Università degli Studi di Roma “La Sapienza”

 

 

 

Le colonie allogene dell’Italia meridionale e della Sicilia

 

E. Casanova

 

 

Genus, Vol. 4, No. 3/4 (Novembre 1940-XIX), pp. 1-31

 

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(Greci)  2
(Bulgari) 
9
(Zingari) 
10
(Schiavoni) 
12
(Ebrei convertiti o marrani) 
13
(Saraceni) 
14
(Provenzali) 
16
(Skipetari o Albanesi) 
18
(Piemontesi) 
27
(Conclusione) 
28

 

L’Italia, unificata sotto l’aspetto linguistico, culturale e politico, sta, nella fase presente della sua evoluzione, procedendo sotto il punto di vista antropologico, come dice il prof. Gini (1), ad una fusione più completa, delle varie stirpi fissate ormai da secoli sul suo territorio; fusione che la rinnoverà e le assicurerà un avvenire sempre più glorioso.

 

Non può dunque essere privo d’interesse il ricordo, che si faccia, in questo momento, di alcune particelle eterogenee, che affiorano ancora sulla compagine della popolazione specialmente coi loro usi e col loro dialetto, spesso già corrotto.

 

Sono reminiscenze di un passato più o meno lontano che fanno pensare all’origine etnica di coloro presso cui si manifestano, origine che ci è pur oggi ricordata dalla toponomastica. Che altro significano infatti quei Castrignano dei Greci, Piana dei Greci, Roccaforte del Greco, Torre del Greco, Rota Greca, Santa Sofia d’Epiro, Ginestra degli Schiavoni, San Felice Slavo, San Giacomo degli Schiavoni e quel San Vito degli Schiavoni, che si fece ribattezzare nel 1860 in San Vito dei Normanni ; e, ancora, Falconara Albanese, San Cosimo Albanese, San Costantino Albanese, Spezzano Albanese, San Demetrio Corone, San Paolo Albanese, Vaccarizzo Albanese, che leggiamo nei dizionari della popolazione e nelle Fonti archivistiche raccolte dal Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione ?

 

Oltre a queste, altre località uniscono al proprio nome un attributo che ricorda altre stirpi che la tradizione vuole le abbiano fondate, ripopolate o, soltanto, possedute ; come Macchia Saracena, Mercato Saraceno, Castelsaraceno, Saracinesco, Sant’Agata dei Goti,

 

 

1. C. Gini, Nascita, evoluzione e morte delle nazioni, Roma, 1930, pagg. 87-88.

 

 

2

 

Sant’Angelo dei Lombardi, Torella dei Lombardi, Guardia Piemontese, ecc. ; ovvero le distingue da luoghi omonimi (Castrignano dei Greci e Castrignano del Capo; Spezzano Albanese e Spezzano Grande, ecc.); o infine indica il rito religioso che vi sia seguito (Piana dei Greci, Rota Greca).

 

Comunque sia, le località, or ora citate ed altre vicine, sono per la massima parte site nell’Italia meridionale e in Sicilia, e ci svelano la sussistenza d’isole etniche, tuttora composte dei discendenti dei primi immigrati.

 

Di talune di queste isole è ormai impossibile conoscere l’entità ; di altre, per le speciali caratteristiche dei loro componenti, si può approssimativamente calcolare la popolazione, quantunque già molti membri di questa abbiano abbandonato la sede originaria per centri più numerosi, e in quella sede si siano infiltrati parecchi elementi forestieri. Tuttavia per queste ultime e particolarmente per le isole greche e albanesi un qualunque calcolo è stato fatto, come diremo in appresso.

 

Sommando i dati raccolti dal prof. Clemente Merlo (1) per le isole del Continente si avrebbe un totale di circa 183.451 individui (Provenzali, 3450 ; Albanesi, 124.498 ; Greci, 34,259 ; Slavi, 20.000 ; Piemontesi 1244) che parlano dialetti differenti da quelli locali. Ma tenendo conto delle osservazioni or ora fatte, propendiamo per credere quella cifra alquanto esagerata. Ad ogni modo, è sempre un numero ragguardevole ; e i suoi componenti sono d’origine greca, slava, albanese, ecc. come si è detto.

 

* * *

 

    (Greci)

 

Date le relazioni secolari del Mezzogiorno d’Italia e della Sicilia colla penisola ellenica, è naturale si ritenga che i primi venuti in Italia siano i Greci.

 

Però, è bene escludere, sin da principio, che si tratti di Greci della Magna Grecia. A tal proposito è opportuno ricordare che per Magna Grecia non s’intendeva se non la sottile striscia littoranea rinchiusa fra le sponde dell’Ionio e i monti, da Locri a Taranto e al promontorio salentino. E poi giova rammentare che sin dalla guerra di Pirro (280-272 av. C.) Roma fu padrona assoluta di tutta la regione ; e vi dominò per oltre sette secoli.

 

 

1. Nella Guida d’Italia del T. C.I. Italia Meridionale, vol. I, Milano, 1926, pagg. 103-104; vol. III, 1928, pagg. 65-67.

 

 

3

 

Finché tenne lo scettro, l’Urbe s’impose a tutto e a tutti, e tutti piegò alla sua potenza, ai suoi voleri, alla sua civiltà e, massime in Italia, al suo idioma. Per sette secoli la Magna Grecia non fu più che un nome, e i suoi abitanti, cives, come tutti gli altri.

 

Quando Roma scese al grado di città di provincia, costantemente esposta al saccheggio dei barbari, trascurata e priva d’autorità e di forza, Bizanzio, la nuova Regina del Mondo, fece naturalmente sentire il proprio predominio non più soltanto sull’antica Magna Grecia, ma su tutte le provincie principalmente meridionali, più vicine e più preparate al nuovo dominio. E per tutto l’alto medioevo gl’imperatori d’Oriente non cessarono dal combattere in quelle provincie, ora, contro i barbari, ora, contro gl’indigeni, ora, contro i saraceni, i quali tentarono più volte di allargare i limiti delle modeste signorie o sultanati che v’impiantarono ; come tentarono sull’altra sponda dell’Ionio e dell’Adriatico, sulla penisola Balcanica, spessissimo soggetta alle loro scorrerie e ai loro saccheggi.

 

Sotto la pressione di tali pericoli molte colonie greche si trasferirono allora nel Mezzogiorno d’Italia, in ciò favorite, oltre che dalla Corte, anche dai monaci basiliani o calogeri, i quali coprirono di loro laure o cripte eremitiche la penisola salentina e parte delle Puglie, diffondendo, unitamente al loro odio contro il vescovo di Roma, il rito greco con tale ardore da ottenere nei secoli VIII e IX la proibizione del rito latino nelle provincie soggette all’Impero di Oriente (1).

 

Questi greci, però, nei secoli che seguirono, furono tanto più facilmente assorbiti dall’ambiente, in quanto si videro abbandonati da Bizanzio, quando questa dovette volgere mente e forze contro nemici sempre più pericolosi ; e gli stessi Calogeri si videro combattuti colle loro stesse armi e con una propaganda più intensa da un’altra milizia religiosa, più agguerrita e sapiente: dai monaci benedettini.

 

Questi, sorretti dall’autorità ormai potente e temibile della Chiesa di Roma, per rivalsa, indussero’ i fedeli ad abbandonare il rito greco per il latino (2). In quelle circostanze, cessò la grande immigrazione greca.

 

 

1. Aar Ermanno, Gli studi storici in Terra d’Otranto, in «Archivio storico italiano», serie IV, to. II. - F. A. Primaldo Coco, Cenni storici di Sava (provìncia di Lecce), Lecce, 1915.

2. Rodotà P. Pompilio, Dell’origine, progresso e stato presente del rito greco in Italia, osservato dai Greci, Monaci basiliani e Albanesi libri tre, Roma, 1758 - 63. 3 vol. ; to. III, c. 2, p. 17.

 

 

4

 

L’influenza che essa aveva esercitata sinora scemò più rapidamente ancora, di fronte all’avversione dei nuovi dominatori, i Vikinghi o Normanni ; i quali, da ausiliari dell’esercito greco trasformatisi in conquistatori per proprio conto, non ebbero nulla di più sollecito che di rompere tutti i vincoli che potevano legare loro e i nuovi sudditi all’Impero bizantino.

 

In questa evoluzione i greci compariscono allora quasi come inquilini, distinti dalla massa della popolazione ; e sembrano essersi ristretti in località che per un certo tempo conservano il loro nome. Così, per citare un esempio lontano dalle rive dell’Ionio a loro familiari, il Regesto di Tommaso decano o Cartolario del Convento Cassinese, 1178-1280 (Montecassino, 1915) ricorda resistenza nel comune di San Germano di un locus Grecorum, di una fons Grecorum ; e, sotto la data del 2 dicembre 1260, registra ancora ima divisione di beni in loco Grecorum, nella quale comparve, in qualità di teste, magistro Jacobo archipresbytero Grecorum (1).

 

Tipico, al momento della scomparsa della professione di fede, e molto istruttivo è il caso di quello scriniario di Gaeta ; il quale, nel 1125 (?) sottoscrisse un atto da lui stipulato : Ego Petrus, grecus latinus presbiter, compievi et absolvi (2).

 

Tutti questi particolari c’inducono a concludere, che quantunque la base fosse propizia a una trapiantazione di greci nell’Italia meridionale e in Sicilia, neppure da quella seconda «ondata» derivano le isole etniche greche, tuttora esistenti. V’ha nella documentazione di tale sussistenza ima soluzione di continuità, della quale non tengono conto coloro i quali asseriscono che talune terre furono fondate da greci nei secoli VIII e IX, per esempio : Martano, Marino, Galatone. Passi ancora per Troja, che dicesi fondata nel 1063 da coloni greci, guidati da Bubagnanus ! (3)

 

 

1. pagg. 90, 154, 313.

2. R. Neapolitani Archivi Monumenta, Neapoli, M.D.CCC.LXI, to. VI, pag. 204.

 

3. Però, il preambolo di un diploma del protospatario Basilio Boiano, catapano d’Italia per l’Imperatore di Bizanzio, in data del mese di giugno 1019, ristabilendo la verità storica, informa che la città di Troja, da tempo antichissimo distrutta, era stata da lui stesso, per ordine sovrano, con somma cura e rapidità restaurata e fortificata e vi si erano trasferiti parecchi abitanti del contado di Ariano, fautori dei greci, abbandonando le parti dei Franti, cioè dei Normanni, che vi signoreggiavano. Cfr. Syllabus graecarum membranarum ecc. di Francesco Trinchera, Napoli, MDCCCLXV, pag. 18, n. XVIII.

