I dislivelli interni di cultura nelle civiltà superiori

 

Alberto M. Cirese

 

 

Estratto da: V. Grottanelli - Ethnologica Edizioni Labor - Milano - 1965

 

 

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- Il tema centrale delle ricerche folkloriche  417
- Alcuni aspetti della formazione dei dislivelli interni 
420
- La posizione storica della «zona» dei fatti folklorici e i processi della dinamica culturale 
424
- Le classificazioni schematiche 
434
- Molteplicità di forme e di funzioni, di diffusione geografica e di età storica  436
- Incontri e contrasti di concezioni lungo il «ciclo della vita»  443
- Sacralità precristiana e cristianesimo in alcune cerimonie del «ciclo dell’anno»  450
- Cenni sulla storia degli indirizzi di ricerca 
458
 
    Note bibliografiche  461

 

        (Album):

In molte località dell’Italia meridionale il ciaràulo o serparo era un tempo «stipendiato dalle amministrazioni locali per il servizio che rendeva alla comunità cacciando i serpenti  419

Mulino a vento e raccoglitrici di cipolle nelle isole Canarie  421

Sulle fiancate o sulle vele delle imbarcazioni sopravvivono spesso antiche iconografie: un cavallo marino (?) sulla prua di una barca di Terrasini (Palermo)  425

Per gli usi familiari o per lo smercio locale l’artigianato domestico conserva quasi inalterate tecniche e forme antiche: lavori d’intreccio nella Nuova Castiglia (Spagna)  429
 
L’artigianato « evoluto » produce sempre piú spesso oggetti adattati al gusto moderno e destinati ad acquirenti estranei al mondo che si dice « popolare »: cesti in vendita alla Mostra dell’Artigianato Sardo che si tiene annualmente a Sassari  429

Pellegrinaggio dei gitani al Santuario delle Sante Marie del mare, in Provenza  431

I costumi locali o regionali piú famosi sono di solito quelli festivi; ma il loro uso nella vita reale diviene sempre piú raro anche in ragione dell’alto costo. Frequente è invece il loro impiego in cerimonie e feste di carattere turistico  433

Nelle questue cerimoniali per ricorrenze diverse (Natale, Capodanno, Epifania, Pasqua, Maggio, Giorno dei Morti, ecc.) si impiegano ancora di frequente travestimentio costumi particolari: quattro ragazzi sloveni (Kropa, Carniola Superiore) raffiguranti i Re Magi con l’Angelo e la svedese «regina Santa Lucia»  437

Fuochi cerimoniali in Germania e zone contermini  438

Area di diffusione dei fuochi e falò cerimoniali di Carnevale-Quaresima e di San Giovanni, in Francia  439

Area di diffusione dei materiali da costruzione secondo P. Vidal de la Blache e F. Steinbach  440

Antiche tecniche costruttive in Spagna e Italia: a sinistra, ripari di pietre sciolte della Nuova Castiglia; a destra, trulli di Selva di Fasano (Brindisi)  441

L’orso è ancora protagonista di molte cerimonie carnevalesche: la «bestia » e i suoi accompagnatori in una mascherata della Carniola Inferiore (Slovenia)  445

Ragazze slovacche che « portano la morte », raffigurata da una pupattola in costume tradizionale, durante una delle cerimonie stagionali di «espulsione» ancora frequenti nel mondo contadino europeo  448

Gli ex-voto in ferro delle regioni centro-europee hanno caratteri notevolmente arcaici: un animale votivo del XIX sec. (Cecoslovacchia). - I pani e i dolci vengono sovente modellati (amano o con stampi) per particolari ricorrenze cerimoniali. Cavalli e carrozza di pasta della Boemia, XIX sec.; anche le uova pasquali vengono decorate con motivi tradizionali  449

I « giganti processionali » e il mito dei Giganti: distribuzione delle attestazioni e linee di propagazione  451

Processione dei «giganti» a Douai, in Francia  454

Tradizionale rappresentazione di San Nicola in un villaggio austriaco  455

Una « Strega » di Offenburg nel Baden: maschera comune a molte tradizioni folkloriche europee  457

 

In un’opera etnologica è quasi inevitabile che i riferimenti alle forme di civiltà nostrana si riducano alla contrapposizione di una generica e stereotipata « civiltà superiore » rispetto alla multiforme varietà delle culture esotiche di altri continenti. L’attenzione si concentra piú sulle seconde, mentre della prima per tacita convenzione non vien fatto di parlare, postulandosene la conoscenza in chi scrive e in chi legge : l’etnologo esulerebbe dalla sua competenza e dal suo compito se nella trattazione delle armi pretendesse di includere la descrizione meccanico-balistica delle carabine automatiche o dei missili nucleari, o se, illustrando il trattamento dei morenti, volesse analizzare il sacramento cristiano dell’estrema unzione.

 

Gli elementi della nostra civiltà possono tuttavia acquistare cittadinanza etnologica per due vie diverse: o per la via dell’indiscriminato comparativismo, in voga nella generazione di Lubbock e ancora in quella di Frazer; oppure nel corso dell’analisi di civiltà esotiche nelle quali tali elementi siano modernamente stati immessi in seguito a fenomeni di acculturazione.

 

Ma la prima di tali vie, che sfruttava largamente gli aspetti folklorici a fianco di quelli primitivi, è oggi quasi abbandonata ; e la seconda - a parte il fatto che non tutti gli indirizzi etnologici gradiscono l’intrusione di una variabile culta nei loro problemi - pone comunque l’accento assai piú sul risultato dell’acculturazione, o sull’apporto modificatore della società arretrata, che non sul modello culto in quanto tale.

 

Nel secondo caso, inoltre, va notato come gli aspetti della civiltà superiore (occidentale, industriale, letterata, o comunque la si voglia chiamare) che hanno inciso, e continuano a incidere, sulle culture che diciamo etnologiche, appartengono quasi sempre al livello piú generico e anonimo di tale civiltà, ossia alle sue manifestazioni ufficiali, qualunque sia il campo che essi riguardano, tecnologico, economico, politico, religioso, e cosí via : il che giustifica, fino a un certo punto, la convenzionale semplificazione cui molti etnologi abitualmente ricorrono quando alle singole ben individuate culture arretrate contrappongono in blocco, con formula sbrigativa, la moderna civiltà dei bianchi ridotta a una fittizia e uniforme astrazione.

 

Il progressivo diffondersi nel mondo di certi schemi e modelli sociali e culturali propri della civiltà egemonica, quale è o vuole essere la nostra, è fenomeno innegabile, non meno dei paralleli processi di accelerato livellamento in corso nelle società occidentali. Ma qualunque valutazione si voglia dare della portata e del significato di tali fenomeni, sarebbe opinione fallace il ritenere che la natura profonda delle nostre società, e dei processi culturali operanti in seno ad esse, sia qualitativamente diversa da quella posta in luce in altre parti della presente opera. Le pagine che seguono vogliono appunto dissipare la possibile impressione di una estraneità delle culture cosiddette superiori od occidentali ai processi di cui si è parlato; e rammentare anzi un fatto ben noto, di grande importanza etnologica e storica, ossia che la differenziazione culturale interna risulta massima proprio fra le società di questo livello.

 

 

            Il tema centrale delle ricerche folkloriche. La lunga durata dei processi di formazione e di sviluppo delle società superiori e la complessità di tali processi, la diversificazione delle attività lavorative e dei generi di vita, la dislocazione dei gruppi su aree assai vaste, il distacco sociale tra i diversi ceti (e in particolare tra classi detentrici del potere e classi subordinate),

 

 

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hanno fatto sí che i diversi gruppi in cui le società evolute internamente si articolano abbiano partecipato in modo diverso e in condizioni di disparità alla produzione e al godimento dei beni culturali: un tipico esempio ci è offerto dalla lenta e faticosa diffusione in larghi strati del possesso di una tecnica culturale fondamentale quale il saper leggere e scrivere.

 

Ma il fenomeno ha proporzioni assai piú vaste. Viviamo in un’epoca di forte dinamismo sociale e di comunicazioni addirittura simultanee tra centri (politici, economici, culturali, ecc.) e periferie; alla intensificazione dei rapporti di comunicazione, automaticamente provocata dalle condizioni oggettive della nostra struttura economico-sociale, o resa possibile dalla disponibilità di mezzi tecnici prima sconosciuti, si accompagna la proclamazione ufficiale (pur essa in gran parte ignota nel passato) che è dovere della società civile di assicurare la piú vasta e rapida diffusione delle conquiste culturali; scuole e radio-televisione, giornali e industrializzazione, azioni di massa e viaggi, cinema e diffusione del libro, ecc., provocano un deciso incremento quantitativo del livello culturale medio, lingua comune o standard di concezioni e comportamenti. E tuttavia - per poco che esca dal giro del proprio ambiente o che rifletta meno superficialmente sulle condizioni reali della nostra società - ciascuno avverte l’esistenza di « salti culturali » morfologici e storici, qualitativi e quantitativi, tra città e campagna, tra ambienti colti e ambienti popolari.

 

Talvolta si tratta di semplici variazioni all’interno di un orizzonte comune che non presenta sostanziali incrinature. Le modalità caratteristiche con cui certi paesi celebrano talune festività religiose spesso non si distaccano dalle concezioni comuni e ufficiali, e allo stesso tempo differiscono fra loro solo come varietà di una specie unica. Da questo punto di vista generalissimo la processione dei ceri di Gubbio non è in sostanza diversa da quella dei candelieri di Sassari o da quella di Santa Rosa di Viterbo : cambiano l’organizzazione scenica e le simbolizzazioni, ma la concezione che esse esprimono in forme locali e caratteristiche resta alla fine identica, né si distacca di molto da quella universalmente e ufficialmente accettata.

