Un insediamento slavo presso Siracusa nel primo millennio d.C.

 

Mario Capaldo

 

 

Europa Orientala, 2, 1983, 5-17

 

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- Bibliografia

 

Pancrazio, discepolo di Pietro, fatto vescovo è inviato, insieme a Marciano, κατὰ τὰ μέρη Ἰταλίας ad annunciare la buona novella e a dare il battesimo. I due, approdati in Sicilia, e precisamente a Taormina il primo e a Siracusa il secondo, vi svolgono con successo, cioè fino al martirio, la loro attività apostolica.

 

Questa vicenda, che è alle origini del cristianesimo siciliano, complicata da numerose peripezie e variata da digressioni didascaliche (per es., un intero compendio di storia sacra) e favolistiche (per es., la saga toponomastica di Tauro e Menia), è narrata nella Vita Pancratii (BHG3 1410), un testo agiografico di eccezionale lunghezza (circa 300 fitte pagine) e confusione, ma anche (e ciò ristabilisce l’equilibrio) di grande interesse, sia per la lingua che per le notizie storico-geografiche di cui sovrabbonda e per la storia del genere agiografico, o piuttosto del romanzo cristiano (Veselovskij 1886: 29 ss.).

 

La Vita Pancratii è ancora poco studiata. Un’idea non superficiale ne dà il riassunto fattone da Veselovskij (1886: 73-110), attento soprattutto agli accenni in essa contenuti al romanzo di Tauro e Menia. A parte i pochi estratti finora pubblicati (Di Giovanni 1743: 358-361; Lambecius 1782: 199-208; Veselovskij 1886; Usener 1902; Amore 1958: 92-109 in trad. italiana), per il testo bisogna ricorrere ai manoscritti. A tutt’oggi se ne conoscono almeno undici:

 

D = Athos, Dionysiu 143, XVII sec. (1632/33);

G = Grottaferrata, B b V, X sec., ff. 168;

I = Athos, Iviron, 424 (53), XVI sec.;

L = Athos, Laura, 434, XI sec., ff. 116-230;

M = Messina, Bibl. Universitaria, Cod. 53, ff. 1-151v;

O = Roma, BAV, Ott.gr. 92, XVI sec. (copia di W);

S = Moskva, GIM, Sin. 15, XI sec. (1023), ff. 122v-226;

V = Roma, BAV, Vat.gr. 1591, X sec. (964), ff. l-107v;

Va = Roma, BAV, Vat.gr. 1985, XI sec., acefalo, ff. 1-76;

 

 

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Vb =  Roma, BAV, Vat.gr. 2010, XII sec., ff. 130-206v;

W = Wien, ÖNB, Hist.gr. 3, XI sec., ff. 265r-390v;

 

Il problema della attendibilità della Vita come fonte storica si pone sia per la biografia di Pancrazio che per le altre notizie di geografia storica siciliana, ma anche di tutt’altro genere (come nel caso che è oggetto di questa nota), di cui la Vita è ricca e su cui talvolta non abbiamo altre testimonianze. L’impressione che si ricava dal materiale disponibile e da un primo sondaggio nei manoscritti è più quella di un farraginoso romanzo cristiano d’avventure che di un racconto storico. Questo non vuol dire che in essa non ci siano notizie utilizzabili da parte dello storico. La mescolanza di vero e falso è un fatto consueto nei racconti agiografici.

 

 

Per quanto riguarda (a) la lingua, (b) la datazione e (c) l’autore della Vita, non posso per il momento fare di più (o meglio) che citare l’autorevole giudizio di Usener (1902: 353), interlineandolo con qualche minima osservazione personale:

 

            (a) ”Der Wortschatz und die sprachliche Form des Romans können den Freunden des vulgären Griechisch eine Herzenslabung sein”.