 

 

5

 

Non neghiamo tale fondazione primitiva;ma ricordiamo che, se anche fondate in quei secoli, tutte quelle località furono ripopolate nel secolo XV, per essere allora decadute o deserte, vale a dire, parecchi secoli dopo l’assimilazione dei primi fondatori ; e quindi sono da considerarsi propriamente del sec. XV.

 

Perchè veramente medievale e moderna è la costituzione delle colonie greche, alle quali ci riferiamo. Essa è contemporanea a quella delle colonie slave e albanesi, e, motivata dalle stesse ragioni : la persecuzione dei Turchi e la politica demografica dei principi e Stati italiani. E, come tale, non riguarda soltanto il Mezzogiorno d’Italia, ma interessa anche altre parti della Penisola (1), quantunque per cause diverse o per l’inclemenza del clima non vi abbia attecchito nè allora, nè poi.

 

Di recente sono state pubblicate le trattative fra la Repubblica di Siena e Anna Notara Paleologa, terza moglie di Costantino XII Paleologo, ultimo imperatore di Bizanzio, per accogliere in Montauto di Maremma (Montautaccio sulla destra del fiume Santa Fiora inferiore, quasi di fronte alla distrutta Castro) alcune famiglie greche, tuttora residenti nei territori occupati dai Turchi e da questi perseguitate (1472-74). Per quanto pieno di difficoltà ed eccessivamente lungo il viaggio per andare a rilevarle, e infetto dalla malaria e disabitato il luogo prescelto, la principessa vi si sarebbe adattata, se il malvolere dei senesi non avesse fatto rompere i negoziati. E di malvolere veramente si deve parlare, quando si ricordi il favore, col quale, nel 1462, erano stati accolti i Romagnoli venuti a Saturnia, e, nel 1473, i Modenesi scesi a Samprugnano (2).

 

Nel 1580, a nome di Chimariotti o Cimariotti, greci della Chimara, il prete ortodosso Gico papa Nicola chiese al Granduca di Toscana Francesco I, di venire a ripopolare Paganico e Saturnia, nella medesima Maremma, già abbandonata dai Romagnoli del 1462, con 160 famiglie di Ducates, fra i cui membri erano 200 armati, e con altre 160 persone rimaste in attesa a Roma, fra cui 25 donne e 8 «putti», mentre tutti gli altri erano uomini da lavoro. Ancora, in questo caso,

 

 

1. Come ha dimostrato con dottrina ed acume il prof. Giovanni Parenti, trattando in «Economia» dapprima, e in un volume a parte poi, delle Colonie della Toscana.

2. G. Cecchini, Anna Notara Paleologa : una principessa greca in Italia e la politica senese di ripopolamento della Maremma, in «Bullettino senese di storia patria», N. S. IX, fase. I, 1938. Calisse Carco, Montauto di Maremma, in «Bullettino senese di storia patria», 1896.

 

 

6

 

la ripugnanza del Governatore di Siena, Francesco dei conti di Montauto, mandò a monte le trattative (1).

 

Lo stesso non avvenne negli Stati meridionali ove il malgoverno, le angherie dei baroni, le guerre incessanti avevano fatto non solamente trascurare F agricoltura, ma fuggire gli abitanti. Perseguitati dai Fisco molti abitanti chiudevano casa senz’ altro ed emigravano, abbandonando tutto, nella speranza di trovare in altri distretti un nascondiglio ove sfuggire alle indagini dei percettori.

 

Di fronte a tale stato di cose, la nuova dinastia aragonese inaugurò una politica demografica, che, mentre tentava di ripopolare le terre deserte, assicurava l’appoggio di partigiani e militi alla nuova monarchia.

 

Alfonso I fu il primo dei sovrani che chiamarono i greci nel Regno. Il figlio di lui, Ferrante, fu il primo a collocarli là dove la guerra dei Baroni aveva fatto il vuoto.

 

Con ciò non vogliamo dire che, senza essere chiamati, altri greci, anzi, molti greci, non varcassero dopo la caduta di Costantinopoli, l’Adriatico e l’Jonio in cerca di ricovero e di sostentamento nella Penisola. Ne troviamo allora da per tutto nei centri abitati, addetti ai più umili mestieri o alle più alte mansioni. Francesco Simonetta, il ben noto ministro degli Sforza, era figlio di «Antonio da Grecia di Calcurio (Caccuri) nel ducato di Calabria». E dove lasciamo gli Umanisti ?

 

Ma chiamate di manipoli più o meno numerosi non ne troviamo se non quando Alfonso I li assoldò nel suo esercito.

 

E allora vediamo quei greci stabilirsi alle due estremità delle sponde italiche del Mare Jonio, vale a dire nella Penisola Salentina e nella parte più meridionale della attuale provincia di Reggio Calabria, ove sentivansi attratti quasi da sentimento atavistico.

 

Da quel momento in poi, per due secoli, continuano le immigrazioni greche. I Viceré spagnuoli seguono la politica demografica degli Aragonesi (2), non solo, ma mettono persino a disposizione dei fuggiaschi dal giogo ottomano le imbarcazioni necessarie a trasferirli nel Regno.

 

 

1. P. Minucci Dar Rosso, Di alcune colonie greche nello Stato di Siena sotto il governo mediceo, in «Miscellanea storica senese», IV, 1896, pagg. 137, 153, 171.

2. M. Palombo, I Comuni meridionali prima e dopo le leggi eversive della feudalità. Feudi, Università, Comuni e Demani, vol. I, Montecorvino Rovella, 1910, pagg. 336 e segg.

 

 

7

 

Nel 1533 il Governo concede sino a 200 navi da trasporto a Lazzaro Mattes per trasferire in Italia i suoi Coronei (abitanti di Corone), a ripopolare Melfi, Maschito, ecc., distrutte dal terremoto. Nei 1647 vengono i Mainoti (da Maina). E i nomi di Condofuri, Varapodio, Laganadi, Stellatanoni, Marôpati, Pentidattilo, ecc., cidànno già a sufficienza la sensazione del passaggio dei nuovi immigrati.

 

Però appena pongono piede sul suolo italico, quei greci subiscono l’influenza dell’ambiente, che ne disgrega dal lato morale la compagine per trasformarla al proprio sembiante.

 

Quelli venuti alla spicciolata e sparsi un po’ da per tutto, specie nei centri di qualche entità, vaporizzano quasi in un attimo. Gli altri resistono più a lungo perchè raccolti in massa maggiore e per qualche tempo sempre segregati dalla popolazione che li circonda.

 

Tuttavia anche essi ricevono presto i primi colpi dai loro vicini.

 

Filippo II, re di Spagna e di Napoli, in istruzione del 16 marzo 1595 per la redazione della «Numerazione dei fuochi» ordinava, fra le altre disposizioni, ai Numeratori :

 

«perchè li preti greci non si hanno da ponere per fuoco ; però usarete ogni diligenza ad havere informazione se le loro mogli hanno avuto o possedono cosa alcuna, eredità che per avanti fosse stata accatastata ; quo casu, non obstante sia prete greco, lo ponerite et annoterite per foco» (1).

 

Preti ammogliati non erano latini ; e quindi si deduce da quella disposizione che gl’immigrati dalla Morea, come forse dall’Epiro non erano cattolici romani, quando sbarcarono, ma ortodossi. Si capisce allora come, in pieno movimento della Controriforma, la Chiesa non soffrisse la presenza nella Penisola di quegli scismatici ed ordinasse alla crociata dei Vescovi di convertirli al Cattolicismo. La conversione avvenne tanto più facilmente in quanto fu dapprima concesso ai convertiti di conservare il rito greco, più vicino all’ortodossia. Ma lo zelo dei vescovi in breve non si accontentò più della prima vittoria e procurò di ridurre tutti all’osservanza del rito romano. Così, fra la fine del secolo XVI e la fine del XVII il rito greco cessa in un gran numero di colonie greche e particolarmente in quelle della pianura, ad esempio, nella penisola Salentina, ove già altra volta quella stessa trasformazione erasi verificata. Aradeo, Bagnolo, Carpignano Salentino, Calimera, Castrignano dei Greci, Martano, San Pancrazio, Sternatia, ecc., abbandonano quel rito.

 

 

1. M. Palombo, op. cit., vol. I, 1910, pag. 371.

 

 

8

 

Oria, la madre di mille colonie, come suol chiamarsi, ha ancora al principio del secolo XVIII un archipresbyter Graecorum, senza che sappiamo a qual rito appartenga (1).

 

Col mutare del rito, mutano ancora il costume e il vestire. Ma, come il rito greco sussiste sinora qui e colà, così in parecchi luoghi sono tuttora conservate usanze speciali e abbigliamenti particolari di parata, perchè il mutamento accennato non procede col ritmo accelerato imposto per la religione, dovendo superare le gravi difficoltà che vi oppongono l’intimità e l’economia della vita familiare.

 

Lo stesso dicasi delle cerimonie e festività ; nella celebrazione delle quali spicca chiaro ancora il carattere del luogo d’origine, se pur, talvolta, non venga fatto di pensare a reminiscenze atavistiche di tempi quasi primitivi o forse saraceni. Per esempio, le danze frenetiche a suon di tamburelli e di castagnole, alle quali si abbandonano pazzescamente i «tarantolati di Galatina» ossia i morsicati da tarantola nel pellegrinaggio del 29 giugno a San Paolo vicino a Galatina, dal momento in cui entrano in quel feudo sino al loro accesso alla chiesetta di San Paolo hanno per noi uno strano sapore di primitivo ed orientale più che di ellenico.

 

Se anche in Calabria meno sollecita sia la trasformazione, tuttavia, così in Calabria come nel Leccese scompare gradatamente il dialetto, prima parlato ad esclusione di ogni altro idioma ; la popolazione diventa dapprima bilingue ; poi non parla più se non la lingua del paese. Si parlava greco sino al principio del secolo XVII sul versante tirreno dell’Aspromonte, nei famosi Piani di Aspromonte. Sino al principio dell’800 il dialetto greco era ancora il linguaggio corrente a Bagaladi, a Carpignano Salentino, ad Aradeo, a Cutrofiano, a Galatina, Galatone, Sogliano, San Lorenzo, Leucopetra, oggi Motta San Giovanni, a Matino. Oggi quegli abitanti non lo conoscono più.