 

Ben diverso è il caso di certe processioni dirette a propiziare la pioggia, nel corso delle quali la statua del santo viene deliberatamente esposta per lungo tempo al sole, oppure immersa in acqua, e talvolta persino minacciata: qui esiste una vera e propria frattura culturale tra l’ideologia magico-religiosa che ispira questi procedimenti diretti a « costringere » il santo o a « forzare » la natura, e il pensiero moderno e ufficiale, non solo scientifico ma anche mistico-religioso. Sono appunto questi i veri e propri dislivelli culturali interni che anche la piú quotidiana esperienza avverte e denomina come tali. Le forme che la religiosità assume in tante processioni o in tanti pellegrinaggi popolari colpiscono l’osservatore estraneo perché profondamente diverse da quelle che le classi colte definiscono spiritualizzate. Il canto a tre voci che può udirsi in tanti paesi della Sardegna urta contro tutte le odierne abitudini musicali dell’ orecchio continentale. La disperazione esteriorizzata, parossistica e insieme rituale, di certe cerimonie funebri calabresi o lucane scuote per il suo radicale contrasto con le manifestazioni di dolore intimo e composto che la società civile considera oggi legittime e normali. Ognuno di questi incontri, e i mille altri che si potrebbero elencare, può suscitare reazioni affettive diverse e opposte;

 

 

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In molte località dell’Italia meridionale il ciaràulo o serparo era un tempo «stipendiato dalle amministrazioni locali per il servizio che rendeva alla comunità cacciando i serpenti. La immunità dal morso dei serpenti velenosi è spesso attribuita all’azione di San Domenico di Cocullo (Abruzzi), onorato annualmente con una festa dei serpenti che si svolge il primo giovedì di maggio e che è stata posta in relazione con l’antico culto della dea Angitia. Serpari, serpenti e pani da benedire accompagnano la processione.

 

 

ma al fondo del fascino o della ripulsa non è difficile riconoscere un unico elemento, e cioè un senso di estraneità culturale, che appunto si fa esplicito allorché si definiscono questi fatti come pagani, medievali, barbari, selvaggi, ecc.

 

Più in generale e meno in superficie, la presa d’atto dell’esistenza, della vastità e dell’importanza storico-sociale dei dislivelli che ancora incidono solchi profondi nella compagine culturale della società civile si esprime in alcune contrapposizioni ben note : nord e sud, città e campagna, élites e classi popolari, ecc. Si tratta invero di schematizzazioni che riducono alle polarità estreme una serie molto varia di differenze; esse hanno perciò un’indubbia validità generale, ma richiedono insieme (e soprattutto in sede di ricerca scientifica) una piú specifica e concreta articolazione attraverso singole indagini volte all’illustrazione e all’esplicazione di singoli e concreti fenomeni. Nel quadro di queste indagini si inserisce quei complesso di ricerche che vengono dette folkloriche, demologiche o di tradizioni popolari. Cosi come sono venute storicamente organizzandosi dall’Ottocento in poi, queste indagini si applicano alla rilevazione documentaria, all’analisi classificatoria, all’individuazione storica dei fenomeni di differenziazione culturale esistenti all’interno delle società piú evolute, concentrando specialisticamente l’attenzione sui fatti che con maggior evidenza si distaccano dalle concezioni e dai comportamenti piú moderni e piú generalizzati. Se dunque gli studi etnologici nella loro generalità indagano le differenze culturali esterne alle società evolute

 

 

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(e cioè le società che si dicono, impropriamente, primitive o, meno impropriamente, arretrate o arcaiche), gli studi folklorici si occupano delle differenze interne : anch’essi si collocano perciò nel vasto quadro delle moderne discipline storico-sociali, alla cui formazione hanno - per la loro parte - contribuito, e con le quali conservano complessi rapporti documentari, tecnici, metodologici.

 

 

            Alcuni aspetti della formazione dei dislivelli interni. Solo indagini specifiche sui singoli fatti possono consentire di individuare con esattezza le complesse origini di questi variati e molteplici dislivelli. In linea schematica si possono però additare alcuni aspetti generalissimi della loro formazione.

 

Le diseguaglianze o varietà culturali di cui ci occupiamo appaiono spesso come un prodotto involontario e per cosi dire meccanico della scarsa intensità dei rapporti di scambio tra i gruppi, generata dalle difficoltà geografiche o tecniche della comunicazione: zone e gruppi isolati, periferici, meno esposti ai contatti, hanno conservato usi e costumi che invece i centri e le zone piú aperte agli scambi hanno abbandonato; inoltre l’isolamento e l’assenza di rapporti reciproci - assieme a una diversa dinamica interna dipendente dalla diversità dei generi di vita - hanno spesso generato sviluppi culturali locali indipendenti gli uni dagli altri, con ulteriore accentuazione delle differenziazioni. Le diversità culturali cosi formatesi restano talvolta piú o meno sullo stesso piano (e sono i fatti locali tipici o caratteristici di cui abbiamo già fatto cenno) ; talvolta invece - a seguito di nuove ondate culturali egemoniche e per l’intrecciarsi di altre azioni e reazioni di cui discorriamo piú avanti - vengono a costituire piani o livelli diversi, spesso molto distanti da quello ufficiale.

 

Il fenomeno, nella sua generalità, è ben noto a tutti gli studiosi di morfologia e di storia culturale, e in particolare ai linguisti, ai quali la natura dei fatti indagati offre maggiori possibilità di analisi stringenti e di generalizzazioni efficaci. La descrizione schematica del processo di dialettizzazione giova anche sul nostro terreno, sempre che si tenga conto della necessità di un’adeguata traduzione :

 

« Un gruppo umano, aggressivo e prolifico, estende la sua azione su un territorio cosi vasto che i contatti tra le diverse tribù perdono di frequenza e di intensità. Ne consegue un processo di differenziazione linguistica che andrà accentuandosi se i contatti tra le diverse tribù si allenteranno ulteriormente, e se si stabiliranno invece nuovi contatti con tribù appartenenti ad altri gruppi. Si verificherà la dialettizzazione della lingua iniziale, e questa dialettizzazione potrà giungere fino all’incomprensione totale tra tribù e tribù. Ma una tribù piú aggressiva, piú prolifica, piú inventiva o culturalmente piú sviluppata potrà imporre alle altre la propria egemonia politica o culturale. Il suo dialetto allora diventerà la lingua ufficiale o letteraria in tutta l’area di questa egemonia, e cosi comincerà a dislocare i dialetti locali, o sostituendoli del tutto, oppure operando un processo di convergenza, che giunge fino alla commistione completa » (A. Martinet).

 

Ma all’origine delle differenze (e in genere delle piú profonde) vi sono anche atteggiamenti deliberati. Spesso i centri o i ceti culturalmente piú produttivi o egemoni hanno elaborato quadri di concezioni e di comportamenti con precise intenzioni di discriminazione e con chiara volontà di creare, mantenere, sotto lineare talune differenze tra i gruppi.

 

 

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Mulino a vento e raccoglitrici di cipolle nelle isole Canarie.

 

 

Un esempio assai semplice, ma evidente, ci è offerto dalla storia delle fogge di abiti : come è noto, infatti, le leggi suntuarie comunali o regie hanno prescritto a lungo (e fino a tempi abbastanza recenti) vesti diverse per le diverse categorie sociali, obbligando i contadini ad usare stoffe, modelli e accessori diversi da quelli consentiti ai signori. Nei Capitoli deliberati a Rieti nell’anno 1396 si stabiliva

 

quod nulla mulier de civitate vel comitalu Reale audeat vel presumal deferre vestimenta de velluto vel adsetam laboratam nisi esset uxor militis, iudicis vel medici doctorati;

 

e circa trecento anni piú tardi, (esattamente nel 1703), una Pragmatica reatina stabiliva analogamente

 

«che a semplici Cittadini, Mercanti et Artigiani non sia permesso vestir di seta, ma bensì di saie, panni, overo camellotti, et altre robe simili, che non siano di tutta seta, come pure alle loro mogli, figli e sorelle »,

 

mentre invece dichiarava «che alle Dame, e Gentiluomini sia sempre permesso verstire di qualsivoglia sorte di panno, o drappo di seta». Non diverse intenzioni di differenziazione si ritrovano alla base delle precedenze e dei diritti dei diversi gruppi sociali, territoriali o organizzativi in molte processioni o celebrazioni religiose. Caso strano e clamoroso, che piú o meno direttamente si riallaccia all’intenzione di mantenere in piedi le barriere socio-culturali tra i ceti o le classi, è poi il tenace rifiuto opposto (in forme attenuate persin oggi) all’estensione a tutti dell’istruzione: la vecchia formula dei ceti retrivi «piú religione e meno istruzione » costituisce il modello di questi deliberati intenti di discriminazione culturale.

 

 

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Altre volte invece le concezioni e i comportamenti elaborati nei centri o dai ceti egemoni hanno avuto chiara volontà espansiva ma hanno incontrato forti resistenze dipendenti non solo e non tanto dalle difficoltà geografiche o tecniche della comunicazione quanto dai rifiuti culturali opposti dai ceti e dai gruppi culturalmente subordinati. È cosi accaduto che nuove concezioni siano state, se non respinte del tutto, assorbite soltanto in parte o solo in superficie, senza cioè che le vecchie che esse contraddicevano sparissero totalmente. Il fenomeno è evidente e corposo sul terreno delle concezioni religiose : ogni radicale innovazione in questo campo (e si pensi in particolare ai grandi monoteismi moderni) ha dovuto condurre lunghe lotte culturali (spesso non terminate neppure oggi) contro la piú o meno scoperta resistenza degli orientamenti precedenti ; e questi ultimi, anche se disorganizzati, hanno con tenacia resistito agli assalti, costringendo talora le nuove religioni ad accettare il compromesso o a tollerare la convivenza. A dispetto di centinai di divieti e di condanne delle consuetudines non laudabiles pronunciati da concilii o sinodi ecclesiastici in duemila anni, la religiosità popolare (e non questa soltanto) è ancora permeata di elementi magici e superstiziosi.

