Graziadio Isaia Ascoli

 

Studj critici di G. I. Ascoli. II.

Saggi e appunti. — Saggi italici. — Saggi indiani. — Saggi greci. — Indici annotati d’entrambi I volumi

 

 

Ascoli G.I. (1867) Saggi ed appunti, Il Politecnico 3, pp. 283-314

(Ristampato nel 1877 in Studi Critici, vol.II, Roma), pp. 76-82.

Ermanno Loescher. Roma, Torino, Firenze, 1877 

 

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        Sommario

 

[I lavori contrassegnati con un asterisco, sono affatto nuovi; gli altri sono ritoccati o rinnovati, eccetto il III Saggio italico, dovuto riprodursi tal quale. Dei Saggi e Appunti, già divulgati a parte come estratti da questo volume, s'ha qui ora un'edizione nuova e rimutata.]

 

    Prefazione  I

 

Saggi e appunti:

I. La paleontologia della parola  1

II. Lignana, Camarda, Albanesi e Slavi del Molise  31

 

Saggi italici:

I. Le figure italiche del derivatore originario di nomi di stromento  83

II. I continuatori latini delle antiche aspirate  109

III. G. Gorssen e i precedenti Saggi italici  191

 

Di un gruppo di desinenze indo-europee  222

 

Saggi indiani:

I. La riduzione pracritica di m in v, e i suoi effetti  265

II. L’invertimento indiano del nesso in cui h precede a consonante, e i suoi effetti  306

 

Saggi greci:

I. Theós  382

II. Heméra  397

III. I prodotti ellenici delle combinazioni fondamentali in cui j sussegue a un’esplosiva  410

 

Indici annotati del I e del II volume degli Studj Critici. p. 473-520

 

 

SAGGI E APPUNTI.

 

I. Squarci d’una lettera concernente le ricostruzioni paleontologiche della parola.  (1–30)

 

 

II.  (31–30)

Anniversario Bopp. Solenne adunanza del Museo Nazionale di Napoli, 16 maggio 1866: Della grammatica comparata di Bopp, discorso del prof. G. F. Lignana. — Grammatologia comparata sulla lingua albanese, di Demetrio Càmarda. — Saggi poetici di Giovanni De Rubertis.

 

[Politecnico, marzo 1867.]

 

 

. . .

 

Anche nel Molise, come nella madre-patria, agli Albanesi stanno vicini gli Slavi [34]. E come fra i coloni albanesi, cosi fra gli slavi è vivo l'amore alla propria lingua e alla propria nazione, ma insieme anche l'amore alla patria italiana. Fra i martiri della libertà d'Italia, brilla di viva luce uno slavo d'Acquaviva Collecroce, Nicola Neri,

 

 

34. L'idioma slavo delle colonie molisine è l'illirico o serbo, cioè l'idioma che si parla; con leggiere variazioni, nella Dalmazia, nel Montenegro, nella Serbia, ecc. — Parlasi ancora, da tatti, in Acquaviva Collecroce (1920) e in San Felice e Montemitro (2514), che danno una popolazione complessiva di 4500 anime all’incirca. I vecchi lo parlano tuttora anche in Tavenna (2135). Pure di Palàta (3991?) è sicura l’origine slava; e v'ebbero Slavi anche a Ripalda (2081); e di Montelongo (1147) deve dire monsignor Tria, nelle Memorie istoriche della diocesi e città di Larino, che tutti gli abitanti vi smozzicassero un gergo slavo. San Giacomo (918) celebra l'arrivo de'coloni slavi, l’ultimo venerdì d’aprile; dovechè gli altri paesi lo celebrano il primo venerdi di maggio. A San Biase (1218; San Biase è il patrono dei coloni slavi del Molise) trovai viva la tradizione delle origini slave, e parecchi vocaboli slavi sopravviventi nel dialetto italiano; e ivi lessi nel Bullettino delle Sentenze, n. 3 (cioè tomo III), anno 1810, a p. 46–7

 

. . . . . esistono tuttavia le capitolazioni stipulate colla colonia degli Schiavoni chiamata dagli antichi baroni ad abitare il feudo (di San Biase). . . Le capitolazioni primordiali furono stipulate nel 1509 fra Girolamo Carafa ed i coloni Schiavoni.

