Riccia nella Storia e nel Folk-lore

Berengario Galileo Amorosa

 

PARTE SECONDA. BIOGRAFIE

 

Stefano Corumano  187

Monsignor Eustachio  190

Monsignor Giacomo Sedati  192

Abate Giovan Nicola Schiavone  194

Abele Ciccaglione seniore  195

Bartolomeo Zaburri 196

Donato Reale 204

Francesco Sedati 207

Angelandrea Mastroianni 214

Nicola Maria del Lupo 217

Pasquale Vignola 221

Luigi Ciccaglione 232

Pietro Molla 235

Monsignor Giuseppe Fanelli 239

Monsignor Domenico Fanelli 246

Vincenzo Ciccaglione 255

Monsignor Lorenzo Moffa 259

Monsignor Gennaro Fanelli 262

Abele Ciccaglione 270

Costantino Fanelli 273

Filomena Ciccaglione 278

Francesco d’Alessandro 281

            Biografie varie. — L’Abate Tommaso - Carlo Ciccaglione - Romualdo Cirelli - Dottor Nicola Gioia - Saverio Ciccaglione - Domenico Fantauzzi - Suor Anastasia - Francesco Misciagna - Giovanni Aurelio Reale - Berardino Spallone - Padre Crisci - Padre Zaburri - Padre Moffa - Padre Fiore 283

 

 

     Stefano Corumano.

 

Una pia e costante tradizione popolare ha conservato alla venerazione dei Riccesi la memoria di un santo Eremita, vissuto nel secolo XII, che fu contemporaneo ed amico del Beato Giovanni di Tufara, ed ebbe nome Stefano Corumano. Pervaso dal misticismo medioevale, che uomini e donne staccava dal tumulto della vita, per chiedere alla quiete dei conventi, alla solitudine degli eremi, all’ orrore delle caverne, all’ asprezza della penitenza ed ai continui digiuni ed orazioni un’aura di celesti consolazioni, anch’egli abbracciò l’ascetismo nella sua forma più rigida e vestì il sacco dell’anacoreta. Nei solitari recessi del bosco Mazzocca egli fu iniziato alla vita contemplativa dall’ Eremita di Tufara, e la bontà, la pietà e l’altruismo che gli adornavano l’animo, ben presto furon noti a’ conterranei che, devoti, a lui accorrevano per consigli e conforti. Anche il Signore della sua Terra seppe ben presto delle virtù di questo pio solitario, e volle affidargli la custodia e la cura della sua Cappella, circondandolo della più completa fiducia e di una affettuosa reverenza. Ed in questo delicato Ministerio egli continuò l’esercizio della più schietta carità cristiana, finché il desiderio intenso del suo Signore di averlo sempre al suo fianco, non lo costrinse a seguirlo in Francia. Non senza dolore il Corumano si staccò dalla sua terra natia e da’ suoi concittadini; ma seppe vincere la sua repulsione, far tacere lo stimolo della nostalgia, ed obbedì. Che cosa abbia fatto e quanto tempo sia rimasto oltr’Alpe la tradizione non dice; però tornato in patria, non volle rimanere in paese, abbandonò la cura della Cappella, e si riaffidò all’ aspro e recondito soggiorno del bosco Mazzocca. Quivi rimase vario tempo a domar la carne con assidue vigilie e lunghi digiuni, nutrendosi di ghiande e dormendo sulla nuda terra, nulla curando i rigori delle stagioni e dimentico del tutto dei mondani allettamenti.

 

 

188

 

Tornò di bel nuovo in mezzo a’ suoi concittadini non si sa se per invito di essi, per desiderio del Feudatario o per sua spontanea volontà. Ma presto, annoiato della vita comune e della terrena miseria, riaspirò alla solitudine, e si rifugiò in una grotta scavata dalla natura nei fianchi del dirupo su cui s’eleva il castello baronale, in prossimità e poco al disopra del torrente Succida. La fantasia popolare suppone che tale grotta comunichi con la sovrastante Cappella ; ma effettivamente nessuno ha potuto esplorarla, ad onta di vari tentativi, pria che un masso, or non è molto, ne avesse completamente ostruito l’ingresso. Ed in tale nuova e più aspra dimora il Corumano visse il resto de’ suoi giorni. Una cerva gli portava quotidianamente il cibo, depositandolo sopra una sporgenza rocciosa. Resa l’anima a Dio e sepolto nella Cappella baronale, il popolo che in vita lo aveva ammirato, cominciò a venerarlo come Santo, e tale culto dura tuttavia. Anzi il delubro baronale ove si ritiene che sia sepolto, dedicato alla Madonna delle Grazie, fu ed è ancora chiamato la Cappella del Beato Stefano.