Un altro particolare da ritenere è che nella forma linguistica c’è una certa differenza da manoscritto a manoscritto e ancor più tra il gruppo W (Ο), V, Va da una parte e S dall’altra. Il giudizio di Usener si riferisce a W, ma vale anche per G, M, S, V, Va; dei manoscritti atoniti e del messinese non ho potuto finora prendere visione.

 

            (b) "Abgesehen von den Beziehungen auf die Dogmen des Concils von Chalkedon und auf die gottesdienstlichen Institutionen der ausgebildeten griechisch-orthodoxen Kirche, gestattet der besondere Nachdruck, der auf die Bilderverehrung gelegt wird, einen Schluss auf die Zeit”.

Un sicuro termine ante quem (così già Veselovskij) è costituito dall’utilizzazione della Vita da parte dell’autore dell’omelia In Pancratium (BHG3 1412), databile agli anni venti del IX sec. (Amari 1933:1, 637). Il riferimento agli Avari come ἔθνος μιαρόν, μηδόλως γλώσσης ἑλληνίδος μετέχον· παράκειται δὲ παρὰ τὰς τοῦ Διρραχίου καὶ Ἀθηνῶν ἐπαρχίας (W, f. 340v) sembra escludere d’altra parte la seconda fase della crisi iconoclastica (a partire dal secondo decennio del IX sec.). È probabile anzi che la Vita risalga addirittura all’inizio della prima fase (anni 30 del sec. Vili), se il suo netto e caratteristico orientamento antiebraico e antimontanista è da mettere in rapporto con le misure antiebraiche e antimontaniste (anche qui la stessa associazione, non rarissima ma non per questo meno significativa, di Ebrei e Montanisti) di Leone Isaurico (Starr 1939: 91-92).

 

            (c) ”Ich möchte vermuten, dass ein mit Phantasie begabter griechischer Mönch, den die Bedrängnis der Bilderstürme aus seinem Vaterland nach dem Westen getrieben hatte, diesen Roman in und für Sicilien verfasst hat”.

Il tardo autore non disponendo di sufficienti notizie sulla vita del santo ha fatto spesso ricorso alla fantasia, ma più che a quella personale, a quella collettiva, all’arsenale cioè della letteratura agiografica. Riconosciuto ciò, bisogna però pure ammettere che i riferimenti storico-geografici, quando è possibile controllarli, si rivelano veritieri. Non è un caso che in questi punti l’autore rinvìi a storici o, più genericamente, a fonti scritte.

 

 

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La tradizione manoscritta della Vita è ancora interamente da studiare. Né Veselovskij né Usener hanno avuto modo di occuparsene. Qui mi limito a segnalare una particolarità importante ai nostri fini, e cioè l’esistenza di almeno due redazioni: una lunga (la maggior parte dei manoscritti) e una breve (Vb). Sul rapporto delle due redazioni tra di loro non sono in grado al momento di pronunciarmi, anche se mi capiterà qui di seguito di esprimere, dubitanter, un parere.

 

 

Per lo slavista, in particolare per il paleoslovenista, l’interesse della Vita sta nel fatto che, insieme alla più celebre Vita Antonii (BGH3 140), ricorre in versione anticobulgara, e ancor più nella circostanza che la traduzione sembra essere in relazione con l’attività di Giovanni l’Esarca (Angelov 1967). Un particolare da non trascurare è che le due Vitae non erano incluse in (e nemmeno estratte da) traduzioni complete di collezioni agiografiche (come, per es., il menologio), ma costituivano un libro a sé. La eccezionalità della cosa dipende dal fatto che, in età antica, la trasmissione della letteratura agiografico-omiletica procedeva di regola per collezioni e non per testi singoli (Capaldo 1981). Evidentemente i promotori della traduzione in questo modo conferivano (o piuttosto confermavano) alle due Vitae il valore di letture particolari, al di là della funzione, normale per testi di questo genere, di celebrare alcuni giorni dell’anno liturgico.