 

Rimangono ancora attaccati alle loro usanze, al loro dialetto ; nella penisola Salentina: Calimera, Castrignano dei Greci, Corigliano, Martano, Melpignano, Martignano, Soleto, Sternatia e Zollino; e, in parte, soltanto, Carosino, Erchie, Monacizzo, Torricella, ecc. ; che, fra tutti, rappresentano circa 23.000 individui.

 

Nella provincia di Reggio Calabria i loro centri sono ormai rivolti unicamente verso il Mare Jonio e si arrampicano sulle balze più scoscese dell’Aspromonte.

 

 

1. F. A. Primaldo Coco, op. cit., pag. 402.

 

 

9

 

Sono Amendolea, oggi Condofuri, Bova, il cui dialetto contiene le tracce del maggiore arcaismo, Gallicianò, Roccaforte del Greco, Roghudi coi casali di Chorio di Roghudi e Chorio di Roccaforte ; abitati da circa 12.000 individui. Sicché, al giorno d’oggi, gli elementi, che rappresentano ancora gli antichi immigrati dalla Morea, sono circa 35.000. La Enciclopedia Italiana (vol. XVII, p. 919) ritiene siano 36.000 di cui 25.000 in Terra d’Otranto.

 

È un numero non trascurabile ; ma non è più se non il ricordo di una popolazione molto più numerosa. Essa stessa si sgretola di continuo sotto Fazione della civiltà, che ne investe tutte le unità e le cellule, e le fonde sempre più velocemente coll’altra popolazione circostante, della quale profondamente e sinceramente condividono la vita e i sentimenti.

 

* * *

 

    (Bulgari)

 

Non chiamate, ma venute spontaneamente e ormai sommerse da un pezzo nell’ambiente, ove furono sistemate, altre genti, delle quali incerto rimane il ricordo, comparvero nell’alto medio evo a incrociare il proprio sangue con quello degli abitanti di altra regione italica meridionale, che per lungo corso di secoli servì di ricetto a popolazioni di razze diverse.

 

L’antica patria dei Frentani, un dì ubertoso giardino del versante adriatico della penisola, era ridotta a rovine e deserto dal transito incessante e dal continuo guerreggiare degli eserciti ; quando, nel 667 dopo C., si presentò alla Corte di Grimoaldo, re d’Italia, e di Romualdo, di lui figlio, duca di Benevento, Alczeco, capo di una masnada di Bulgari. Perchè venisse e donde uscisse non è detto ; ma è probabile appartenesse a quel ramo dei Bulgari che stanziava in Pannonia sotto l’impero degli Avari, vero centro propulsore delle invasioni sull’Adriatico e sulla penisola balcanica (1).

 

Come tutti i barbari, che, prima di aggredirla, avevano offerto a Roma di entrare nelle sue legioni, così Alczeco offrì a Romualdo di servire ai suoi ordini e, per corrispettivo, chiese ospitalità e terre pei suoi guerrieri (110).

 

 

1. Cfr. E. H. Sonnabend, L’espansione degli Slavi, in «Pubblicazioni del Comitato italiano per lo studio dei problemi della popolazione», Serie I. vol. I, Roma, 1931, pagg. 97, 121 e segg.

 

 

10

 

Gli fu assegnato per stanza il confine a nord-ovest dei Matese, da Sepino ad Isernia, con Boiano per centro ; ed egli l’occupò e lo fece di nuovo prosperare.

 

Centocinquanta e più anni dopo l’occupazione, Paolo Warnefrido, che li ricorda, scriveva, nella sua storia delle Gesta dei Longobardi, che quei Bulgari conservavano ancora la propria favella.

 

Questo particolare c’induce a ritenere che, senza essere molto numerosi, non fossero neppure eccessivamente scarsi, se per circa due secoli riuscirono a conservare la propria personalità linguistica. Erano la razza, la classe dominante, quasi i conquistatori, più o meno pacifici, di una regione, che, per deserta che fosse proclamata, era pure abitata da gente sulla quale si sovrapposero. Tali si mantennero, giusta le teorie di Corrado Gini, finché la loro riproduttività venne a scemare, nè bastò più a coprire i posti di comando, a distinguerli in mezzo alle classi inferiori, cresciute di numero nel frattempo, ed elevatesi gradatamente accanto a essi e fino ad assimilarli a se stesse (2).

 

Dominanti ancora o già assimilati, essi varcarono col tempo i limiti loro assegnati, espandendosi nelle alte valli del Biferno e del Trigno, e trasformarono il gastaldato di Boiano in contado di Molise, dal nome dell’antica città degli Irpini, Melae, Meles o Moles, distrutta, nei 538 a. C. da Fabio, della quale i loro capi si fecero signori e assunsero il nome.

 

* * *

 

    (Zingari)

 

In altra parte del Molise poco prima del mille comparvero varie tribù di nomadi, venute non si sa per quale via, nè per quale motivo. Erano orientali, forse dell’India, e si chiamavano gisi, gizzi, gyptii, egizii, quasi provenissero dall’Egitto. Noi li chiamiamo zingari (3).

 

 

1.

·       G. Masciotta, Il Molise, dalle origini ai nostri giorni, vol. I, Napoli, 1914, pagg. 128-129.

·       V. D’Amico, I Bulgari trasmigrati in Italia nei secoli VI e VII dell’E. V. Loro speciale diffusione nel Sannio, Campobasso, 1933.

 

2.

·       C. Gini, I fattori demografici dell’evoluzione delle nazioni, Roma, (Biblioteca del «Metron»), 1912, pagg. 9 e segg.

·       C. Gini, Nascita, evoluzione e morte delle nazioni, Roma, 1930.

·       C. Gini, Le basi scientifiche della politica della popolazione, Roma, Istituto di Statistica, R. Università, 1931, pagg. 80 e segg.

 

3. G. Masciotta, op. cit., I, pagg. 351-354; II, Napoli. 1915, pag. 191.

 

 

11

 

Parlavano un dialetto tutto proprio, che parlano tuttora. Vivevano su carri o in attendamenti, uomini ed animali insieme, in mezzo a grande sporcizia. Quando le memorie del tempo, li ricordano, sono già di religione cattolica, ma di una liturgia tutta loro particolare, frammista e deformata da pratiche e superstizioni orientali ; ma sono scarsamente religiosi. Di carattere indipendente e organizzati patriarcalmente, fingono di riconoscere un qualche capo ; ma preferiscono la massima libertà di scorrazzare a famiglie ovunque possano giungere coi propri mezzi. S’intende con ciò come siano refrattari ad ogni occupazione sedentaria, alieni dalla coltivazione delle terre, dediti al solo traffico dei mercati e specialmente a quello dei ronzini, per lo più rubati altrove e smerciati non senza imbroglio sulle fiere, che frequentano assiduamente, anche per esitarvi gli scatolicchi, che confezionano presso i loro provvisori accampamenti nei momenti di sosta. Come oggi, anche allora, non ostante la loro indole vagabonda, tornavano regolarmente ad un centro, ove si riposavano appena e attingevano notizie per future gite.

 

I documenti del secolo XII (1140-1171) citano di frequente in Aquino, per esempio, un arcu de Ciczo, Cyczo, Cizzu, Giso, Gictii, Gictzi, Gizzo, Gizzu, Gyzzi, Gyzti, Egiptii, Egyptii, ecc. ch’era probabilmente uno di questi loro recapiti. Altrove ne avranno certamente avuti altri. Ma Aquino era luogo sulla strada da Roma a Napoli, e perciò troppo in vista, troppo accessibile da chi non fosse loro amico. Ed essi l’abbandonarono ancora in tempi remoti.

 

Nemici, in verità, ne avevano parecchi, anche allora, per lo scarsissimo rispetto, che dimostravano per la proprietà altrui, e per le altre loro mende, che spesso li facevano perseguitare, imprigionare e persino anche ridurre in schiavitù.

 

Nell’agosto 1115, Ruggero, conte di Sicilia e di Calabria, dona al monastero dei ss. Apostoli di Stilo alcuni individui, fra i quali, Nicolaum gitzum e Epiphanium macedonem (1).

 

Per allontanare forse il pericolo di contatti non certo desiderati essi si erano ridotti in parecchi in luoghi scoscesi della Daunia e avevano fatto loro centro in Ielsi, dai Registri angioini chiamata appunto Gittia. Vi sono ancora oggi, senza mutare la loro vita errabonda ; e oggi, come allora, s’irradiano tra il Biferno e il Fortore, in quella che, nel 1404 dicevasi Terra Gyptiae.

 

 

1. F. Trinchera, Syllabus graecarum membranarum, Napoli, 1865, pag. 115.

 

 

12

 

Vi risiedono tuttora in poche migliaia, refrattarie all’assimilazione colle genti circostanti appunto per il loro modo di vivere, per la separazione da ogni altro consorzio.

 

Sono in continuo andare e venire ; e questa loro condotta avventurosa quasi si generalizza in tutta la regione, ove, come è noto, imperversò fino a pochi anni or sono il fenomeno dell’Americanismo, vale a dire l’impressionante mania di molti molisani moderni di emigrare verso i paesi transoceanici (1) per tornare poi in patria talvolta in condizioni economiche un po’ migliori, spesso colla salute rovinata. Si direbbe che l’instabilità sia stata sempre un particolare ingenito in quella terra e in chi vi pose piede.

 

* * *

 

    (Schiavoni)

 

In quella medesima contrada, alla fine del secolo XIII, troviamo già sbarcati dall’altra sponda dell’Adriatico degli slavi, chiamati allora Schiavoni. Come è noto, questo appellativo non ha che fare colla schiavitù, e non è se non una corruzione di Slavoni, Slavonia. Eppure, esso ci riporta alla mente lo strazio, al quale sempre soggiacquero le popolazioni slave sin dalle prime pressioni delle orde asiatiche, dalle quali furono sempre dominate e trattate colla massima crudeltà.