 

Un esempio qualsiasi di condanne sinodali delle « vane osservanze » e delle « arti diaboliche » gioverà ad illustrare meglio alcuni aspetti del fenomeno. Dice il Sinodo di Ferentino del 1605:

 

«Vanissime superstizioni sono il raccoglier o seminar l’herbe nel tal giorno della settimana; cavarsi il sangue nel giorno dell’Ascensione [o] di San Giovanni Battista piú tosto che in altro giorno; conservar l’ovo nato nel giorno dell’Annunciata, del Venerdí Santo, o dell’Ascensione per alcune vane osservazioni; dar da mangiare il pane scritto; bagnarsi nella notte di San Giovanni, raccogliere nell’istessa notte alcune herbe, acciocché all’hora fiorischino, o per altra vanità; nel primo di maggio andare investigando col vino s’alcuno havrà da viver in quell’anno, o morire; scongiurar le stelle, per ritrovar le smarrite bestie verso quella parte dove loro pare che si muova la stella; buttar del grano nel passar o nell’entrata della sposa in casa; incantar alcuni mali con parole superstiziose, come il mal degli occhi con fave, o simili vanità; dar credito alli Auguri, fede indubitata ai segni, massimamente se per ciò lasciasse di far alcuna opera buona, o altre simili superstizioni, le quali con ogni sforzo siamo obbligati a cancellare dalle menti dei fedeli. Impongano i nostri curati di più, per l’abuso grande che è in questa Diocesi, pena di scomunica latae sententiae [...] contro coloro che haveranno piú ardire, per odio o per burla, di legar i sposi, acciò mediante le versutie infernali non si possa consumare il matrimonio».

 

Risultano chiari i diversi aspetti. È innanzitutto evidente la commistione e confusione di credenze e osservanze precristiane e cristiane: i giorni dell’Ascensione o di San Giovanni, dell’Annunciata o del Venerdì Santo divengono giorni propizi - in senso diverso da quello cristiano ufficiale - per la raccolta di erbe, per pratiche curative, o per bagni rituali; giorni che il calendario liturgico ufficiale piú non contempla come significativi, quale è appunto il primo maggio, conservano invece l’antico sacrale valore e sono momento opportuno, al pari di altre ricorrenze cristiane, per operazioni divinatorie evidentemente superstiziose. Talune pratiche infine mescolano la magia e la sacralità cristiana fino a rasentare il sacrilegio, come appunto quel « pane scritto » ricordato dal Sinodo,

 

 

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che evidentemente è il « pane della messa » magicamente usato secondo un procedimento di cui ci dà notizia il secentesco persecutore delle streghe Martino Del Rio, di manzoniana memoria: «Recipe tres panes missales, et in uno scribe ”qualis est pater”, et in altero etc., et in tertio etc., et dare has hostias febricitanti, etc.». Concezioni cristiane e precristiane (come dovremo tornare a vedere piú oltre) appaiono dunque confuse tra loro, e ben si spiega la battaglia ideologica della Chiesa contro questa contaminazione che in definitiva conserva la vecchia sostanza sotto una nuova vernice.

 

Ma c’è un altro aspetto: le pratiche sin qui ricordate sono considerate come « vanissime superstizioni », o come « vane osservanze » ; cioè come atti di « magia superstiziosa » da cui ci si attendono effetti che essi non possono dare né per forza naturale né per intervento soprannaturale. Ma non è del tutto escluso che essi possano avere una qualche efficacia; e soprattutto è certo, agli occhi dei legislatori ecclesiastici, che efficacia reale abbiano le « versutie infernali », le diaboliche astuzie, impiegate per « legare » gli sposi e impedir loro di consumare il matrimonio. Anche l'élite dirigente credeva nella realtà di questi poteri diabolici, nell’efficacia delle pratiche magiche. In generale ce lo dimostrano, per il passato, la letteratura demonologica e i processi contro le streghe, e, per il presente, certi casi di malattie mentali interpretate ancora oggi come « possessioni diaboliche » ; quanto poi al nostro Sinodo, ce lo dice chiaramente il fatto che i demonologi del XVI e XVII secolo, discorrendo de maleficio ligaminis, trovavano « piú di cinquanta » modi e forme dell’azione demoniaca, o descrivevano minuziosamente le «sette cause prossime» dell’impossibilità di consumare il matrimonio (Del Rio). Reali dunque tanto per il volgo quanto per l’élite, le versutie infernali restavano in larga misura confermate nella cultura, pur divenendo un elemento di frattura tra il volgo che continuava ad utilizzarle e l’élite che le condannava. Sarà poi l’illuminismo ad ampliare il raggio della polemica culturale, ponendo nel novero delle superstizioni e degli errori anche molte credenze religiose ufficiali, e provocando cosi - per il ripetersi del fenomeno delle resistenze culturali periferiche - un ulteriore dislivello entro la cultura europea.

 

Naturalmente i diversi aspetti che abbiamo sommariamente indicato si intrecciano e si condizionano a vicenda. Le difficoltà tecniche e geografiche dei rapporti di scambio culturale smorzano la capacità espansiva delle invenzioni e innovazioni; i particolarismi generati da quelle difficoltà materiali accrescono la resistenza che le periferie oppongono alle modificazioni; questa resistenza costringe talvolta le ideologie egemoniche al compromesso, ecc. Ma soprattutto accade che la stessa volontà espansiva, pur su terreni considerati di essenziale importanza dalle classi dirigenti, si pieghi e si fletta in relazione all’atteggiamento di discriminazione socio-culturale assunto da queste ultime. Documenti scottanti di quest’ultimo fenomeno potrebbero trarsi a centinaia dalla storia, anche recentissima, dell’istruzione pubblica e popolare; ed è ben nota l’esistenza di un certo atteggiamento mentale per cui si giudica che al popolo possano bastare modi di vita o di pensiero o di fede che l’élite invece rifiuta per se stessa, considerandoli rozzi e inferiori. Ci contenteremo qui di addurre un solo esempio (significativo, pur nell’apparente tenuità dell’episodio), traendolo dalla storia di quel pianto funebre che ha costituito uno dei punti di contrasto piú netto fra élites e volghi.

 

 

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Nel 1373 Francesco Petrarca scriveva a Francesco da Carrara, signore di Padova:

 

«Avvi una popolare costumanza della quale tener non mi posso che non ti parli [...]. Si cava di casa il morto, e una caterva di donne si getta sulla strada empiendo le piazze e le vie di mesti ululati, di clamori, di grida, che a chi ne ignori la causa farebbero sospettare o esser quelle maniache, o venuta la città in man del nemico. Quando il funebre corteo tocca le soglie della chiesa si raddoppia il frastuono, e mentre dentro si cantano i salmi [...], percosse dai femminili ululati orrendamente rimbombano le volte [...]. Questa è la costumanza, che contraria ad ogni legge di decenza civile e di buon ordinamento della città, siccome indegna del tuo saggio governo, io ti consiglio e, se fa d’uopo, ti prego che tu corregga. Comanda che nessuna donna esca di casa per codiare il corrotto. Se dolce è ai miseri il pianto, piangano pur quanto vogliono, ma dentro le domestiche pareti, e non turbin coi loro schiamazzi la pubblica quiete».

 

Non occorre sottolineare quanto sia forte il contrasto tra i due mondi di concezioni, sentimenti, espressioni: quello di Petrarca interiorizzato e schivo, mentre l’altro è, o appare, tutto riversato violentemente all’esterno. Ma qui importa notare due altri fatti. Il primo è che Petrarca chiede provvedimenti repressivi: è questo un tipo di pedagogia culturale larghissimamente usato per secoli (basti pensare ai sinodi o ai processi alle streghe), che ha come necessaria conseguenza un accentuarsi della frattura culturale tra chi reprime e chi subisce la repressione. Il secondo fatto, solo in apparenza contraddittorio col primo, è che Petrarca concede che chi vuole pianga pure a suo modo tra le domestiche pareti, purché non turbi la pubblica quiete. È un gesto, si direbbe, liberale: che lascia cioè a ciascuno le proprie concezioni; ma sostanzialmente è una discriminazione: è la rinuncia a credere che il volgo possa mai sollevarsi a concezioni della vita e della morte, a sentimenti ed espressioni cosi alti e contenuti quali quelli che Petrarca giudicava i soli degni della civiltà. È insomma il rifiuto ad espandere al di là dei confini dell’élite quei beni culturali che l’élite giudicava gli unici validi. [1]

 

 

            La posizione storica della «zona» dei fatti folklorici e i processi della dinamica culturale. La lettera petrarchesca che abbiamo ricordato ci consente di rilevare un altro fatto : nella Padova trecentesca il « corrotto » o lamento funebre delle donne urlanti nelle vie e in chiesa era un fatto culturale che possiamo dire « popolare » : esso si distingue recisamente dal modo di sentire e di agire della élite che Petrarca rappresentava, ed anzi si contrappone ad esso. Ma ci guarderemmo bene dal dire che l’analogo modo di piangere la morte fosse popolare nella Troia omerica, dove Ecuba ed Elena e tutta la folla delle ancelle coralmente si lamentavano sul cadavere di Ettore; né mai popolare potremmo dirlo tra gli Aranda australiani o gli Zulu d’Africa o i Fuegini d’America, tra i quali il cordoglio rituale è un istituto ufficialmente riconosciuto e praticato dall’intero gruppo.