 

Per la Vita Antonii il fatto non sorprenda, essendo ben nota la sua straordinaria importanza, come paradigma di ascesi cristiana, in tutte le chiese (e letterature) cristiane orientali.

 

La scelta della Vita Pancratii invece è un fatto che abbisogna di spiegazione e che promette di essere non irrilevante per la storia culturale, religiosa e letteraria della cristianità slavo-ortodossa. Purtroppo lo stato generale degli studi paleoslovenistici non ci permette di sperare in una rapida soluzione del problema: le due Vitae, nonostante la loro eccezionale importanza, sono ancora inedite!

 

Un qualche risultato non banale mi attendo dallo studio del lungo addio di S. Pietro ai suoi due discepoli (V, ff. 7v-10r) e della connessa catechesi pancraziana (soprattutto V, ff. 22r-30v, edita parzialmente da Usener 1902: 356-358). Ma a questo scopo i soli manoscritti greci non bastano, e purtroppo, al momento, accedere (anche solo via microfilm) ai testimoni slavi, in particolare al prevoschodno sochranivšijsja (Lavrov 1898: 1091) Sin. 82 del GIM, è podvig non indegno di Pancrazio, ma superiore alle mie forze. In una decina di pagine sono concentrati un intero compendio di storia sacra, un sommario di etica cristiana, e molte altre cose ancora (addirittura un vademecum sull’efficacia dell’iconostasi), quasi a costituire una specie di summa di cultura e, per così dire, di tecnica apostolica!

 

 

Ma la Vita Pancratii presenta un altro-particolare, direi accidentale-motivo d’interesse slavistico, ed è quello a cui è dedicata questa breve nota.

 

Tra le altre imprese, la Vita narra anche quella della conversione dei Siracusani ad opera di Marciano, contrastato vanamente nella sua opera apostolica da Ebrei e Montanisti. Una volta sconfitti, costoro si rifugiano in un accampamento (o quartiere, in greco: σκηνώματα) nei pressi della città.

 

 

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Ora, sono proprio gli abitanti di questo accampamento, detti Σκλάβοι, a destare l’interesse, e a mettere alla prova l’acribia dello studioso di antichità slave.

 

 

”Le folle spezzarono gli idoli e credettero in Cristo. Andando allora, figlio mio, nella divina piscina, battezzai tutti nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo; così, figlio mio Evagrio, tutta la città credette in Cristo e si fece un sol gregge ed un sol pastore. Tuttavia il diavolo soffiava ancora un poco contro il gregge di Cristo, e prese alcuni dei Giudei e dei Montani i quali, partiti, si nascosero dove erano le abitazioni degli schiavi [o, come vedremo, degli Slavi ? M.C.], di cui scrissero gli storiografi, e giunti, fecero un malvagio sacrificio in quei sepolcri e volevano anche fabbricare una città ed un tempio. Pensando come porvi rimedio, mi venne suggerito dalla divina rivelazione di andare colà, e vi andai con i miei giovani, e le legioni dei demoni, con la grazia di Cristo, Dio vero e Signor nostro, il quale in principio era nel Padre insieme con lo Spirito Santo, furono cacciati da quel luogo” (Amore 1958:102)

 

Nell’unico manoscritto noto della redazione breve il passo citato manca. E non per lacuna meccanica, perché manca tutto il capitolo (intitolato Περὶ τοῦ ἁγίου Μαρκιανοῦ ἀρχιεπισκόπου Συρακούσης Va, ff. 31-47v) di cui fa parte l’exploit antiebreo e antimontanista di Marciano. Uno dei tratti caratteristici della redazione breve è anzi proprio l’assenza di questo capitolo.

 

 

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Il riferimento a fonti scritte non è, per se stesso, prova di attendibilità, potendo essere, come le iperboliche imprese del santo, pura invenzione dell’autore. Ma nel caso della nostra Vita i rinvìi a στορικ o, come nella nostra notizia, a παλαιοὶ συγγραφεῖς o ἱστοριόγραφοι, riferendosi non a fatti della vita del santo ma a particolari secondari, per cui mancava la motivazione ad inventare, non sembrano essere del tutto fittizi.

