciatemi solo, e non vi date pensiero della mia sorte.

 

E stette sulla riva del mare, ove le notti ed i giorni si succedevano, senza che il suo buon genio venisse a soccorrerlo.

 

Una mattina, svegliatosi da un penoso e breve assopimento, vide sotto lo scoglio una piccola barchetta solitaria. Chi l’aveva spinta in quei paraggi? Chiocciolino pensò subito alla misteriosa potenza del suo genio protettore, e credendo di essere giunto il momento di agire per por termine al suo martirio, scivolò giù per lo scoglio, e si adagiò sulla barchetta. A forza di remi prese il largo, e vogò lungamente ed energicamente. La terra era scomparsa, la notte inoltrata e le sue energie s’erano tanto affievolite, che, vinto da una grave stanchezza, fu preso da profondo sonno.

 

Allora gli apparve il suo genio protettore e così gli parlò:

 

— La tua Violante è prigioniera del crudele orco marino, che rapisce le più avvenenti spose novelle. Esso nel luogo più profondo del mare ha il suo palazzo fatto di coralli, guardato da un mostruoso polipo che non ne permette l’ingresso a nessuno. E guai a quel disgraziato che osasse avvicinarglisi ! Sarebbe stretto ne’ suoi tentacoli, stritolato e ingoiato senza misericordia. Ora l’ unico mezzo per penetrare nel palazzo dell’ orco è quello di addormentarne il mostro. Il che può ottenersi col versare nel mare il liquore contenuto in questa boccetta, a patto che chi l’ usa, non deve farsi sopraffare dalla paura. Sei tu capace, Chiocciolino, di non battere ciglio di fronte al mostro?

 

 

(1) L’orco marino di questa fiaba ha una qualche somiglianza col gigante del Sund che, nella leggenda danese, rapi la bella Rosa di Seeland; e potrebbe anche lontanamente riferirsi all’Hafstraub scandinavo, agl’Inui cattivi o Ingnersuit degli Eschimesi, ai Gusitarak dei Lapponi, ai Vodyany degli Slavi e ai Dracae dei Galli. Inoltre il genio protettore trova riscontro negli Angâkok dei Groenlandesi, e il polipo guardiano nel Sea-devil degli Americani.

 

 

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Se sì, eccoti la boccetta del liquore, con la quale ti gitterai nel mare ; se no, ritorna alla riva, e dimentica la bella Violante.

 

A tale discorso, Chiocciolino apri gli occhi; e siccome, per riabbracciare la sua dolcissima sposa, avrebbe affrontato non una ma mille morti, così, stretta in pugno la fiala, spiccò un salto, e si sprofondò nel mare.

 

Una forza misteriosa lo spingeva giù, sempre giù, rasentando una gran quantità di pesci di varie forme a dimensioni. Or, quando cominciò a discernere un certo chiarore diffuso, pensò di essere vicino al fondo del mare e al palazzo dell’ orco, e perciò rallentò la discesa. Infatti, poco dopo, si trovò in vista di un colossale edificio lucente e sontuoso. Come il polipo si accorse della presenza di lui, cominciò ad agitare i suoi poderosi tentacoli così violentemente, che tutta l’acqua ne fu sconvolta come per tempesta. Ma Chiocciolino non perdette il suo coraggio, e, votata la boccetta nell’acqua, ne placò il pauroso gorgoglio.

 

Addormentatosi il polipo, Chiocciolino potè avvicinarsi al vestibolo del palazzo, circondato da colonne di coralli e illuminato da luce vivissima. Quand’egli ebbe varcato la soglia del portone, si trovò in una gran sala tutta adorna di grosse perle. Ivi fu subito colpito da uno strano e flebile lamento che sembrava uscire da quelle perle smisurate. Tese l’orecchio alla più vicina, e intese:

 

— L’orco marino mi rapì allo sposo adorato, per rinchiudermi in questa perla. O mio sposo adorato, perchè non vieni a liberarmi?

 

E questo lamento era ripetuto da tutte le altre perle. Chiocciolino, per sapere in quale di esse si nascondesse la sua Violante, cominciò a chiedere il nome delle prigioniere. E intese nomi illustri per ricchezza e per beltà, nomi di principesse e di altre nobili donzelle, che imploravano il suo soccorso. Come intese la voce della sua sposa, con un colpo di spada spezzò la perla, e Violante si precipitò in un delirio di gioia fra le sue braccia. Rotto l’incantesimo, tutte le belle prigioniere furon libere anch’esse, e, seguendo Chiocciolino e Violante, ben presto furono ricongiunte ai loro mariti.

 

E l’orco marino?

 

Tornato al suo palazzo, e non avendo trovato le sue belle prede, fu invaso da tale accesso di collera, che ammazzò il polipo gigantesco, e lo mangiò tutto. Ma, fattane una indigestione, crepò.

 

 

            U munelluccio. (Il corbellino) (1). — La madrigna la picchiava a più non posso, e la manteneva con un tozzo di pane nero.

 

 

(1) Questa fiaba é anche comune negli Abruzzi, ed è riportata nel terzo volume degli Usi e costumi abruzzesi del De Nino, col titolo: Lu cuscinate, diminutivo di còscene (corbello). Ma ci sono tante varianti, che non ci è parso inopportuno riprodurla nella versione riccese. Munello poi ha quasi la radice della greca parola μέδιμνος che vuol dire appunto staio.

 

 

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E mentre la sorellastra andava ben vestita, mangiava le pietanze più saporite, e non faceva nessun servizio, essa era costretta a covrirsi di cenci, a digiunare e a sgobbare di lavoro. E la infelice giovinetta sopportava la sua misera vita con pazienza e rassegnazione.

 

Un giorno, dopo i soliti rimbrotti, fu costretta a togliere dalla casa le immondizie. Ella le radunò tutte in un corbellino, e andò a gettarle in un prossimo vicolo. Ma, nel buttarle, le cadde di mano il corbellino il quale, rotolando giù pel vicolo in pendio, ben presto fu da lei perduto di vista. Allora, non potendo tornare a casa senza quell’arnese, cominciò a discendere pel vicolo, e, giunta ad una porticina, domandò ad una donna:

 

— Hai visto il mio corbellino?

 

—  Sì, ma te lo restituirò dopo che m’avrai zappata la casa. La buona giovinetta, invece di prendere la zappa, diè di mano alla scopa, e rese il pavimento lucido come uno specchio.

 

La donna la ringraziò, e le disse che il corbellino era rotolato più giù. E la giovinetta, seguitando la discesa, disse:

 

Munellucce meje, munellucce meje,

cchiù sotte vaj, cchiù sotte veje (1).

 

E giunse ad una seconda porticina, ove trovò un’ altra donna che, domandata del «corbellino, rispose:

 

— Sì, l’ ho veduto; ma te lo restituirò dopo che avrai tagliuzzato e ridotto in piccoli pezzi il mio letto.

 

La giovinetta, invece di prendere le forbici, rifece il letto così bene, che sembrava quello d’ una sposa.

 

La donna la ringraziò, e le disse che il corbellino era rotolato più giù. E la giovinetta, seguitando la discesa, ripetette:

 

Munellucce meje, munellucce meje,

cchiù sotte vaj, cchiù sotte veje.

 

E giunse ad una terza porticina, ove trovò un’altra donna che, domandata del corbellino, rispose :

 

— L’ho visto anch’io; ma te lo restituirò dopo che avrai rotti tutti i miei piatti.

 

La giovinetta, col solito garbo, invece di spezzare i piatti ancora sporchi pel recente pasto, li lavò, li asciugò ben bene, e li dispose in bell’ ordine sulla rastrelliera.

 

La donna la ringraziò, e l’assicurò di aver veduto il corbellino rotolar più giù. E la giovinetta, seguitando la discesa, replicò :

 

 

(1)

Corbellino mio, corbellino mio.

più sotto vai, più sotto vengo;

 

 

331

 

Munellucce meje, raunellucce meje,

cchiù sotte vaj, cchiù sotte veje.

 

E giunse ad una quarta porticina, ove trovò un’ altra donna che, domandata del corbellino, rispose:

 

— L’ ho proprio io; ma te lo restituirò dopo che avrai uccisa la mia bambina che piange nella culla.

 

La giovinetta allora, piena di tenerezza, accorse presso la cuna, e, sollevata la bambina, l’adagiò nel suo grembo, la sfasciò e lavò. Indi, avvoltala in lini e fasce di bucato, la riaddormentò.

 

La donna, nel ringraziarla, le restituì il corbellino pieno di perle e di brillanti, e le disse:

 

Il Signore ti benedica, savia giovinetta. Tu sarai felice, e quando sarai uscita di casa mia, guarda in cielo, ed avrai altre benedizioni.

 

La giovinetta seguì il consiglio della donna che era una fata come le altre tre, e, nell’alzare il viso al cielo, le cadde in fronte una stella lucente, e si trovò rivestita di abiti ricchissimi.

 

Giunta a casa, la madrigna restò trasecolata innanzi alla trasformazione della figliastra; e, piena di gelosia, pensò di mandare anche sua figlia a prestar servigio alle fate. Ma questa nella prima casa mise a soqquadro il pavimento, in quella della seconda tagliuzzò tutto il letto, in quella della terza ruppe i piatti, e nell’ultima ammazzò la bambina.

 

Riebbe così il corbellino pieno d’immondizie, e nell’uscir fuori, volta la faccia al cielo, le cadde in fronte una coda d’asino.

 

Piangendo dirottamente allora, .tornò a casa, gridando:

 

— Muzze mamma, muzze mamma! .. (1).

 

La madre con le forbici cominciò a tagliare la coda; ma più tagliava e più cresceva.

 

E così la perversa madrigna fu punita con l’infelicità della figlia e il tripudio della figliastra, che fu sposata da un bel principino tra feste sontuose e canti di gioia. Io stesso invitato allo sponsalizio n’ebbi tre confetti. Uno dei quali mangiai per far onore agli sposi, un’altro lo regalai ad un poveretto, e il terzo lo avrà domani mattina chi andrà a dormire senza pianti e senza capricci.

 

 

            Arsieri. — C’era una volta una regina che non aveva figli, e perciò se ne disperava giorno e notte. Il re ne era pure costernato, pensando che la sua corona non sarebbe stata trasmessa ai suoi discendenti.

 

Un giorno venne a palazzo reale una povera vecchietta a chiedere l’elemosina, e, visto il pianto della regina, domandò :

 

 

(1) Taglia, mamma; taglia, mamma !...

 

 

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— Maestà, perchè piangete così? Non siete voi felice?

 

— Sono infelicissima — rispose la regina — perchè non ho figli.

 

— È cosa da niente — soggiunse la vecchia — mangiate questa sardella, e uscirete subito incinta.

 

In così dire, cacciò di tasca il pesce salato, e consegnatolo alla regina, andò via.

 

Immediatamente la sardella fu affidata ad una serva che la lavò e la ripulì delle scaglie. E siccome a corte tal genere di cibo non s’era mai ordinato, così, vinta dalla gola, ella ne mangiò la testa, e ne gettò l’acqua in un cortile dove fu leccata da una giumenta. La regina mangiò la sardella, e ne gettò la spina ad una sua cagna favorita.

 

E così fu che la regina, la serva, la giumenta e la cagna uscirono contemporaneamente incinte.

 

Immaginarsi la letizia della corte e del re ! La regina fu circondata da tutte le precauzioni, e, dopo il periodo di tempo stabilito, alla stessa ora del medesimo giorno, la regina e la serva si sgravarono di due bellissimi maschietti, la giumenta d’ un brioso puledro e la cagna di un bel cagnotto.

 

I reali vollero che i due bambini fossero allevati insieme, e crebbero vispi, intelligenti, robusti e affratellati a segno da pon poter vivere separati un momento. Fatti grandicelli, furono mandati a educare in una lontana città; ed, affidati alle’cure dei più valenti maestri, vi rimasero fino all’età di diciotto anni. Allora il principino e il suo fido Arsieri, che così chiamavasi l’amato compagno, si accinsero a ritornare presso i loro genitori.

 

Cammina, cammina, giunsero presso una fontana ove, dopo un lauto desinare, riposarono e dormirono. Ma nel sonno Arsieri vide una lunga fila di gru, e questi volatili dicevano :

 

— Appena giunti a corte, il re regalerà a suo figlio un brioso cavallo, e non appena lo monterà, il principino sarà gittato a terra e ucciso dai calci dell’ animale. Ma c’ è un rimedio. Se in quel momento, o Arsieri, troncherai la testa al cavallo, il tuo fido compagno non passerà alcun pericolo.

 

Però chi parlerà,

di marmo resterà.

 

Svegliatosi, proseguirono il loro cammino, e giunti, dopo una lunga marcia, ad un’altra fontana, si rifocillarono e si abbandonarono a nuovo riposo.

 

Ma nel sonno Arsieri vide una seconda fila di gru, e intese che dicevano :

 

— Dopo il dono del cavallo, il re regalerà a suo figlio un bellissimo cane da caccia ; e non appena il principino vorrà carezzarlo,

 

 

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ne sarà morso, e morirà idrofobo. Ma c’ è un rimedio. Se in quel momento, o Arsieri, troncherai la testa al cane, il tuo amato compagno non passerà alcun pericolo.

 

Però chi parlerà,

di marmo resterà.

 

Dopo il sonno si rimisero in cammino, e per ristorarsi arrestarono la loro marcia presso una novella fontana.

 

Ma nel sonno Arsieri vide una terza fila di gru che così gli parlarono :

 

— Quando il principino passerà a nozze, nella prima notte un dragone entrerà nella sua camera e lo incenerirà. Ma c’ è un rimedio. Se in quel momento, o Arsieri, ucciderai il drago, e ne brucerai il cadavere sopra un gran mucchio di carboni ardenti, il tuo affezionato amico non passerà alcun pericolo.

 

Però chi parlerà,

di marmo resterà.

 

Giunti a corte, furono ricevuti con grandi feste, ed il re, per mostrare al figlio il suo affetto, gli regalò il magnifico cavallo, nato dalla giumenta che aveva leccata la lavatura della sardella. Arsieri che vegliava sulla sorte del principino, come questi fece per montarlo, con un colpo di spada tagliò netto il collo al quadrupede. Il re rimase oltremodo offeso da tale atto, ma, pregato dal figlio, che svisceratamente amava il suo Arsieri, questi fu perdonato.

 

Si approssimava intanto l’epoca delle cacce reali; e il re, per addimostrare al figlio la sua predilezione, gli regalò il bel cane, nato dalla cagna che aveva divorata la spina della sardella. Però, all’ indomani, mentre la muta dei cani era allestita per la caccia, e il principino si avvicinava a quello donatogli dal padre per accarezzarlo, Arsieri troncò subitamente il capo alla bestia. Allora il re cominciò a rimbrottarlo aspramente, ma il. figlio, vincendo anche il proprio dispiacere, pel grande amore che nutriva per Arsieri, s’interpose e lo fece perdonare.

 

Morti il re e la regina, Arsieri vide con grande gioia il suo compagno coronato re. Il loro affetto raddoppiò, ed Arsieri ebbe in occasione del regal matrimonio il posto d’onore. Ma la sera, prima che il re fosse entrato nella camera nuziale, Arsieri gli chiese per grazia di permettergli di vegliare presso la porta socchiusa. La giovine regina non avrebbe voluto ad ogni costo un testimone così indiscreto; ma l’affetto del re vinse le riluttanze della sposa, e Arsieri fu esaudito.

 

Frattanto, dopo mezzanotte, un orribile drago apparve nelle vicinanze della camera.

 

 

334

 

Ma Arsieri che vegliava, impegnò col mostro una lotta feroce, lo uccise, e lo bruciò sopra il mucchio di carboni accesi. Ed il re anche questa volta fu salvo.