 

Anche nell’alto medio evo fra gli schiavi, venduti dagli arabi e dalle altre genti orientali sui mercati d’Africa, di Sicilia e d’Andalusia, comparirono molti slavi, che come servi, eunuchi 0 mercenari vennero adoperati in occidente e acquistarono favore presso i nuovi padroni, cui la loro parlata servì spesso per farsi intendere dai popoli vicini. Taluni furono in certe località sì numerosi da essere raccolti in un quartiere speciale. Ebn Haucal, nella Descrizione di Palermo alla metà del secolo X (2) ricorda il quartiere degli slavi in quella città : quartiere che gli avvenimenti dei secoli seguenti spazzarono via colla gente che ne teneva in servitù gli abitanti.

 

 

1. G. Baranello, Il problema del lavoro nel Molise, in «Nuova Antologia», sett. 1916, pagg. 76 e segg.

2. V. Lamansky, Secrets d’état de Venise. Documents, extraits, notices et études servant à éclaìrer les rapports de la Seigneurie avec les Grecs, les Slaves et la Porte Ottomane à la fin du XV et au XVII siècle, Saint Petersbourg, 1884, pag. 383.

 

 

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Non schiavi, ma liberi erano invece gli slavi comparsi nel Molise. Appartenevano al ramo degli illirici (1) e, dalle inclinazioni dimostrate, propenderemmo a ritenerli per sloveni. Essi infatti non ebbero mai contrasti in fatto di religione : ciò che indica ch’erano cattolici. Grande era il loro amore per la terra ; e tranquilla l’indole loro.

 

Per la prima volta li ricorda, nel 1297, una bolla di Bonifazio VIII. Vennero ad Acquaviva Collecroce, occupando una di quelle località quasi disabitate, che i feudatari, novamente creati dagli Angioini, non si erano sino allora curati di ripopolare. Da quel feudo, nei secolo seguente, si estesero sulle alture tra il Trigno e il Biferno e particolarmente a S. Felice, detto, sino a pochi anni fa, Slavo, ora del Littorio. Caso veramente notevole, quei due villaggi, da loro per primi occupati, sono gli ultimi a perdere la propria nazionalità, forse perchè di una ondata diversa dalle successive.

 

La loro presenza nel Molise indusse nel secolo XV il re di Napoli a chiamare altri slavi, sempre illirici, a ripopolare altre terre disabitate nella regione. E così nel 1483 li troviamo a Ripalta del Trigno, oggi Mafalda, a Tavenna, a Montemitre. Nel 1561 comparvero a San Giacomo dagli Schiavoni, a San Biase, così detto dal nome del loro patrono, a Morrone, a Palata, a Montelongo e a circa 12 villaggi vicini (2). Si spinsero fino a San Vito (3); e alcuni salirono fino al centro dell’Irpinia, a Villanova del Battista, presso Ariano (4).

 

Da per tutto quegli slavi seppero far rivivere e prosperare quei luoghi, un dì deserti : sicché a buon diritto si possono considerare come loro secondi fondatori. L’Ascoli calcolava che nell’Italia meridionale gli oriundi slavi fossero circa 20.000 ; la cui massima parte è ormai assimilata. Soltanto nei due soli comuni di Acquaviva Collecroce e San Felice si parla ancora il dialetto originario.

 

* * *

 

    (Ebrei convertiti o marrani)

 

Taluni pretendono che i comuni di Marano principato e Marano marchesato, in provincia di Cosenza,

 

 

1. Vegezzi Ruscalla, Le colonie serbo-dalmate del circondario di Larino, Torino, 1864.

2. G. Masciotta, op. cit., pag. 355.

3. A. D’Amato, Un’antica colonia dalmatina nell’Irpinia : Villanova del Battista, nel «Folklore italiano», Catania, 1919, IV.

4. G. Leo, S. Vito dei Normanni, già Santovito degli schiavi o sciavi. Sua origine e progresso, Napoli, 1904.

 

 

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traggano la loro origine e il loro nome dagli ebrei convertiti o marrani o cristiani novelli espulsi dalla Spagna dal Re Cattolico.

 

Contro tale pretesa sta il fatto che, anche prima della cacciata lai dominii spagnuoli dei Mori, ebrei, marrani e moriscos, vivevano già nel Regno di Napoli alcuni di quei marrani, per forza convertiti dall’animoso Giovanni da Capestrano e dai suoi ministri ; la cui intolleranza era riuscita a strappare a Nicolò V la bolla 23 giugno 1447 «super gregem dominicum».

 

Quei convertiti erano sparsi un po’ da per tutto nello Stato, e non in un centro solo, in numero piuttosto scarso ; nè, finché durò la dinastia aragonese, ebbero motivo di aumentare. Ovvia n’era la ragione, se si pensi al favore prodigato dalla politica demografica ed economica di Re Ferrante agli ebrei in genere; favore che permise a questi di crescere sino alla cifra di 100.000. Sotto i successori di lui, accorsero i profughi dalla Spagna, dalla Sicilia, dalla Sardegna, che portarono tale cifra a 150.000 ; e quindi sottrassero i loro correligionari al pericolo di nuove conversioni forzose.

 

In verità tutti quegli ebrei non furono molto riconoscenti verso coloro che li avevano protetti ; nè ebbero ritegno di ordire trame segrete per affrettarne la caduta, nella lusinga di tornare, con tale condotta, in grazia del Re Cattolico. Invano : chè, nel 1510, e più tardi, di nuovo e definitivamente nel 1545 furono tutti quanti espulsi anche dal Regno di Napoli. Nè i marrani ebbero, neppure essi, tempo di moltiplicarsi : poiché, alla fine del 1514, essi stessi furono colpiti da un decreto di totale espulsione (1).

 

* * *

 

    (Saraceni)

 

Alcuni secoli prima di tali eventi, i Saraceni corsero tutte le marine d’Italia e, in specie, le meridionali, saccheggiandone la massima parte ed occupandone tratti notevoli. In Sicilia fondarono un Emirato, che visse vita gloriosa ; e sparsero per tutta la toponomastica italica tracce del loro passaggio e della loro fermata.

 

Ricordiamoli in breve, anche se nessuna delle loro comunità sussista ancora, perchè grande fu il loro contributo allo sviluppo del Mezzogiorno e della Sicilia.

 

 

1. N. Ferorelli, Gli ebrei nell’Italia meridionale dall’età romana al secolo XVIII, Torino, 1915, pagg. 184 e segg. e 220 e segg.

 

 

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Dopo aver scorrazzato per tutto l’Oriente, sbarcarono a Mazzara nell’827, e colla presa di Taormina nel 902 si assicurarono il dominio di tutta la Sicilia, mentre colla caduta di Noto nel 1091 lo perdettero definitivamente. Il Vallo di Mazzara, ch’essi avevano reso fiorente, pieno di terre popolose e ubertosissimo, tornò alla precedente sterilità dopo l’esodo in massa di 300.000 Saraceni per non soggiacere alla signoria dei Normanni. I superstiti, appollaiati sulle balze più scoscese, resistettero alle persecuzioni, agli sterminii ; finché Federigo II, per por termine alle loro turbolenze, li trasferì nella massima parte, dal 1239 al 1245, sul continente, sistemandoli, a Girifalco e Acerenza e forse in altre località, mentre agli altri diede nel 1243 bordine di scendere dai loro nidi d’aquila nei luoghi abitati e di confondersi coll’altra popolazione, ovvero di esulare. Fu questa l’ultima scena della loro tragedia in Sicilia.

 

Senonchè i Saraceni trasferiti in Calabria e Lucania erano troppo vicini alla loro antica residenza sicula, per non tentare di raggiungerla di soppiatto. Onde fu d’uopo concentrarli più lontano e precisamente a Lucerà e dintorni, che divenne la loro nuova capitale. Dapprima pieni d’odio contro Federigo, ne divennero, in processo di tempo, i più fidi difensori e gli eroici sostenitori : attirandosi naturalmente la vendetta dei loro nemici. Dopo il vano assedio di Lucerà del 1268, Carlo I si valse però, sotto il segno della croce, del loro braccio nel 1282 in Sicilia nella guerra del Vespro. Ma suo figlio, Carlo II, non seppe resistere alla crudele imposizione del papa ; e, nel 1300, ne ordinò e compì lo sterminio, uccidendoli, vendendoli o costringendoli all’abiura (1). Erano, dicono, 80.000. Quelli rimasti vivi, si perdettero nella folla dell’altra popolazione. E le terre che avevano occupato e rese fertili, rimasero abbandonate e deserte, in attesa di nuovi immigranti, pur conservando qua e colà, come si è detto, nei nomi delle località il ricordo di quei fieri figli del deserto e del mare. Alcuni nomi erano da tempo già arabi. Il 28 aprile 1136, ad esempio, il re Ruggero dona alla nutrice di suo figlio il podere di Boico, vicino a Palermo, con cinque villani che sono saraceni e tra i confini cita « lapides saracenico dictos Chagar Elyurop» (2).

 

Quelle terre ebbero presto nuovi abitatori.

 

 

1.

·       P. Egidi, La colonia saracena di Lucerà e la sua distruzione, in «Archivio storico napoletano», XXXVI (1911).

·       P. Egidi, Codice diplomatico dei Saraceni di Lucerà, Napoli, 1917.