 

Veselovskij (1886: 110) non arriva a negare la fondatezza della notizia, avanza comunque il dubbio che questi Σκλάβοι siano, come gli Escler dell’epopea antico francese, un prodotto della fantasia.

 

Quale che sia l’origine e la varietà degli usi del termine Esclés (Esclavoz, Escler, Esclavon, etc.; Kahane 1962: 358-360) nell’epica francese, a partire dalla Chanson de Roland, certamente il processo di trasformazione del suo originario contenuto denotativo (connesso con gli Sclavi dell’area germanica, a cui rimanda la parola; Vising 1918: 17) in quello connotativo dell’epica ("Slaves confondus avec les Sarrasins” Langlois 1904: 196) è connesso con l’impatto che ebbero sulla frontiera arabo-cristiana occidentale i Sakāliba, e cioè ”la garde personnelle étrangère des califes umaiyades de Cordoue” (Levi-Provençal 1925, che precisa che in origine questo termine si riferiva ai prigionieri che "les armées germaniques ramenaient de leurs expéditions contre les Slaves et qu’ils revendaient ensuite aux Musulmans d’al-Andalus”).

 

Io non conosco una sola occorrenza di Σκλάβοι per cui si possa supporre un’evoluzione simile. E nel nostro passo non c’è motivo di pensare né ad Escler né ad un simile (e indipendente) uso metaforico (o, se si preferisce, epico; e questo deve essere stato il pensiero, espresso del resto in modo dubitativo, di Veselovskij) di Σκλάβοι. A parte ciò, pare più semplice prendere alla lettera la notizia che, se veramente si trattasse di un’invenzione o di un uso tanto particolare di Σκλάβοι, cercare di spiegarne l’origine.

 

 

Un’altra possibilità da verificare, prima di prendere alla lettera la notizia, è se qui Σκλάβοι non possa significare semplicemente "schiavi” (e non "Slavi”).

 

Sappiamo che in questo periodo (come del resto per molti secoli ancora) la schiavitù era praticata in Sicilia. In particolare, per la Sicilia orientale, abbiamo notizia di Ebrei possessori di schiavi (pagani, ma anche cristiani). In una lettera dell’aprile 593, S. Gregorio Magno si lamenta che un certo Nasas "sceleratissimus Iudaeorum... christiana mancipia comparavit et suis ea obsequiis ac utilitatibus deputavit” (Lagumina 1884: 3). In un’altra lettera, del maggio dello stesso anno, indirizzata al vescovo di Catania, S. Gregorio scrive: "Comperimus autem quod Samaraei degentes Catinae, pagana mancipia emerint, atque ea circumcidere ausu temerario praesumpserint” (Lagumina 1884: 5). Sicché non è impossibile un quartiere di schiavi di Ebrei fuori Siracusa. La difficoltà è piuttosto terminologica. I termini usati per designare gli schiavi nelle nostre fonti dell’epoca sono mancipia, servi, ancillae, οἰκέται, δοῦλοι, δέσμιοι. Le parole σκλάβος e sclavus (e i riflessi di quest’ultima nelle lingue romanze e germaniche) si affermeranno solo successivamente.

 

La storia più antica di σκλάβος e quella in parte connessa di sclavus, per cui già esiste una ricca bibliografia (cf. Kahane 1962), è abbastanza oscura.

 

 

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E non tanto per la struttura morfologica, che la trafila Slověne > Sclaveni e Σκλαβηνοί > Σκλάβοι e Sclavi sembra accertata (Skok 1927, Vasmer 1941), quanto per la cronologia e le modalità dello slittamento semantico: Slavo > schiavo. Nel nostro caso le due tradizioni linguistiche, greca e latina, convergono. A Taormina e a Siracusa si parlava in questo periodo sia il latino che il greco, come ci testimonia, tra l’altro, la nostra stessa Vita (Va, f. 12v: ”ἐάν μάθετε καὶ ὑμεῖς ἑλληνιστὶ καὶ ῥωμαιστὶ ποιοῦμεν ὑμᾶς χριστιανοὺς ἐπεὶ τῶν δύο γλωσσῶν ἡ λέξις τῶν Ταυρομενίτων”).