 

Ma la regina, gelosa dell’ intima amicizia che legava il marito ad Arsieri, cercò con tutti i mezzi di seminar discordia fra loro. E tanto seppe fare, e tanto seppe dire che ottenne il suo intento. Arsieri sopportava in silenzio il poco conto in cui era ormai tenuto, e cercava di soffrire pazientemente tutti i dispetti e i soprusi, che il re gl’ infliggeva ad istigazione della moglie. Ma un giorno la sua fiera e nobile natura si ribellò, e ad un oltraggio immeritato del re, mise mano alla spada. Se non che fu subito disarmato, e, condotto sotto buona scorta alla prigione del castello, con giudizio sommario, fu dichiarato reo di lesa maestà, e condannato ad essere impiccato.

 

Fieramente accolse Arsieri la ingiusta sentenza; non pertanto fece pregare il re che, in omaggio alla vecchia amicizia, gli concedesse per grazia di voler essere presente alla sua impiccagione. Ed il re, sebbene con repugnanza, acconsentì.

 

La mattina sulla gran piazza dèi castello convenne una gran moltitudine. Il boia attendeva sul palco il condannato, il quale non tardò a giungere incatenato in mezzo ai gendarmi. Ma, pria di abbandonare al capestro la sua testa, chiese al re ed ottenne di parlare, e cosi, con ferma voce, disse:

 

— Maestà, a me non dispiace la morte, ma è la vostra ingratitudine che supremamente mi addolora. Io finora ho taciuto per un divieto fatale di spiriti misteriosi, ma ò più degna la morte decretatami dai medesimi, che dalla Maestà vostra. Sappiate, adunque, che, se vi ammazzai il cavallo, fu per salvarvi da’ suoi calci che vi avrebbero ucciso. Ma non palesai la causa del mio atto, perchè sarei stato trasformato in marmo.

 

Ed in così dire, gli si trasformarono realmente in marmo le estremità inferiori.

 

— Se vi ammazzai il cane, fu per liberarvi da’ suoi morsi che vi avrebbero comunicato l’idrofobia. Ma tacqui tale ragione, perchè del pari sarei stato cambiato in marmo.

 

Ciò detto anche il tronco mutossi in marmo.

 

— Se chiesi, infine, di vegliare presso l’ uscio della camera nuziale, fu perchè un dragone doveva venirvi ad incenerire, ed io l’ uccisi. Ma tacqui anche questa volta sempre per la stessa ragione.

 

E dopo queste ultime parole, perfin le braccia e la testa si pietrificarono.

 

Allora il re, riconosciuta la sua ingratitudine, insieme alla regina scoppiò in un pianto dirotto.

 

 

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Essi avevano per sempre perduto il loro amico e salvatore, onde che si ritirarono afflittissimi nel palazzo ove cessò ogni festa ed allegrezza.

 

La statua di Arsieri fu fatta portare nella camera del re, il quale tutti i giorni piangeva inconsolabilmente presso il simulacro dell’ amico.

 

Ma una mattina, piangendo ed abbracciando la statua, caddero lagrime più copiose e più calde sul gelido marmo, tanto che il medesimo ebbe dei fremiti di vita, e così parlò:

 

— Maestà se è vero che vi siete pentito della mia rovina e che nell’animo vostro è ritornato l’antico affetto, non avete che un rimedio per salvarmi. Dovete, cioè, bagnarmi completamente col sangue ancora fumante de’ vostri due figli.

 

Ciò detto ritornò immobile; ed il re rimase trasognato. Ma passato il primo sbalordimento, egli misurò tutta la gravità della sua posizione. Ineffabile rinascenza d’affetto era quella che gli consigliava di liberare l’amico; ma i suoi figli, i suoi teneri figli, come sacrificarli? E fu combattuto per un pezzo dall’incertezza più angosciosa. La regina era in giardino, e i bambini dormivano nella cuna. Ad un tratto, una risoluzione subitanea lo spinse verso la culla, da essa strappò i figli, li scannò sopra il corpo marmoreo di Arsieri, e col sangue de’ due innocenti il parricida lo bagnò tutto, tornando poi a rimettere nella culla i due figli sgozzati.

 

Arsieri si scosse, sgranchiò le sue membra, fece un passo avanti, ed abbracciò il re. La commozione loro fu grande, e mentre che così erano stretti in un amplesso tenerissimo, entrò la regina, ed anch’ essa pianse di consolazione. Ma per accrescere la gioia del momento, si slanciò verso la cuna dei bambini. Il re, terrorizzato, voleva trattenerla, ma non fece in tempo, e rimase trepidante presso Arsieri. Non udendo gridare la povera madre al cospetto dei figli sgozzati, pensò che fosse stata subitaneamente uccisa dall’ improvviso strazio prodotto dalla lugubre scena, e si slanciò verso la camera attigua. Ma la regina ne ritornava allora co’ due bambini al collo, vegeti e sani, alla cui gola, nel posto delle ferite, rilucevano tante splendide stelle.

 

Così vissero lunghi anni felici e contenti, ed Arsieri governò insieme col re fino al giorno in cui entrambi morirono.

 

 

            Stella Diana. — Una sera, mentre un prete cenava, udì innanzi al portone di casa i vagiti d’ una creatura, e tosto ordinò alla sua governante di andare a vedere di che si trattasse. Corse costei, ed, aperto il portone, trovò sulla soglia una vaghissima bambina, ravvolta in morbidi pannilini. La raccolse e la portò dal padrone il quale, sentendo compassione della neonata, la tenne seco, e battezzandola, le dette il nome di Stella Diana.

 

La mattina seguente una donna venne a picchiare al portone.

 

 

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Le fa aperto, ed, entrata, vide fra le braccia del prete la bambina; e, saputo del caso pietoso, si offerse per farle da balia.

 

Quando la bambina ebbe raggiunta l’età di due anni, la balia si decise a lasciarla; ma pregata, acconsentì a restare un altro anno. Dovendo poi separarsi dalla piccina, se la chiamò in disparte e le disse :

 

— Figlia mia, io me ne vado; ma se mai un giorno qualcuno volesse recarti offesa, basta sola che tu dica: Mamma, vèrterne ze tuglie, perchè io subito accorra a liberarti da qualunque danno ti si minacci.

 

Ciò detto, la baciò iterate volte, e preso commiato dal prete e dalla governante, partì.

 

Stella Diana veniva su oltremodo bella e sana. La si nutriva di cibi squisiti, la si faceva vestire elegantemente; e sviluppò nella persona così precocemente, da sembrare a dodici anni una donna da marito. Per tal fatto la governante avrebbe voluto darla sposa ad un suo nipote, brutto di volto e più d’animo, scioperato e ubbriacone. Ma la gentile fanciulla, a tale proposta, ebbe un fremito di ripugnanza, ed oppose un energico rifiuto. Nè potendo sopportare le violenze della governante e quelle ancora più gravi del nipote, si ricordò del consiglio della balia, ed esclamando : Mamma, vèneme ze tuglie, quella le fu vicino, e seco la condusse fuori di casa, menandola in una grande città, dove si misero insieme a fare dei ricami elegantissimi, e a guadagnarsi con essi il vitto e le simpatie delle più ricche famiglie.

 

Conosciuta dal re la loro gran perizia nell’arte del ricamo, le fece chiamare, perchè preparassero il corredo ad una sua figlia già promessa sposa. Accettarono le due donne l’onorevole incarico, ed ammesse ad abitare nella reggia, si diedero ad apprestare col massimo buon gusto il corredo della principessa.

 

Il re aveva anche un figlio maschio, coetaneo di Stella Diana, il quale s’era perdutamente invaghito di questa fanciulla: ma non ardiva manifestare il suo amore ai genitori per tema di esserne forzatamente distolto. Pertando, crescendo in lui l’affetto e il timore di non poterlo secondare, cadde gravemente infermo. Figuratevi in quale abbattimento caddero il re e la regina, quando si avvidero della pericolosa malattia che minacciava la vita del principe ereditario! Nessuna cura, nessuna medicina valse a procurargli, non che la guarigione, un piccolo sollievo. Finalmente un vecchio medico, a cui venne fatto di scoprire la causa che aveva ridotta a così mal partito la salute del principe, ne diede conoscenza al re, consigliando a permettere al figlio’ di sposare Stella Diana, se voleva salvarlo da morte. E il re, benché a malincuore della regina, acconsentì.

 

 

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Riferito il favorevole assenso del re al malato, questi guarì in pochissimi giorni, e subito si celebrarono gli sponsali con la massima sontuosità.

 

Stella Diana era dal principe immensamente amata. Anche il re, ammirandone la bellezza e le grandi virtù che possedeva, la proseguiva del suo affetto paterno. Soltanto la regina covava per lei un odio implacabile.

 

Or avvenne che, trovandosi la principessa incinta, fu obbligato il marito ad accompagnare a caccia un principe di sangue reale, recatosi a visitarlo. Avuto riguardo allo stato interessante della moglie, si sarebbe volentieri astenuto dal lasciarla, se le convenienze ospitali dovute al gran personaggio non glielo avessero impedito.

 

Frattanto, nella sua assenza, la moglie si sgravò di tre bambini, un maschio e due femmine. La regina, rosa dal livore che nutriva per la puerpera, fattili deporre in una zana, li mandò a gettare in mare. Quando il figlio fu tornato da caccia, ella gli mostrò un uccello, un serpe e una cagnetta, dandogli a credere che fossero stati partoriti dalla principessa. Aggiunse pure di aver visto, nel momento del parto, una brutta figura d’ uomo con le cosce e le gambe caprine, le orecchie d’asino e le corna in testa, che la carezzava e baciava, e che disparve non appena ella fu entrata nella camera della partoriente. Nello stesso tempo gl’ insinuò che il parto anormale era un segno certo che la moglie non fosse una donna onesta, e che, seguitando a partorirgli delle bestie, avrebbe privato il trono di un erede e messa in pericolo la corona.

 

Il principe, prestando fede alle turpi menzogne della madre, decise di disfarsi di Stella Diana. Ed infatti, la fece chiudere e murare in una nicchia. Ma l’ innocente principessa gridò: Mamma, vèneme ze tuglie; e la benefica balia accorse tosto, e cacciatala dalla nicchia, seco la trasse fuori dalla reggia.

 

Ed ora seguiamo la sorte dei bambini.

 

Avendo il flusso del mare spinta in riva la zana, fu questa raccolta da un vecchio eremita il quale, scoperchiatala, vi rinvenne, con sua grande meraviglia, i tre bambini che dormivano placidamente. Senza svegliarli, caricatasi la zana sulle spalle, tornò al suo prossimo romitorio. Quivi, innanzi tutto, li battezzò, dando il nome di Felice al maschio e di Stella e Diana alle bambine. Poscia s’inginocchiò, e volgendo la mente a Dio, lo pregò fervidamente di concedergli il mezzo di nutrire le tre creature. Ed ecco avvicinarsi ed entrare nell’eremo una capra dalle poppe rigonfie di latte, la quale, fermatasi presso la zana, diessi ad allattare amorevolmente i neonati;

 

 

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nè li abbandonò, se non quando, divenuti grandicelli, poterono essi fare a meno del latte e nutrirsi di legumi e frutti, che l’eremita raccoglieva da un vicino campicello.

 

Erano già passati dieci anni dal dì che i bambini erano stati salvati, quando il santo eremita, sopraffatto dagli anni e dal rigore della penitenza, rese l’anima a Dio. Gran dolore n’ebbero i fanciulli, perchè oramai mancava loro ehi li nutrisse. Tormentati un giorno dalla fame, uscirono dall’eremo, e, camminando alla ventura, si diressero verso una montagna rocciosa, alle cui falde sorgeva un grandioso palazzo. Essendovisi accostati e trovato aperto il portone, vi entrarono, e con loro immenso stupore vi trovarono una ricca mensa imbandita. Avvicinatisi, mangiarono con molta avidità le squisite vivande, poste in piatti fini; e quando questi furono tutti vuotati, vi lessero in fondo le seguenti parole : Questo palazzo sarà di chi saprà impadronirsi, sulla vetta del monte, di tre animali parlanti.

 

Felice, allettato da quella promessa, credette facile di arrampicarsi sulla cima della, montagna per acchiapparvi i tre animali. Epperò, preso commiato dalle sorelle, abbandonò il palazzo; e, salendo per la ripida china, s’incontrò a mezza costa con un vecchio, che lo prevenne di non impaurirsi e guardare indietro, quando, prima di toccar la vetta, sentisse rintronarsi le orecchie da urli e fischi spaventevoli. Il fanciullo promise di dargli retta, ma poi, scosso ed assordato dal terribile frastuono di stridi e sibili, non seppe seguirne il consiglio, e, volto indietro lo sguardo, gli capitò di mutarsi in roccia.

 

Stella che nè la sera, nè il giorno seguente vide ritornare il fratello, impensieritasene, volle essa pure avventurarsi a scavalcare la montagna per ricercarlo. Ma anche a lei toccò di trasformarsi in roccia.

 

Erano tre giorni che Diana indarno aspettava il ritorno di Felice e Stella, quando si decise di tentare anch’essa la ripida salita della montagna. Trovò anch’essa il vecchio a mezza costa; ne ascoltò attentamente il consiglio ; ed allorchè stava per guadagnare la cima del monte roccioso, senza punto preoccuparsi degli alti schiamazzi, tirò diritta, e pervenuta sulla spianata, sentì salutarsi da un bellissimo uccello che, volando, le si posò sulla spalla. Indi le si avvicinò una cagnetta che, riveritala, cominciò a lambirle le mani. In ultimo sbucò dalla terra una serpe che, saltellando sulla coda, si appressò a Diana, e le rese, a sua volta, il saluto.

 

La fanciulla, sorpresa dall’ inaspettato ricevimento, non sapeva che dirsi. Allora la cagnetta la prevenne che, se intendeva tornare al palazzo, essa l’avrebbe seguita una all’ uccello e alla serpe. Ma Diana rispose :

 

 

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— Potrò mai tornare senza il mio Felice e la cara Stella?

 

Ciò detto, vide l’ uccello volare su di una prossima roccia che prese tosto le forme di Felice. Vide parimenti la serpe sfilare di corsa su di un’ altra, che tosto assunse le vive sembianze di Stella. Sì questa che l’altro, scorgendo Diana, corsero ad abbracciarla. Riuniti così tutti insieme scesero giù per la costa del monte, Felice con l’ uccello sulla spalla, Diana con la serpe avviticchiata al collo e Stella con la cagnetta fra le braccia.

 

Erano da poco arrivati al palazzo, quando vi capitò il principe. Il quale, avendo cacciato tutta la mattinata, sentì verso il meriggio il bisogno di ricoverarsi in qualche sito per evitare il soverchio calore del sole. Grande fu la sua meraviglia, quando la cagnetta che stava presso il portone, salutatolo con garbo, lo invitò a salire dai padroni. E crebbe assai più la sua meraviglia, quando, salite le scale, vide l’ uccello sorvolargli intorno e fargli gran festa insieme alla serpe accorsa a lambirgli le mani.

 

Accolto da Felice e dalle sorelle con molta cortesia, fu obbligato a desinare con loro. Il pranzo tiuscì al principe oltre ogni dire gradito, ma più del pranzo piacquegli il dolce canto dell’ uccello, accompagnato dalle voci soavi della cagnetta e della serpe. Vi furono anche dei brindisi, dei quali uno dell’ uccello, che augurava al principe di ricuperar presto la perduta felicità.

 

Ristorato e commosso, l’ospite reale, prima di prendere congedo, promise che sarebbe tornato co’ genitori a passare un’altra giornata con loro. E la cagnetta aggiunse :

 

— Conduci pur teco Stella Diana, se vuoi farci piacere.

 

— Ed anche i figli — soggiunse la serpe.

 

Allora dagli occhi del principe sgorgarono due grosse lagrime, che ebbe cura di celare, volgendo altrove la faccia ed asciugandole con la pezzuola. Indi, fattosi coraggio, rispose che volentieri avrebbe seco condotta la moglie ed i figli: ma non poteva, perchè un fato crudele glieli aveva da un pezzo rapiti.