 

2. F. Trinchera, Syllabus cit., pagg. 155-156.

 

 

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* * *

 

    (Provenzali)

 

Nei 1265, Carlo d’Angiò, diretto a Roma, transitò da Genova con 27 galee e 13 legni minuti, che portavano 500 cavalieri e 1000 balestrieri. Nel novembre dello stesso anno lo raggiunsero Guido di Monforte e Roberto di Béthune ; i quali gli condussero dalla Francia, attraverso la Svizzera, la Lombardia e l’entroterra, il vero e proprio esercito, composto di 6000 uomini a cavallo, 600 balestrieri a cavallo e 20.000 fanti (1), con tutte le donne e il servidorame. Quell’esercito fece per l’Angioino la conquista del Regno. Le fatiche sostenute in guerra furono lautamente riconosciute da Carlo, che non si lasciò sfuggire l’occasione di costituirsi con quei soldati sparsi nel territorio tanti fautori che contribuissero all’occorrenza a difenderlo e ad assicurare la nuova conquista. I feudi furono ripartiti fra i capitani, che costituirono, e, checché si sia detto, in parte costituiscono ancora Calta nobiltà napoletana. Agli altri furono date terre. Ma le località che potevano offrire sgradevoli sorprese, perchè troppo vicine al mare o ancora occupate dai Saraceni, furono date quasi a colonie di difesa ove i militi si stabilirono colle loro famiglie. Tali colonie furono collocate specialmente sui monti della Daunia, che fanno quasi da corona a Lucerà. Non bastando i superstiti dalla campagna ad occupare tutte le terre disabitate, Carlo I emanò, il 20 ottobre 1274, ordini ai suoi vicari, baili e ministri della Provenza perchè scegliessero 30 fuochi o famiglie, per un totale di 390, di Forcalquier, Digne, Grasse, Nizza, Poggetto Theniers, Aix, Marsiglia, Avignone, Tarascon, Arles, etc., e li persuadessero a venire a ripopolare Lucerà e il suo territorio e particolarmente Alberona ai piedi di quei medesimi monti della Daunia. Procurassero altresì che fra essi fossero «ali qui boni fabri, carpentatores, magistri lapidum, boni laboratores et ingeniatores» ; ed egli prometteva di dare ad ogni famiglia, che venisse colle mogli e coi servi e colle armi, 30 emine di terra alla misura di Marsiglia, denaro e privilegio (2).

 

E la nuova gente, già nel Regno, o arrivata in seguito a quegli ordini, occupò Alberona, Crepacuore, Ariano Irpino, Castelluccio Vaimaggiore, Montaguto, Monteleone, San Bartolomeo in Galdo, Volturara Appaia, ecc.

 

 

1. Annali genovesi, to. VI, parte I (giurisperiti e laici) ; trad. di Giovanni Monleone, Genova, 1929, pagg. 131-133.

2. M. Palumbo, op. cit., I, pagg. 375-379

 

 

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Senonchè quei di Crepacuore, troppo esposti alle scorrerie dei Saraceni, resistettero sino al 1345 ; poi, non potendone più, s’internarono nell’alta valle del Gelone, oltre Castellacelo Valmaggiore per fermarsi a Celle e a Faeto, ove nessuno venne più a molestarli.

 

Passarono i secoli ; e la gente immigrata nella Daunia, si fuse con coloro coi quali conviveva, nè sarebbe oggi facile per la massima parte districarne i discendenti. Essi sono scomparsi nella massa che li circondava. Ultimi a perdervisi riteniamo siano stati quelli di Castelluccio ; i quali già nel sec. XVIII non erano più rammentati ; mentre nei secoli precedenti, erano abbinati a quei di Faeto e Celle, che soli tuttora sussistono, in un vecchio motto napoletano, che ne rilevava la sobrietà, non senza una punta di malizia quasi per graffiare in essi i discendenti di uomini degli antichi signori :

 

«Faietane, mangia patane:

Castelluccese, trippappese» (1)

 

Nel secolo XVIII, l’abate Ferdinando Galiani osservava come il nome di Faito, oggi Faeto, fosse voce prettamente francese, derivata da Faîte, che vale massima elevazione, apogeo di gloria o d’onore, o anche d’altitudine, vetta di monte, al pari della radice latina fastigium, donde è tratta. E dopo aver citato altri Faiti, soggiungeva :

 

«Evvi un altro luogo del nostro Regno, che porta lo stesso nome di Faito, nella diocesi di Troia in Puglia, e, parimente è sulla vetta di un colle. Qui non vogliamo trascurare di tramandare ai posteri, che questo villaggio e un altro vicino chiamato Celle sono due colonie francesi, senza che si sappia come vi siano capitate».

 

Egli immaginava fossero prigionieri, fatti nella lotta fra il Duca di Nemours e Consalvo da Cordova forse nella battaglia di Cerignola del 28 aprile 1503 qui concentrati e dimenticativi.

 

«È incredibile l’attaccamento che conservano al loro linguaggio» continuava. «I padri hanno cura di far che i loro bambini rapprendano prima d’apprendere il volgare pugliese, e quasi si direbbe che pensano ancora a ritornar nell’antica patria. Il francese, che parlano, è una specie di provenzale ; ma non lascia d’esser corrotto, malgrado l’istinto che, come abbiam detto, hanno ad amarlo e conservarlo» (2).

 

 

1. L. Molinari Del Chiaro, Canti popolari raccolti in Napoli, con varianti e confronti nei vari dialetti, 2a ed., Napoli, 1916, pagg. 440.

2. Il pensiero dell’abate Ferdinando Galiani. Antologia di tutti i suoi scritti a cura di F. Nicolini, Bari, 1009, pag. 367.

 

 

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Questa corruzione del dialetto, rilevata già dal celebre abate, è aumentata ai giorni nostri e lascia trasparire l’influenza dell’ambiente che circonda quei paesi. Il Galiani, e, dopo di lui, il Mandalari, lo Zuccari, il prof. Merlo (1) opinano che il dialetto sia provenzale. Dello stesso parere è un egregio biologo francese a cui ci siamo rivolti.

 

In quanto all’aspirazione di un ritorno in Francia, è una pura fantasia del Galiani ; il quale, per la stessa ragione, avrebbe potuto ripeterla per tutte le altre colonie d’immigrati. Certo è che quei di Faeto e di Celle non vi hanno mai pensato, hanno sempre condiviso i sentimenti dei loro vicini, lieti di vivere in quiete in una zona particolarmente ubertosa e ricca.

 

Ma essi e gli altri loro compagni avevano occupato il margine interno della Capitanata e del Molise. Altre terre erano rimaste abbandonate. Presto trovarono anche esse chi le curasse.

 

* * *

 

    (Skipetari o Albanesi)

 

Fu gente d’altra razza, proveniente dall’opposi a sponda dell’Adriatico, da quella sponda, donde, molti secoli prima, eransi staccati quei Messapi e Japodi, che avevano fondato Brundusium e Hydruntum. La sua patria era stata sotto i Romani celebre ponte verso l’Oriente; e Venezia e gli Angioini (2) vi avevano fatto poco prima come uno scalo per la loro influenza. Erano Skipetari o Albanesi, montanari, scarsissimamente ancora inciviliti, arditi, coraggiosi, armati in patria ancora d’arco e di frecce, insofferenti di giogo, insolenti, fastidiosi e maneschi, alieni dall’agricoltura, ma avidi dell’altrui bene e del bottino per cui, allora e poi, abbandonarono talvolta la vittoria per il saccheggio. Vita loro era la guerra e perciò furono sempre ricercati dai vicini e lontani come ausiliari. Noi li troviamo così fra gli Stratioti di Venezia, come fra gli Arnauti dell’Impero ottomano. Li troviamo ancora fra gli schiavi e i prigionieri ;

 

 

1.

·       Mandalari, Una colonia provenzale nell’Italia meridionale, nel «Basile» II, 1884, pagg. 1 e segg.

·       Zuccari Luigi, Una colonia provenzale in Capitanata, in « Geografìa per tutti», 31 maggio 1893.

·       Prof. C. Merlo, passim nella Guida d’Italia del T. C. I., Milano; e particolarmente nel vol. I dell’Italia meridionale, Milano, 1926, pagg. 103-104..

 

2. De Guldencrone-Gobineau Diane, L’Achaie feudale, Paris, 1886, pagg. 76 e segg.

 

 

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nè andremmo molto errati se riconoscessimo uno dei loro in quell’Epiphanio macedone che, nel 1115, Ruggero di Sicilia aveva donato all’abbazia di Stilo.

 

Quest’accenno ci conduce a rilevare che, almeno alla spicciolata, molto prima di quelli, di cui stiamo per parlare, parecchi avevano varcato l’Adriatico ed erano venuti a offrire i loro servigi nelle milizie italiane, poiché, come più tardi (1599) scriveva il provveditore generale Nicolò Donato (1), «si accompagnano volentieri nelle fationi gli albanesi con li Italiani, de’ quali si fidano ; ma non volentieri con il Croato».

 

Della loro venuta in Italia e della loro sistemazione scrissero già direttamente parecchi studiosi fra i quali si distinguono il Masci, lo Scutari e il Morelli (2). Non potendo dilungarci in proposito, limitiamo le nostre osservazioni alle notizie più notevoli.

 

Alfonso I d’Aragona li ebbe ausiliari nel proprio esercito sotto il comando di Demetrio Reres Castriota. Ma più di lui li ebbe carissimi suo figlio, Re Ferrante, il quale col suo favore pagò un debito di riconoscenza contratto con Giorgio Castriota Scanderbeg, venuto ai servizi di Pio II per la famosa crociata ideata dal Pontefice contro il Turco, crociata nella quale il Papa sperava di avere un potente alleato nel Re di Napoli, appunto perciò da lui incoronato nel 1459. Nella guerra contro il pretendente Giovanni d’Angiò e Nicolò Piccinino (1461), Giorgio alla testa di 800 cavalli era riuscito a liberare Ferrante dalla stretta, in cui gli avversari lo tenevano rinchiuso sotto le mura di Barletta (3). In cambio il Re fu largo di benefizi al Castriota e ai suoi discendenti, nonché agli albanesi, che mandò a ripopolare terre abbandonate per insolvenza di tasse o distrutte nelle guerre del tempo. Essi vi accorsero in numero ; e l’esempio del Re indusse anche i grandi feudatari a servirsene per bonificare i loro dominii (4). Da quel momento, crescendo nei Balcani la pressione e le persecuzioni dei Turchi, una vera folla di albanesi, valicò l’Adriatico per trovare un asilo più quieto in terre, pur troppo frequentemente funestate da terremoti.

 

 

1. V. Lamansky, op. cit., pag. 548, nota 1.

2. Masci, Discorso dell’origine, costumi e stato attuale della nazione albanese, Napoli, 1807. — Scutari, Notizie storiche sull’origine e stabilimento degli albanesi nel Regno delle Due Sicilie, Potenza, 1825. — Morelli, Cenni storici sulla venuta degli Albanesi nel Regno delle Due Sicilie, Napoli, 1842.

3. Storia di Milano scritta da Giovan Pietro Gagnola, in «Archivio storico italiano», Firenze, 1842, vol. Ili, pagg. 155-156.