 

È questo un punto essenziale : ciò che in generale fa la « popolarità » o meno di un fatto culturale (sia esso un canto o una pratica cerimoniale, una credenza o un racconto) non è né l’origine (che può benissimo essere culta e aristocratica) né una particolare qualità o essenza universale ed eterna, ma solo la relazione storica di contrasto con altre concezioni coesistenti all’interno dello stesso organismo sociale.

 

 

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Sulle fiancate o sulle vele delle imbarcazioni sopravvivono spesso antiche iconografie: un cavallo marino ( ?) sulla prua di una barca di Terrasini (Palermo).

 

 

La trasmissione orale dei testi letterari, o l’unione strettissima di versi e musica (che appaiono come caratteristiche distintive di una serie di fatti folklorici odierni) sono tecniche e modalità «popolari» oggi e là dove esista una élite culturale che pratichi essenzialmente la trasmissione scritta e che concepisca e crei musica e versi come assolutamente indipendenti ed autonomi l’una dagli altri; non furono certo «popolari» nelle società senza scrittura o in quelle che (come la Grecia classica, ad esempio, o anche la Firenze dantesca) ebbero come loro forma d’arte anche la unione assai stretta di versi e musica. I fatti popolari o folklorici insomma sono tali in quanto di livello culturale diverso da altri compresenti nello stesso gruppo sociale e in una situazione storica determinata. Popolo e popolarità, che alla loro origine romantica volevano esprimere degli assoluti, sono invece concetti che indicano una relazione, un rapporto.

 

Ciò comporta un’ulteriore conseguenza, dettata non solo dalla logica ma anche dal piú comune buon senso storico. I fatti folklorici non possono identificarsi con quelli etnologici. Esistono delle connessioni assai strette (e talvolta delle identità morfologiche sorprendenti) tra gli uni e gli altri ; ma è evidente che, nel complesso, vi è tra loro una differenza storica profondissima. I fatti folklorici sono il risultato di un contrapporsi e reagire di concezioni di livello culturale diverso e spesso antitetico, le quali però hanno avuto una vicenda storica generale comune, e si sono condizionate a vicenda; i fatti etnologici hanno avuto una vita storica per larghissima parte indipendente e autonoma nei confronti della società europea. Naturalmente basta un minimo di conoscenze specifiche per correggere quanto c’è di schematico in questa affermazione: esistono popolazioni primitive (si pensi all’America centrale e meridionale) che già da tempo abbastanza lungo si trovano in contatto immediato con società e culture superiori ; e del resto i fenomeni di incontri e contrasti di culture sono oggi all’ordine del giorno delle ricerche etnologiche. Tuttavia resta il fatto che quelli che abbiamo chiamato dislivelli esterni possono studiarsi - almeno fino a tempi assai recenti e per zone geografiche assai vaste - senza tener conto della civiltà classica o di quelle medievali e rinascimentali;

 

 

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i fatti folklorici (i dislivelli interni) sono incomprensibili se non li si colloca nel quadro della vicenda storica europea dal Paleolitico alla civiltà industriale.

 

In altri termini l’oggetto storico complessivo dell’indagine folklorica è costituito da quella variata serie di differenze e di dislivelli culturali che solcano le società evolute: prodotto di un cammino storico in cui le difficoltà materiali dei rapporti di scambio culturale, la deliberata volontà di discriminazione dei ceti dirigenti, la resistenza piú o meno consapevole di quelli subalterni, intrecciandosi e condizionandosi a vicenda, hanno creato una zona culturale in cui concezioni e comportamenti di diversa qualità culturale, di diversa origine storica, di diverso livello ideologico si compongono in una sorta di equilibrio (o sincretismo) piú o meno organico e coerente: senza cioè che possa dirsi infranta la comune unità culturale di fondo, ma senza che la società possa dire di aver raggiunto una reale e profonda omogeneità.

 

A chiarire meglio questo punto sarà utile considerare qualcuno dei processi che l’analisi della dinamica culturale consente di isolare e di identificare: tradizione e diffusione, migrazione e integrazione, acculturazione e selezione, invenzione e innovazione, ecc. La loro formalità strutturale, illustrata in altra parte di questa opera (Cap. VI), appare in gran parte immutata anche nella zona folklorica, ma le modalità concrete della loro attuazione sono storicamente diverse, e perciò richiedono, almeno in parte, l’inclusione o l’esclusione di talune distinzioni analitiche.

 

Anche sul terreno del folklore il problema piú generale ed essenziale resta ovviamente quello del rapporto tra conservazione e modificazione, tradizione e innovazione; ed è abbastanza agevole riconoscere schematicamente le opposte componenti del processo. La spinta conservativa, con i suoi noti caratteri di socialità e di coercizione, è facilmente individuabile nelle sue forme essenziali : da un lato l’azione di educazione e di condizionamento che ogni gruppo svolge nei confronti delle nuove generazioni per integrarle nella cultura tradizionale, e dall’altro la resistenza che ogni gruppo oppone - sia perché attribuisce un preciso valore ai fatti tradizionali, sia anche per semplice inerzia - alla rottura degli schemi e delle norme abituali e in genere alle novità. Con altrettanta evidenza sono riconoscibili le forze e le azioni modificatrici: piú rare, in campo folklorico, le invenzioni vere e proprie; numerose invece le innovazioni che hanno radice e origine individuale, ma che evidentemente si legano - con precisi nessi storico-sociali - alla totalità della situazione collettiva; e ci sono poi gli apporti o acquisti o prestiti da culture diverse dalla propria, le scelte e le selezioni che il gruppo opera nei confronti delle novità che, per una ragione o per l’altra, accoglie e fa proprie, e le trasformazioni che esso apporta sia a queste novità sia al proprio patrimonio tradizionale che, piú o meno ampiamente, ridimensiona in relazione ai nuovi elementi che vi sono stati introdotti.

 

L’esatta individuazione del rapporto tra le diverse forze concorrenti o contrastanti è cosa piú difficile; e anche nel campo del folklore si è esercitata un’opera di riflessione specifica sulle caratteristiche di questa complessa dinamica. Gli indirizzi di studio dei quali facciamo rapido cenno nell’ultima parte della nostra esposizione si differenziano anche per il modo diverso con cui concepiscono il rapporto tradizione-innovazione.

 

 

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Non è possibile qui approfondire l’argomento. Ci basti dire, in linea generale, che per varie ragioni il problema si è prospettato soprattutto sotto il profilo del rapporto tra individualità e collettività; e che, superando una troppo rigida ed astratta contrapposizione tra i due termini, l’orientamento oggi prevalente tende a rilevare il nesso che sempre esiste tra i due termini del rapporto.

 

In modo analogo, per ciò che riguarda la dinamica interna di ciascun gruppo, la trasmissione nel tempo, o tradizione, perde i caratteri di inalterata immobilità che le si attribuivano, mentre l’innovazione (intesa come modificazione di qualsiasi natura apportata al patrimonio tradizionale) cessa di essere concepita come totalmente avulsa dalla tradizione ed estranea ad essa.

 

Il problema si complica quando entrano in gioco i rapporti tra culture e gruppi diversi. Ed occorre sottolineare che nel campo dei fatti folklorici i contatti e gli scambi, le sovrapposizioni e le mescolanze tra culture differenti, o tra livelli diversi di cultura, hanno una continuità ed una intensità assai forti, al punto che il fenomeno dell’«inculturazione » (o, meglio, dell’«integrazione nella cultura del gruppo»), e quello dell’« acculturazione » perdono, almeno in parte, la loro teorica nettezza, ed appaiono comunque inestricabilmente legati.

 

Il giovane pastore che apprende dagli anziani a piantare un coltello nei ceppi del fuoco del bivacco per evitare che l’odore delle carni arrostite inquieti il bestiame, contemporaneamente impara, dalla scuola o comunque dal contatto ormai largo e frequente con concezioni piú evolute, che i gesti di questa natura sono inutili, se non addirittura dannosi, e appartengono al mondo dell’ignoranza e della superstizione. L’acquisizione di cognizioni estranee alla tradizione locale o di gruppo si scontra cosi con il processo di immissione e integrazione nella cultura particolare. Ne deriva una partecipazione a due culture diverse; e dall’evidente contrasto che esiste tra esse nascono di volta in volta risultati psicologici e culturali diversi, tra i quali il piú caratteristico è quello della convivenza piú o meno equilibrata di termini contraddittori. È questo appunto quell’orizzonte di equilibri e sincretismi di cui parlavamo, ed in esso si collocano quegli incontri e contrasti di culture, quelle commistioni di sacralità precristiana e di cristianesimo, che piú oltre esemplifichiamo con cerimonie e usi del « ciclo dell’uomo » e del « ciclo dell’anno ».

 

Insomma la condizione piú tipica e generale, nel mondo dei fatti folklorici, è quella della partecipazione degli individui ad almeno due culture: quella comune o generale (italiana, per esempio, o anche europea, ecc.), e quella particolare (di gruppo o locale). Nella terminologia degli studi che vengono detti di antropologia culturale si parla perciò di cultura e di sub-culture, senza che naturalmente i due termini abbiano alcuna intenzione di apprezzamento positivo o negativo, ma con esclusivo riferimento alla diversa ampiezza delle aree geografiche, sociali, psicologiche, di contenuti, ecc., che la cultura e le sub-culture rispettivamente abbracciano.

 

Il fenomeno può essere descritto e indicato anche da un altro punto di vista: come è stato detto nei paragrafi precedenti, nella zona folklorica la comunicazione e lo scambio di elementi di cultura si svolgono piú nella forma delle relazioni di tipo sociale tra livelli diversi di cultura che non in quella delle relazioni di tipo etnico e geografico tra gruppi diversi e di diversa collocazione geografica.