 

— Spera, spera — gridò l’ uccello.

 

Quando il principe, rientrato nella reggia, ebbe narrate al re e alla regina le arcane vicende occorsegli, questi non videro più l’ora di andare col figlio a visitare ed ammirare il grandioso palazzo. E infatti non tardarono molto a recarvisi.

 

Ricevuti dai tre giovanetti con la più ossequiosa cordialità, furono accompagnati in una sala riccamente addobbata. Quivi furono loro serviti liquori e dolci squisitissimi. Dopo un lungo e piacevole conversare, entrò l’ uccello ad annunziare che la mensa era pronta. S’interruppe allora la conversazione, e tutti si avviarono alla prossima sala ove, adagiatisi intorno alla mensa, cominciarono a pranzare.

 

 

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Dirimpetto alla regina, sopra un divano coperto di velluto, posavano l’ uccello, la. cagnetta e la serpe, che turbarono non poco la regina, perchè le parvero del tutto simili alle bestie che ella aveva presentate al figlio, facendogli credere che fossero state partorite da Stella Diana. E ancora più si turbò, quando il principe, nel dividere una torta appetitosa, vi rinvenne l’anello nuziale della moglie.

 

— Vorresti — gli gridò l’ uccello — rimetterlo nel dito della tua innocente Stella Diana?

 

— Non sarebbe giusto — soggiunse la cagnetta — punire chi ebbe il maltalento di calunniarla?

 

— Amen — rispose la serpe — e mi prenderò io la cura di applicare il debito castigo.

 

— Sì — replicò l’ uccello — ma che sia anche presente Stella Diana.

 

E immantinente, apertosi l’uscio, comparve in tutto lo splendore della sua bellezza Stella Diana, che corse ad abbracciare e baciare i tre figli. Indi, narrate le perfidie della suocera, li presentò al marito, invitandolo a riconoscerli per suoi legittimi figliuoli. E il principe, quasi pazzo dalla commozione, se li strinse al seno, e piangendo dirottamente, chiese alla moglie di volergli perdonare il male che, per nequizia della madre, le aveva fatto.

 

II re che, come trasognato, aveva fin allora assistito impassibile alla emozionante scena, alzatosi, rivolse alla moglie le più amare parole di rimprovero, e sentenziò che le venisse applicata la pena del taglione. E la regina, colpita dal rimorso e più dall’orrore della pena minacciata, fu presa da una così forte convulsione da perdere per sempre l’ uso della favella.

 

Ma in tal punto comparve anche la balia di Stella Diana (che altro non era se non una fata benefica), e pronunziò le seguenti parole :

 

— Maestà, non vogliate applicare alla regina la pena comminata : essa, con la perdita della favella, è stata abbastanza punita. Così diventassero mute tutte le suocere che, insinuando malignamente i figli, ne rendono infelici le mogli ! E tu, o principe, ama la tua onesta Stella Diana, educa alla virtù i tuoi figliuoli, e sarai felice.

 

Poi, volta alle tre bestie, disse loro :

 

— Tornate alla montagna, ed annunziate ai quattro venti che giustizia fu fatta.

 

 

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 CAPITOLO V. Superstizioni e credenze.

 

 

            Superstizioni scomparse. — Dove c’ è l’ignoranza, regna sovrana la superstizione; e siccome’ il popolo è più lontano da quella cultura che imbriglia l’immaginazione e dà largo campo alla ragione di ricercare il perchè delle cose, così è che in esso troviamo tutta una lunga serie di credenze strane e di pregiudizii ridicoli. E non è soltanto l’ignoranza che crea queste tristi fantasie contrarie al buon senso ed alla reità; ma anche l’atavismo che trasmette un non trascurabile fardello d’idee strane e superstiziose nel torrente delle generazioni novelle, che respirano il medesimo ambiente ed hanno non diverse abitudini. E il paziente e lungo lavorio della civiltà e della istruzione, che potrà sradicare dal cervello del popolo i pregiudizi d’ogni specie; e la vita se ne avvantaggerà immensamente, poichè questo miglioramento della psiche umana spazzerà via tutti gli affanni e le torture create dai fantasmi superstiziosi, che sovente cagionano dolori, malattie, rovine e delitti gravissimi.

 

In Riccia questi straripamenti del pensiero e del sentimento, queste allucinazioni dello spirito, queste raffiche scomposte di correnti nervose stanno ancora a testimoniare la depressione intellettiva del volgo; però, man mano, questa lunga schiera di raziocinii anormali si va assottigliando; e già noi non troviamo più nella vita del nostro popolo certe credenze grossolane di altri tempi.

 

Il Cardinale Orsini, che, oltre all’essere un prelato così illustre da diventar papa, fu anche un vescovo civilizzatore, in un’appendice al suo LI Editto, condannò e proibì i seguenti atti superstiziosi, che si praticavano in Riccia.

 

            I. — « Il mettere la pietra sul capezzale del moribondo, affinchè subito muoia, mentre vedendo gli astanti l’agonia esser lunga, hanno per indubitato, che egli abbia in vita scavato e rimosso qualche termine divisorio nei contini dei Territorii, e che per questo riguardo si prolunghi l’agonia ».

 

            II. — « All’assalito da mal caduco, detto volgarmente della luna o di S. Donato, tagliare qualche particella delle vesti, che chiamano pingariare (1), e poi bruciarla e profumare col fumo di essa il paziente ».

 

 

(1) Pingariare forse dal verbo greco πήγνυμι che vuol dire fortifico, fermo, stabilisco fermamente. Ed infatti con tale funzione credevano di fermare le convulsioni epilettiche dell’ ammalato.

 

 

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            III. — « Nel primo giorno di marzo ligare alla zitella il polso sinistro col filo bianco tinto nella viola colta con mano parimenti sinistra, il che fanno, affinchè divenga bianca la carne delle fanciulle, e non soggiaccia alle scottature del sole ».

 

            IV. — « Presso la porta della camera preparata per gli sposi, quando debbono consumare il matrimonio per la prima fiata, seppellire un cagnolino partorito la prima volta da qualche cagna ed ucciso a tale effetto, credéndo che le streghe non vengano perciò in tempo di notte a sconciare i loro parti ».

 

            V. — « Pigliare un rospo all’ improvviso e metterlo alla supina, e poscia coprirlo con qualche pietra grossa affinchè muoia, con dir le seguenti parole: Tanno a freve a N (e nominare il febbricitante) pozza piglià, quanno stu votto ze pozza vutà (1); stimando con questo di poter sanare i febbricitanti ».

 

            VI. — « Sonare co’ denti la campana per far subito sgravare la partoriente ».

 

Or tutti questi atti insulsi, mediante il rigore imposto dall’Orsini, scomparvero da due secoli dalle consuetudini del nostro popolo, e non c’ è chi non veda l’alto significato educativo della proibizione vescovile.

 

 

            Gli spiriti della casa. — Crede ancora il nostro popolo nell’ esistenza di certi spiriti che vivono fra le domestiche pareti, e che aiutano la famiglia nelle faccende di casa. Essi non sono altro che i folletti o elfi, i quali, pur mostrandosi riconoscenti e beneficando quelli che li rispettano, prendono non lievi vendette di chi arreca loro delle offese. Tale credenza è comune a tutte le regioni del mondo, ed il folletto non varia che di nome. Infatti, si chiama Trasgo in Ispagna, Lutin in Francia, Unghüer in Isvizzera, Hausgeist in Germania, Hobgoblin in Inghilterra, Brovraie in Iscqzia, Cluricaune in Irlanda, Alte in Hausc in Isvezia, Nisse god Dreng in Norvegia e in Danimarca, Munaciello nel mezzogiorno d’Italia e diversamente in altri paesi. A Riccia a questi folletti o spiriti familiari si dà il nome di muzzecarello e più raramente di mazzemaurello.

 

U muzzecarello ogni notte offre volenteroso la sua servitù in quelle case in cui ha eletto il suo domicilio; e perciò spazza i pavimenti, lava i piatti, rassetta i mobili, staccia la farina, spacca le legna e compie ogni altra domestica faccenda con somma cura. Se qualche volta lo si prega di cessare dàl rumore che rompe il sonno ai membri della famiglia, risponde con sonorissime risate.

 

 

(1) Allora la febbre a N... possa pigliare, quando questo rospo si possa voltare, il batrace è chiamato u votto o uotto, forse dal grido rauco e soffocato che emette, e che ha quasi il suono della parola dialettale.

 

 

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Spesso ruba nella dispensa, quasi a compenso delle sue fatiche, le provviste di casa, o le sparge per terra; ed in ciò rassomiglia ai folletti cantati da Heine nei Reisebilder:

 

Di folletti un popolino

A noi ruba il lardo e il pane,

Son la sera nell’armadio,

Nulla più si trova a mane.

 

Ora, quanto siam venuti esponendo veniva affermato con giuramento da una donna del popolo, soprannominata Zecca, che fu lungo tempo inquilina della casa appartenente a Nicola de Capua, bastardo e amministratore dei nostri feudatarii: casa contigua a quella del defunto sacerdote D. Domenico Sassani. Ma le affermazioni della Zecca debbono piuttosto attribuirsi a sogni che ella scambiava per realtà, o a furterelli di qualche persona di sua famiglia.

 

Pasquale Tanturri raccontava pure che la notte si udivano dentro i magazzini principeschi, presso i quali abitava, gli spiriti folletti misurare il grano, numerandone ad alta voce i mezzetti (metà del tomolo) che successivamente si empivano e votavano. Tali rumori erano veri, ma non prodotti dai voluti spiriti. Questi non erano che i magazzinieri che, nella notte, per non essere scoperti dagli Agenti, misuravano la massa del grano per appropriarsi di quel tanto di più, che proveniva dal crescimento del cereale e dalla furtiva misurazione.

 

Ma il popolino non attribuisce a cause veraci i rumori della notte, e u muzzecarello è per esso spirito reale, che non bisogna impermalire. Alcuni credono che di giorno esso vada a nascondersi fra le rovine e i punti più inaccessibili del castello, per non essere disturbato da qualche importuno. Altri immaginano di vederlo nella forma di un gatto nero o di una capra o di un cane. I fanciulli poi, non di rado e fino ai nostri tempi, aprivano dei larghi buchi nei muri degli orti; e, riponendovi a sera dei pezzi di pane o di altri commestibili, cui la notte divoravano i topi o i gatti, all’ indomani credevano fermamente che li avesse mangiati u muzzecarello. Le madri, invocandone la presenza, riducono, spesse fiate, al silenzio i pianti capricciosi dei loro bambini. Questa leggenda che diede ai minnesinger, ai bardi, agli scaldi ed ai poeti tutti tanta messe d’ispirazioni pe’ loro meravigliosi racconti, con l’aërius dei latini e il μορμώ degli elleni, non scomparirà così presto dalle credenze del nostro popolo.

 

 

            Streghe e fatture. — È anche generale la credenza del nostro popolino nelle streghe e fattucchiere; ed un certo d’Elia sta ancora scontando la pena a cui fu condannato per l’ uccisione di una levatrice a nome Veronica,

 

 

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da lui ritenuta autrice delle malie che avevano ridotto all’ estremo un suo bambino. Hanno le stesse note caratteristiche di quelle create dalla superstizione di altri paesi, e che ballano la loro ridda sinistra nel Macbeth e nella notte di Valpurga. Son per lo più vecchie, dal volto truce ed aggrinzito, dai capelli bianchi ed arruffati, dalla bocca bavosa e dagli occhi di bracia. Avvolti i corpi scarni con pochi cenci, èsse si aggirano pel buio, e son capaci di penetrare in casa per la gattaiuola della porta o pel buco della chiave. E perchè la strega, pur entrando in casa, non possa nuocere, si ricorre ad un rimedio molto semplice. Si mette dietro la porta la scopa, ed innanzi a quest’ arnese la strega s’arresta, perchè è obbligata dal suo destino a contare, uno dopo l’altro, i moltissimi fili delle saggine che formano la granata. Naturalmente in questa enumerazione passa la notte, e la terribile visitatrice deve dileguarsi, per non essere scoperta dalla luce.

 

Le mamme attaccano alle vesti dei bambini cornetti d’osso e pezzi di coralli, credendo che questi oggetti possano allontanare il malocchio, specie di malia sinistra, che credesi venga esercitata col guardar fisso in faccia ai fanciulli. Inoltre, guai, se a questi una strega applica la fattura! I bambini muoiono fra violenti attacchi di convulsioni, e le giovanette sono uccise lentamente dal mal sottile. Soltanto la notte del sabato ogni paura si dilegua, non potendo in essa le streghe andare in giro ; e perciò si raccolgono tutte sotto il noce di Benevento a diabolico convegno. Ma nelle altre notti si spargono pei villaggi ad esercitarvi i loro molteplici e orrendi malefizii.

 

Se qualcuno, dopo una ubbriacatura o una indigestione o nel corso di una malattia, sente premersi da un incubo da cui non può liberarsi, e sogna cose orribili, mentre un affanno tormentoso gli strozza il respiro, anziché attribuire questo fenomeno alla sua intemperanza o malattia, lo imputa alla strega che gli si è sdraiata sullo stomaco. Tale credenza è pure generale; e la strega che nei nostri paesi ci guasta i sonni, è lo Schrättlige alpino, il Nightmare inglese, la Phuka irlandese, l’Elbischer danese, e gli spiriti notturni di altre genti.

 

La strega fa pure spesso delle legature inestricabili. Si narra, a tal proposito, che una strega di Gambatesa, chiamata Irene, avendo pregato un tal Fabrizio (sarto di Mirabelìo sannitico, alloggiato in casa di Pasquale Tanturri) di volerle cucire un corpetto, venne mandata via con male parole. Ma, nella notte, penetrata in camera pel buco della serratura, Irene prese le lunghe legacce di Fabrizio, e con nodi scorsoi gli legò il collo, le mani e le parti genitali. Il malcapitato, sentendosi strozzare, emetteva gridi rauchi,

 

 

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tanto che, accortosene il Tanturri, accese il lume, e, svegliatolo, ebbe molto a stentare per iscioglierlo. In tal modo l’eccitazione popolare attribuì alla stregoneria della povera Irene uno scherzo di cattivo genere fatto forse al Fabrizio dal Tanturri.

 

Può la strega cambiarsi in caprone, in serpe ed in gatta, e quest’ ultima metamorfosi è così pure accennata nell’ opera citata da Heine :

 

E la gatta l’ è una strega

Che, furtiva a notte scura,

Va sul monte degli spiriti

Del castel fra l’atre mura.

 

Può eziandio diventar tanto sottile da penetrare per la cruna di un ago. Le donnicciuole, al suo nome, si segnano, esclamando: Squagliati, brutta bestia! Di lei può ripetersi ciò che ne scrisse il Ronsard nella sua ode contro la strega Denise:

 

Tu es la frayeur du village,

Chacun craignant ton sorcelage

Te ferme sa maison (1).

 

Crede il popolino anche agli stregoni che, su per giù, commettono le stesse fattucchierie, prendendosela anche con gli animali. Era ritenuto tale, fra gli altri, un tal Francesco Viglione, alias Piceco, maniscalco. Ma il buon artigiano, ad eccezione di qualche sbornia periodica, non prese mai sul serio la superstiziosa taccia di cui lo accusava il volgo.

 

 

            Il licantropo (U lupemenare). — Anche in Riccia il lupo mannaro esercita un grave spavento sulla fantasia del popolo. È un individuo che, attaccato da grave delirio di forma epilettica, nelle notti, specialmente in quelle di marzo, esce urlando per le vie del paese, mordendo e lacerando qualunque cosa gli si fa innanzi. Riesce pericoloso e s’avventa a chi ha la sventura d’incontrarvisi; e cacciando bava dalla bocca, preferisce guazzare nella poltiglia delle pozze, ove trova un gran refrigerio.