 

Fin qui la tradizione che noi abbiamo cercato con ogni mezzo di documentare, ma ogni nostro sforzo s’è infranto contro la mancanza assoluta di qualsiasi documento. L’Archivista della Sacra Congregazione dei Riti in Vaticano, dopo scrupolose e diligenti ricerche, ci rispondeva che nulla aveva trovato sul conto del Beato Stefano Corumano, de quo — come scrisse il cardinale Orsini nel 1693 — asseritur fuisse efformatum processum, sed tempore revolutionis popularis Neapolitanœ omnia scripturarum monumenta fuisse combusta. La medesima tradizione crede che il Corumano appartenesse ad umile e rustica condizione. Noi riteniamo, invece, che egli fosse di nobile e ricca famiglia, e che stanco delle illusioni e dei travagli della vita mondana, si desse tutto all’ascetismo, come spesso praticavano nel medio evo moltissimi personaggi di famiglie illustri. Non vogliamo poi dubitare del suo viaggio in Francia, ma crediamo che lo intraprendesse non per tener compagnia al suo Signore. Piuttosto opiniamo che, amicissimo qual era del Beato Giovanni da Tufara, lo avesse seguito a Parigi, quando questi abbandonò la patria per perfezionarsi nella divina sapienza e rendersi più abile a servire Dio.

 

Per vari secoli la tradizione popolare seguitò a magnificare la vita e i miracoli del Corumano, fin tanto che il cardinale Orsini, Arcivescovo di Benevento, e poi papa dal 1724 al 1730 col nome di Benedetto XIII, cercò di controllarne la veridicità e di apportare un po’ di luce almeno sul sito in cui il Beato si affermava sepolto. Così fu che nei principii del secolo XVIII, l’Orsini, recatosi a Riccia in santa visita, ordinò degli scavi nel posto ove sorge l’altare maggiore, al fine di trovare i resti del Corumano.

 

 

189

 

Mentre gli operai scavavano, un violentissimo temporale si scatenò sul paese, ed allora cessarono i fulmini, il vento e la grandine, quando il Cardinale, ritenendo la burrasca come un avviso del Beato di non ricercare più oltre il suo corpo, ordinò di smettere il lavoro. Stimando però opportuno di conservare nel popolo riccese una tale venerazione, fece innalzare sul luogo l’attuale altare maggiore con una grata rettangolare di ferro sul davanti. Poscia benedisse un osso sotto il nome del Beato, lo racchiuse in un reliquiario d’argento in forma di braccio, offerto dal Principe del tempo Giovan Battista de Capua, ed ordinò che tale reliquia si conservasse a perpetua memoria del Corumano, e che se ne facesse la commemorazione annua nel giorno 5 gennaio.

 

Avviene in questo giorno un fenomeno curioso. Mentre si celebra la messa solenne, una o due grosse farfalle si veggono sorvolare in alto per la chiesa. Il popolo ne crede miracolosa l’apparizione, e dal colore di esse trae l’oroscopo sul buono o cattivo risultato del ricolto. Infatti se i lepidotteri son bianchi, l’annata sarà abbondantissima; se d’altro colore, pessima.

 

Era anche in uso che il procuratore di tale solennità ogni anno donasse al Beato un grossissimo cero che si appendeva in alto ad una parete della Chiesa, e che si andava espressamente a comperare a Campobasso. Si narra che quando questo cero era portato a Riccia, gli svolazzava attorno, lungo tutta la via, una farfalla.