 

 

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Ne deriva, tra l’altro, che anche la distinzione teorica troppo netta tra fatti di acculturazione e fatti di diffusione - del resto già notevolmente problematica sul terreno stesso dell’antropologia culturale - spesso non trovi adeguata applicazione nel nostro campo.

 

Ma ciò non significa che nel folklore non esistano relazioni e scambi di tipo etnico-geografico; né mancano casi di propagazione di elementi culturali fuori del loro territorio (o gruppo etnico) di origine, nei quali è abbastanza agevole distinguere se il trasporto è avvenuto per vera e propria migrazione di popolazioni o per la sola diffusione dei fatti culturali. Ad esempio la presenza in tutta Europa di tipi o motivi favolistici identici o fortemente simili, resistenza in Toscana di strambotti certamente nati in Sicilia, la diffusione dell’uso delle maschere gigantesche dette « giganti processionali », appaiono in gran parte indipendenti da migrazioni effettive di popoli, e sono dovute ad altre forme di contatto e di scambio culturale. Viceversa, se negli Stati Uniti sono note le ballate di Barbara Allan o di Lord Lovel, di Lord Randall o della Madre crudele, se nel Canada si sono raccolte lezioni del canto epico-lirico di Donna Lombarda; se a Portorico o nel Messico è ancora vivo ed usato il tipo metrico spagnolo della décima, tutto ciò costituisce senza dubbio un caso di propagazione per spostamento territoriale di nuclei piú o meno consistenti di popolazione.

 

Tra i moltissimi modi con cui si attua la propagazione di singoli elementi (o di complessi) di cultura, la migrazione è un caso privilegiato: più appariscente e piú agevolmente analizzabile. Spesso infatti se ne conoscono (o se ne possono ricostruire con sufficiente approssimazione) l’epoca, il punto d’origine, la direzione di movimento, ecc.; inoltre, per il fatto che sovente pone in contatto culture abbastanza diverse, essa dà luogo a fenomeni piuttosto netti e riconoscibili di trasporto, conservazione, scambio, ecc. Oltre che alle già ricordate migrazioni europee in America, si guardi ad esempio alle colonie alloglotte stanziate in Italia : dalle numerose albanesi (sparse dalla Sicilia all’Abruzzo) alle piú rare catalane, serbo-croate, greche (rispettivamente in Sardegna, Molise e Puglia). Tutte offrono esempi evidentissimi di trasporto e conservazione di elementi di cultura: oltre alla lingua, i Catalani di Alghero hanno trasferito in Sardegna, e conservato, un gruppo di canti narrativi assolutamente estranei alla tradizione isolana; analogamente, gli Albanesi di Calabria hanno mantenuto a lungo fogge di abiti originarie delle terre d’oltre Adriatico, ecc. Abbastanza netti appaiono anche i fenomeni di acculturazione, e il carattere reciproco o non reciproco dei prestiti e degli acquisti, e il collimare o meno della direzione di questi passaggi con le rispettive posizioni di predominio o di subordinazione politico-economica e culturale dei gruppi venuti a contatto. Quando constatiamo che la mitologia delle popolazioni indigene del Nord America contiene tipi e motivi narrativi europei, non solo risulta evidente il punto d’origine del passaggio, ma appare del tutto chiaro che la sua direzione coincide nettamente con l’egemonia che gli immigrati europei hanno esercitato sulle popolazioni a carico delle quali è avvenuta la migrazione. Con altrettanta evidenza si manifesta spesso anche il fenomeno inverso:

 

 

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Per gli usi familiari o per lo smercio locale l’artigianato domestico conserva quasi inalterate tecniche e forme antiche: lavori d’intreccio nella Nuova Castiglia (Spagna).

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L’artigianato « evoluto » produce sempre piú spesso oggetti adattati al gusto moderno e destinati ad acquirenti estranei al mondo che si dice « popolare »: cesti in vendita alla Mostra dell’Artigianato Sardo che si tiene annualmente a Sassari.

 

 

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il folklore attuale dei gruppi di origine europea in America contiene vari elementi presi in prestito dalle credenze e dalle tradizioni delle popolazioni indigene, offrendoci cosi un preciso esempio di contro-acculturazione pur in una situazione di predominio nettissimo di una delle due parti e di differenza radicale delle culture poste in contatto. Esempi altrettanto evidenti ci forniscono le colonie alloglotte d’Italia. Parallelamente alla posizione generale di subordinazione in cui sono venute a trovarsi (inserite in una cultura diversa dalla propria, ormai ne dipendono totalmente, per l’impossibilità di conservare i legami con le terre di origine o di non allacciarne con quella entro cui vivono), esse hanno subito, piuttosto che esercitarlo attivamente, il processo di acculturazione. I coloni alloglotti infatti hanno in genere appreso tutti il dialetto delle popolazioni circostanti, e spesso anche l’italiano comune, divenendo cosi bilingui o addirittura trilingui. Il caso inverso è invece molto piú raro, cosi come del resto i passaggi o prestiti delle lingue delle isole alloglotte all’italiano o ai dialetti sono infinitamente piú scarsi dei passaggi o prestiti in direzione opposta. In modo analogo, fuori del campo piú strettamente linguistico, accade che gli Albanesi del Molise conoscano e cantino la filastrocca in dialetto molisano per la questua cerimoniale dell’inizio di carnevale, e che gli Slavi della stessa regione abbiano tradotto in serbo-croato il canto tradizionale « O Pinotta, bella Pinotta » ; i molisani invece ignorano del tutto il canto albanese di « Costantino il piccolo » o quello slavo di « Ivan Karlović ».

 

Ma anche i gruppi alloglotti hanno esercitato un’influenza culturale in direzione opposta. Un evidente esempio ci è offerto, tra gli altri, dalla costumanza della pagliara, ancor oggi viva in un paese non slavo del Molise, e un tempo in uso anche in altri paesi slavi e non slavi della stessa regione. L’elemento caratteristico della cerimonia è un mascheramento conico di erbe e fiori indossato da uno dei componenti del gruppo che si reca di casa in casa, il primo maggio, a porgere saluti augurali e a richiedere donativi. Il mascheramento, o personificazione, e anche il getto d’acqua con cui gli spettatori lo accolgono al suo passaggio per le strade, sono del tutto eccezionali in area italiana; sono invece ben noti e diffusi, tra l’altro, nelle terre slave d’oltre Adriatico, e, fino ad una cinquantina di anni fa, lo erano nei tre paesi serbo-croati del Molise. Sembra dunque evidente che la pagliara costituisca un apporto degli immigrati, ormai abbandonato del tutto dai suoi portatori originari, e invece penetrato nella tradizione molisana.

 

Ma nel campo dei fatti folklorici il trasporto di elementi culturali per migrazione vera e propria (intesa cioè come spostamento effettivo e durevole di popolazioni) è solo un caso tra infiniti altri. Intanto è da notare che, nella zona storica che ci interessa, gli spostamenti di popolazione avvengono sovente in forme che difficilmente possono considerarsi migrazione in senso stretto (si pensi ad esempio alle minoranze politicamente dominatrici trasferitesi temporaneamente dalla Spagna all’Italia; si pensi anche agli spostamenti di mietitori, braccianti per lavori stagionali, e così via), e che danno origine a fenomeni di scambio piú complicati. Inoltre la complessità dei rapporti politici, economici, sociali, culturali, in un’area di vita storica intensissima come quella di cui ci occupiamo, genera infinite forme di contatto e scambio, di trasporto e propagazione.

 

 

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Non è facile elencare schematicamente o individuare storicamente i caratteri, le modalità, le conseguenze di tutte le forme e di tutti gli agenti della diffusione : è lavoro da svolgere in rapporto a singoli casi concreti. Tuttavia, in linea generale, si possono additare talune modalità piú caratteristiche e significative.

 

All’estremo opposto della migrazione può collocarsi, sia per il modo con cui si attua sia per le difficoltà che oppone ad un’esatta individuazione dei suoi effetti, la diffusione dei fatti culturali per contiguità, e cioè il passaggio di concezioni e atteggiamenti, credenze e narrazioni, da individuo a individuo e da gruppo a gruppo, per contatto immediato (orale o visivo), senza che vi siano spostamenti territoriali rilevanti né individuali né collettivi. Una simile forma di comunicazione, che è la piú elementare possibile, costituisce una modalità essenziale e onnipresente, che si accompagna anche a tutte le altre forme di propagazione: basti pensare ai fatti di acculturazione reciproca che abbiamo già esemplificato. Ma la contiguità, nelle situazioni storiche reali, solo di rado ha agito senza alcun rapporto con altre forme, e il numero dei casi di diffusione che può attribuirsi alla sua azione esclusiva è piuttosto limitato, e riguarda in genere espansioni di piccolo raggio. Se il ricordato passaggio di strambotti siciliani sul continente e fino alla Toscana potrebbe, volendo, attribuirsi alla pura e semplice azione della contiguità, non certo a questa sola azione può farsi risalire la diffusione del motivo ornamentale della « rosetta » dalla Georgia alla Norvegia e dalla Russia al Portogallo.

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Pellegrinaggio dei gitani al Santuario delle Sante Marie del mare, in Provenza.