 

Una donna aveva il marito che soffriva di epilessia. Questi, avvertendone un giorno i prodromi, consigliò la moglie di salirsene sopra di un albero; e, se fosse venuto qualcuno, gli avesse gittato qualche cosa. Essendosi, pertanto, allontanato, ritornò, dopo non molto tempo, sotto l’albero, trasformato in licantropo. La moglie che non lo riconobbe, gli gettò il panno di lana che le nostre contadine usano per coprirsi la testa e le spalle; ed il voluto licantropo, afferratolo, lo stracciò co’ denti, e poi andò via.

 

 

(1) Tu sei il terrore del villaggio, ciascuno temendo la tua stregoneria, ti chiude la porta.

 

 

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Ritornato, fu riconosciuto, dalla moglie dalle filacce del panno rimastegli fra i denti; ed ebbe a morirne di spavento.

 

Raccontava il sarto Gennaro Mignogna che una notte fu inseguito dal licantropo; e ne sarebbe rimasto vittima, se non si fosse posto in salvo sulla sommità di un gaifo (poggiuolo di una scalinata). Dicesi che u lupemenare non può salire più di tre scalini; e questa limitata potenza di ascendere trova forse ragione nel fatto che l’attacco epilettico, da cui è dominato il licantropo, facendogli perdere la posizione verticale, non gli permette di mantenere il necessario equilibrio per salire una gradinata.

 

Si afferma da tutti che l’inserviente comunale, Domenico Genovese, morto da pochi anni, fosse un licantropo. Egli, sotto il formidabile assalto epilettico, usciva di casa, nel cuore della notte, ed andava scorazzando carpone per le vie di Riccia. Alcuni affermano di averlo visto voltolarsi nella fanchiglia che sta presso la fontana della piazza. Ma per quanto tale fenomeno morboso fosse testimoniato da parecchie persone degne della massima fede, pure il terrore e la prudenza di evitare qualche spiacevole incidente, non permise loro di notare, in tutti i più minuti particolari, la fisonomia, le abitudini ed ogni altro atto dei licantropi incontrati.

 

La parola lupo mannaro vuol dir uomo lupo, derivando il suffisso dal tedesco man che significa uomo. Ignoriamo, però, come tale connubio di parole sia filologicamente avvenuto. Plinio derise gli Arcadi, perchè credevano ad una specie di magìa, chiamata appunto licantropia, per cui si trasformavano in lupi, ripigliando dopo un certo tempo la pristina forma. Nell’opinione dei Demonògrafi, invece, lupo mannaro è colui che coperto dal diavolo con una pelle di lupo, gira per le città e le campagne, mandando urli spaventevoli e commettendo orribili guasti. Il demonio, però, non trasforma propriamente in lupo il malato di licantropia, ma gliene dà solo la forma fantastica; ovvero trasporta altrove il corpo di lui, sostituendo un lupo nei luoghi che d’ordinario sono da quest’ uomo frequentati. Nell’opinione del volgo, infine, il lupo mannaro è uno spirito malefico assai pericoloso, o uno stregone; le mamme lo invocano come spauracchio dei loro bambini; tutti lo fuggono, ed il disgraziato che soffre gli spasimi d’un delirio inenarrabile, non trova soccorso alcuno, ed erra fra le tenebre, eccitando terrore, invece di pietà e compianto.

 

 

            I cercatori di tesori ed altre superstizioni. — Non è morto da molto tempo Saverio Garzetta, il quale, come scopritore di tesori, aveva una numerosa clientela. Per lui questo era un mestiere che gli permetteva di vivere alla men peggio, fornendogli la spesa non pure le persone del volgo, ma quelle altresì che, per la loro coltura, potevano accorgersi facilmente della inesistenza de’ suoi immaginarii tesori.

 

 

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Ma i suoi misteriosi convegni, irti di formole strane e di promesse. ridicole, e le spedizioni notturne ai posti designati, co’ relativi scongiuri e scavi, riuscivano sempre un inutile lavoro. Non pertanto, morto il Garzetta, affatica oggi il pensiero de’ nostri popolani la possibilità di trovar ricchi peculii, nascosti dai briganti nelle cavità degli alberi o sotterra.

 

Si crede pure da noi ai sogni ed alla iettatura. Ai primi si dà un significato lieto o triste, quasi a profezia dell’avvenire, e da essi si ricavano generalmente, oltre a questi prognostici, anche i numeri del lotto, giuoco che mandò in rovina molti credenzoni. Alla seconda, poi, non solo presta fede il volgo, ma anche il ceto colto, che ordinariamente cerca di scongiurare il malefico influsso con atti poco puliti.

 

Il martedì e il venerdì sono considerati come giorni nefasti della settimana ; quindi in essi molti non cominciano alcun lavoro, non sposano, non partono, non si divertono.

 

Il cattivo tempo, le malattie, i pessimi ricolti ed altre disgrazie, sono considerati effetti dei nostri peccati. E quando si è in pericolo, si fa voto di andare a S. Michele, a S. Nicola, a S. Filomena, a S. Lucia, se da questi santi vengono salvati.

 

Le apparizioni di fuochi fatui o di farfalle nelle sere invernali, sono ritenute da molti quali spiriti di defunti, che chieggono suffragi. Se una civetta canta sul tetto di una casa, credesi dovervi succedere, tra non molto, la morte di qualcuno che vi dimora. Se invece vi canta il cuculo, si dice:

 

Cuculo cuculante,

puzza cadi donde cante;

cante pa marina,

annuvine quand’ei da campa ie (1).

 

Ma il cuculo non è stato mai profeta. Alla lumaca si dice pure:

 

Ciammaruca caccia corna,

va truv ‘a màmmeta donde dorme (2).

 

E si mette al fuoco, ove comincia a far sentire un gemito che è di buon agurio.

 

 

(1)

Cuculo cuculante,

possa cadere dove canti;

canti per la marina,

indovina quanto debbo campare io.

 

(2)

Lumaca caccia come,

va a trovar tua madre dove dorme.

 

Il termine dialettale ciammaruca trova la sua etimologia nelle parole greche καμάρα stanza e εἰκών larva.

 

 

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La rottura di piatti o di altri vasi è ritenuta come segno di consolazione; se si versa il vino, l’augurio è buono; se l’olio, cattivo. Sognandosi l’ uva nera è indizio di sangue, l’ uva bianca di lagrime, le ciriege di litigi imminenti.

 

Quando si vuole far acchetare qualche ragazzo che piange, lo si minaccia còl pòppelo o col dirgli che si avvicina il lupo per mangiarlo. U pòppelo non è altro che la tela di ragno, così chiamata in dialetto, ed usata come spauracchio, forse dal termine tedesco popanz.

 

Allorché scoppia in campagna un nubifragio con grandine, i contadini piantano i loro coltelli nella terra, persuasi che, cosi facendo, il temporale cessi. Quando poi succede un vortice di vento, che da noi chiamano irlo, e che porta spiralmente in alto foglie e pagliuzze, i nostri contadini, credendo sia il diavolo, si segnano, gridando : Squàgliete, brutta bestia!

 

Se una persona è presa da convulsione, le si attacca al polso una medaglietta d’argento con l’immagine di S. Donato, creduto protettore degli epilettici. Megli sgravi pericolosi le volgari donnicciuole avvolgono al collo della partoriente lunghe trecce d’aglio ; molti ignoranti, affetti da infezioni malariche, bevono come rimedio le proprie urine. Nè è raro il caso di vedere, nelle febbri ad alta temperatura, applicato sul capo dell’ammalato un gallo ucciso di fresco con tutte le piume, sicuri che il cadavere dell’animale, assorbendo man mano il calore, faccia cessare la febbre.

 

 

            Ricette d’altri tempi. — E giacché siamo in tema di rimedii superstiziosi contro le malattie, ci piace riportare alcune ricette di circa due secoli fa, quando la medicina era bambina e l’empirismo regnava sovrano. Ci furono conservate dal sacerdote D. Domenico Sedati, e le trascriviamo col medesimo stile con cui ci pervennero.

 

« Secreto per il dolore di Matre per le donne. — Piglia il bianco del ventricolo della gallina, si lava bene, si mette asciottare all’ombra, poi si pista bene, si mette nel bicchiere la polvero con un dito di vino gagliardo, si dà al pallente per 2 o 3 volte, sanarà subito, cosa mirabile, e d’esperienza.

 

« Per li porri. — Piglia latte di celidonia, applicala dove è il porro o vero piglia suco di salici et in particolarmente quando il porro è in parte dilatata ma si vuole continuare per 5 giorni o più, sempre ungendo intorno a detto porro o vero pista le vitacchie e quel succo si mette sino che lo fa saltare.

 

« Scalanzia. — Olio di lino, noce ben peste, cipolla cotta alla bracia ben peste, meschiate ogni cosa insieme, fattene un biastro stennetelo sopra una pezza di lino e caldo ponetelo sopra il dolore.

 

 

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« Per non fare cascare i capelli o li peli della Barba. — Lavati la testa e la barba con lissìa nella quale vi sia cotto sterco di colombo per quattro o cinque volte e non cadarranno li pili della barba e poi ott’onza d’orzo e noci, e le mescolarai bene insieme e con quelle ungerai il capo e la barba, lavandoti poi con la sopra detta lessìa si faranno crescere i capelli e li peli della barba.

 

« Per la lacrimazione degli occhi. — La zaffarana mescolata con latte di Donna, ontata (spalmata) sopra l’occhi, sana.

 

« Per le mammelle delle Donne. — Libra una d’oglio comune, 10 teste d’aglio mondate bollite insieme, che siano fatto carbone, poi vi si aggiungano due onza di cera, due onza di Rosapino, un’onza di medolla d’ossa mastra (forse il femore del bue) liquefatti insieme, e poi levate dal fuoco e mìtteci due onza di. Rasa de Botte.

 

« Rimedio per la crepatura delle calcagna. — Sivo di crastato medolla di sambuco, cera vergine e fanno unguento e servitevene caldo. »

 

Povera umanità sofferente con tal razza di rimedii !

 

 

 CAPITOLO VI. Giuochi.

 

 

            A pìveze a muro (1). — Per questo giuoco si adopera una mazza di legno lunga circa mezzo metro ed un’altra, detta pìveze, appuntata alle due estremità, lunga un terzo della prima. Un numero pari di ragazzi si divide in due gruppi eguali, uno avversario dell’altro. Si fissa tra loro il numero dei punti che si deve raggiungere, e ciascuno di essi è ragguagliato a nove volte la lunghezza della mazza. Si fa al tocco, e quello del gruppo in cui finisce il conto, battendo con la mazza nel centro del pìveze lo manda lontano, e quella appoggia ad un muro scelto come punto di partenza. Un fanciullo del secondo gruppo corre a raccoglierlo, e lo scaglia contro la mazza. Se la colpisce, tocca ad un altro del primo gruppo il diritto di scacare (2), cioè di proseguire il giuoco.

 

Nel caso opposto il primo prende la mazza, e, battendo con essa sopra una estremità del pìveze, lo fa saltare in aria,

 

 

(1) Pìveze. Come a prete, fico, milza, nel nostro vernacolo, corrispondono le parole prèvete, ficure, mèveze, cosi è da arguirsi che pìveze venga da pizzo (da noi becco degli uccelli), per essere foggiate a pizzo le estremità del bastoncino più piccolo.

 

(2) Scacare. Viene da scacco o insuccesso, che dà diritto all’avversario di subentrare al giuoco.

 

 

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e colpendolo con la stessa mazza nella sua discesa, lo fa volare, quanto più può, lontano. Fatti, nella stessa guisa, altri due colpi, dà uno sguardo alla distanza che intercede tra il pìveze e il sito fissato per la mazza, e ne chiede i punti. Se gli avversari se ne accontentano, egli è in diritto di continuare; altrimenti si misura con la mazza la detta distanza, e se non si ottengono tante volte nove mazze, quanti furono i punti richiesti, a lui succede un altro del suo gruppo, e poi un terzo, fino a che non si raggiunga il numero dei punti stabiliti. Se il primo gruppo non riesce ad ottenerli, succede il secondo. E così si procede alternatamente, sino a che non resti vincitore uno dei gruppi. Poscia i vincitori hanno diritto di essere portati sulle spalle dai fanciulli del gruppo perditore lungo il tratto determinato da una gittata di pìveze.

 

Altra formalità di questo giuoco è quella di penzà alla metà dei punti stabiliti; per modo che durante l’altra metà il pìveze non si prende più fra le dita per essere percosso e lanciato lontano, ma si mette sul dorso della mano.

 

 

            A pìveze ’n terra. — È simile al precedente, salvo che il pìvtze non si tiene in mano per mandarlo via, ma lo si fa partire da terra, picchiando, come innanzi si è detto, sopra una delle sue estremità. La mazza poi, anziché appoggiata al muro, è collocata orizzontalmente a terra; e il punto, invece di nove mazze, è di dieci.

 

            A pìveze ’n fossa. — Era simile in tutto ai precedenti, fuorché nell’applicazione della pena. Tutti i giocatori erano forniti di mazze, delle quali una estremità aveva la forma di scalpello. Sorteggiati i due che dovevano giocare, tutte le volte che l’avversario si recava a raccogliere il pìveze, gli altri scavavano con le lore mazze, in prossimità del sito di partenza, un fosso che, man mano, si affondava sino alla profondità di circa un metro.

 

Alla fine del giuoco il perditore doveva intromettere una delle estremità inferiori nel fosso scavato, ove tutti gli altri ve la fermavano con terra e pietrisco, in modo che egli non potesse più sottrarla da sé. Ivi doveva restar tutto il tempo convenuto, e ne veniva poi rimosso dagli avversari. Se non che molte volte avveniva che andavano via senza liberarlo, ed allora dovevano correre i parenti per rilevarlo, con un sonoro concerto di grida, pedate e scappellotti.

 

Questo giuoco è andato in disuso da circa cinquant’ anni. Gli altri due sono rimasti ; ma mentre anticamente vi pigliavano parte anche dei giovani e degli adulti d’ambo i sessi, oggi servono di passatempo soltanto ai ragazzi.

 

 

            A strùmmolo. — (Specie di palèo dal greco στρόβιλος o στρόμβος). Col palèo, quasi conosciuto generalmente in Italia e altrove, si divertono in quaresima i nostri bambini in varii modi.

 

 

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            A caccia a rutella. — Tracciano una circonferenza su di un piano, ponendo ciascuno dei giocatori uno o più soldi nel centro di essa. Indi colui cui riesce favorevole il tocco, scaraventa il palèo sui soldi, e raccogliendolo diverse volte sulla palma della mano, lo spinge contro di essi, e ne intasca quelli che fa saltare fuori della circonferenza. Se non riesce a cacciameli tutti, vi si provano, per ordine successivo, gli altri compagni, sino a che lo spazio circolare non ne resti vuoto. Spesso ai soldi si sostituiscono bottoni od altri gingilli.

 

            A spacca spacca. — Si eseguisce da due gruppi eguali di fanciulli. Quelli del gruppo cui non arrise il tocco, piantano a terra i loro palèi, uno vicino all’altro. Su questi i ragazzi dell’altro gruppo scaraventano i proprii. Se almeno uno dei loro palèi tocca qualcuno di quelli piantati a terra, può lo stesso gruppo continuare a tirare. Altrimenti è obbligato a sostituire i proprii palèi nel sito dei primi, per dar luogo al gruppo avversario di tirarvi su. Avvicendandosi i due gruppi nel tiro, per un numero determinato di volte, si finisce il giuoco col danno dei palèi, che ne rimangono più o meno scheggiati.

 

            A stecchi a passà. — E questo una specie di duello americano. Il fanciullo non favorito dal tocco pianta il suo palèo a terra. L’altro, soprappostovi il suo in guisa che lo spuntone di ferro cada perpendicolarmente sulla parte superiore dell’ altro, batte sul suo palèo. Se quello che sta sotto si spacca, il giuoco finisce. Nel caso contrario l’avversario subentra nel giuoco. E si seguita così, finché uno dei due palèi non si riduca in pezzi.