 

Nei tempi passati il Braccio del Beato Stefano era portato in processione, quando, nei mesi estivi, gli ardori del sole e la mancanza d’acqua minacciavano la siccità distruggitrice. Allora la pioggia implorata e ristoratrice cadeva abbondante a rianimare i succhi riarsi degli alberi, delle messi e dei vigneti, e la venerazione del buon popolo si rafforzava e le laudi votive e gl’ inni di ringraziamento salivano con più fervore al Beato.

 

L’immagine di lui è dipinta nel quadro che trovasi sull’ altare maggiore della Cappella gentilizia, e che è ampiamente descritta in altra parte del nostro lavoro. Il pittore lo effigiò sotto le spoglie di un frate, dalla testa quasi calva, dalla barba rada, prostrato ai piedi della Vergine delle Grazie, a cui il tempietto è votato, e protendente le braccia verso di lei con mistica posa d’adorazione.

 

Non altro possiamo dire di quest’ uomo che alla immaginazione del popolo appare come un mito benefico, e che sfugge, visione imponderabile, alle ricerche della critica storica. Però la universale credenza che egli sia stato amico del Beato Giovanni da Tufara, può farci affermare che i casi della sua vita si rispecchiano generalmente in quelli di quest’ ultimo,

 

 

190

 

ampiamente rilevati in un manoscritto che si conserva nella Chiesa di Tufara, ed in cui si afferma che il Beato Giovanni, morto il 14 novembre 1170, avesse avuto dei compagni che divennero perfettissimi nella vita di penitenza. Fra questi, uno dei migliori fu il Corumano, ed indubbiamente eguagliò in virtù ed in fervore ascetico lo stesso Giovanni, come indirettamente ma logicamente prova la fama che di lui ancor suona nel ricordo imperituro della sua Terra.

 

E sèguiti pure a venerarlo il buon popolo riccese. In tempi in cui la prepotenza e la brutalità umana s’integravano nella formola sociale che il diritto fosse del più forte; in cui le azioni generose si risolvevano in esaltate imprese cavalleresche, ed il popolo soffriva asservito alla miseria, alla ignoranza ed al sopruso; in cui il Papato smarriva più che mai la misura della sua missione evangelica, e lanciava inesorabile i suoi anatemi contro la potestà civile; era bello vedere uomini, che, come il Corumano, inebriati di carità, facean norma della lora vita una profonda umiltà, e soccorrevano i miseri, proteggevano i deboli, rabbonivano i potenti, benedivano e pregavano. Per questi apostoli dell’altruismo più disinteressato e della fede più immacolata, la venerazione è un bisogno di ogni anima buona, e il culto è un dovére di ogni onesta e gentil costumanza.

 

 

            Monsignor Eustachio.

 

Nel 1348 Fra Eustachio, figlio di un tal Nicola di Riccia, fu ai 14 dicembre eletto Vescovo di Frigento da papa Clemente VI. Fu il 27° della serie, e resse le. sorti di quella Diocesi, ora abolita, fino all’ anno 1370. Poco o nulla sappiamo di questo Prelato, anzi nel nostro paese è perfettamente sconosciuto, tanto che è stato anche confuso con Giovanni Tommaso Eustachio da Gambatesa, il quale fu Vescovo di Larino e morì nel gennaio del 1641. Con la scorta di qualche storico sappiamo precisamente di lui che appartenne all’ordine degli Eremiti Scalzi di S. Agostino; ed allorquando Stefano, Patriarca di Costantinopoli e Arcivescovo di Benevento, volle aggregare la Chiesa di S. Pietro di Sala appartenente a Montefusco alla Cappella di S. Bartolomeo Apostolo, poscia eretta in collegiata il 15 febbraio 1350, il nominato Fra Eustachio da Riccia intervenne come testimone all’ atto pubblico, che si dovette all’ uopo redigere. E ciò mostra la grande stima che doveva godere il Vescovo di Frigento presso il Metropolitano.