 

— Il cav. Vegezzi-Ruscalla, in un suo opuscolo sulle Colonie Serbo-Dalmate nel circondario di Larino (Molise), che non son riuscito a procacciarmi, deve far colpa al De Rubertis (o a me che scrivevo sotto sua dettatura) d’aver fatto ascendere a 20,000 gli Slavi del Molise, quando non sono se non quattro o cinquemila. Ma il De Rubertis altro non mi detto (ned altro io scrissi), se non che lo slavo fosse ancora parlato da una popolazione di circa 5,000 anime, e che d'origine slava si dovessero reputare un 20,000 Molisini.

 

 

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morto sul patibolo, nel 1799, insieme con Pagano, Caraffa, Caracciolo, e tanti altri venerandi patrioti. Il quale illustre italo-slavo, nell’accommiatarsi da' suoi compaesani, che non di rado visitava, solea dir loro: «Fate di non perdere il nostro idioma (ne-mójte zgúbit naš jézik)». Viveva ancora, in quel paese, quando io ci fui (l’ottobre del 64), la vedova del Neri; e ci venne incontro, sulla soglia, con atti e parole, che ci portavano alla leggenda slava.

 

Pur questi Illirj o Schiavoni del Molise potrebbero tornare di qualche particolare utilità, civile e politica, alla nuova Italia, ajutandola a stringer vincoli nuovi cogli Illirj e co’ Serbi che stanno al'di là dell’Adriatico. E v’è, tra quei coloni bilingui (ma onestamente bilingui), un uomo che aspira ardentemente a rendere utile alle due patrie la sua qualità d’italo-slavo, e ha l’ingegno e l’animo da bastare all’intento. È Giovanni De Rubertis, d’Acquaviva Collecroce, buon verseggiatore e fornito di una dottrina larga e varia, che egli diffonde, con nobile perseveranza, fra’suoi conterranei.

 

Indi fa vista

Esosa stirpe su straniera nave

Dare l’ultimo addio

Sitibonda di sangue al suol natio,

 

canta ne’ suoi Martiri [35] questo compaesano di Nicola Neri, alludendo alla resa di Gaeta. Ma se nello stesso carme egli esclama :

 

Dovea forse Colei che in pugno tenne

I destini del mondo, eternamente

 

 

35. I Martiri di Montefalcone e Caccavone, Canto di Giovanni De Rubertis, Campobasso 1863.

 

 

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Posar su' ceppi il capo, e al suon destarsi

Di canzoni croate?

 

il De Rubertis italiano qui si trova in istrano contrasto col De Rubertis slavo, poiché è gemella della canzone croata quella che a lui sgorga più spontanea dall'anima. Le due cittadinanze stanno, all'incontro, in bell'armonia fra di loro, quando, nel Casimiro Bogdanovich [36], il nostro poeta prega la Polonia che ascolti

 

Il suono di una lira italo-slava.

 

A questo egregio amico, dal quale riconosco tutto l'utile e il diletto della mia gita nel Molise [37], in una sola cosa non poteva io prestare piena fede, ed era nei saggi, che egli mi veniva porgendo, della lingua e della poesia popolare de'suoi Slavi; perchè poeta com egli è, e dotto in lettere serbe [38], la parola del popolo s'alterava inevitabilmente passando pel suo prisma. Un vecchierello arguto e una candida fanciulla (Michele Maddaloni e Rosina De Rubertis, tutt’e due d'Acquaviva Collecroce) m’erano più sicuri maestri, e ad essi unicamente mi sono affidato.