 

 

            A scarcalabotto. — Riunitasi una brigata di fanciulli di numero pari, si divide in due gruppi eguali. Quelli del gruppo cui non favorì la sorte, si chinano in fila, in guisa che il primo si appoggi col capo e le braccia ad un muro, un altro alle natiche del primo, un terzo a quelle del secondo e così di seguito. Poscia quelli dell’altro gruppo, prendendo l’uno dopo l’altro la rincorsa, si slanciano sul dorso degli avversarii, proferendo ciascuno i seguenti versi :

 

Tingo tingo,

lacee e spingole,

sette e otto,

scarcalabotto,

scarcalabotto (1).

 

 

(1)

Tingo, tingo,

lacci e spilli,

sette e otto

scarica le botte,

scarica le botte.

 

 

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Se prima del verso ripetuto nessuno d’essi tocca terra co’ piedi, scavalcano e cominciano da capo. Altrimenti si fanno sotto per essere, alla loro volta, cavalcati da quelli dell’altro gruppo.

 

 

            A scarda scarda. — Alla distanza di circa tre metri due fanciulli, curvati ed appoggiati al muro, vengono cavalcati da due altri cui tocca. Questi ultimi, strofinando i loro berretti sul capo dei compagni sottoposti, con lo stesso movimento dello scardassiere, dicono ad alta voce i versi che seguono :

 

Scarda scarda, Catarina,

no de lane e no de line,

arrabbatte bone, cumpagno mie (1).

 

Alla fine dell’ultimo verso si scagliano e scambiano i berretti, che acchiappano a vicenda per continuare il giuoco. Se uno od entrambi non riescono ad afferrare il berretto, scavalcano per sottoporsi a’ loro avversarli. E si procede così per un determinato numero di volte.

 

 

            A scala santa. — Si fa questo giuoco fra più ragazzi, dei quali ognuno è provvisto di una piccola asta di legno diversa dalle altre o munita di un segno di riconoscimento, e lunga poco più di quella d’una penna. Quegli a cui spetta, raccolte tutte insieme le aste in una mano, le fa cadere contemporaneamente tante volte su di una mazza distesa a terra, finché ad una sola e a nessun’ altra di esse non capiti di restar poggiata alla mazza. Allora colui a cui quest’ asta appartiene, la raccoglie e si nomina re. Proseguendosi nell’istessa guisa a gittare le rimanenti sulla mazza, prendono successivamente gli altri i nomi di regina, ministro, generale, colonnello, capitano ecc. L’ultimo, alla cui asta non riuscì di venire in contatto con la mazza, prende il nome di puttanone. Poscia, collocate a terra tutte le aste, una parallela all’altra, e alla distanza fra loro di poco più d’un decimetro, il re attraversa a pie’ zoppo gli spazii interni di esse, senza mai posarsi. Così fanno, per ordine di gradi, tutti gli altri, meno il puttanone. Se qualcuno tocca col piede una delle aste, subentra nel posto del puttanone, e questi, viceversa, nel posto del primo. Allorché tutti i graduati hanno percorso i suddetti spazii, il re raccoglie le aste, le pone tutte insieme sopra due sassi, discosti alquanto fra loro, e le spinge lontano con un colpo di mazza. E mentre egli, correndo a pie’ zoppo, si allontana, il puttanone, raccattate tutte

 

 

(1)

Scardassa, scardassa. Caterina,

non è di lana, non è di lino,

raccogli bene, compagno mio.

 

 

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le aste, gli corre dietro. Quando lo ha raggiunto, se lo carica sulle spalle, e lo riporta sino al punto di partenza. Quest’ultima parte del giuoco si ripete per ciascun graduato. Dopo si può cominciare da capo.

 

 

            A nix nox mazzox. — Quando, nel mese di maggio, tornano le compagnie di pellegrini dai santuarii di Foggia, del Gargano e di Bari, fra le altre cose, portano, per regalare ai bambini, le carrube, chiamate in dialetto vainelle, cioè piccole guaine. Mangiata la polpa dolciastra e tenace, che contengono, ne conservano i semi, e questi usano pel seguente giuoco. Due fanciulli mettono insieme un numero uguale di semi, e quegli dei due che è favorito dal tocco, li raccoglie nel pugno, e li versa con non troppa violenza sul piano d’un tavolo o d’una lastra di pietra. Poscia, passando con una festuca fra le coppie di semi, e, dicendo ad ogni volta: nix nox mazzox, spinge con un colpo del medio l’uno dei due semi contro l’altro, se la festuca, nel passaggio, non tocca mai i semi, e il seme spinto colpisce l’altro verso cui è diretto, il giocatore si appropria di questo, e continua fino a che non si ponga in possesso di tutti gli altri. Diversamente subentra l’avversario a compiere le medesime funzioni.

 

 

            A cacastrèttela (1). — Nei giorni piovosi, quando non si può scorazzare liberamente all’aperto, i fanciulli si riparano sotto l’arco di qualche portone, ed ivi incominciano a celiare o a raccontar favole, fin tanto che non sono richiamati dai genitori, o, esaurito il repertorio dei racconti, non passano ad altre occupazioni. Avviene sovente che i bambini siano numerosi, ed allora, non potendo tutti ripararsi sotto l’arco, principiano il giuoco della cacastrèttela. Infatti, i due che occupano i posti estremi, puntando un gomito contro gli stipiti, cacciano l’altro nei fianchi dei prossimi compagni cui spingono fortemente, l’uno contro l’altro, per espellerli fuori della soglia. Ma questi ultimi, stretti come in una morsa, oppongono ogni possibile resistenza per conservare il loro posto. Se lo perdono, altri che stanno fuori occupano sollecitamente gli spazii rimasti liberi; e così si continua, finché non si stanchino, o non siano sgridati dal padrone della casa, ristucco della noiosa cagnara.

 

 

            A ssotta cappelle. — Si esegue fra due giocatori, dei quali ciascuno versa nel fondo d’un cappello un’egual somma di danaro. Indi colui a cui tocca, agita il cappello, e facendovi ballonzolare le monete, lo capovolge con rapida mossa su d’un piano. E mentre ei lo tiene fermato per le falde sulle monete, l’altro che gli sta di fronte, dice:

 

 

(1) Cacastrèttela. — Da κακός e stretta, cioè stretta di cattivo genere.

 

 

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Coppa (testa), ovvero cciappetta (l’altra faccia). Rimosso il cappello, questi prende per sè tutte le monete che mostrano la faccia da lui designata, e l’altro le rimanenti. Si continua alternatamente cosi, fino a che uno dei due non vegga sfumar tutti i suoi spiccioli.

 

Quando abbondavano le piastre d’argento, non pochi, con questo giuoco rischioso, mandarono in rovina ogni loro avere.

 

 

            A vota pezzo. — Ognuno dei giocatori mette uno o più soldi, e con questi, rivolti in su con la testa, si forma un castello cilindrico, verso del quale, da una data distanza, tutti tirano una moneta più grossa. Quegli la cui moneta s’avvicina di più al castelletto, la raccoglie, e con essa vi batte su, e prende per sè i soldi che, balzando, mostrano la faccia opposta alla testa. Se, picchiando, non gli vien fatto di rovesciarne almeno uno nel detto senso, subentrano successivamente nel giuoco gli altri compagni, fino a che non si riesca a far capovolgere tutti i soldi.

 

Ciò che i giovani fanno coi soldi, i fanciulli eseguono coi bottoni e con le pennine. Mettono un numero pari degli uni o delle altre in fila sopra un piano, e colui che è primo designato dalla sorte, vi soffia contro, e guadagna quei bottoni o quelle pennine che ha fatto capovolgere. Succede poi a soffiar contro le rimanenti l’avversario; e non è raro il caso in cui i fanciulli, per aver giocati e perduti anche i bottoni dell’ abito, pigliano a casa di molti scapaccioni.

 

 

            A pezze de cascio. — Si fa questo giuco in carnevale fra più giovani di pari numero, che si dividono in due gruppi uguali. Fissate le coppie dei giocatori ed i punti, s’incomincia a rotolare con forza una forma di cacio, più o meno grande, lungo le vie esterne dell’ abitato. Chi fa il tiro più lungo, guadagna un punto. Il gruppo che prima raggiunge il numero di punti stabilito, vince il formaggio, e il gruppo perdente lo paga. Si usa pure fissare un dato tratto di via, e il gruppo che lo supera con minori punti, resta vincitore.

 

Invece della forma di cacio si adopera anche un caciocavallo; anzi, fino a non molti anni dietro, si giocava con questo anche per le vie del paese. Oggi più spesso si usa una palla di ferro od un ciottolo (pallòntere); ed allora il gruppo perdente paga una determinata somma che si divide fra i socii del gruppo vincitore, ovvero si spende in vino che vien bevuto col sistema del padrone e sotto, come verrà spiegato nel giuoco seguente.

 

 

            U tocco. — Tutti i giocatori pagano una egual somma di spiccioli. Ordinariamente colui a cui tocca, sceglie il padrone e il sotto. Indi col denaro raccolto si compra il vino che passa nelle mani del padrone. Questi ne beve a piacimento; se ne avanza, beve il sotto;

 

 

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se ne resta ancora, il padrone invita a bere gli altri della brigata, i quali, per poter bere, debbono chiedere il permesso al sotto. Se questi lo dà, bevono; altrimenti il vino invitato si beve dal sotto o ritorna al padrone. Chi non è invitato a bere, si dice che va ulmo (olmo). Questo giuoco è molto pericoloso, poichè non di rado finisce a coltellate.

 

 

            Altri giuochi bambineschi. — Parecchi bambini d’ambo i sessi, strette fra loro le mani, si dispongono in fila, e, camminando innanzi e indietro, cantano:

 

Longa catena,

e nu belle peccione aveme:

e pecciune e jalline

iammecenne a Pauline (1).

 

E indugiando la loro voce sull’ ì di Paolina, si accosciano ; poi si rialzano per cominciar da capo.

 

Nel giuoco del salto da un gradino o poggiuolo, il bambino, pria di spiccarlo, dice:

 

Zompa zompa

cale caletta,

da preta pezzata

a Madonna m’ aiuta (2).

 

Se è il tempo delle lucciole, i bambini, per acchiapparle, lanciano contro di esse cappelli e fazzoletti, cantando :

 

Lùccela, lùccela, calla, calla,

mitte a sella a lu cavalle,

lu cavalle e lu sperone,

luccela, luccela scarrafone (3).

 

 

(1)

Lunga catena,

e un bel piccione abbiamo:

e piccioni e galline

andiamocene alla Paolina.

 

Qui iamme viene dall’eamus latino, e Paolina è una contrada del territorio riccese.

 

(2)

Salta, salta — cala, caletta,

da pietra puntuta — la Madonna mi aiuta.

 

Cale, calette dal calare che fa il bambino.

 

(3)

Lucciola, lucciola, calda, calda,

metti la sella al cavallo,

il cavallo e lo sperone,

lucciola, lucciola scarafaggio.

 

 

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Poi tornano a casa con la preda in pugno, e la rinchiudono in una bottiglia o in un bicchiere rovesciato, con la fiducia di trotrovar, la mattina, cambiate le lucciole in quattrini.

 

Anche nelle sere estive, ricche di stelle, di tepori e di plenilunio, i bambini, innanzi alle loro case, fanno un lieto frastuono, cantando :

 

E luna e stelle

e Maria picculella,

e u lupe ncatenate,

tuglia a mazze e vatte ncape (1).

 

Qualche volta da uno dei bambini si lancia per aria un mazzo d’erbe o un cencio, il quale nel ricadere è acchiappato dal più svelto, che similmente lo manda in alto, cantando:

 

Stùppela, stùppela, cacciavotte,

a ddo te coglie te cacce l’occhie (2).

 

Spesso tre o quattro fanciulli si raccolgono, e quegli fra loro, che è designato dal tocco, stende prona la mano. Gli altri sottopongono la punta dell’ indice alla palma aperta. Allóra colui dalla mano prona, dice:

 

Lamba, lamba,

mmara a chi ce campa,

e ce campa a furtuna,

’ncappàmecene una (3).

 

Ed in così dire chiude rapidamente la mano. Se gli altri riescono a non farsi afferrare l’indice, il giuoco ricomincia senza variazione ;

 

 

(1)

E luna e stella

e Maria piccolina,

e il lupo incatenato

prendi la mazza e batti sul capo.

 

(2)

Stoppaccio, stoppaccio, cacciabotte,

dove ti colpisco ti strappo gli occhi.

 

Stùppelo dal greco στυπεῖον o στυππεῖον, che vuol dir capecchio o stoppa, appunto perchè si fa generalmente di tale materia.

 

(3)

Lamba, lamba,

e guai a chi ci campa,

e ci campa la fortuna,

acchiappiamocene uno.

 

Lamba da λαμβάνω afferro.

 

 

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diversamente a colui del quale fu acchiappato il dito, si dà un lieve castigo.

 

Posti a cavalcioni sulle cosce dei genitori e afferrati per le mani, i bambini sono spinti innanzi e indietro, e a questo movimento si accompagna la seguente cantilena:

 

Seca, mulleca,

e li donne de Caieta,

che filano la sete,

e che filano a jammace,

ninno meje reste n pace (1).

 

Ovvero, afferrate ambo le mani dei bambini, con esse si carezzano alternativamente le guance del bambino e quellè del padre o della madre, ad ognuno dei versi che seguono:

 

Muscillo,

pane e cascillo,

pane e recotta,

tuffe la botta,

tuffe la botta (2).

 

Dopo il verso ripetuto, la carezza si muta in un buffetto piacevole, e quindi si ricomincia.

 

Fra noi vi è pure l’uso di molti altri giuochi, i quali, perchè troppo conosciuti, verranno semplicemente accennati. Essi sono le palle, le piastrelle (a voche), a capo a nascondere (a cioccia), l’altalena (u sciàmpelo), la mora (a morra), a pugnino (a tup tuppe), a ripiglino (a cùnnela, a vvrecce), alla sega (a cammiscia du sorge), a merendino (a pranzarelle), a caselle (a castelle con le ghiande), la caccia della volpe (’ntana la vòlepe), la fionda (a scionna), lo schizzatoio (u strezzácculo, formato di un cannello di sambuco, di una bacchettina e di due proiettili di stoppa), a briganti e soldati, la sassaiola (a petrate), e molti altri.

 

 

(1)

Sega, mollica,

e le donne di Gaeta,

che filano la seta,

che filano la bambagia,

il bambino mio sta in pace.

 

(2)

Gattino,

pane e cacio,

pane e ricotta,

prendi la botta.

 

Muscillo è propriamente la parola con cui si chiama il gatto, e designa eziandio i piccoli gatti.

 

 

358

 

 

            Le tiritère. — In tutti i giuochi che siamo venuti esponendo, si sarà di leggieri rilevato come ognuno di essi principii sempre dal tocco, e ciò per designare colui che deve iniziare il giuoco. Ma i fanciulli, spesse volte, invece di effettuarlo con le dita, lo sostituiscono con certe tiritere che, per se stesse, non hanno nessun significato, e che danno il privilegio della priorità a colui a cui terminano con l’ultima parola o cadenza di sillaba. Crediamo, perciò, opportuno riportarle nel chiudere il presente capitolo, appunto perchè esse concernono essenzialmente i giuochi. Sono parole accozzate e ripetute, con assonanze e rime, certe volte strane, in cui invano ci si potrebbe rintracciare un filo di logica. Eccone dei saggi.

 

Ze monaco e ze monaco — e curtelle sott’ u stommaco,

e curtelle e curtelle — e na màneca de ferre,

e na maneca e na maneca — e na ccette sott’ i ràreche,

e na ccette e na ccette — e nu collo a zicrinette,

e nu collo e nu collo — e vroccole cu l’oglio,

e vroccole e vroccole — e spine sott’ i zoccole,

e spine e spine — e na votte de vine,

e na votte e na votte — e na bella pizza cotta,

e na pizza e na pizza — e na cape savecicce,

e na cape e na cape — e na fella de saraca,

e na fella e na fella — e na cossa de purcella,

e na cossa e na cossa — e nu jallo nte na fossa,

e nu jallo e nu jallo — e cent’ommen ’a cavallo,

tirituppe, tirituppe a rrete a chi esce (1).