 

Riferiamo pertanto testualmente quanto a tal proposito scrisse l’Ughelli negli Episcopi Frequentini dell’Italia sacra :

 

 

191

 

Fr: Eustasichius, vel Eustasius, seu Statius Nicolai de Riccia, Ordi: Eremitarum S. Agostini electus, successit anno 1348, ad hanc dignitatem vocatus a Clemente VI, 14 Decembris, An. 7, ex Reg: Vat: ep: 202, fol: 94, testis fuit seguenti anno 1349 die 17 Iunii Ind: 2a instrumento unionis Ecclesia’, Sancti Petri de Sala, in pertinentiis Montis Fusculi cum sacello S. Bartholomei Apostuli, facto per Stephanum Archiepiscopum Beneventanum. Obiit anno 1370.

 

Il benemerito Monsignor Gennaro Fanelli fece tutte le possibili ricerche per dettagliare i casi della vita di questo Pastore, e saputo che il Cavalier Giuseppe Zingarella d’Avellino aveva con somma cura scritta la storia della Cattedra episcopale avellinese, a cui fu aggregata definitivamente l’antichissima Cura Frigentina, si adoperò per averne l’opera, pubblicata in due volumi; e gentilmente gli fu spedita dall’Autore. Ma il Fanelli provò una delusione, poichè nel secondo volume press’ a poco, rintracciò tradotto quanto il citato Ughelli aveva tramandato al riguardo. Anche noi cercammo di indagare la vita dell’ Eustachio, e perciò scrivemmo per diligenti riscontri’ da farsi negli Archivi vaticani. Ma non fummo più fortunati del Fanelli, poichè ci furono riferite le medesime cose. Come avesse passato la giovinezza ed in quale monastero fosse stato ricevuto, per indossare l’abito degli Agostiniani, sono rimaste pur troppo due incognite che ci siamo sforzati invano di risolvere. Ebbe certamente virtù eminenti per essere promosso ad una Cattedra vescovile, poichè i tempi in cui visse furon torbidi e gravi per la potestà ecclesiastica. Infatti, la violenta e partigiana politica di papa Gaetani, che mise a soqquadro la Cristianità con la strana massima che ogni umana creatura è soggetta al papa, produsse lo sciagurato periodo della cattività babilonica. Proprio sotto il papato di chi lo elesse Vescovo, Roma venne in balia di Cola di Rienzo, la peste desolò l’Italia e le bande di Urslingen e Fra Moriale la taglieggiavano per lungo e per largo. Ed in quei tempi di anarchia religiosa e politica, di sventura e prepotenze, il nostro concittadino resse le sorti d’ una Diocesi con attitudine tale da attirarsi la benevolenza e la stima de’ suoi superiori e l’amore del popolo. Fondò in Frigento la chiesa di S. Pietro.

 

Lasciò egli traccia di sé nel paese natio? Il citato Monsignor Fanelli in un suo manoscritto dice:

 

«Senza tema d’errore attribuisco a questo distinto Prelato la fondazione del Convento degli Agostiniani, esistito già nel nostro paese, e di cui ora si vedono appena i ruderi. La memoria ne è quasi scomparsa; solo una bellissima statua del grande Dottore d’Ippona, sotto il cui patrocinio sta il paese, ed un beneficio sotto il titolo di S. Agostino, oggi aggregato alla mensa arcipretale, ci rimangono a rifermare alquanto la tradizionale notizia che abbiamo dell’esistenza di detto Convento».

 

 

192

 

Noi crediamo, invece, che l’Eustachio fosse stato, non il fondatore, ma un frate del medesimo Monisterio. La statua di S. Agostino poi, è di gran lunga posteriore all’esistenza di detto cenobio, essendo stata scolpita in Napoli da Giovanni Bonavita nel 1725.

 

Così chiudiamo questi brevi cenni biografici, lieti di aver potuto strappare alla generale dimenticanza questa eletta personalità riccese.

 

 

            Mons. Giacomo Sedati.

 

Nella sala dell’episcopio di Larino, sotto il numero XXIV si leggeva: Iacobus Sedati prœclari ordinis Cassinensis Episcopus Larinen. Anno 1539. Paulo III Pont.

 

S’ignora l’epoca della sua nascita, come fino a noi non giunsero tutte le principali particolarità della sua vita, e però di lui si dirà quel tanto che sarà possibile desumere dalle memorie di famiglia e dagli accenni di altri scrittori.