 

 

36. Casimiro Bogdanovich, Episodio della insurrezione polacca del 1863, Canto di G. D. R., Campobasso, 1863.

 

37. Se la generosa amicizia del De Rubertis mi persuase e mi agevolò in tutte le maniere la bella escursione, non posso però dimenticar le gentilezze di cui m’onorarono altri Slavi e molti Italiani del Molise. Tra quelli mi sia lecito ricordare i signori Vetta d’Acquaviva Collecroce; tra questi: don Gaetano Porfirio di Trivento; don Serafino Leone e il fratello Giovanni, di Guglionesi; don Oronzio Jovine di Castellucciacquaborrana; e il signore Emilio Continelli di S. Biase. Una parola di gratitudine prego eziandio che voglia accettare il prof. Mola, del Vasto, e cosi potessi ancora pregarne Luigi Laccetti, pure del Vasto, eh’ era uomo adorno di molta e gentile coltura.

 

38. Pubblicò di recente: Poesie Serbe di Medo Pucić (Orsatto Pozza) volgarizzate da G. D. R. italo-slava, Campobasso, 1866.

 

 

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D’una vecchia e lunga ballata, ora rimane tra quegli Slavi solo il brano che segue, e le fanciulle lo dicono in carnevale, giocando a dondolarsi sulle funi:

 

Drúga drága hóma u ružítse

drúga drága né-morem dóie’

drúga drága zášto né-moreš dóie’

ímam stráho do Ívan Carlovítz

jéssu séddam gódišti

ke se ne náda ne žívote ne živót...

pérve sfítja ke Mára je nabrála

zgóra stíne mormorítze je veržíla

tâko dá-bi sa šúšja sé’rtze Ívan Carlovítz

kâko sa šúšu ové sfítja zgóra stíne mormorítze

ćúlla Mára svónitze do kenjíć

je pítala što jéssu te konjíć

te jéssu kónje Ívana Carlovítz [39].

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

 

Compagna cara, andiamo a cogliere rose [40];

— compagna cara, non posso venire; —

— compagna cara, perche non puoi venire? —

— ho paura di Giovanni figliuolo di Carlo;

 

 

39. V. imprima gli avvertimenti preposti alle noterelle albanesi. —

Hóma; in Dalmazia hómmo; cosi, in questo stesso brano:

šúšja per sušio; e similmente:

sa = se, náda = znade, e forse anche sfítja = sfitje.

Straho. Lo Stulli: strah e straha.

Do. L' uso di questa particola si è dilatato sotto l'influsso del di italiano.

Gódišti, godišta.

Náda (znade) ne žívote (serbo: život) ne živót (per živótit).

Je (come sempre, per jes) veržila. Serbo vri (vrgnem), porre; in Dalm. veri, porre e gettare (veržèn, gettato).

Vàko, ovàko;

šuš-, la prima sibilante assimilata alla seconda; pel fenomeno identico, s’ha nel dial. napoletano: sciuscíare = *susciare = soffiare.

Sfítja. L’illirico ha tzvjet, mascolino.

Svónitze, zvon-.

 

40. Dicono, se la memoria non m'inganna, nel loro discorso italiano: andiamo per rose (u ružitze).

 

 

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sono sette anni,

che non se ne sa nè nuova nè novella [41]. — . . . . .

I primi fiori, che Maria ebbe colto,

sulla pietra, a-cui-l'acqua-gorgoglia-intorno, depose :

— cosi si seccasse il cuore di Giovanni figliuolo di Carlo,

come si seccano questi fiori sulla pietra a-coi-intorno-l’acqua-gorgoglia.

E Maria senti i campanelli de’ cavallucci,

e domandò: — che sono questi cavallucci? —

— questi sono i cavalli di Giovanni figliuolo di Carlo.

.  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .  .