 

Le due seguenti sono più corte, ma hanno lo stesso andamento:

 

Jam ’a Napole a ccattà i bettune,

n ’accattame cente e uno,

cente e uno e na patacca,

e spartimece na vacca,

e na vacca e na vetella,

e spartimece a ze Sabelle,

 

 

(1)

Zio monaco e zio monaco — e coltelli sotto lo stomaco,

e coltelli e coltelli — ed un manico di ferro,

ed un manico ed un manico — e l’accetta sotto le radici,

e l’accetta e l’accetta — e il collo a zicrenette,

e il collo e il collo — e broccoli con l’olio,

e broccoli e broccoli — e spine sotto i zoccoli,

e spine e spine — e una botte di vino,

e una botte e una botte — e una bella focaccia cotta,

e una focaccia e una focaccia — e un capo di salsiccia,

e un capo e un capo — e una fetta di sardella,

e una fetta e una fetta — e una coscia di porchetta,

e una coscia e una coscia — ed un gallo dentro una fossa,

ed un gallo ed un gallo — e cento uomini a cavallo,

tirituppe, tirituppe — dietro a chi esce.

 

Tirituppe parola dialettale che esprime l’armonia imitativa del galoppo del cavallo.

 

 

359

 

ze Sabella cucenava

e ze monaco abballava,

abballava tunne tunne,

cumm ’na coccia de palumme,

palummella ’nzuccarata

schiatt ’e crepe a nnamurata (1).

 

Sotto na prete ce nasce l’uva,

prime iereva e po matura;

nzulefarò, nzulefarò,

pepe, cannelle, carofinò (2).

 

L’origine di queste tiritere sconclusionate noi non la sapremmo riscontrare se non nei momenti psicologici di cui abbonda il ragazzo, e per cui la mobilità del suo spirito mette insieme le idee più disparate col solo stimolo di un ‘assonanza o associando intuizioni immediate.

 

 

 CAPITOLO VII. Canti popolari.

 

O bei giorni di primavera, o fresche notti d’autunno, voi non ritornate mai alla nostra memoria scompagnati dall’emozione dei canti villerecci, in cui è trasfusa tutta l’onda del sentimento popolare. Per le colline verdi di messi e di pascoli, per le vallate ubertose, dai clivi fecondi, dalle aie opime, sale e si espande la rozza melodia che incanta gli animi e li eccita alla commozione. E quando, presso la culla, una madre addormenta il suo nato con la soave cantilena, tutta la fresca lirica dell’ infanzia si risveglia, provocando nell’ intima vita dello spirito un tumulto che ci forza ai sospiri ed al pianto.

 

 

(1)

Andiamo a Napoli a comprar bottoni,

ne compriamo cento e uno,

cento e uno e una patacca,

dividiamoci una vacca,

e una vacca e una vitella,

dividiamoci zia Isabella,

zia Isabella cucinava

e zio monaca ballava,

ballava tondo tondo

come una testa di palombo,

e palombo inzuccherato,

schiatti e crepi l’innamorata.

 

(2)

Sotto una pietra ci nasce l’uva,

prima è erba, e poi matura,

nzulefarò, nzulefarò, (assonanza)

pepe, cannella e garòfano.

 

 

360

 

E l’impero di quella eterna giovinezza in cui il popolo vive, che scuote ed affascina il nostro mondo interiore. Ed è sempre giovane il popolo, perchè — al dire del Finamore — « non si stacca mai o interamente mai dal suo passato e dal primo periodo della vita: dalla vita del sentimento e dell’affetto.

 

« Que’ suoi cori, quegli accordi per lo più in tuono minoro, quelle cantilene d’ordinario patetiche, sol di rado briose, che nella bella stagione senti risonare pe’ campi insieme al gorgheggio degli uccelli, o ne’ silenzii delle calme e serene notti d’autunno, ti risvegliano nell’anima l’eco di un’età lontana, ti ravvivano le memorie della primavera della vita, quando il nostro cuore era all’unisono del cuore del popolo; quando ogni canto era per noi una voce d’amore, e il bocciuolo del nostro essere si chiudeva al caldo de’ baci della madre. E pensare che quei canti sgorgano dal petto di povera gente, che si sfama (quando si sfama) Iddio sa come, e dorme sulla paglia! Ma, come per la rondine è indifferente appiccare il nido sotto la gronda della reggia o del tugurio, perchè il suo mondo è il suo nido, il mondo del popolo è la famiglia: quivi il centro de’ suoi affetti e il luogo dell’anima sua ».

 

Il popolo è un trovatore instancabile, e, come tale, attinge i suoi motivi nell’ onda di poesia comune a tutti i tempi ed a tutte le razze; ed in questi frequenti lavacri di chimere e di palpiti musicali egli obblia i suoi dolori e le sue dure angustie, quasi per fatale e. necessaria compensazione. Che importa a lui se il metro non torni, se il costrutto sia involuto, se la sintassi sia soppressa? Egli deve esser vero, e se il patrimonio della forma non lo sorregge, perchè da lui non posseduto, il buon senso e il sentimento rendono agile il volo del suo canto che, più della parola, s’insinua, e suscita le infinite commozioni dell’anima.

 

Nessuna delle nostre popolane dimentica di ripetere la ninna nanna, ogni volta che deve conciliare il sonno al suo bambino. E, mentre lo culla, canta:

 

Santa Necole neri vuleve canzune,

   vuleve patanostre e raziune.

Santa Necole nen vuleve menne,

   vuleve calamaro, carta e penne.

Santa Necole nen vuleve latte,

   vuleve calamaro, penne e carta.

Santa Necole ncopp ’u munne ive,

   e tutt ‘i orlature l’ addurmive (1).

 

 

(1)

San Nicola non voleva canzoni,

   voleva paternostri e orazioni.

San Nicola non voleva mammella,

   voleva calamaio, carte e penna.

San Nicola non voleva latle,

   voleva calamaio, penna e carta.

San Nicola sopra il mondo andava,

   e tutti i bambini addormentava.

 

Mammella, in dialetto menna, quasi manna, usata come metonimia.

 

 

361

 

Quando ha esaurito di enumerare le virtù del gran Santo di Bari, ricomincia :

 

Ninna, nonna, nanna, nonnarella,

u lupo z ’à magnat ’a pecurella.

Tu pecurella mia, cumme faciste,

quanne ‘mmocca du lupe te vediste? (1).

 

E un’altra dice:

 

Sonne, sonne, che meniste da Lucera,

iste a cavalle e reraeniste a pede ;

iste a cavalle a nu cavalle d’oro,

addurme a ninne meje ‘n tutte l’ore;

iste a cavalle a nu cavalle d’ergente,

addurme a ninne meje allegramente (2).

 

Il tuono di queste ninne-nanne è assai flebile, ed una tinta d’ineffabile malinconia le rende propizie al sonno. Cosi il popolo, fin dalla cuna, è abituato alla melodia che ne allieta, nel corso della vita, il lavoro. E fra i canti e le tenerezze che l’affetto materno spande sulla letizia dell’ infanzia, non omettiamo di ricordare qualche altra strofetta con cui si salutano e rallietano i bambini in circostanze diverse.

 

Se il bambino, o per aver bevuto troppo latte, o per aver mangiata molta pappa, è preso dal singhiozzo, allora, siccome uno dei mezzi, per liberarlo, è una bevuta d’acqua, la mamma, nel dargli a bere, canticchia :

 

Selluzze, vattenne a puzze,

va a funtana a truvà a nnammurata (3).

 

Quando la madre palleggia, con indicibile compiacenza sulle ginocchia, il suo bambino nudo, gli ripete:

 

 

(1)

Ninna, nonna, nanna, nonnarella,

il lupo si mangiò la pecorella.

Tu pecorella mia, come facesti

quando in bocca al lupo ti vedesti?

 

(2)

Sonno, sonno, che venisti da Lucera.

andasti a cavallo e ritornasti a piedi.

Andasti a cavallo ad un cavallo d’oro,

addormenta il bambino mio in tutte le ore.

Andasti a cavallo ad un cavallo d’argento,

addormenta il bambino mio allegramente.

 

(3)

Singhiozzo — vattene al pozzo,

va alla fontana — a trovare l’innamorata,

 

 

362

 

Mmananute, scazzellate,

ficchie u cape ’nta pignate,

a pignate ze remmocche,

mmananute ce va sotto (1).

 

Però, il tema su cui il popolo esplica interamente il suo genio musicale, è l’amore. Nelle notti serene di primavera la gioventù innamorata porta le serenate alle fidanzate. Sono delle comitive che, munite di chitarre, sostano sotto la finestra delle loro belle. L’accordo degli strumenti è sbrigativo; e, mentre dura la serenata, nessun estraneo può avvicinarsi. A tale scopo si mettono delle sentinelle agli sbocchi del vicolo, e chi deve traversarlo, per evitare litigi, è costretto dalla prudenza a cambiar via o ad aspettare che la serenata finisca. Avviene, non di rado, che qualche altra brigata di giovani si presenti per entrare nello stesso vicolo; ed allora, se i parlamentarii non possono ottenere la fusione delle due comitive, succedono delle vere battaglie in cui è miracolose le sole chitarre siano ridotte in frantumi. Si sogliono altresì invitare dieci o dodici musicanti della banda cittadina, perchè suonino innanzi alla casa delle fidanzate, presenti i rispettivi innamorati.

 

In generale le serenate si risolvono in cantilene assai flebili, il cui contenuto poetico manifesta quasi sempre dei teneri affetti, ed, a volte, una barzelletta, un’ ingiuria od una minaccia contro qualche rivale. Noi ometteremo, intanto, quei canti che trovano troppo facile riscontro con quelli di altri paesi, riportandone alcuni che hanno il vero colorito locale e gran parte di originalità, come i seguenti:

 

   Èccheme, nenna mia, mo so menute,

che ssi bellezze teie m ’enne chiamate;

so menute pe dirte che ferute,

m ’hai stu core e l’anime streiate.

U munne ’n collo me sente cadute,

quanne vedè quiss’occhie m ’è niate.

Puzza sta bona! Attaccete nu ccone,

damme n’ ucchiata de cumpassione.

 

   Da che vasciai quissi mane de neve,

te si chiuse ’nta case ’e cchiù nen isci;

me si fatte sapè che tye a freve,

che pe me dint’ u lette trivelisce.

Se vu’ che ssa frevuccia te ze leve,

de fa cu me cchiu vèrzere cugnisce;

jam ’a spusarce, e quessa malatia

preste ze scriarrà, nennella mia.

 

 

(1)

Tutto nudo, scazzellato,

Acca il capo nella pentola,

la pentola si rovescia,

tutto nudo ci va sotto.

 

Mmananuto, nudo come una mano. Scazzellato dalla voce tedesca Schatz che vuol dire tesoro, sebbene con altro significato si usi a Riccia. Remmocca, da rimboccare.

 

 

363

 

Aiere sott’ i Làvere so jute

pe fa duj mazzetelle de viole;

te l’ eje mannate e nen i si vulute,

dicenne de vulè resta figliole.

Susperanne a Madonna so’ currute,

ne’ ccone prime che cadisse u sole,

e l’ei priate che te pogn ’u core,

se nen vo’ ch’ ie pe te vaje’ a malore.

 

Sinte, carufenille meje d’amore,

sinte stu cante meje desperate,

che m’esce cu li lacrime da u core:

se nen te pigli a me, ie so’ dannate;

se nen te spus’ a me, ie pe dulore

strade sta vita mia scunzulate:

da copp ’a Prece me vaje’a menare

d’int’a chiata chiù funne da sciumare (1)

 

 

(1)

   Eccomi, fanciulla mia, or son venuto,

chè codeste bellezze tue m’hanno chiamato;

son venuto per dirti che ferito

m’hai questo core e l’anima stregata.

Il mondo addosso mi sento caduto,

quando veder codesti occhi m’è negato.

Possa tu star bene ! Affacciati un poco,

dammi un ‘occhiata di compassione.

 

   Da che baciai coteste mani di neve,

ti sei chiusa entro casa e più non esci ;

mi ai fatto sapere che tieni la febbre,

che per me dentro al letto triboli.

Se vuoi che codesta febbretta ti si levi,

finisci di fare con me la ritrosa;

andiamo a sposarci e codesta malattia

presto andrà via. fanciulla mia.

 

   Ieri sotto i Lauri sono andato

per far due mazzetti di viole;

te li ho mandati e non li hai voluti,

dicendo di volere restar zitella.

Sospirando alla Madonna sono corso,

un attimo prima che tramontasse il sole,

e l’ho pregata che ti punga il cuore,

se non vuole che io per te vada alla malora.

 

   Senti, garofanuccio mio d’amore,

senti questo canto mio disperato,

che m’esce con le lagrime dal cuore:

se non ti pigli me, io sono dannalo;

se non ti sposi me, io per dolore

distruggo questa vita mia sconsolata:

da sopra la Prece mi vado a menare

dentro allo stagno più fondo della fiumara.

 

Ccone — afèresi di boccone, e vuol dir poco — Vèrzere, versi, atti di ritrosia — Scriarrà, forse dal latino screare. Lavere, contrada — A Madonna, che si venera nella chiesa del Carmine. Prece, altissima roccia su cui sorgeva il castello baronale. Chiata del latino hiatus, apertura. Da noi è un ricettacolo d’acqua stagnante, che s’apre più q meno largo e profondo lungo il letto del torrente.

 

 

364

 

Lasciamo ai lettori commentare queste ottave, che tanta ridondanza. esprimono di affetti, di palpiti e di propositi angosciosi.

 

Ecco altri canti d’indole diversa :

 

   Tutte stanotte, jenne cammenenne,

nen eje asciata a strada de lu vielle.

Mo, beneditte Die ! 1 ‘eie truvate ;

decche me chiante e duie canzone diche.

   Una la diche pe la ’nnammurata,

n’àveta pe la sora aggraziata;

se Die du cele l’have destenate,

une pe moglie e n’àvete pe cainate.

 

   Chi te l’ ha ditte che nen teje niente?

le stenghe bene assaie ’n casa mia.

Teje na zappa nova e n’àveta vecchia,

na putatora rotta e nen è a mia.

   Chi te l’ha ditte che nen teje pane ?

Sere me n ‘accattale nu turnese,

che m’é bastate nsie a maddumane,

e me n’ avanze pe n’ àvetu mese.

 

   Arrete, arrete, tutt’ i cacciunastre,

che mo è menule stu cane de poste;

se ve vulete cunservà ssi coste,

tutte da parròcchie du mastre (1).

 

Qui le attestazioni d’affetto si risolvono, come ognun vede, in uno scoppio d’umorismo, onde si allieta di sorriso e si seppellisce nella noncuranza e nella satira la miseria in cui il popolo generalmente vive,

 

 

(1)

   Tutta stanotte, andando camminando,

non ho trovata la strada del vicolo.

Ora, benedetto Dio! l’ho trovata;

qua mi pianto e due canzoni dico.

   Una la dico per l’innamorata,

un’altra per la sorella aggraziata;

se Dio dal cielo l’ha destinato,

una ‘ne avrò’ per moglie e un’altra per cognata.

 

   Chi te l’ha detto che non ho nulla ?

Io sto bene assai in casa mia.

Ho una zappa nuova e un’altra vecchia,

un potatoio rotto e non è mio.

   Chi te l’ ha detto che non ho pane ?

Iersera me ne comprai un tornese;

m’é bastato sino a stamattina,

e me ne avanza per un’altro mese.

 

   Indietro, indietro, tutti i cucclolini,

chè ora è venuto il cane di posta;

se vi volete conservare le costole,

fuggite dalla parroccole del mastro.