 

Nacque Monsignor Sedati in Riccia nella seconda metà del secolo decimoquinto, allorchè, tra l’ umanesimo delle Accademie e gli spledori delle Corti, sorgeva il Rinascimento. Attratto dalla naturale inclinazione e dalla magnificenza dei conventi alla vita monastica, vestì l’abito di S. Benedetto, e rafforzò le virtù della mente e dell’animo nel Chiostro di Montecassino.

 

Monsignor Tria nelle memorie storiche, civili ed ecclesiastiche della città e diocesi di Larino, narra che, a chiarire le tenebre della vita del Sedati, avesse chiesto informazioni ai discendenti in Riccia. Ed, infatti, i medesimi gli fecero sapere che il loro antenato fosse stato Monaco celestino e vicario generale in Benevento. E quest’ affermazione si avvalorava con la conghiettura di avere il Vescovo larinate fondato un monisterio di quest’ordine in Riccia, come lo attesterebbero le armi della famiglia Sedati poste in una parte della fabbrica del monisterio. Tale affermazione che era in aperta contraddizione con la riportata epigrafe, arruffò maggiormente i dubbi e le incertezze del Tria, il quale, per tagliar corto, scrisse all’Abate celestino Padre Federico del Giudice da Chieti, uomo dottissimo e di incontrastabile autorità. Questi, dopo matura diligenza, non solo dichiarò che il Vescovo Sedati non si trova nel Catalogo dell’ ordine, ma categoricamente affermò che il Monisterio in parola fosse stato fondato dai Principi di Riccia; e che ignorava il come e il per che lo stemma del Sedati si trovasse in detta fabbrica.

 

 

193

 

Noi opiniamo che tali armi dovettero ricordare qualche accomodo fatto dal Sedati al Convento in parola, e ciò per conciliare la inoppugnabile dichiarazione dell’Abate celestino con una constatazione di fatto. Scrisse Monsignor Tria anche al Padre Luigi della Torre, Abate cassinese, per aver notizie del Sedati; e il della Torre rispose di non aver ritrovato neanche nel Catalogo de’ Benedettini il nome del Sedati.

 

Ciò è singolarmente strano, esclamiamo noi, poichè o l’epigrafe dell’ Episcopio larinate è bugiarda, o l’Abate cassinese non fece regolarmente le sue ricerche, come è da ritenere. Ad ogni modo, a qualunque ordine si appartenesse, egli tenne la cattedra vescovile di Larino con zelo, intellettualità e fermezza. In Riccia prodigò il suo danaro ristaurando il Convento del Carmine, e nella diocesi non mancò di beneficare chi a lui si rivolse. Accasciato dagli anni e dalle cure episcopali, avendo bisogno di riposo e di un clima più salutare, per consiglio dei medici, si ritirò nel Convento di Gesù Maria dei Predicatori in Pozzuoli.

 

Quivi, secondo scrive il Padre Cavalieri nella Galleria dei prelati dell’Ordine, edificò a sue spese alcune stanze, e donò pi Convento alcuni denari per lo stesso effetto, ed ivi, mentre visse, sempre dimorò. Fu amorosamente assistito da quei frati, e fu specchio di osservante Religioso, lasciando dopo morte fama di persona intera e divota.

 

Il Tria non risolve se la data del 1539 sia quella della morte, ovvero quella consacrazione a Vescovo. Noi riteniamo che quell’epoca segni la data della morte del Sedati. Ed invero l’ Ughclli tra i Vescovi di Larino della seconda edizione, al numero XXIV, scrive: Iacobus excessit anno 1539. Ma se l’autorità abbastanza grave di tale scrittore non bastasse ad avvalorare la nostra opinione, c’ è anche quella del predetto Padre Cavalieri, il quale sostiene che il Sedati sia morto nel medesimo anno.

 

Noi abbiamo un altro fatto per essere del medesimo parere. In un documento che riguarda la vetusta Confraternita del SS. Sacramento di Riccia, si legge che i fondatori di essi furono nel 1521 i fratelli Francesco Sedati e Giacomo vescovo di Larino. Si dilegua perciò ogni dubbio che possa menomar valore alla suddetta asserzione.