4. M. Palumbo, op. cit., I, pag. 339, nota 2a.

 

 

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Nel 1464, albanesi di Sentati e di Croya vennero a ripopolare o fondare Barile, in Lucania ; e vi si sistemarono in modo che non solamente la parte più antica del paese conserva ancora oggi il nome di «Scuterina», ma non cedettero mai il predominio a quanti greci, coronei e mainoti, furono in progresso chiamati a integrarne la popolazione.

 

Nel 1465 ad altri albanesi, più meridionali o toschi, fu ceduto il feudo disabitato di Aurola ; ed essi vi costruirono il villaggio di Ururi (1). Si distesero quindi nei Molise, in Capitanata, in Lucania, in Calabria, nelle Puglie e persino in Sicilia.

 

Melfi e Maschito, distrutte dai terremoti della metà del 400, dovettero ad essi la loro rinascita ; come Rionero, Ginestra, San Onirico, Casalnovo, già San Paolo Albanese, Brindisi di Montagna, Portocannone. Nel 1478 gli albanesi scesero a fondare Frascineto e Porcile in Calabria. Nel 1483 Gaspare d’Aquino li chiamò a Grottaminarda. Nel 1488, dopo la morte di Giorgio Castriota, sorsero le colonie sicule. Nei secoli XVI e XVII, altre chiamate danno modo al monaco Giorgio Sevasto e a suo fratello Macario di fondare Chieùti, mentre trovansi albanesi per tutto il Mezzogiorno in numero più o meno rilevante :

 

            nel Molise, a Campomarino, Castelluccio dei Sauri, a Macchia dei Saraceni ora di Isernia, Petacciato, Roteilo, San Biase, Guglionesi, Larino;

            in Basilicata ora Lucania, a San Costantino Albanese, a San Paolo Albanese;

            in Terra di Bari, a Bari, Binetto, Bitetto, Barletta, Bisceglie, Andria, Acquaviva, Cassano, Casamassima, Gioia, Molfetta, Monopoli, Giovinazzo, Ruvo, Toritto, Trani;

            in Capitanata, a Rignano, Lesina, S. Giovanni Rotondo, Ischitella, Carpino, S. Paolo de Civita te, S. Martino, Foggia, Vico, Apricena, Peschici, Manfredonia;

 

            in Calabria, a San Benedetto Ullano, Vaccarizzo, Montalto Argentina, Mancala vita, Serra d’Elia, S. Maria della Rota, S. Giacomo, Cerzeto, S. Giorgio in S. Marco, Sertano, Palazzo, Carfizzi, Montespinello Belvedere, Malpezza, S. Giorgio in Corigliano, San Cosmo, Macchia d’Orto, Pozzo, Pedeiato, Zinga, Acquaformosa, Carafa, Castroregio, Falconara, Forno, Gizzeria, Lungro, Marcedusa, Mongrassano,

 

 

1. G. Màsciotta, op. cit., I. pag. 356.

 

 

21

 

Mormanno, Pallagorio, Piataci, Santemitre, Santa Rosa, S. Martino, S. Nicola dell’Alto, Spezzanello, Spezzano Grande, Vena, Zangrone, ecc.

 

Nè si fermarono : chè, ancora nel 1744 Carlo di Borbone concesse loro di ripopolare Villa Badessa nell’Abruzzo.

 

In tutti quei luoghi, gli Albanesi godettero di larghi privilegi fra i quali quello dall’esenzione dall’imposta del focatico e del sale. Ma, non contenti, spesso si rifiutarono, fin dal sec. XV, di pagare le altre tasse (1), contrastarono di continuo coi vicini, di cui invasero le terre ; e, istruiti dall’esempio dei regnicoli, abbandonarono spesso le loro sedi, trasferendosi altrove ove sperarono di sottrarsi per qualche tempo ai balzelli. Onde Filippo II, nel 1595, li fece tutti ricercare e includere nella Numerazione dei fuochi (2).

 

D’allora, in poi, i gruppi più numerosi si fermarono e sistemarono nei centri ove erano in maggioranza e ove hanno finora resistito alla assimilazione.

 

Questi centri furono e sono nella circoscrizione e toponomastica moderna :

 

            nel Molise : oltre a Ururi, Campomarino, Collelauro, Montecilfone, Portocannone, San Barbato, Santa Croce di Magliano, Sant’Elena, Larino ;

            nella provincia di Teramo : Villa Badessa ;

            in quella di Foggia : Casalnuovo, Casteilucchio di Puglia, Castelluccio dei Sauri, Chieùti, Monterotaro, Panni, San Paolo de Civitate ;

            nel Leccese : Squinzano ;

            nell’Irpinia : Ariano ;

            nella Lucania : Barile, Brindisi di Montagna, Maschito, Ripacandida, San Costantino Albanese, S. Paolo Albanese, Melfi ;

            nella provincia di Taranto ; Faggi ano, Monteparano, Roccaforzata, San Giorgio ionico, S. Marzano ;

            nella provincia di Reggio Calabria : Casalnuovo ;

            in quella di Catanzaro : Amato, Andali, Arietta, Carata, Carfizzi, Gizzeria, Marcedusa, Pallagorio, San Nicola dell’Alto Vena, Zagarise, Zagarone o Zangrone ;

 

 

1. Codice aragonese o sia lettere regie ecc. de’ Sovrani aragonesi in Napoli, ecc. a cura di F. Trinchera, Vol. III, Napoli, 1874, pagg. 336-367.

2. M. Palombo, op. cit., I, pag. 369.

 

 

22

 

            nella Calabria Cosentina, più numerosi che altrove : Acquaformosa, Castroregio, Cavallerizzo, Cervicati, Cerzeto, Civita, Falconara Albanese, Farneta, Firmo, Frascineto, Lungro, Macchia, Marzi, Mongrassano, Piataci, Porcile, Rota Greca, San Basile, San Benedetto Ullano, San Cosmo Albanese, San Demetrio Corone, San Giacomo, San Giorgio Albanese, Santa Sofia d’Epiro, Serra d’Aiello, Spezzano Albanese, Vaccarizzo Albanese ;

 

            nella provincia di Palermo : Bisacquino, Contessa Entellina, Mezzojuso, Palazzo Adriano, Piana dei Greci.

 

In tutte quelle località, senza ricordare le molte altre nelle quali il processo di assimilazione è giunto a un punto tale da non permettere più di distinguerli, gli Albanesi sono, se non la totalità della popolazione, almeno la maggioranza, dati, da un lato, il trasferimento altrove di un buon numero di essi, dall’altro, quello in dette località di altri regnicoli. Tuttavia, nel loro complesso, essi rappresentano un numero ragguardevole. Abbiamo già detto che v’ha chi li calcola in 124.498 ; altri ritiene possano essere 150.000, certamente tenendo conto anche di quelli emigrati. Per contro lo Scobel (1) stima siano 75.000; e nell’Enciclopedia italiana (2) sono registrati i censimenti del 1861 che danno loro 55.453 individui; del 1901, con 20.554 famiglie, cioè circa 96.000 individui ; del 1906, con 20.467 famiglie e circa 90.670 ; del 1921, con 20.113 famiglie e 80.382 individui. Non saremmo dunque lontani da chi ritenga che rappresentano il 0.22 % della popolazione del Regno, che equivarebbe a circa 93.000 individui.

 

Se confrontiamo queste cifre coi 4451 fuochi (3), circa 20.000 individui, del 1568 e col censimento del 1861, che li calcola in 55.453, osserviamo che, attraverso a variazioni, che, nelle epoche, di cui non ci sono pervenuti dati statistici, devono essere state piuttosto sensibili e in gran parte dovute a emigrazioni locali suggerite dalla loro riluttanza a sottostare ai balzelli, essi pur sono molto cresciuti di numero sul suolo italiano. Un qualche regresso, però, potrebbe forse imputarsi al processo di assimilazione. Tale processo si è svolto sotto vari aspetti. Cominciamo da quello più caro ai loro antenati, vale a dire dall’ aspetto militare.

 

 

1. A. Scobel, Geographisches Handbuch zu Andrees Handatlas, Bielefeld u. Leipzig, 1894, pag. 175.

2. Enciclopedia italiana Treccani, vol. II, pag. 92.

3. G. Masciotta, op. cit., I, pag. 141.

 

 

23

 

Gli Aragonesi, abbiamo detto, li assoldavano come ausiliari sotto capi loro propri. Lo stesso fecero tutti gli altri governanti e Stati. Ricordiamo, fra gli altri, Marcantonio Colonna e i suoi albanesi. I Viceré spagnuoli certamente li adoperarono in Italia e fuori ; ne abbiamo una prova nell’invio, fatto nel 1628, a Milano di una banda di albanesi di Barile sotto i capitani Brusicchio Renes, Pinello e Michele Mazzucca (1). Nel sec. XVII erano dunque ancora organizzati in bande all’antica e, perciò, non ancora atte a disciplinare la caparbietà della loro indole.

 

Altro regime comincia invece, quando Carlo Borbone, divenuto Re di Napoli, costituisce un esercito, in cui l’elemento nazionale è in maggioranza (1737).

 

Gli albanesi vi partecipano ; e li troviamo raggruppati nei Reali Cacciatori albanesi e nel reggimento Reale Macedonia, che dal 1799 al 1860 fu detto Reale Albania. Oggi la coscrizione li affratella con tutti gli altri italiani.

 

Altro aspetto, sotto il quale si attenuano il loro particolarismo o separatismo etnico e l’isolamento, in cui si erano rinchiusi nei loro villaggi, è quello religioso. In principio, furono concessi persino gli edifizi ove celebrare il rito greco, da loro seguito ; ma, poi, come i greci, essi l’abbondonarono per il cattolico. Rionero, ad esempio, lo conservò sino al sec. XVII, come Ginestra, Maschito e Brindisi di Montagna, cioè finché un vescovo Scoglia non ne ebbe indotto gli abitanti a seguire il rito romano. Barile, che resistette, fu costretta colla forza a sottomettersi.

 

Lo stesso avvenne nel Molise ; ove, alla stessa epoca, i Kudrovi, o albanesi di rito greco, furono obbligati ad abbandonarlo per il latino ad iniziativa del vescovo Catalani di Larino (2).

 

Altri paesi della Lucania, però, per essere più vicini alla Calabria e cioè San Costantino e Casalnuovo Lucano, già San Paolo Albanese, sfuggirono all’imposizione dei vescovi. Ma è notevole che sfuggirono anche agli ordini di Ferdinando II di Borbone, il quale, partendo dal concetto che se Roma era capo della religione, Napoli doveva esserne il cuore, non tollerava mai culti nè riti estranei nel suo Regno e proscrisse chiese di rito scismatico (3).