 

Asciate c’è qualche cosa dèi latino (n) a (nei) sci. Decche da heic. Maddumane, vuol dire stamane, e trova riscontro nel valde mane dei latini. Parroccole, lungo bastone con una estremità a forma di grossa pera.

 

 

365

 

Che importa se non c’è pane, e mancano perfino gli strumenti da lavoro? L’amore colmerà questi vuoti: l’amore è pane, l’amore è tutto. E tale ironia rivela la facilità e la imprevvidenza con cui i popolani passano ancor giovani a nozze. A loro non importa d’esser poveri. Diseredati dalla fortuna, sono ricchi di sentimento, e potendo disporre solamente di tale ricchezza, ben volentieri ne fanno spreco. Verranno forse più tardi i giorni amari. Ma il domani è nelle mani di Dio.

 

Carpe diem, quam minimum credula postero.

 

C’è anche la finale minaccia dissimulata da una metafora, nella quale il monito ai possibili rivali di tenersi lontano, non è l’invito spavaldo e truce di questo altro rispetto:

 

   Avante, arante, e chi se vo fa arante ?

chi vo muri d’amor mo é lu tempe (1).

 

Spesso erompe dal canto anche l’affetto pel luogo natio, ed è anzi anteposto a quello per la fidanzata.

 

   Pretecatelle è aria settile,

vïate chi ce tene a nnamraurata !

I’ ce la tenghe, e nen ce voglio ire;

a Riccia é bella, e chi la vo’ lasciare? (2).

 

Ma forse questo amor patrio è messo lì come un complimento per far maggior presa sull’animo di qualche ritrosa.

 

Non è raro il caso in cui fra due fidanzati si spèzzino le relazioni amorose. Allora, prima di cercare altra donna, il giovanotto trova modo di coprire di contumelie l’oggetto de’ suoi mutati pensieri. Organizza, perciò, una serenata, cantando una canzone ingiuriosa; e se la giovinetta ha dei fratelli e magari un nuovo innamorato, questi canti di sdegno finiscono in risse feroci, in cui molto spesso lavorano i coltelli e le scuri. Sentite questa, e ditemi se non sia giustificato lo’scoppio d’indignazione contro la comitiva degli offensori.

 

Affaecete nu ccone a ssa fenestra,

   pizza de rannarinne senza crosta;

   ssa faccia de falasca e jerva tosta

   te’ propie lu culore da jenestra.

 

 

(1)

   Avanti! Avanti! chi vuol farsi avanti?

Chi vuol morire d’amore adesso è tempo.

 

(2)

   Pietracatella è aria sottile,

beato chi vi tiene l’innamorata !

Io ce l’ho, e non ci voglio andare ;

la Riccia è bella, e chi la vuol lasciare?

 

 

366

 

Si’ scorce de lupine ammariente,

   non tije rrobbe e t’a prufume tante.

Tu tije i come ncape cumm ‘a frasche,

    ’nnant’ a sa casa tia pare nu vosche.

Ssi denti teje’ me perone zappune,

   ce pu cavà li ciocchere a mezzana,

È na streculatore quissu pette,

   pare nu scudellare senza piatte.

U corpe é deventate nu carrare,

   che abbuverà putarrie li caruvane.

Si’ cumm ‘a na tremmoje de muline,

chi prim’ arrive, mponne e ze ne va.

Si curarne a na patana maiurina,

   sott’a maiesa t ’enne d’abelà.

Io nen so morto ma so vive ancora,

   l’oglie ’nta lampa mia ancora dura :

   i prèvete nen so menute ancora,

   nen m’en purtat’ancora ’n seppeletura (1).

 

Questa collezione di villanie, questa terribile sfilata di diffamazioni accompagnate dal suono della chitarra, strazia non poco l’anima della insonne giovanetta. Ma del suo dolore fanno vendetta i suoi parenti e il nuovo fidanzato.

 

Tralasciamo qui dal riferirne altre più gravi, e ciò per non offendere quella pudicizia che ad ogni costo dobbiamo rispettare. Sono frasi roventi, rivelazioni licenziose, sferzate e colpi sanguinosi, che spesso fan perdere alla povera giovinetta a cui son rivolti, se non il buon nome, l’avvenire.

 

 

(1)

Affàcciati un poco a codesta finestra,

   focaccia di granone senza crosta;

   codesta faccia di falasco ed erba dura

   ha proprio il colore della ginestra.

Sei corteccia di lupino amaro,

   non hai roba e sei superba tanto.

Tu ài le corna in testa come frasche,

   innanzi alla tua casa sembra un bosco.

Codesti denti tuoi mi sembrano zapponi,

   ci si possano cavare i ciocchi alla mezzana.

È una streculatore codesto petto,

   sembra una rastrelliera senza piatti.

Il corpo è divenuto un caratello,

   ci si possono abbeverare le carovane.

Sei come una tramoggia di mulino,

   chi prima arriva, macina e se ne va.

Sei come una patata di maggio,

   sotto il maggese ti debbono mettere.

Io non sono morto, ma son vivo ancora,

   perchè nella mia lampada l’olio ancora dura.

I preti non son venuti ancora,

   non ancora mi hanno portato in sepoltura.

 

Rannarinne, granodindia. — Ciocchere è paragoge di ciocco. — Mezzana, terreno incolto a pascolo. Streculatore, forse da strigilis o sfregolare, arnese di legno, su cui le donne stropicciano i pannilint insaponati. — Mpònne da ponere, porre il grano nella tramoggia per essere macinato — Patana maiurina, appena buona per semina — Maiesa, da maggese, chiamasi da noi un terreno apparecchiato per la semina di cereali od altro. — Abelà dal latino advelare.

 

 

367

 

E guai per le fraschette! Non si può essere civettuola e passare facilmente da un amore ad un altro, per semplice capriccio di giovinezza e di beltà, senza sentirsi ripetere:

 

Faccia de porca, ci si fatt’u calle,

   hai ss’anema vennuta a farfarelle;

   jallina che t’accucche a ogni jalle,

   ’ncùdene che ce ratte ogni martelle (1).

 

Qualche volta fa le spese della canzone di sdegno anche il nuovo fidanzato :

 

Tu vaie decenne che nen m’hai vulute,

e chi nen sa che quess’é na carota?

Pe cuffiarte spisso so menuto,

e ’nta ssa casa c’eje fatt’a lota.

Mo te lu pu piglia quillu curnute,

quillu jetteclie muscio, che na vota

ogne pare de jurne, o sci o no,

de pizza tosta sazia te pò (2).

 

Così il popolo, per quanto tenero e dolce nelle manifestazioni d’amore, sfoga con brusco linguaggio il suo odio e la sua gelosia nei disinganni e nelle sconfitte che dall’ amore riceve. Ed in questo è assai più leale del ceto privilegiato, non foss’ altro, per non essere anonima l’offesa di cui egli accetta le conseguenze, alle volte, disastrose per la sua pelle.

 

Cantatrici instancabili sono eziandio le nostre contadine. Chinate sulla porca per affidare al solco il chicco di granone, o allineate fra il verde tenero dei seminati per la sarchiatura del grano, o intente fra le stoppie a raccogliere la spiga, o sedute sull’aia a scartocciare il granturco, o riunite tra i filari delle viti per istaccarvi l’uva matura, o sparse sotto gli olivi per raccattarvi il frutto, cantano le canzoni e gli stornelli ove freme intensa la vitalità dei loro affetti. E questi cori, popolando di cari fantasmi e di gioconde visioni il paesaggio campestre, danno quasi anima alle cose, e risvegliano, tra i fiori e le foglie, le armonie dell’ infinito.

 

 

(1)

Faccia di porca, ci hai fatto il callo,

   hai codest’anima venduta a Farfarello;

   gallina che t’accoccoli ad ogni gallo,

   incudine su cui batte ogni martello.

 

(2)

Tu vai dicendo che non m’hai voluto,

e chi non sa che questa é una carota?

Per burlarti spesso son venuto,

e in codesta casa ci ho fatto il fango.

Ora te lo puoi sposare quel cornuto,

quel tisico moscio, che una volta

ogni paio di giorni, o si o no,

di focaccia dura saziar ti può.

 

 

368

 

Questi canti non si specializzano in una forma ed in una sostanza caratteristica e locale, no. Essi, salvo poche varianti, si integrano nel repertorio comune ad altri luoghi, e già pubblicato dai folk-loristi; perciò noi non li riportiamo. Nè tampoco siamo al caso di riferire tutte le canzoni che la fantasia popolare crea, prendendo a soggetto i fatti più emozionanti della cronaca paesana. La fuga di qualche giovinetta col fidanzato, un peccato d’amore, una palese ed illecita relazione, un delitto grave in cui entri la donna, e magari la caduta di qualche consesso amministrativo, sono temi propizi ai canti popolari. Ma, siccome la vita si rinnova, ed altri fatti sopraggiungono a scuotere la coscienza popolare, queste canzoni occasionali, incessantemente sostituite da altre di maggiore attualità, a poco a poco, illanguidiscono, fino ad essere del tutto cancellate dal novero delle produzioni del genere.

 

Non vogliamo chiudere questo capitolo senza dare qualche altro saggio di poesia dialettale. Ecco due sonetti burleschi, dei quali uno indirizzato, nella nascita del primogenito, ad un tal Don Peppe desideroso di figli, l’altro ad un Don Policarpio a cui la moglie ha partorito un sesto bambino.

 

   Salute e figlie mascule! Don Pè:

na duzzenelle pùzzane agghiustà;

e se st’avurie gradite nun t’è,

pòzzane duje mugliérete ’ncrià.

   Cu duj duzzine atturre de bebè,

che museche! — U cappelle a me papà;

i scarpe a me; pe me nu matenè... —

— Oh ! oh ! vagliù, jateve a fa squarta ! —

   E quest’ é niente. Quanne lore a te

vecchiarelle duvrìane aiuta,

i sinti di’ na vota e duj’ e tre;

   te facce u sanche quillu Die jettà !

Se po’ tu crepe, chiagnene pecchè

nen punne cchiù quiss’osse spullecchià.

 

   Don Pulecarpie meje, pe caretà!

ssi recchie ‘mpresuttate rape su;

sinte u cunsiglie che te voglie dà;

a ccattà cetelille nen ji cchiù.

   U rre de ncoppe, auf! senza pietà

ce sdellummeje; decche i Rassalù

se danne a pella nostr’a scurtecà...

Che vu’ mprenà! Fa cchiù vagliule pù?

   Nen vide cumme cresce a puverlà?

Pensà nu pucherille a te nen vù,

mò che se’ figlie a u munne ha’ misse già?

   Sinte che cosa diceze Gesù:

se quacche menare te vo fa ’n tuppà,

muzzele nitte e fattele a rraù (1).

 

 

(1)

   Salute e figli maschi, Don Peppe!

una dozzina tu ne possa aggiustare;

e se questo augurio non t’é gradito,

ne possa tua moglie due dozzine concepire.

   Con due dozzine attorno di bambini,

che musica! 'Essi gridano': A me, papa 'compra' il cappello;

a me le scarpe; per me 'ci vuole' una giacca...

Oh ! oh ! ragazzi 'esclama il padre', andatevi a fare squartare !

   E questo è niente. Quando essi te

già vecchio dovrebbero aiutare,

li senti dire una volta e due e tre:

   Ti faccia quel Dio gettare il sangue !

Se poi tu crepi, piangono perchè

non possono più coteste ossa spolpare.

 

   Don Policarpio mio, per carità !

codeste orecchie piene di prosciutto apri su;

senti il consiglio che ti voglio dare:

non andare più a comprare bambini.

 

   Il re di sopra 'Diov auf! senza pietà,

ci slomba; quaggiù gli agenti fiscali

si danno la nostra pelle a scorticare...

Che vuoi impregnare ! Puoi più generare figliuoli?

   Non vedi come cresce la povertà?

Non vuoi un pochette pensare a te,

ora che al mondo hai messo già sei figli?

   Senti che cosa disse Gesù Cristo;

Se qualche membro ti vuoi fare intoppare,

mozzalo netto e fattelo a ragli.

 

 

369

 

Riportiamo, in ultimo, le strofe dei dodici mesi dell’anno, perchè hanno parecchie varianti, e differiscono in gran parte da quelle di altri paesi. Noi raccogliendole da varie persone, potemmo rilevare alcune diversità di forma e di sostanza tra una dizione e l’altra. Non registreremo qui tutte le differenti versioni, ma soltanto quelle che conservando un’ impronta più riccese, meglio esprimono i caratteri propri a ciascun mese.

 

   Iennare scassapagliare,

sta ’n custione cu pecurare.

Quille ca strina li pecure fruste,

quiste zi magne pe despette a rruste.

 

   Febbrare curte, o meglie asssye de tutte,

dine ce porte e vroccole de rape;

o peje, se ze ’ncazza a scorciacrape

che u vine pur’ jelà farrie ’nti Tutte.

 

   Io so’ Marze e mulo so’ chiamate,

quasce menasse càvece e ciampate;

senza sapè che s’ ie nen marzeie,

a luglie u metetore nen festeie.

 

   Abrile, dolce dormire,

barbere a fiorire,

l’ aucelle a cantare,

i signure a sentire.

 

   Maie é maggior de tutte l’aumente,

strada pe’ strada ce so’ sone e cante,

financh’ i ciucce stann’ allegramente.

 

 

370

 

   Ie so Giugne cu lu carré rutte

e rotte l’egge fatta la majesa.

Priam’a Die che ce mann’u sciutte,

se no deje paglia assale e poca spesa.

 

   Ie so Luglie e cu sta mia serrecchie

mete quanne s’è chiena la chichierchia ;

dint’a pignata i cuteehe rannecchie,

e i facce volle sotte la cuverchia;

se nen ze coce quaccheduna vecchie,

m’a croccile spetacciata ca serrecchie.

 

   Ca mmalattia ze ne vene Auste,

e u mèdeche urdenéje na sesposta,

Crèscene ca prim’ acqua glianne e muste,

du vine vecchie z’appuchisce a ’mposta.

 

   Settembre vene cu la fica moscia,

e l’uva muscatella ze finisce.

 

   Uttobre bone vennegnatore,

so’ li cantine meie chiene tutte,

teie na votte de vine curdisco,

ce vo’ bella mugliere e lette frisco.

 

   Nuvembre cape sumentatore,

mo me la voglie fa na sumentata ;

ne ccone a me, ne ccone a l’ancelle,

e n’ avete ccone pi sti donne belle.

 

   Dicembre lùteme de l’anne,

eje bbesogne de foche e de panne;

u porce more cu curtelle nganne,

e nasce u Bommenelle ’nta capanne (1).

 

 

(1)

   Gennaio scassa i pagliai,

sta in quistione col pecoraio.

Quegli con la tormenta le pecore frusta,

questi se le mangia per dispetto arrostite.

 

   Febbraio corto, o meglio assai di tutti,

agnelli ci porta e broccoli di rape;

peggio se si arrovella il borea

che farebbe anche il vino gelare dentro le botti.

 

   Io son Marzo e mulo son chiamato

quasi tirassi calci e zampate;

senza sapere che se io non marzeggio,

a luglio il mietitore non festeggia.

 

   Aprile, dolce dormire,

gli alberi a fiorire,

gli uccelli a cantare,

signori a sentire.

 

   Maggio è maggior di tutti gli aumenti,

in ogni strada ci son suoni e canti,

financo gli asini stanno allegramente.

 

   Io sono Giugno col carro rotto,

e rotta l’ ho l’atto il maggese.

Preghiamo Iddio che ci mandi l’asciutto,

se no do molta paglia e poca spesa ‘ricolto’.

 

   Io sono Luglio e con questa mia falcinola

mieto quando è piena la cicerchia;

dentro la pentola le cotenne raduno,

e le faccio bollire sotto il coperchio;

se non si cuoce qualcheduna vecchia,

me la mangio ridotta in pezzi con la falciuola.