 

Anima austera ed ascetica ebbe il Sedati, e indubbiamente nel Chiostro dovette possedere doti non comuni, e far segnalare la sua tendenza allo studio, alla virtù, alla pietà, se fa prescelto a covrire una carica più alta e tanto più eminente, quanto più autorità civile, politica e sociale aveva in quei tempi la Chiesa, che era giunta all’apogeo della sua potenza.

 

 

194

 

Ed un’altra considerazione può confermare le qualità egregie del Sedati. La Badia di Montecassino che, a traverso le barbarie e le tenebre del medio evo, seppe conservare il patrimonio artistico, scentifico e letterario dell’ Italia, di fronte alla selvaggia furia distruttrice degli invasori, ha albergato fin dal suo inizio religiosi rispettabilissimi per serietà di coltura e per integrità di carattere. Ora se il Sedati fu tra i suoi compagni scelto per una cattedra vescovile, vuol dire che fra essi egli doveva emergere per tale un complesso di pregi da rendere meno apprezzabili quelli degli altri in una simile promozione. E mentre da una parte siamo lieti di poter segnalare alla ricordanza dei nostri concittadini questo Prelato, dall’altro ci dispiace non poter dire altro di lui, poichè moltissime contingenze della sua rispettabile vita, in mancanza di chi le avesse raccolte e illustrate, furon cancellate dal tempo che tutto sgretola e distrugge.

 

 

            Abate Giovan Nicola Schiavone.

 

Ecco un altro nome travolto nei gorghi dell’obblio, e che ebbe vita e fama nel XVII secolo. Tenne luminosi posti e gli furono affidati gelosi incarichi; perciò si può a buon diritto asserire che fosse stato uomo di mente e di cuore. Lo Schiavone conseguì di buon’ ora la laurea di Dottore nell’ uno e nell’ altro Diritto. E assai probabile che avesse completati i suoi primi studi nel rinomato Seminario di Benevento, poichè il suo merito fu apprezzato dall’ Ordinario del tempo, per la nomina di Canonico nella insigne Collegiata di S. Bartolomeo di detta città, posto che rinunciò nel 1630. Ebbe altresì il delicato ufficio di Uditore e Commissario apostolico della Fabbrica di S. Pietro, siccome risulta da un mandato a stampa in data del 22 settembre 1625, in forza del quale transige per ducati duecento a favore della Fabbrica suddetta i diversi legati pii imposti da un tal Andrea Ciccaglione al suo erede Vito Ciccaglione, e che questi dichiarala ineseguibili. Sappiamo, inoltre, che nel 1621 passò ad esercitare la carica di Vicario Generale presso il Vescovo di Larino, che in quell’ epoca era Giovan Tommaso Eustachio da Gambatesa, e quanto avesse ben meritato in quella Diocesi, lo dice chiaro la rimunerazione che ne riportò della ricca Abazia mitrata di S.a Maria del Saccione, in tenimento di Montelongo. Fu ben anche investito degli altri benefici semplici di S. Angelo in Bonefro e di S. Angelo e S. Sebastiano in Montorio nei Frentani, i quali benefici erano di Patronato del Marchese di Castelletto, e se ne conserva in copia la Bolla sotto la data del 1631.

 

 

195

 

Eccone le testuali parole:

 

... elegit in Abatem et beneficiatam dictorum beneficiorum R.m D.m Ioannem Nicolaum Schiavone, Protonotarium Apostolicum atque dictce Larinensis Dicecesis olim Vicarium Generatemi etc...

 

Dal Pontefice Urbano VIII fu nominato Protonotario Apostolico, e fu chiamato dal Vescovo di Potenza per suo Vicario Generale in quella Diocesi. Ivi, a rimerito del suo zelo e della sua operosità, ebbe molti benefici semplici, fra i quali meritano menzione quelli di S.a Maria Annunziata e di S.a Maria Grande in Potenza, e quelli di S. Angelo del Bosco nel Territorio di Tito. Le Bolle d’investitura di tutti i detti benefici sono dell’anno 1633. Da diversi atti si rileva che dal 1638 al 1645 lo Schiavone fu anche Arciprete di S.a Maria dell’Assunta in Riccia.