 

 

1. M. Palumbo, op. cit., I, pag. 339.

2. G. Masciotta, op. cit., I, pag. 356.

3. E. Pani Rossi, La Basilicata : studi politici, amministrativi e di economia pubblica, Verona, 1868, pag. 25, note 1 e 2.

 

 

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Vi sfuggirono forse perchè meno evoluti ancora e quindi non ancora in grado di essere accomunati agli altri paesi nella fede. Del resto, erano vicini ai due vescovi calabresi di rito greco, i quali avrebbero dovuto incivilirli. Senonchè di questi due vescovati, a San Benedetto Ullano e a Lungro, non sussiste ormai più che questo ultimo ; e il rito greco, oltre che nelle colonie palermitane, non è più in onore se non nelle chiese di Acquaformosa, Castroregio, Civita, Farneta, Firmo, Frascineto, Lungro, Macchia, Marzi, Piataci, Porcile, San Basile, San Benedetto Ullano, San Costantino Albanese, San Demetrio Corone, San Paolo Albanese, Santa Sofia d’Epiro, Vaccarizzo Albanese.

 

Rispetto a quel rito il Vaticano si è dimostrato in questi ultimi anni veramente largo di vedute colla creazione fatta da papa Pio XI di una «Eparchia» greca in Sicilia con sede a Piana dei Greci, che ne staccherà sempre più i seguaci dai luoghi d’origine.

 

Se dal lato religioso tali mutamenti si sono verificati, dal lato culturale altri sono avvenuti. San Benedetto Ullano oltre a perdere la sede del vescovato, perdette anche il primato che esercitava su tutti i paesi albanesi. San Demetrio Corone, ove esiste il rinomato Collegio albanese di Sant’Adriano, corse nel 1852 il rischio di perderlo per altro comune ; e forse ciò sarebbe avvenuto se il medico di corte Jeno, albanese, non avesse sostenuto presso Ferdinando II la petizione mandatagli da tutti quegli abitanti (1). In conseguenza, San Demetrio è ancora l’Atene degli albanesi d’Italia e dicesi anche d’Albania, i quali anche dal lato culturale hanno notevolmente progredito. E se, sino al 1868, « non fu dato istituire a Maschito, a San Paolo e a San Costantino » una scuola femminile per la difficoltà di rinvenire chi conoscesse l’idioma albanese tanto da intendere le alunne ed esserne inteso «quando lor favelli in italiano» (2); oggi a 70 anni di distanza con vivo compiacimento possiamo asserire che le alunne iscritte alle scuole elementari per l’anno scolastico 1937-38 furono a San Paolo 28 e a San Costantino 81 (3). Il che indica il progresso fatto dall’alfabetismo in quei paesi e per conseguenza il regresso del dialetto d’origine ghego e tosco, ormai confinato nelle pareti domestiche.

 

 

1. R. De Cesare, La fine di un Regno, vol. III (Documenti), Città di Castello, 1909, pagg. 77-79.

2. E. Pani Rossi, op. cit., pag. 25, nota 1.

3. Queste notizie ci sono state favorite dal podestà di San Costantino, sig. L. Liguori, e dall’insegnante stesso di Calsanuovo Lucano, sig. Giuseppe Osnato, che ringraziamo sinceramente della loro cortesia.

 

 

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Agli albori del Regno d’Italia le contrade, delle quali trattiamo, furono teatro di dolorosissimi avvenimenti, suscitati dalla ferocia d’innumerevoli banditi e di popolazioni piene d’odio contro i galantuomini, che avevano spadroneggiato sotto il precedente regime. Le belve umane che, sull’esempio del capo brigante Gaetano Vardarelli, spento coi suoi nel 1817 a Ururi (1), insaguinarono tutto il Mezzogiorno sotto la guida dei famigerati Carmine Crocco di Rionero, il Traverso, il Teodoro o Gioseffi, il Valonino di Barile, Donato Tortora e Manno Sciacca di Ripacandida, Emanuele Gennaro di Mongrassano, erano tutti albanesi, come albanesi erano i loro compagni. Agesilao Milano era albanese di San Benedetto Ullano (2). Per domarli fu d’uopo, dal 1862 al 1868, procedere alla eliminazione di ben 6219 briganti (3).

 

Ma, pure, quel tremendo esempio esercitò un benefico influsso sull’indole di quella gente. La obbligarono a tornare entro i limiti della legge e a deporre gran parte della originaria caparbietà e prepotenza, persino anche nei rispetti del fisco, cui non ardì più ribellarsi come sotto gli aragonesi e gli spagnuoli, abbandonando l’innato separatismo, che ne ritardava l’incivilimento. Uscì dalle sue terre e si frammischiò alla popolazione degli altri paesi, a quella delle città, ingentilendosi gradatamente e quindi subendo senza accorgersene gli effetti dell’ambiente e della civiltà.

 

Fiaccate le male passioni, gli albanesi non si distinguono quasi più oggi dai loro vicini, se non per alcune particolarità della vita, per alcune industrie casalinghe, nelle quali rivive la tradizione della loro origine.

 

Così, quei di Carfizzi, Cerzeto, Pallagorio, Rotagreca, San Martino di Finita, San Nicola dell’Alto, ecc., tessono panni d’uso familiare con motivi rustici, ovvero coperte con disegni orientali, o cestini di paglia di grano.

 

Le donne di parecchi villaggi e segnatamente di Frascineto, Porcile, Santa Sofia d’Epiro, Carfizzi, S. Nicola dell’Alto, continuano a indossare in occasione delle loro sagre, le ricche vestimenta, di cui la foggia fu recata dall’altra sponda dell’Adriatico dalle loro antenate.

 

E fra queste sagre ci piaccia ricordare la danza detta la «scioca», che ballasi a San Nicola dell’Alto diversamente, secondo che le circostanze, che la promuovono, siano liete o triste.

 

 

1. P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, VIII, 1.

2. R. De Cesare, op. cit., III, pagg. 55 e segg.

3. E. Pani Rossi, op. cit., pag. 317, nota 1.

 

 

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A Barile caratteristica è la festa campestre successiva alla Pasqua, detta con voce albanese corrotta «vlame», che vale «mangiamo, fratelli».

 

Altre cerimonie da ricordare sono quelle di san Giovanni, sempre in Barile, nelle quali si scelgono i compari al battesimo ; e i funerali, ai quali partecipano, come già le prefiche, donne dai capelli sciolti e in lagrime, che emettono di continuo lamenti o «guatimmi».

 

A Piana de’ Greci son da citare i battesimi e gli sponsali non meno che le feste religiose dell’Epifania, di s. Giorgio e di s.ta Maria Odigitria.

 

Le particolarità degli altri paesi scemano di continuo coll’evoluzione dei costumi. Si sente da per tutto l’influenza livellatrice del progresso, influenza certamente più manifesta ai giorni nostri, in cui le comunicazioni sono diventate più agevoli e generali e rapide e i bisogni della vita si distaccano sempre più dalle antiche usanze.

 

* * *

 

Nella provincia di Cosenza vive poco più di un migliaio d’individui, che si distinguono da coloro, in mezzo a cui risiedono, non solamente per i costumi, ma per la parlata ancora e per la religione. Sono i valdesi di Guardia Piemontese, già Lombarda, che fra loro usano ancora il dialetto dell’alta valle del Pellice.

 

Si è discusso intorno alla data della loro emigrazione in Calabria, che alcuni propenderebbero a far risalire forse anche al sec. XIII ; altri, a scendere alle persecuzioni religiose della fine del sec. XVI e del XVII. Nessuna memoria suffraga la prima opinione. Rispetto alle persecuzioni sabaude della fine del XVI e del XVII sec., si può osservare che la loro ricorrenza deve essere scartata pel fatto che la crociata del 1561, indetta contro quei religionari calabresi, è anteriore ad essa. Quindi, checché si sia immaginato, noi siamo d’avviso che quei Valdesi siano venuti in Calabria in conseguenza della guerra, cosi detta di Lucerna, dell’aprile 1484. Allora le valli valdesi del Piemonte insorsero contro i provvedimenti presi contro i relassi o relapsi, vale a dire, contro gli eretici, i quali, convertiti per forza dal terribile inquisitore frate Giacomo Buronzo, non avevano tardato a ricadere nell’eresia. Carlo I di Savoia risolvette di reprimere la ribellione colla massima energia (1) nella speranza di estirpare del tutto il dissenso, e li perseguitò senza pietà.

 

 

1. F. Gabotto, Lo Stato sabaudo da Amedeo VIII ad Emanuele Filiberto, Torino, 1893, to. II, pagg. 311-312.

 

 

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Fuggiti dalle loro valli, ricordarono che altri piemontesi o lombardi erano chiamati e adoperati in Calabria nelle miniere della Mongiana, e cercarono ospitalità non lungi da essi, a Guardia che divenne il loro centro. Cresciuti di numero si estesero all’intorno ed occuparono Montalto, San Sisto e Vaccarizzo. Ma, non smisero la loro propaganda religiosa, anzi la svilupparono talmente che riuscirono a radunare sino a 10.000 proseliti. Tanto successo insospettì il Viceré e lo consigliò a porvi un argine segnatamente dopo che la Sant’Inquisizione, dapprima, e poi, particolarmente e insistentemente il cardinale Michele Ghislieri, il futuro S. Pio V, ebbe chiesto nel 1561 lo sterminio di quei religiosi. Sopraffatti dalle milizie vicereali a Montalto, a San Sisto e a Vaccarizzo, ove in vece loro furono mandati gli albanesi, che li avevano sopraffatti, essi si ridussero a Guardia, ove non ostante l’avversione e la persecuzione seppero conservare, attraverso i secoli la propria fede e il proprio dialetto, pur rimanendo demograficamente immobili.

 

* * *

 

    (Piemontesi)

 

Molti secoli prima di loro, altri montanari delle Alpi erano scesi in Sicilia.