 

   Con la malattia se ne viene Agosto,

e il medico ordina un suppositorio.

Crescono con la prima acqua ghianda e mosto,

del vino vecchio s’assotiglia la provvista.

 

   Settembre viene con i fichi mosci,

o l’uva moscatella si finisce.

 

   Ottobre buon vendemmiatore,

le mie cantine son piene tutte;

ho una botte di vino tardivo (vecchio),

ci vuol bella moglie e letto fresco.

 

   Novembre capo seminatore,

ora me la voglio fare una seminata,

un po’ per me, un poco per gli uccelli,

e un altro poco per le donne belle.

 

   Dicembre, ultimo dell’anno,

ho bisogno di fuoco e di panni;

il porco muore scannato,

e nasce il Bambinello nella capanna.

 

Scorciacrapa, la tramontana che produce mortalità negli armenti — Serrecchia dal latino serra, sega. — Spetaccià, da spezzare — Curdisco, dal latino chordus, tardivo.

 

 

371

 

A proposito di mesi, ricordiamo i due seguenti distici leonini che li riassumono.

 

Poto — Ligna cremo — De vite superflua demo —

Do gramen gratum — Mihi servit flos — Mihi pratum —

Faenum declino — Segetes tero — Vina propino —

Semen humo jacto — Mihi pasco sues — Mihi macto.

 

Il paragone non regge in nessun modo di fronte alla laconica precisione di tali versi. Ma anche la lunga filastrocca del popolo, non difetta di qualche bellezza e di qualche originalità, per cui non ci dispensammo dal renderla di pubblica ragione.

 

 

372

 

 

 CAPITOLO VIII. Appunti grammaticali.

 

 

            Nome. — Se si eccettuano i nomi tronchi, tutti gli altri hanno la vocale finale muta; e se sono sdruccioli, diventa muta anche la penultima vocale. Esempi: menestr’, nas’, prevt’, tav’l. In tal caso il plurale dei nomi o è indicato dall’articolo, come: a ceras’ i ceras’, a glianrì i glianrì, a jallin’ i jallin’; ovvero è determinato da un cambiamento interiore della parola stessa, mutando il suono della vocale tonica. E così tutti i nomi che al singolare terminano in one e ore, fanno al plurale in une e ure. Esempi: canzone, canzune, dulore, dulure. Sorge (topo) fa al plurale surge; invece morge (rupe) non muta. Non di rado il plurale si ottiene per paragoge, come: u nite (il nido) i nètere (i nidi), u dite (il dito) i dètere (le dita), u titte (il tetto) i tèttere (i tetti).

 

Inoltre i nomi maschili diventano femminili o mediante l’articolo, come: u jatte (il gatto), a jatte (la gatta): o cambiandola vocale tonica i in e e u in o, come: ninne (fanciullo) nenne (fanciulla), muscille (gattino) muscelle (gattina), lupe (lupo) lopa (lupa); o mutando la pronunzia della vocale tonica da stretta in aperta, come: u signóre (il signore) a signóre (la signora), u vaglióle (il ragazzo) a vagliòle (la ragazza), u pullastrélle (il pollastro) a pullastrèlle (la pollastra), u vécchie (il vecchio) a vècchie (la vecchia).

 

Molti nomi maschili diventano, nei corrispondenti nomi dialettali, femminili, come: il basto a varda, il bucato a culate, il camino a ciummenera, il panciotto a cammesciola. Altri che in italiano sono femminili, diventano maschili in dialetto, come: la trappola u mastrille, la pillola u pìnnele, la pulce u poce.

 

Il nome dell’albero non differisce mai da quello del frutto, e quindi se l’albero è femminile, anche il frutto segue lo stesso genere e viceversa. P. es.: a mènnele (il mandorlo), u pire (il pero), a cerase (il ciliegio), a percoca (il pesco), u mite (il melo), u cutugne (il cotogno), esprimono anche il frutto.

 

I nomi si alterano modificando la desinenza in one, ucce, elle, ilio, ecchie, come: cammiscie (camicia) cammescione (camicione), cavalle (cavallo) cavallucce (cavalluzzo), strèttele (vie strette) strettetene (vie molto più strette), frèscene (poco) frescenillo (pochette), corne (corna) curnecchie (cornette), poste (chiodi da ferrar giumenti) pustecchie (chiodi più piccoli).

 

 

            Articolo. — Nel dialetto riccese abbiamo i seguenti articoli determinativi: u (il, lo), a (la), i (i, gli, le) ed infine l’ per quei nomi maschili o femminili che cominciano per vocale. Esempi :

 

 

373

 

u pane, u stùppele, a neve, i marite, i fèmmene, i strille, l’oglie, l’àneme. Come si vede, l’articolo al plurale è unico per entrambi i generi. Gli articoli indeterminativi sono: nu (un), na (una) e n’ (nu, un’); per es.: nu vècchie, na vècchia, n’occhie, n’arte.

 

 

            Aggettivo. — Segue, su per giù, nelle sue variazioni le regole esposte pel nome, e concorda sempre con esso, per es.: vaglióle vritte (ragazzo sporco) vagliòla mette (ragazza sporca), marite bélle (marito bello) mugliera bèlle (moglie bella), ninne rósse (bambino grosso) nenna ròsse (bambina grossa), cutine fute (stagno profondo) acqua fota (acqua profonda).

 

In generale l’aggettivo si pospone al sostantivo, tranne quando debbasi precisare una determinata qualità del nome. Esempi: na bona figliola (una giovinetta virtuosa), na figliola bona (una giovinetta fisicamente ben fatta).

 

L’aggettivo Sante non si accorcia mai, salvo innanzi a nomi maschili che cominciano per e e g molli, per es.: San Geseppe, San Giuvanne, San Cipriano ecc. Si dice pure San Petre.

 

Il comparativo si forma usando cchiù (più) ed il superlativo assoluto rarissimamente esce in isseme, ma anteponendo al positivo le parole troppe, assale. Il relativo segue la regola italiana, come: u cchiù belle (il più bello).

 

Anche l’aggettivo può essere alterato come: ’mbriache (ubbriaco) ’mbriacone (ubbriacone), bone (buono) bonarelle (mediocremente buono), janche (bianco) jancastre (biancastro).

 

Fra gli aggettivi indicativi si possono registrare le seguenti variazioni. Ai dimostrativi questo, cotesto e quello rispondono nel maschile singolare ed in ambo i generi del plurale quiste, quisse e quille, e nel femminile singolare queste, quesse e quelle. Ai possessivi maschili singolari e plurali rispondono méie, téje, séje con la prima e stretta; e ai femminili, invece, mia, tia, sia nel singolare, e le stesse voci dei maschili, ma con l’e aperta, nel plurale. In luogo dei possessivi mio e tuo, mia e tua, si pospongono ai nomi di parentela gli affìssi me e te. Esempii: sòcereme (mio suocero), màmmete (tua madre), figlieme (mio figlio), sòrdete (tua sorella), sirdete (tuo padre). Nel vocativo dicesi tataseje e mammasie per (figlio mio e figlia mia). Per le altre specie non esistono grandi differenze morfologiche.

 

 

            Pronome. — I pronomi personali io e noi escono in ie e nuj o nuje, tu non cambia, voi esce in vuj o vuje. A persone di riguardo, invece del tu o vuj, si dà dell’ussurie (vossignoria). Mi, ci, ti, vi mutano l’i in e; se cambiasi in ze. In luogo di egli è usato il latino is, di ella jessa. A costoro, cotestoro, coloro rispondono quistie, quissie e quillie. I pronomi relativi che abbiamo, sono che, chi, gn’ome (chiunque). Mancano quale e cui.

 

 

374

 

 

            Verbo. — Tutti i presenti degl’infiniti sono tronchi. Esempi: parlà (parlare), gudè (godere), patì (patire). Si eccettuano gli sdruccioli che sebbene apocopati, conservano l’accento, come : rènne (vendere), lègge (leggere), scrive (scrivere), rìve (ridere). I gerundii terminano in anne se di prima coniugazione, in enne se di seconda e terza, come: cammenanne (camminando), vatténne (battendo), vullènne (bollendo). Il participio passato esco in uto nella seconda e terza coniugazione, in ato nella prima, come: ’sciuto (uscito), leggiuto (letto), fujuto (fuggito), magnato (mangiato).

 

Il passato remoto ha le 3e persone in aze e azere nei verbi di prima coniugazione, in eze e ezere in quelli di seconda, in ize e izere in quelli di terza, così: cammenaze e cammenazere (camminò e camminarono), faceze e facezere (fece e fecero), remenize e remenizere (rivenne e rivennero). Il futuro non esiste, e si usa l’indicativo, come nelle proposizioni : Crai parte (domani partirò) ; l’anne che he, ce ne jame a Mèreche (l’anno che viene, cc ne andremo in America).

 

Il congiuntivo è usato rarissimamente, e più spesso nel suo imperfetto. Esempi : Cumme se nen fusse (come se non fosse). Se l’avesse, tu darrie (se l’avessi, te lo darei). Il condizionale è usato in tutte le sue voci come: Ie faciarrie (io farei), tu te magnarrisse (tu ti mangeresti), quille cammenarrie (quegli camminerebbe), nuie arrevarrimme (noi arriveremmo), vuie garriste (andreste), quittije ze spusarriene (quelli si sposerebbero). Anche l’imperativo presente è usato regolarmente, per esempio: Damme a mana (dammi la mano); magne (mangia tu).

 

Spesso le voci dei verbi essere ed avere si scambiano, quando entrano come ausiliarii nella formazione dei tempi composti dei verbi attributivi, come: eie o aggie parlate e so parlate (ho parlato e sono parlato), m’eie recurdate e me so recurdate (mi ho ricordato e mi sono ricordato).

 

Noteremo qui le varianti di essere ed avere e di alcuni verbi irregolari.

 

            Essere. — (sono singolare), si (sei), seme (siamo), sete (siete), sonno (sono plurale), fozi (fui), fuste (fosti), foze (fu), fuzemme (fummo), fuzeste (foste), fuzerene (furono), si (sii), fusse (fossi o fosse), fusseme (fossimo), fuste (foste), fussere (fossero), sarrie (sarei o sarebbe), sarristi (saresti), sarrieme (saremmo), sarriste (sareste), sarriene (sarebbero), esse (essere).

 

            Avere. — Aggie o eje (ho), aveme o eme (abbiamo), ete (avete), enne (hanno), avei (ebbi), avisti (avesti), aveze (ebbe), ebbeme (avemmo), aviste (avesti), avezene (ebbero), tu avissi (tu avessi), aviste (aveste), avarrie (avrei o avrebbe), avarrisse (avresti), avarrie (avrebbero), avarrime (avremmo), avarriste (avreste), avarrieno (avrebbero), avè (avere).

 

 

375

 

            Andare. — Vaje (vado), jame o jamme (andiamo), jate (andate), ji (andai), isti (andasti), ize (andò), jemme (andammo), jeste (andaste) jerne (andarono), issi (andassi), isse (andasse), isseme (andassimo), iste (andaste), issene (andassero), jarrie (andrei o andrebbe), jarrissi (andresti), jarrirne (andremmo), jarriste (andreste), jarriene (andrebbero), ji (andare).

 

            Dare. — Denghe (do), dii (dai), demo (diamo), dete (date), deti (diedi), disti (desti), deze (diede), diste (deste), dezere (diedero), darria (darei), darrissi ecc. come andare.

 

            Fare. — Facemo (facciamo), facete (fate), faciste (facesti), faceze (fece), facerene (fecero), facissi (facessi), faciarria (farei), faciarrissi ecc.

 

            Stare. — Steie o stengo (sto), stii (stai), steme (stiamo), stete (state), stiedi (stetti), stisti (stesti), steze (stette), stiste (steste), stezere (stettero), stissi (stessi), starrie (starei), starrisse ecc.

 

            Dovere. — Duveme (dobbiamo), duvisti (dovesti), duveze (dovè), duviste (doveste), duvezere (doverono), duvissi (dovessi), durarrie (dovrei), duvarrissime ecc.

 

            Potere. — Pozzo (posso), pu (puoi), po (può), puteme (possiamo), putete (potete), punne (possono), puteze (potè), putiste (poteste), puzza tu (possa tu), putissi (potessi), putarria (potrei), putarrissi ecc.

 

            Volere. — Vu’ (vuoi), vo’ (vuole), vuleme (vogliamo), vulete (volete), vunne (vogliono), vulei (volli), vulisti (volesti), vuleze (volle), vuliste (voleste), vulezere (vollero), vulissi (volessi), vularrie (vorrei), ecc.

 

 

Varianti di alcune particelle indeclinabili.

 

            Preposizione. — De (di), pe (per), ’n (in), ccata dal greco κατά (da, presso), cu (con), ncoppe (sopra), attuare (attorno), doppe (dopo). — Le preposizioni articolate seguono le stesse varianti degli articoli.

 

            Avverbio. — Sci o sine (sì), nen (non), forze (forse), mo (ora), decche (qua), dòchete (costà).

 

            Congiunzione. — Cumme (come), accuscì (così).

 

            Modi esclamativi. — Oh Dio ! Oh Madonna ! Mamma mia! Tata meje! Oh che dulore! Dover’a me! Mmaremè! Vulesse Die! Nen meglie mai Die!

 

Non ci fermiamo di più sulle parti invariabili del discorso, che, salvo alcuni modi avverbiali, seguono le regole comuni. Piuttosto non sarà inutile accennare agli accidenti generali fonetici a cui va soggetta la parola, entrando a far parte del dialetto.

 

 

376

 

Anzitutto notiamo che la massima parte delle nostre parole dialettali sono terminate in e muta. Molte altre raddoppiano costantemente la consonante iniziale, come: u rre (il re), cchiu (più), ccata (da, verso).

 

Ora faremo sommariamente rilevale altri mutamenti.

 

L’aferesi avviene in molte parole, come: ’recchie (orecchia), ’stu (questo), ’spare (dispari), ’nzalata (insalata).

 

L’apocope è costante negli infiniti presenti, come abbiamo visto, ed anche nei nomi propri, allorchè sono vocativi, come: Gesè (Giuseppe), Pasquà (Pasquale), Luì (Luigi): ed anche ne’ nomi familiari, per es. : Ta (tata, padre), ma (mamma), cumpà (compare).

 

L’epentesi è pure in uso, e la riscontriamo in molte parole, come: prèvete (prete), calecagne (calcagno), ballecone (balcone), cavezone (calzone), vòlepe (volpe), zùlefe (zolfo), savecicce (salsiccia).

 

L’epentesi non ha regole fisse, come: poce (pulce), doce (dolce), lene (legna), tosche (tossico).

 

La metatesi è anche frequente, come: crapa (capra), cerqua (quercia), fèteche (fegato), preta (pietra), straporto (trasporto).

 

Abbiamo pure molti casi di paragoge, come innanzi abbiamo notato, parlando dei numeri del nome. Non mancano altresì casi di sincope, come: sparià (spar[pagl]ia[rej), vanià (van[egg]ia[re]), manià (man[egg]ia[re]).

 

Finalmente ci resterebbe a dire qualche cosa sui due suoni, chiuso ed aperto, delle vocali e ed o. Ma sono tanti i vocaboli dialettali, che le contengono, da riuscir difficile fissare la nostra attenzione su tutti. Occorrerebbe, in proposito, un dizionario di tutte le parole che hanno l’accento tonico sulle dette vocali, per notarne con accento grave od acuto il rispettivo suono. Ma a questo lavoro che esce dai limiti del nostro assunto, potrà dedicarsi, in appresso, qualche studioso giovine riccese, a cui non mancano nè mezzi nè tempo per compierlo.

 

E qui chiudiamo questi brevi appunti di grammatica dialettale, sicuri che gioveranno ai lettori non riccesi a meglio interpetrare le citazioni in lingua vernacola, che siamo stati costretti a fare nel folk-lore.

 

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