 

In Italia meridionale, nei secc. XI-XII, sclavus ”è lungi dal valore semantico di schiavo... molto raramente nelle carte citate si riferisce a strati sociali modesti” (Gentile 1959: 184). In ogni caso c’è difficoltà ad andare più indietro del X sec. (Aebischer 1936). Per quanto riguarda la Sicilia, nel 1287, in un gruppo di 27 schiavi, l’unico'ad essere qualificato come ”sclavus” è anche l’unico slavo (in particolare, un dalmata) del gruppo. Sicché giustamente Verlinden (1963: 23) si domanda: ”faut-il conclure que sclavus à ce moment a encore en Sicile un sens essentiellement ethnique?”. Questo beninteso non esclude che nella Sicilia prenormanna potesse essere in uso σκλάβος (e quindi sclávus, fatto sul greco, a differenza dello sclavus, forse d’altra origine, delle fonti normanne) col significato di "schiavo”. E con ciò siamo rimandati alla storia di σκλάβος.

 

Le attestazioni sicure di σκλάβος "schiavo” non sembrano essere anteriori al XII sec. (così Dölger 1952 contro Amantos 1932, che risale al VII sec.). E però certo che il suo uso nella lingua parlata è più antico (giustamente Kahane 1962: 354 ”it remained, apparently for centuries, an element of thè spoken language”). Sicché non si può escludere, data la lingua della Vita Pancratii, oscillante tra koiné e mediogreco, che nel nostro passo Σκλάβοι sia da intendere come "schiavi”.

 

Ma in epoca così antica (VII-VIII sec., come vedremo), anche se poteva essere già abbastanza avanti sulla strada di acquisire il significato di schiavo, σκλάβος restava pur sempre e soprattutto un etnonimo. Oltre a ciò, anche il contesto del passo, per quanto vago, induce a preferire il significato di "Slavi”. L’uso di σκηνώματα, riferito a schiavi, fa difficoltà. E forse anche l’accenno agli storici si spiega meglio se riferito ad un etnonimo. Per contò mio, volentieri spiegherei σκηνώματα τῶν Σκλάβων come un quasi-toponimo. Si sa che il tipo toponomastico Schiavi è ben testimoniato in Italia meridionale (Perrone Capano 1963: 139-140, Gentile 1959: 178). Qui basti citare Schiavi presso Sora, la cui testimonianza più antica è del 937 (”Castellum quod dicitur Sciavi” MGH ss 7 (1846): 619, 33).

 

 

Non resta perciò che vedere quanto sia verisimile la notizia di un insediamento slavo presso Siracusa nei secc. VIII-X.

 

La presenza di slavi in Italia centro-meridionale in epoca medievale è un fenomeno che avrebbe bisogno d’essere studiato in modo più sistematico di quanto non sia stato fatto finora. In epoca antica (VII-ΧΙ secc.), che è quella che qui ci interessa, questa presenza non si riduce ad incursioni piratesche sulla fascia costiera o a tentativi di occupazione militare di fette più o meno grandi di territorio. Le fonti ci permettono di intrawedere almeno altri due tipidi insediamenti:

 

 

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quelli di profughi o fuggiaschi, che non debbono essere stati pochi in quei secoli di grandi movimenti popolativi nei Balcani, e quelli di mercenari e forse di guardie confinarie (al servizio sia degli Arabi che dei Bizantini), vere e proprie colonie compietamente smilitarizzatesi col tempo (Guillou 1973, 1976; Capaldo 1979; Gestrin 1979; Spremić 1980).