 

Dall’alta valle dell ’Ossola, allora parte della Lombardia, Adelaide di Monferrato, moglie di Ruggero I, conte di Sicilia, li aveva chiamati a ripopolare alcune terre, abbandonate dai Saraceni dopo la vittoria riportata dal greco Giorgio Mani ace coll’ aiuto dei Vikinghi o Normanni (1040). Avevano occupato, alle falde dei Nèbrodi, San Fratello, Francavilla di Sicilia, Novara Sicula, Nicosia, Sperlinga, Piazza Armerina, Aidone e altre località ; ove tuttora risiedono. Un dì, distinguevansi ancora a Capizzi e a Maniace, nonché a Randazzo, al cui ripopolamento avevano concorso come una delle tre genti venutevi col proprio vescovo, donde il nome della città, di città dei tre vescovi. Trovavansi ancora a Castrogiovanni, oggi Enna, e a Argira, ove erano quartieri di lombardi. Federigo II di Svevia, nel 1237, ne aveva chiamato anche altri per accrescere la popolazione di Corleone. Ma in tutte queste località si sono ormai confusi cogli altri cittadini ed è impossibile riconoscer veli.

 

Non si distinguono più che nelle terre ove risiedono e ove prima approdarono. Vi conservano non solo i loro usi e costumi, ma la foggia del vestire e l’aspro dialetto dei loro monti.

 

 

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Non vi hanno perduto alcuna delle principali caratteristiche della loro terra d’origine, e fra le altre il valore e la fierezza.

 

È noto il detto, foggiato per una delle loro terre : «Quod Siculis placuit, sola Sperlinga negavit», che ricorda la caparbietà di quegli abitanti, unici in tutta risola a intestarsi, durante la guerra del Vespro (1282), a non voler cacciare i francesi.

 

A tale fierezza congiungevasi spiccato valore, che rifulse nelle lotte siciliane del sec. XIV, e, particolarmente in quella contro Matteo Palizzi (1384) ; nella quale Enrico Rosso, conte di Aidone, si distinse alla testa dei lombardi, suoi bellicosi vassalli (1).

 

* * *

 

    (Conclusione)

 

Queste, le isole etniche del Mezzogiorno d’Italia e di Sicilia !

 

Sono state partitamente ma brevemente esaminate, sotto lo aspetto storico. In verità avremmo anche desiderato precisarne l’entità numerica e il rapporto colla popolazione del Regno ; ma ci è mancato l’ausilio degli ultimi censimenti ufficiali. Questi, infatti, non tengono conto dell’origine razziale dei censiti ; e neppure della provenienza dei regnicoli inurbatisi, che sarebbe bene conoscere per studiare fra l’altro le correnti della popolazione e le ragioni di esse (2).

 

In difetto, coloro che vorranno approfondire le loro conoscenze sulle isole, da noi illustrate, troveranno una guida preziosa nei volumi IV e V della Serie II delle Fonti archivistiche raccolte, ad iniziativa e sotto la direzione del prof. Corrado Gini, dal Comitato italiano per studio dei problemi della popolazione. Il Vol. IV infatti (1935) accoglie fra le altre le fonti offerte dagli istituti civili ed ecclesiastici delle provincie di Campobasso, Foggia, Avellino, Potenza, Lecce ; il V (1935), quelle anche di Cosenza, Catanzaro, Reggio Calabria, Enna e Palermo.

 

Comunque sia, allo stato dei dati, dobbiamo pur convenire che quelle isole, nel loro insieme, rappresentano una parte, certo non indifferente, della popolazione del Regno. Se, risalendo nei secoli della nostra storia, volessimo paragonarne l’entità a masse di genti, altre volte piombate nella Penisola,

 

 

1. I. La Lumia, Studi di Storia Siciliana, Palermo, 1870, vol. I, pag. 486.

2. Nel Censimento di Torino alla vigilia dell’assedio del 1706, Torino, 1910, tentammo già d’indicare la provenienza degli inurbati secondo i mestieri da essi esercitati.

 

 

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potremmo dire che il loro contributo alla formazione della razza italiana non è per numero molto discosto da quello recato, non diciamo dai popoli, ma dagli eserciti, che col nome di Barbari invasero l’Impero romano e ne cagionarono la definitiva caduta. Poiché è sempre bene mettere in chiaro che le formidabili masnade, tanto strombazzate nei manuali scolastici, non erano, per lo più, composte se non di un numero piuttosto esiguo di guerrieri.

 

Clodoveo, ad esempio, dopo la vittoria fu bensì seguito nella conquista della Gallia settentrionale, come sono sempre seguiti i vincitori, da una accozzaglia di armati di ogni razza ; ma, nel 481, i suoi Salici non erano più di 4.000, quando atterrarono Siagrio.

 

Teodorico varcò l’Isonzo, bensì, con una masnada dì 300.000 anime fra uomini, donne, fanciulli e schiavi ; ma soltanto 40.000 portavano le armi.

 

Alboino non era, poi, capo di un popolo di Longobardi sì numeroso, se, per scendere in Italia, fu costretto a chiedere ai Sassoni un rinforzo di 20.000 uomini.

 

Quei Barbari venuti a saccheggiare ed occupare terre ubertosissime, si ripartirono sì ricchezze e possessi ; ma, dispersi da tale ripartizione in mezzo a indigeni, cui si sovrapposero come classe conquistatrice e dominante, ressero, come abbiamo ripetuto col Gini, tanto che la loro natalità e il loro carattere li mantennero in numero e grado da comandare. Ma quando cominciò a scemare la fecondità delle loro donne, quando nacquero meno maschi, quando incrociarono il loro sangue con quello dei sudditi, e indebolirono la propria esistenza, mentre le classi sottoposte crescevano e salivano gradatamente fino ad essi, il loro prestigio decadde, si trovarono isolati, sommersi dai sudditi ; e appena pochi individui, poche colonie giunsero sino a dopo il mille, col nome che ricordava la loro razza. La professione di fede servì per secoli, nell’alto medio evo, a ricordare appartenenze razziali ormai passate. E, quasi isole sperdute nel mare, noi leggiamo nella documentazione, posteriore al mille, i nomi di Longobardi o Lombardi di questo o di quel casale, più o meno umile, sparsi su tutta l’estensione della Penisola, senza che più alcuno attributo c’indichi che fossero differenti, più potenti dei singoli che li accostavano.

 

Questa livellazione o assimilazione procedette senza eccessive scosse quando fu operata per influsso della popolazione ambiente ; e quindi fu più lenta. Chi saprebbe distinguere oggi un bulgaro fra Boiano e Isernia ? Chi forse un greco, un albanese ?

 

 

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Fu più rapida e crudele, quando fu eseguita con la forza e la persecuzione, come nel caso di vinti spogliati e sterminati da vincitori.

 

Come nelle invasioni barbariche, così avvenne e avviene nelle isole etniche dell’Italia meridionale, con questo, però, che l’assimilazione sta tuttora svolgendosi, data l’epoca recente della loro sistemazione nella Penisola. Tuttavia ne scorgiamo già gli effetti.

 

Valga, ad esempio, l’accenno or ora fatto rispetto ai bulgari, ai greci e agli albanesi, che c’induce a ritenere che molti dei caratteri somatici delle varie razze siano ormai scomparsi nella maggior parte degli individui, che ad esse appartengono, sicché sia già ora difficile distinguerli sotto tale aspetto dagli altri cittadini.

 

E, ancora : su varie colonie furono esercitate la violenza e persino la forza e la crudeltà per costringerle ad abbandonare rapidamente caratteristiche morali della razza loro. Per tale costrizione può dirsi che sugli autori della medesima non influisse neppure un barlume di sentimento razziale, ma unicamente fosse loro di guida il fanatismo religioso.

 

Fu dapprima la crociata contro l’ortodossia e il rito greco ; e le colonie per la massima parte si sottomisero. Furono, poi, le crociate contro i Saraceni e i Valdesi che condussero alla sparizione o quasi dall’Italia meridionale degli appartenenti a quelle due colonie. I Saraceni, molto più civili dei loro precedessori e successori, trovarono nel sangue della loro razza la forza per resistere all’obbligo di abiurare la propria fede: soccombettero e furono sterminati.

 

I Valdesi, anche essi resistettero ; ma, aiutati dal minor fervore religioso del loro tempo e dalla scarsa combattività delle milizie albanesi loro opposte e presto disarmate appena fatto bottino ed occupate le terre loro occorrenti, riuscirono a persistere sia pure rinchiudendosi entro le mura della loro terra e vegetandovi.

 

Gli Zingari di Ielsi, invece, perchè passati al cattolicismo, sia pure a loro modo, vivono in comunità indisturbata, non ostanti le loro mende; e sono la riprova della nostra asserzione.

 

Come loro, le altre colonie, superata quella che potrebbe chiamarsi la crisi religiosa, furono lasciate vegetare nelle loro poco accessibili dimore ; ove, pure, lenta le raggiunse la civiltà, che a poco ne ha modificato le usanze e l’indole, pacificamente, quando taluni eccessi non abbiano costretto a ricorrere alla forza.

 

Quelle usanze non si discostano molto dalle sagre di tutti gii altri nostri contadi ;

 

 

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il dialetto soltanto rimane a ricordare che quegli individui provengono d’altra razza, ma è ormai rinchiuso nelle pareti familiari e cede di continuo dinanzi alla diffusione dell’istruzione. Del resto, non vale più, come non valse nei secoli scorsi, a impedire che parecchi di quegli antichi allogeni onorassero col loro ingegno e coll’opera loro la storia, la scienza e l’arte italiane. Basterebbe citare per tutti Francesco Crispi !

 

Comunque, volendo chiederci se, dal giorno dell’approdo in Italia dei loro autori ad oggi, quegli immigrati siano cresciuti o scemati di numero, non possiamo precisarlo per difetto di dati ; tuttavia, il fatto dell’assimilazione, già avvenuta, di molti loro villaggi, nonché della fusione dei molti individui, discesi ai centri, cogli abitanti di questi centri, c’induce a ritenere che essi abbiano prosperato, più che diminuito. Del resto, anche facendo la parte dei forestieri trasferitisi nei loro villaggi, i censimenti indicano che anche la popolazione di questi villaggi è in continuo, se non notevole, aumento.

 

Tutte queste considerazioni, insomma, ci portano a riconoscere nelle conseguenze della sistemazione presso di noi di quelle colonie etniche gli effetti di una quasi incosciente politica di bonifica demografica ed economica, non priva di qualche larghezza di vedute e di accortezza.

 

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