 

 

Esistono infatti, e sono anche abbastanza individuabili nelle loro linee generali di azione, altri agenti di diffusione: innanzitutto i numerosissimi e continui spostamenti piú o meno temporanei di individui e di gruppi, che non costituiscono migrazioni vere e proprie, ma che, come le migrazioni, agiscono a distanza anche notevole. Si pensi, ad esempio, ai flussi ininterrotti di pellegrini, mercanti, girovaghi che fin dall’età medievale e per secoli hanno percorso i grandi itinerari romei e mercantili che dall’estremo nord europeo conducevano a Roma o a San Giacomo di Compostella, traversavano la penisola balcanica, risalivano la Germania, portavano in Oriente, ecc. Si pensi ai santuari e alle fiere che hanno svolto (ed ancor oggi svolgono in certa misura e a un certo livello di vita culturale) la funzione di nodi essenziali d’incontro, scambio, redistribuzione. Si pensi ai tanti gruppi speciali (zingari o vagabondi, prigionieri o profughi, lavoratori stagionali o coscritti), alcuni dei quali hanno svolto opera specifica e per cosi dire qualificata di propagazione

 

 

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(come ad esempio giullari ed affini, in età medievale prima e poi in quella moderna, fino ai cantastorie girovaghi contemporanei).

 

Le diverse linee e direzioni di questi spostamenti di persone, che moltiplicano i contatti e gli scambi di cultura e che ampliano enormemente il raggio delle diffusioni, si intrecciano tra loro in modo inestricabile, accompagnandosi ai piú appariscenti casi di migrazione e all’azione piú capillare e nascosta della contiguità. Ma non basta, giacché in questo complesso quadro di comunicazioni e contatti hanno agito e reagito da secoli almeno due altri potenti fattori: da un lato l’organizzazione ecclesiastica e piú in genere il proselitismo religioso che (o per deliberati impulsi centrali o anche per il solo fatto di stabilire contatti) hanno costituito uno dei veicoli e canali piú efficienti della diffusione di fatti culturali di tutti i livelli; e dall’altro la stampa, piú recente ma non meno potente, anche se attiva soprattutto entro i singoli confini linguistici.

 

Non è certo possibile (e del resto sarebbe in larga parte inutile) riconoscere in ogni particolare l’azione svolta da cosi numerosi e vari agenti di diffusione, né ricostruire tutto l’intreccio degli itinerari sovente casuali, né fare l’inventario dei fatti di cultura cosi trasportati da un punto all’altro. Ma ben possono riconoscersi talora singoli episodi talora grandi correnti di cultura cui si debbono le somiglianze, spesso sorprendenti, che esistono tra zone anche remote. La diffusione recente nell’Italia meridionale di canzoni narrative originarie e caratteristiche dell’area dei parlari gallo-italici è dovuta alla coscrizione obbligatoria e allo spostamento a nord dei giovani coscritti (per non parlare di ciò che, in questo campo, ha operato la prima guerra mondiale). La presenza in Sardegna di una caratteristica preghiera infantile diffusa anche in Italia e altrove, che costituisce uno dei rari casi in cui l’isola mostri una precisa comunanza di testi con il continente, è dovuta con tutta probabilità all’azione del clero. La diffusione europea di un certo numero di leggende agiografiche deve farsi risalire, con molta verosimiglianza, al movimento dei piú antichi propagatori del cristianesimo che dalla Siria «portarono verso occidente un vasto corpo di materia leggendaria » (A. H. Krappe).

 

Il complicato intreccio di cosi numerose e varie azioni di contatto e scambio viene a costituire, nella storia europea, una sorta di rete fittissima e quasi inestricabile che sostanzialmente copre tutto il continente e che dà ragione, nel suo complesso, della dispersione di innumerevoli fatti ed elementi su aree vastissime. È quindi facile intendere perché, sul terreno dei fatti folklorici, l’ipotesi della nascita plurima dei fatti culturali abbia un rilievo ancora minore che in altri campi. Il definitivo abbandono della teoria poligenetica (in quanto teoria interpretativa generale di carattere aprioristico, concettualmente legata all’evoluzionismo) non significa infatti che si neghi in assoluto la possibilità di singoli casi di invenzioni indipendenti e plurime. Ma è evidente che in una zona storica in cui si verificano contatti e scambi di cultura cosi intensi e continui il margine che può restare ai casi di poligenesi è estremamente esiguo. L’ipotesi perciò si presenta al ricercatore solo per elementi assolutamente atipici, e solo come estremo espediente, allorché il ricorso a tutte le altre ipotesi esplicative non abbia dato alcun risultato.

 

I fatti di cultura che hanno viaggiato attraverso queste numerose vie (talvolta isolati, talvolta in complessi) hanno subito modificazioni e adattamenti.

 

 

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I costumi locali o regionali piú famosi sono di solito quelli festivi; ma il loro uso nella vita reale diviene sempre piú raro anche in ragione dell’alto costo. Frequente è invece il loro impiego in cerimonie e feste di carattere turistico.

 

Sopra. Abiti quotidiani e festivi, maschili e femminili, a Busachi (Sardegna).

In basso. Abito quotidiano e costume festivo di Belvi (Nuoro).

A destra. Costumi festivi riuniti per il fotografo in una strada di Piana degli Albanesi (Palermo).

 

 

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I processi di selezione e di integrazione talora hanno diversificato fino a renderli inconfrontabili fatti che pur provenivano da un punto d’origine unico; talvolta le forme sono rimaste identiche, ma la sostanza (contenuti ideologici o funzioni) si è profondamente trasformata, e viceversa, e cosi via. Se dunque si considera la lunga durata del processo storico comune, la complessità dei rapporti interni ed esterni dei diversi gruppi, l’intersecarsi dell’acculturazione di tipo sociale con quella di tipo etnico-geografico, il reagire di tradizione ed innovazione, il verificarsi di trasporti massicci di fatti culturali, l’intrecciarsi in ogni direzione dei moti di diffusione, il trasformarsi e adattarsi delle forme e dei contenuti per le selezioni e le integrazioni che agiscono sia nel tempo (sugli elementi tradizionali o divenuti tali), sia nello spazio (sugli elementi migrati o diffusi), ci si renderà conto che il panorama complessivo dei fatti che denominiamo folklorici non può non presentare una estrema varietà di forme e di funzioni, di cronologia e di distribuzione geografica.

 

Senza pretesa alcuna di andare al di là di una indicazione espositiva estremamente sommaria e schematica, e senza alcuna intenzione di coprire tutta l’area dei fatti che rientrano nella zona folklorica (anzi limitandoci deliberatamente ad alcuni tra quelli che possono presentare maggiore interesse per i lettori di un’opera etnologica), cercheremo appunto di segnalare qualcuno degli aspetti e delle caratteristiche piú rilevanti sia della molteplice varietà dei fatti, sia degli incontri e dei contrasti di culture da cui essi hanno tratto origine. [2]

 

 

            Le classificazioni schematiche. Gioverà tuttavia soffermarci preliminarmente sugli schemi generici di classificazione che, per evidenti ragioni pratiche, gli studiosi sono venuti elaborando. Nella necessaria e deliberata limitazione degli esempi dei quali potremo avvalerci, questi inventari schematici serviranno a dare almeno un’idea complessiva del campo dei fenomeni che di norma vengono considerati come oggetto della ricerca folklorica.

 

Ben noto è, tra gli altri, lo schema adottato dalla Volkskundliche Bibliographie, il piú importante repertorio bibliografico internazionale in materia di folklore. Lo schema prevede le seguenti suddivisioni essenziali: Dimora; Costruzioni; Oggetti; Segni e marchi; Tecniche, arti e mestieri, industrie; Psicologia; Abiti ed accessori; Cibi e bevande; Costumanze, feste e giuochi; Consuetudini giuridiche; Credenze; Medicina; Meteorologia; Poesia e canto ; Musica e danza; Fiabe, racconti, leggende; Forme drammatiche; Indovinelli, detti, proverbi; Onomastica.

 

Meno noto forse, e invece apprezzabile perché spinge agli estremi la necessaria meccanicità del sistema, è lo schema di catalogazione costruito dallo studioso statunitense R. S. Boggs. Il criterio seguito è quello di stabilire alcuni grandi gruppi di fatti piú o meno omogenei tra loro, e di suddividerli in categorie, tipi, forme, ecc., con abbondanza di rinvii incrociati tra partizione e partizione, e con l’adozione della classificazione per lettere e numeri, ben nota del resto nel campo degli studi di folklore per l’uso fattone da A. Aarne e S. Thompson nei loro inventari dei tipi e dei motivi favolistici.

 

I gruppi previsti da Boggs sono i seguenti: Prosa narrativa (suddiviso in Miti, Leggende, Racconti) ; Ballata, Canto, Danza, Giuoco, Musica, Versi (ognuno dei termini costituisce naturalmente una categoria) ;

 

 

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Teatro (con suddivisioni a seconda dell’argomento - religioso, profano -, o della tecnica - Marionette, Ombre cinesi -); Usanze, Feste; Arti e mestieri, Architettura; Cibi, Bevande; Credenze (Mitologia, Leggende, Costumanze, Magia del linguaggio, dei segni, dei colori, Medicina, Predizione e Divinazione); Linguaggio; Proverbi; Indovinelli.

 

Meno meccanico lo schema che Arnold Van Gennep usò nei due volumi di bibliografia del suo Manuel de Folklore français contemporaine, e poi in parte modificò e adattò nel corso della vera e propria esposizione analitica dei fatti. Poiché è piú descrittivo varrà la pena di riprodurne le partizioni essenziali.