 

Per quanto riguarda più particolarmente la Sicilia, le testimonianze più antiche risalgono alla fine del primo millennio d.C. (Di Giovanni 1887). Abbiamo notizia per es. di "Slavi” a Palermo. È dalla base palermitana che lo slavo Sabir fece, negli anni 928-929, al servizio di al-Mahdi, le sue scorrerie in Italia meridionale (Amari 1935: II, 207-210, 253). E il quartiere palermitano ”Harat ’as Sakāliba” (Quartiere degli Schiavoni), del quale Muhammad Ibn Hawkal nel suo Kitab al masalik (Amari 1880:1,13) dice che ”è più ragguardevole e più popoloso che le due città anzidette”, deve la sua origine a questi mercenari-schiavi-pirati di al-Mahdi che col tempo finirono col mettere radici nella città. Ma su questi "Slavi” grava il sospetto che in genere vale per gran parte dei Sakāliba delle fonti arabe, e cioè che non si tratti solo e sempre di "Slavi” (Levi-Provençal 1925).

 

Di gran lunga più importante è nel nostro caso la notizia che ricaviamo dal De rebus gestis Rogerii Calabriae et Siciliae comitis et Roberti Guiscardi ducis fratris eius di Gaufredus Malaterra. Il cronista riferisce di uno scontro, presso Taormina (dunque nella stessa area geografica, in cui si svolgono i fatti narrati dalla nostra Vita), tra Ruggero e un gruppo di Slavi del luogo:

 

"Anno Domini instante MLXXVIII, comes, Tauromenium obsidens,... dum quadam die de castro ad castrum per precipitia scopulosi montis cornes visum transiret cum paucis, pars quaedam Sclavorum inter myrtetica virgulta latitans, in quodam artioris transitus loco prorumpens, irruit. Et nisi Eviscardus quidam, natione Brito, audito strepitu armorum, sese comiti et hostibus interposuisset, de ipso comite, ut aiunt, hostibus triumphus cessisset... Dum nostri in arma ruunt, hostes per praecipitio scopulosi montis elapsi sunt” (l. III, capp. 15-16 ; Pontieri 1927: 66)

 

Ugualmente interessanti per noi sono le notizie sugli Slavi calabresi, più numerose per il periodo antico (X-XI sec.) di quelle relative agli Slavi siciliani. Più che le menzioni di personaggi isolati, come il monaco bulgaro che fa capolino dalla Vita S. Nili (Dujčev 1971: 510) o il soldato "qui szlavonice Zolunta vocatur” (MGH ss 3 (1839): 765-766) che aiuta Ottone presso Rossano (Mažuranić 1925: 284), per noi è importante la notizia, un pò misteriosa in verità, ma difficilmente del tutto fantastica, degli Annales Barenses:

 

"A.D. 981 Fecit proelium Otto rex cum Sarracenis in Calabria in civitate Columnae, et mortui sunt ibi 40 milia paganorum cum rege eorum, nomine Bullicassinus” (MGH ss 5 (1844): 55),

 

dove l’antroponimo indubbiamente slavo (Vlkašin ) costringe ad intendere Pagani come Pogani e cioè Narentani, ovvero i Παγανοί di Costantino Porfirogenito (Jenkins 19672, s.v. Παγανοί). E possibile che questi Pagani siano dei Saqaliba, e cioè mercenari Narentani al servizio dei Saraceni.