 

Il mio arguto dettatore aveva poi sentito parlare la sua nonna di quest’antica loro costumanza: Il primo giorno dell’anno, sul mezzodì, le donne del paese si recavano alla Fontana, ed empitovi ciascuna il suo mastello e messolo sul capo, se ne venivan giù verso la piazza cantando e ballando, precedute da un uomo colla chitarra o col mandolino e da una donna coi tamburelli; in piazza, gli uomini facevano circolo, e le donne nel mezzo a ballare e suonare, sempre coi mastelli in capo, e a gettare acqua in faccia agli uomini, col coppino di rame, sin che vuotassero il mastello. Veggano i più dotti, quale reminiscenza storica o quale tradizione qui si nasconda; io intanto noterò il riscontro che segue:

 

«Le Dynagus est une coutume lithuanienne dont l’institution remonte à la fin du quatorzième siècle. Elle est la commémoration du grand baptême du peuple lithuanien, pendant le règne de la reine de Pologne, Hedwige, épouse de Ladislas Jagellon, grand-due de Lithuanie... En mémoire de la conversion dea Lithuaniens, il fut institué une cérémonie annuelle qui rappelait ce grand acte religieux. Catte cérémonie dégénéra avec le temps en une sorte de divertissement populaire, qui est le Dynagus, tei qu’il se pratique ancore, le lundi de Pâques, dans les campagnes de la Lithuanie.

 

 

41. Letteralmente: che non si sa nè vita nè vivere.

 

 

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Cet amusement consiste à se faire réciproquement des aspersions, et l’on devine bien que les acteurs apportent à ce jeu toute la malico et la belle humour quo comporte ce genre d’espiéglerie villageoise [42]

 

 

Ma bene è ora che io finisca, almen per questa volta; e chiuderò con un proverbio e due brevi canzoncine dei nostri Slavi d’Acquaviva.

 

Ko íma jéna prass

ga résta tust

ko íma jéna sîn

ga résta pust [43]

 

Chi ha un sol porcello

l'alleva grasso;

chi ha un sol figliuolo,

lo alleva tristo.

 

La prima canzoncina è de’pastori :

 

Ja gredáhhu sâmu po pút

sa víddja jen lîe’pu divojk

di greš lîe'pa divojk mója

ôna smiúć smiúć

je mi bé’rnila pléća

ni jenu rîe’ć

je mi tíla rîe’ć [44]

 

Camminavo solo per la strada

e vidi una bella giovanotta;

— dove vai bella giovanetta mia? —

ed essa ridendo, ridendo,

mi volse le spalle,

nè una parola

a me volle dire.

 

L’altra l’aveva la Rosina De Rubertis raccolta il di innanzi («e faceva tenerezza di core a sentirla»),

 

 

42. L’Illustration, Journal universel, vol. XLV, n. 1155 (15 avril 1865).

 

43. Jéna prass, jéna sîn; il serbo vorrebbe jedno col nome neutro (prass), e jedna col mascolino.

Résta; raste al di là dell’Adriatico, e direbbe, intransitivamente, cresce.

Pust; in Dalmazia e in Serbia è tristo nel senso di deserto, vuoto; e nel Molise sarà tristo = tapino o cattivo, per influsso del tristo italiano.

 

44. L’u di gredáhhu e di sâmu parmi arcaismo notevolissimo.

Sa víddja jen, jesam vidio jednu (jenu nel penultimo verso.)

Di, gdi; ma anche lo Stefanović registra di (Sirm.) = gdi.

Bè’rnila (illir. ob??rnu-ti), cfr. vérnissa (illir. v??rnu-ti-se) nella canzoncina che segue.

Tíla, htila.

 

 

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dal labbro di due fanciulli che seguivano la bara, scoperta come s’usa colà, della lor madre giovane e bella:

 

Lípa mója mat

di sa nas óstala

u sri pût

vérnissa matm

rétzemi štókodi

kóje pût mam vazt

ja sénze níkrog [45]

 

O bella madre mia,

dove ci hai ora lasciato

in mezzo alla strada?

ritorna, o madre,

dimmi qualcosa;

quale strada ho io a prendere

io senza nessuno?

 

 

45. Di sa, gdi (v. sopra) sad;

óstala; ostaviti che si confonde con ostati;

u sri, u sred;

štókodi, štogod (štogodi avrebbe valore diverso; Stalli);

mam vazt, imam vazeti (uzeti);

nikrog, Stefanov.: niko (gen. nikoga); Stulli; nitko e nitkor.

 

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