 

Dalla culla alla bara (gravidanza, parto, nascita, battesimo, infanzia e adolescenza, fidanzamento e nozze, morte) ;

 

Cerimonie periodiche: a) stagionali (cicli di Carnevale, Quaresima, Pasqua, Maggio, Pentecoste, S. Giovanni e S. Pietro, Ognissanti e Giorno dei Morti, Dodici giorni) ; b) a data variabile (cerimonie agrarie, veglie, distribuzione di acqua o pani benedetti, feste o cerimonie isolate, mostri e giganti processionali); c) a data fissa (Candelora, 1°marzo, 21 marzo-1°aprile, Ascensione, Trinità, Corpus Domini, Assunzione, Avvento) ;

 

Culto della Vergine e dei Santi;

 

Folklore della natura: a) il cielo (meteorologia popolare e magia agricola); b) la terra (folklore delle pietre e preistorico); c) le acque (mare, acque dolci, sorgenti sacre); d) flora; e) fauna; f) il corpo umano;

 

Magia e stregoneria: a) preghiere, incantesimi e formule magiche; b) divinazione (astrologia, cartomanzia, chiromanzia, fontane e sorgenti, oniromanzia, rabdomanzia, visioni profetiche, ecc.) ; c) forme speciali (malocchio, malefìzi, catena magica, starnuto, magia agricola, magia sessuale, cerchi magici, talismani, amuleti, ecc.) ;

 

Medicina ;

 

Esseri fantastici (il diavolo, il lupo mannaro, i vampiri, la caccia selvaggia, ecc.) ;

 

Letteratura mobile (tecnica del racconto; temi, tipi, motivi, ecc.);

 

Letteratura fissa: a) detti e proverbi; b) paragoni; c) wellerismi; d) favole; e) racconti enumerativi o a catena di avvenimenti; f) enigmi e indovinelli; g) rebus; h) blasoni, soprannomi individuali, nomignoli collettivi; i) gridi di mestiere o di strada;

 

Musica e canti;

 

Giochi, giocattoli e divertimenti;

 

Folklore sociale e giuridico: a) folklore militare; b) usi di vicinato; c) norme di cortesia; d) simbolismo sociale dei campanili e delle campane; e) gruppi particolari (gerghi, gruppi maledetti, zingari, ecc.); f) individui caratteristici (ubriachi, annegati, impiccati, ecc.); g) consuetudini giuridiche e folklore giudiziario (usi locali, bracconieri, contrabbandieri, briganti, guaritori, simboli giuridici e segni di proprietà, questue, tribunali, vendetta, ordalie, giuramenti) ;

 

Folklore domestico: a) folklore delle costruzioni (riti di fondazione, ecc.); b) l’abitazione, i suoi annessi e il suo contenuto; c) l’alimentazione; d) pani e dolci;

 

Arti popolari (iconografia, simboli, lavori in pietra, in legno, in metallo, ecc.) : a) ceramica e vetri; b) immagini; c) abiti ed accessori; d) teatro, marionette, ecc.

 

 

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È evidente che questi schemi classificatori, o altri analoghi, hanno un’indubbia utilità in ordine alla collocazione provvisoria ma non casuale dei documenti, e alla costruzione di repertori (dei quali, vai la pena di sottolinearlo, si sente la necessità soprattutto per l’Italia). Ed è altrettanto evidente che l’utilità è tanto maggiore quanto piú razionale e schematica è la loro struttura.

 

Ma proprio per ciò non può chiedersi a questi schemi ciò che essi non possono dare. Per la necessità di predisporre il maggior numero possibile di caselle, e da veri e propri cataloghi per materia e per soggetti quali sono, questi schemi tendono ad abbracciare un’area vastissima che viene quasi a coincidere con la totalità dell’agire umano. Per le stesse ragioni essi debbono poggiare in modo necessariamente eterogeneo sul raggruppamento dei fatti in base a criteri diversi: ora per la loro appartenenza a questo o quel settore dell’agire umano (letteratura o musica, diritto, religione o medicina, ecc.), ora invece per categorie di oggetti, prodotti, istituti (abitazioni, cibi, abiti, ecc.; proverbi, indovinelli, esseri fantastici, ecc.; feste, usi, credenze, ecc.), ora infine per gruppi o cicli costruiti in base ad affinità di vario tipo (« dalla culla alla bara », « ciclo della vita », «folklore della natura», ecc.). Ed allorché ci si accinge a collocare un fatto concreto nelle caselle previste da questi inventari ci si avvede facilmente che l’operazione ha sempre un carattere convenzionale e in gran parte arbitrario : nessun fatto reale è mai tanto semplice da coincidere nella realtà con le suddivisioni generali o particolari cosi astrattamente predisposte. Il settore della narrativa di Boggs o quello delle fiabe della Volkskundliche Bibliographie conterranno di necessità molta materia magico-religiosa da catalogarsi anche nel settore delle credenze o della magia ; le feste sono unità complesse di riti, cerimonie, osservanze, ecc., che vanno dai giochi agli spettacoli, dai canti ai cibi, e via dicendo. Appare perciò evidente che non hanno fondamento certe vecchie pretese di basare su queste classificazioni cosi la scientificità della ricerca come la caratterizzazione della natura e dei limiti dell’oggetto della ricerca folklorica. Su questo piano piú ampio gli schemi in parola hanno se mai un’indiretta (e in gran parte involontaria) efficacia dimostrativa: fanno toccare con mano la polivalenza dei singoli fatti che, da fatti sociali quali sono, costituiscono sempre dei « volumi sfaccettati », che hanno aspetti, funzioni e valori molteplici, e che richiedono dunque che se ne consideri « successivamente e ordinatamente ognuna delle sfaccettature» (Van Gennep, 1924). Ma non è possibile qui soffermarci su questo pur importante aspetto del problema. Dobbiamo invece vedere qualche sommario esempio della molteplicità morfologica e funzionale, geografica e cronologica dei fatti che gli schermi tentano di costringere nelle loro uniformi caselle. [3]

 

 

            Molteplicità di forme e di funzioni, di diffusione geografica e di età storica. Uno dei fenomeni in cui piú frequentemente si imbatte lo studioso è quello di usi, pratiche, credenze che sono simili nella sostanza ma differiscono per le forme, o che viceversa offrono identità o forti analogie morfologiche e notevoli differenze ideologiche o funzionali.

 

In tutta Europa sono diffuse le ben note celebrazioni cerimoniali del maggio: feste primaverili che oggi hanno in genere solo il valore di solennizzazione gioiosa,

 

 

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ma che un tempo avevano (c talora conservano in qualche misura ancor oggi) la funzione di garantire magicamente una fruttuosa fecondità della terra nei nuovo periodo stagionale. Ma i modi con cui le arcaiche finalità magico-rituali venivano o vengono raggiunte sono assai vari, e varie le forme generali o i particolari della celebrazione. Nell’Irlanda e nella Scozia del secolo XVIII si accendevano grandi fuochi o falò cerimoniali, si cuocevano speciali focacce rituali, si designavano a sorte gli individui che il gruppo, piú o meno scherzosamente, considerava come segnati da un destino negativo. Nelle campagne italiane o francesi, balcaniche o inglesi, ancor oggi barrivo del maggio è celebrato con corteggi di ragazzi o ragazze che accompagnano regine o re di maggio, recando di casa in casa saluti augurali sovente trasformati in maledizioni ove non si ottengano donativi. In molte zone, accanto ai re ed alle regine o anche in loro luogo, si hanno altre simbolizzazioni : il Jack-in-the-Green inglese, il feuillu francese, il Verde Giorgio degli slavi, ecc., e cioè personaggi simili alla già ricordata pagliara molisana, interamente ricoperti di rami, di foglie, di fiori, sui quali talvolta si getta acqua mentre percorrono le vie del villaggio, o che talvolta vengono buttati in acqua nel momento culminante o finale della cerimonia. Il notissimo albero o ramo di maggio cerimonialmente portato per le strade o piantato al centro del paese, dinanzi alle finestre delle fanciulle, è anch’esso assai diffuso, ma non ovunque né sempre nelle stesse forme. Le gare o contese, e piú in genere le prove di forza e di abilità, che sovente - ma non sempre - si inseriscono nelle celebrazioni del maggio, assumono forme diverse: dalle corse all’albero della cuccagna, dalle giostre alle sfide di improvvisazione poetica, ecc.

 

Non è difficile portare altri esempi di varietà morfologica o funzionale. Quasi ovunque, ancor oggi, si crede che i morti ritornino a spaventare o a molestare i vivi ; ma la credenza, sostanzialmente identica, attribuisce forme e azioni diverse a questi revenants, concependoli ora come spettri ed ora invece come vampiri.

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Nelle questue cerimoniali per ricorrenze diverse (Natale, Capodanno, Epifania, Pasqua, Maggio, Giorno dei Morti, ecc.) si impiegano ancora di frequente travestimentio costumi particolari: quattro ragazzi sloveni (Kropa, Carniola Superiore) raffiguranti i Re Magi con l’Angelo e la svedese « regina Santa Lucia ».

 

 

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Fuochi cerimoniali in Germania e zone contermini (da D. A. Erich e R. Beitl, Wörterbuch der deutschen Volkskunde, Stoccarda).

 

 

L’impiego cerimoniale o rituale di alberi e di rami non si circoscrive alle celebrazioni di maggio, ma talvolta si lega (o si legava) alla Pentecoste o alle feste di mezza estate. I corteggi di giovani questuanti sono presenti in quasi tutte le zone d’Europa, ma si inseriscono in complessi cerimoniali diversi e diversamente collocati lungo il ciclo dell’anno: ora nelle feste di maggio, ed ora in quelle di Capodanno; qui per la Pasqua e là per Natale; talvolta per il Carnevale e talvolta per l’Epifania o per altre « feste di strenne » oggi in parte dimenticate o trasformate (come ad esempio Santa Lucia o il giorno dei Morti). Inoltre, piú o meno in rapporto con la diversità delle occasioni, variano le modalità e le finalità della questua: in alcuni casi è una semplice richiesta di doni, in altri è pretesa che giunge addirittura a forme di estorsione o di furto piú o meno cerimonialmente effettuate e subite; alcune volte si chiedono cibi o denari per uso del solo gruppo dei questuanti, altre volte invece legna per i fuochi cerimoniali, o contributi per feste comuni, nell’interesse e per conto di tutto il gruppo. I falò cerimoniali e le pratiche che sovente li accompagnano (salti al di sopra delle fiamme, danze in circolo, ecc.) sono diffusi con poche variazioni morfologiche su un’area assai vasta; ma, come le questue, si legano ad occasioni diverse (maggio e San Giovanni, Ascensione e Pentecoste). Inoltre - a parte il loro significato generale che resta ancora dubbio - essi assolvono funzioni particolari diverse: nella Sardegna che ci descrivono La Marmora e Bresciani i fuochi di San Giovanni servivano tra l’altro a stringere il legame di comparatico tra ragazzi e ragazze che, postisi al di qua e al di là del falò ed afferrato alle opposte estremità un bastone, lo facevano passare tre volte sulle fiamme;

 

 

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Area di diffusione dei fuochi e falò cerimoniali di Carnevale-Quaresima e di San Giovanni, in Francia (da A.Van Gennep, Manuel de Folklore français contemporaine).