 

Di un altro gruppo di Slavi, localizzato presso S. Marco Argentario (tra Malvito e Bisignano), dunque non in Sicilia ma in Calabria (ma questo non significa molto per noi), dà notizia lo stesso Gaufredus. Ecco il passo:

 

"In viciniorem se conferens castrum, quod sancti Marci dicitur, firmavit... Sed cum, firmato castro, quid victus quod introduceret non inveniret..., Guiscardus usque ad sexaginta,

 

 

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quos Sclavos appellant, totius Calabriae gnaros, secum habens, quos quasi fratres fidelissimos sibi et maioribus promissis effecerat, sciscitatus est ab eis utrum locum adibilem scirent, quo praedam posset capi. Quibus respondentibus se ultra altissimos montes, via praeruptissima, in profundis vallibus praedam permaximam scire, sed sine magno discrimine extrahi non posse, Robertus tale fertur dedisse responsum: ”Eia, tutissmi vitae meae fautores, ita ne patiemini Guiscardum et vos ipsos fame affici... Ite - inquit - nocturni praedones... Praecedite! Subsequar militibus armatis”. Sicque, lecto parato, cum iam collocatus esset, de nocte, ulio sciente, consurgens, vili veste et scarpis, quibus pro calceariis utuntur, ad similitudinem abeuntium sese aptans illis medius iungitur. Sicque per totam noctem ignotus cornes illis factus, nulli eorum verbum fecit. Nam neque excitare volebat ne forte ita quis esset deprehenderetur; quia enim eiusdem gentis erant, non ex toto sese credebat illis... / Sicque, triumphalibus spoliis captis, de peditibus suis équités fecit ...” (l.I, cap. 16; Pontieri 1927: 16-17).

 

A differenza di quelli di Taormina, questi slavi non sono ostili al Guiscardo, che anzi se ne serve per approvviggionarsi in una situazione difficile. Su questo gruppo il cronista ci dà qualche informazione in più: un particolare del loro abbigliamento (scarpis, quibus pro calceariis utuntur) e, soprattutto, ci dice che conoscono bene la regione (totius Calabriae gnaros). Dettaglio quest’ultimo importante, perché ci assicura che non si tratta di un gruppo disperso o di un’apparizione fugace, ma di elementi che sono da tempo nella zona.

 

 

Le testimonianze citate confermano la notizia della Vita Pancratii. Resta da precisare la cronologia e la provenienza dell’insediamento siracusano e, inoltre, il suo rapporto con gli altri insediamenti slavi, calabresi e siciliani, del X-XI sec.

 

La maggior parte di questi slavi proveniva certamente dalle zone immediatamente prospicienti la costa orientale dell’Adriatico e in qualche caso siamo in grado di indicare esattamente la regione di provenienza. C’è però la possibilità che alcuni gruppi fossero originari di zone più interne. Io non credo che le notizie di storia bulgara di Lupus protospatharius presuppongano - come ritiene Dujčev 1971: 510-514 - la presenza in Bari di bulgari fuggiti dalle loro terre, allorché queste furono conquistate (1018) dai Bizantini. Ma a proposito degli slavi che nel 1041 passarono dalla Sicilia nelle Puglie, non è possibile alcun dubbio sulla loro provenienza, essendo detti esplicitamente "Macedones et Pauliciani”.

 

Per quanto riguarda gli Slavi della nostra Vita, il termine ante quem del loro insediamento presso Siracusa è stabilito con certezza dall’età del manoscritto più antico della Vita che è il IX (ο X) sec., sicché esso risalirebbe per lo meno a questa età, o ad un periodo immediatamente precedente. Ma se il riferimento ai παλαιοὶ συγγραφεῖς fosse da prendere alla lettera, si potrebbe risalire anche più indietro.

 

Ho già detto che la notizia si trova solo in una delle due redazioni della Vita e che non ci sono al momento elementi per decidere quali delle due sia più antica. Non è escluso che più antica sia la redazione breve, quella senza la notizia. Ma anche se così fosse, non si potrebbe però dedurne che l’insediamento abbia avuto luogo nel periodo intercorso tra le due redazioni, perché in ogni caso il lungo capitolo sulla attività di Marciano potrebbe derivare da una Vita a noi non giunta di quest’ultimo o, più semplicemente,

 

 

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dalla tradizione orale marcianiana (καθὼς ἄνωθεν ἐξ ἀγράφου παρηκολουθήσαμεν μέχρι νῦν, dice l’anonimo autore, del sec. VIII ?, dell’Encomio di S. Marciano; Amore 1958: 75), utilizzata da un copista-redattore della Vita Pancratii sull’onda di sentimenti filo-siracusani. E ciò significherebbe soltanto che la notizia circolava nella tradizione marcianiana e non in quella pan- craziana.