 

Troviamo da ultimo che questo Prelato fosse stato adibito — s’ignora per quale uffizio — nel Seminario Napoletano; ove, essendo stato incolto da grave infermità, fece il suo testamento olografo, in cui leggonsi queste parole:

 

«Conoscendomi assai aggravato dall’ infermità et essendo certo il morire a S. D. M.a e l’ hora di quella incerta, dichiaro con questo che di tutti i mobili che ho in questa città di Napoli proprio nel Seminario, come biancherie, vestiti, oro, argento et crediti che ho, se ne facci nota per modo d’inventario, e che ogni cosa si disponga per beneficio dell’anima mia ad arbitrio dell’ E.mo Sig. Cardinale Filomarino, et così tutte le suppellettili et ogni altra cosa, dichiarando che dentro li miei bauli fra l’altre cose vi sono tre anelli d’oro con una corona di coralli, quali sono della Signora Cornelia Reggio della mia terra della Riccia ecc... ecc... ».

 

Da un atto d’affitto di una casa che la sorella dello Schiavone, a nome Angiola, ereditava da lui e dalla stessa locata, col consenso dell’Arciprete di S. Giovanni D. Donato Amorosa, si legge:

 

«la predetta Angiola asserisce in presentia nostra come il detto quondam D. Giov. Nicola suo fratello nel suo ultimo testamento in scriptis clauso et sigillato lascia ad essa Angiola l’abitazione nell’appartamento dello studio ecc...».

 

Morì in Riccia ai 31 ottobre 1645.

 

 

            Abele Ciccagliene seniore.

 

Nacque l’otto giugno 1747. Fu iniziato negli studi dagli zii Carlo arciprete e Saverio giureconsulto. Studiò giurisprudenza nell’ Università di Napoli, e vi conseguì la laurea in diritto civile e canonico il 17 luglio 1770. Nel successivo anno, sostenuti pubblici esami, venne con diploma del 30 aprile abilitato a ricovrire qualsiasi carica giudiziaria, sì regia che baronale; e, nonostante la sua giovane età, tenne ufficii importantissimi.

 

 

196

 

Essendo tiglio unico, nè potendo per questo allontanarsi definitivamente dalla casa paterna, non volle entrare nella magistratura regia, e proferì le cariche temporanee nelle terre baronali. Lo ritroviamo infatti Governatore e Giudice in Sepino dal settembre 1775 al giugno 1777 con «il mero e misto imperio, le quattro lettere arbitrarie, la podestà» del gladio e tutta la podestà secondo la locuzione di quei tempi. Con la medesima alta giurisdizione fu pure Governatore e Giudice in Bagnoli in Principato Ultra durante parte degli anni 1779 e 80, in Pietra Vairano dal 1783 al 1785, in Campolattaro nel 1787 e in Matrice negli anni 1789 e 90.

 

I documenti da cui sono attinte queste notizie si conservano in famiglia.

 

Tutte queste nomine, con giurisdizione uguale a quella delle alte magistrature del Pegno, le riceveva dal Sovrano, dietro proposta dei più potenti Baroni investiti del mero o misto imperio, della podestà del gladio (che dava dritto ad applicare ai rei anche la pena capitale) e di ogni altra giurisdizione. E, come risulta dai ricordati documenti, egli riscosse costantemente il plauso dei cittadini e delle autorità.

 

Ignoriamo se tenne altri uffici. Morì Governatore in Ielsi ai principii del secolo XIX.

 

La grande cultura e i profondi studi di lui sono confermati dalla ricca biblioteca di opere giuridiche, letterarie e storiche da lui formata e sul frontespizio delle quali leggesi per la maggior parte: ex libris U. l. D. Abelis Ciccaglione.

 

Aveva sposata Rosa Morelli, figlia del professore Morelli dell’ Università di Napoli, ed illustrò non poco la famiglia e il paese con la sua profonda sapienza e con l’integrità del suo animo.

 

. . .

 

[[ p. 196-287 in the .pdf file ]]

 

[Previous] [Next]

[Back to Index]