 

Non sappiamo come spiegare il fatto che nella traduzione antico bulgara della Vita Pancratii questa notizia manca (Veselovskij 1886: 72). Si tratta di una lacuna risalente ad un subarchetipo della versione slava o di una omissione voluta dal traduttore ? Oppure la traduzione slava è stata fatta su di un testimone della Vita in cui la notizia mancava ? Al momento, non siamo in grado di rispondere a queste domande. E probabile che la traduzione slava sia stata fatta sulla redazione breve della Vita.

 

Sull’epoca dell’insediamento e la sua provenienza, la notizia non ci dà alcuna informazione. Forse a tal proposito un qualche utile indizio potrebbe ricavarsi dall’episodio avaro, a cui ho già accennato.

 

Secondo il racconto della Vita, gli abitanti di Taormina sono impegnati in frequenti guerre contro nemici transmarini. La loro giustificazione è, nel racconto, già di carattere epico: ”per la gloria !” (ὥστε γενέσθαι ὀνομαστοὺς). Una di queste campagne militari, guidata da Bonifazio, signore di Taormina, è contemporanea agli avvenimenti narrati nella Vita. Gli uomini per la spedizione vengono raccolti ἀπὸ τε τῶν Μολικῶν καὶ Ἐτναίων καὶ τῆς παραλίου Τίτου καὶ τοῦ σὺν αυτῷ τέρμονος κατὰ μεσημβρίαν τοῦ ἄγοντος τόπου (S f. 172v), e cioè in una zona vicina alla antica Demona o Demenna (Filangieri 1978). La ragione della spedizione è la solita: ἔθος ἡμῖν ἐστι τοῖς ἐναντιουμένοις ἡμῖν τὰς ἡμῶν ἐπιδείκνυσθαι ἀνδραγαθίας. Bonifazio ritorna con molti prigionieri, su cui veniamo a sapere che sono Avari e che sono insediati nelle eparchie di Durazzo e Atene. Sulla loro fine non sappiamo altro che sono battezzati da Pancrazio. E questo battesimo più che un clichè agiografico, è un topos storiografico (cf. la simile fine dei superstiti Avaro-Slavi nel Peloponneso: αὐοὺς τοὺς βαρβάρους χριστιανοὺς ποιῆσαι, Dujčev 1976: 20), se non un fatto reale.

 

 

Queste notizie di incursioni sull’altra sponda, già in via di idealizzazione epica, hanno un fondamento storico. Sappiamo che gli Avaro-Slavi hanno invaso e occupato la Grecia per ben due secoli (VII-VIII). E che gli autoctoni si sono in parte rifugiati in Sicilia, tra l’altro in vai Demone. Si discute su cosa è da intendere per Avaro-Slavi. Forse non sono solo Slavi, come vuole Barišić (1965), ma due gruppi etnicamente ben distinti anche se alleati nell’impresa (Nistazopulu 1970). E certo in ogni caso che gli Slavi ne erano parte cospicua. Sicché gli Slavi della nostra Vita possono ben essere, non dico i prigionieri di Bonifazio, ma elementi della stessa origine. Il fatto che nella Vita non sembra esserci rapporto tra i prigionieri di Bonifazio e gli allogeni accampati presso Siracusa, venendo chiamati Avari in un caso e nell’altro Slavi, non deve far difficoltà. La stessa oscillazione nella designazione degli Avaro-Slavi (ora Avari, ora Slavi) è nella Cronaca di Monemvasia (Dujčev 1976, 16,18 e n. 53).

 

 

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 BIBLIOGRAFIA

 

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