 

 

nella Scozia settecentesca i fuochi della vigilia di Ognissanti servivano tra l’altro a conoscere la buona o mala sorte dei partecipanti alla cerimonia, che disponevano un circolo di pietre attorno alle fiamme e presumevano che le persone rappresentate dalle pietre che al mattino dopo apparissero mosse o danneggiate non sarebbero vissuti piú di dodici mesi. Il comparatico di San Giovanni (e cioè quel legame di parentela speciale che si stabilisce con cerimonia particolare e indipendente da battesimi, cresime o nozze che nel mondo cristiano ufficiale sono le normali occasioni di creazione di «compari» e «comari») è noto nella vita popolare di moltissimi luoghi con identità o grande affinità di condizioni e di effetti; ma le modalità della cerimonia che genera la parentela sono assai diverse: nell’esempio sardo che abbiamo ricordato si ricorreva al fuoco, ma nella stessa Sardegna ottocentesca descrittaci dal La Marmora si usava anche realizzare il comparatico scagliando contro la porta di una chiesa un vaso di sughero in cui s’era fatto crescere al buio del grano; e altrove, per divenire compari di San Giovanni, occorreva, o occorre, strapparsi reciprocamente un capello, oppure saltare a turno da una sedia, oppure girare tre volte attorno ad un luogo sacro, ecc.

 

 

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Area di diffusione dei materiali da costruzione secondo P. Vidal de la Blache e F. Steinbach (da A. Bach, Deutsche Volkskunde. Heidelberg).

(Pietra - Legno - Terra - Interaiatura di travi con riempimento di mattoni intonacati)

 

 

L’uso delle maschere carnevalesche, in apparenza identico ovunque, assume invece caratteristiche diverse, quanto a morfologia delle maschere stesse e quanto a valore rituale o cerimoniale del loro impiego, a seconda che si tratti di centri urbani e di zone industrializzate o comunque evolute, oppure di zone agricole e contadine o comunque conservative: là le maschere sono in gran parte moderne e antropomorfe, e in ogni caso hanno perduto l’arcaico valore magico-religioso (la mascherata è un gioco di società, e per giunta prevalentemente infantile ormai) ; qui invece si conservano spesso forme assai arcaiche sia dal punto di vista delle figurazioni (spesso zoomorfe), sia da quello del valore rituale (basti pensare al kalogheros di Grecia, ai mamutones di Sardegna, ai korante sloveni, ai kukeri bulgari, e cosí via).

 

Le varietà e molteplicità di cui stiamo discorrendo possono prospettarsi anche dal punto di vista della distribuzione geografica. Vi sono credenze, cerimonie, usanze che hanno diffusione assai ampia, e altre che appartengono ad aree piú ristrette: i falò sono presenti quasi ovunque in Europa, ma le rotelle infuocate lanciate in aria in speciali occasioni cerimoniali (cídulis del Friuli, Scheiben d’Austria, šibe di Slovenia) sono caratteristiche di una zona assai piú ristretta; il salto delle fiamme è diffuso quasi quanto i falò stessi, ma la cerimonia del fire-walking, ossia del camminare a piedi nudi sulle braci ardenti, ci è documentata in Europa solo da rari esempi balcanici. Per passare a un diverso settore, taluni temi narrativi sono diffusi da un capo all’altro del continente, ed altri invece sono noti solo in aree determinate : la storia di Lord Randall che, recatosi a cena dall’amata, ne viene avvelenato e le lascia in testamento il fuoco dell’inferno o la corda per impiccarsi, conosce varianti in versi o in prosa in Inghilterra e in Scozia, in Italia e in Catalogna, in Germania e in Olanda, in Svezia e tra gli Slavi di Sassonia, in Ungheria e in Boemia (per non parlare delle già ricordate versioni raccolte in America) ;

 

 

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Antiche tecniche costruttive in Spagna e Italia: a sinistra, ripari di pietre sciolte della Nuova Castiglia; a destra, trulli di Selva di Fasano (Brindisi).

 

 

la storia della Donna Lombarda che, spinta dall’amante, tenta di avvelenare il proprio marito il quale però, insospettito, la costringe a bere per prima la bevanda mortale, non è nota solo in Italia (se ne conoscono anche versioni francesi e slovene), ma in ogni caso ha un’area di diffusione assai piú ristretta di Lord Randall.

 

Nel campo delle figure e dei segni, il già ricordato motivo ornamentale della rosetta si incontra su mobili, utensili, oggetti di ogni specie da un capo all’altro d’Europa; la donna con il petto scoperto e con tre mammelle di certi dolci rituali sembra presente solo in una limitata area italiana.

 

I limiti della diffusione di alcuni fatti coincidono talvolta con confini linguistici, storici o geografici abbastanza netti; talvolta invece sembrano ignorare ogni barriera naturale o culturale. Appartengono a questo secondo gruppo non solo i falò, le questue e le rosette ornamentali che abbiamo già ricordato, ma mille altri fatti di piú o meno analoga natura, tra cui i temi e i motivi favolistici non calati in forme metriche precise. Appartengono invece al primo gruppo le forme metriche dei canti o in genere della poesia: esse sono piú strettamente legate al fatto linguistico e allo sviluppo culturale di nazioni e regioni.

 

 

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Una osservazione analoga può farsi per i materiali, la struttura e la forma delle abitazioni o costruzioni in genere, che hanno un rapporto abbastanza stretto (anche se non sempre obbligatorio né esclusivo) con i fattori climatici e con l’ambiente naturale. La comunanza di vita storica che nasce dall’appartenenza a uno stesso gruppo etnico linguistico, oppure dalla partecipazione a una stessa vicenda politico-culturale, genera delle omogeneità che tendono a coincidere appunto con i confini di quella vita storica comune: cosi accade che anche elementi o temi diffusi ovunque acquistino lineamenti o sfumature diverse a seconda delle diverse aree storico-linguistiche.

 

Le varietà morfologiche, funzionali, geografiche si intrecciano in vario modo con le differenze di età storica. Non sempre determinabili in modo esatto e sicuro, queste differenze però appaiono spesso assai evidenti non solo tra gruppo e gruppo di fatti, ma anche tra fatto e fatto all’interno di una stessa categoria. Il folklore letterario (almeno per ciò che riguarda le sue manifestazioni metricamente organizzate) appare in genere e in prevalenza di origine piú recente che non il folklore magico-religioso : il grande corpo dei canti narrativi (ballate angloscozzesi, romanze spagnole, byline russe, canti epico-lirici italiani, ecc.) o lirico-monostrofici (strambotto e stornello italiani, copla spagnola, Schnaderüpfl dei paesi tedeschi, ecc.) ha origini tardo-medievali o addirittura moderne; la gran massa delle pratiche superstiziose invece sta piuttosto sul piano delle sopravvivenze assai arcaiche.

 

Ma se un settore appare genericamente piú o meno antico e conservativo dell’altro, ciò non toglie che poi all’interno di ciascuno di essi vi siano differenze notevolissime. Nel campo della narrativa i motivi favolistici, come hanno area di diffusione piú ampia, cosi in genere hanno anche antichità piú remota dei temi narrativi delle canzoni metricamente organizzate. Nel campo delle credenze e delle pratiche magico-religiose altra è l’arcaicità culturale dell’uso di difendersi dalle streghe ponendo all’ingresso di casa una scopa di saggina perché l’indesiderata visitatrice sia costretta a fermarsi per contarne gli steli, altro è il livello storico e culturale delle « formule di chiusura » (pur magiche anch’esse) che concludono tante preghiere popolari: Chi la dirà tre volte la sera, / non potrà morire senza candela; / chi la dirà tre volte la notte, / non morirà di mala morte; / chi la dirà tre volte nei campi, / non ha paura di tuoni e lampi.

 

Cosi pure per la musica : vi sono fenomeni ai quali - o per la struttura ritmica e melodica, o per l’ampiezza dell’area di diffusione - non si può non attribuire un’antichità notevole (particolarmente importanti, in questo senso, le formule musicali o quasi-musicali di ninne nanne e di lamenti funebri) ; ma vi sono anche canti e melodie che dichiarano l’influenza non solo del canto gregoriano ma addirittura delle composizioni culte ottocentesche.

 

Tra le danze vi sono quelle che conservano funzioni o elementi morfologici assai antichi (danze funebri o per la cura del morso della tarantola, «movimenti circolari del gruppo o ritmi parossistici dei singoli partecipanti, figurazioni di combattenti armati, ecc.) e vi sono quelle di origine recente e puramente coreografiche (le monferrine, i saltarelli, ecc.).

 

Nel campo figurativo poi taluni motivi decorativi o talune iconografie hanno probabilmente una origine remota: i simboli solari, ad esempio, trovano piú o meno evidenti riscontri fin nella preistoria

 

 

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(anche se la connessione diretta con quelle antiche età, e la continuità ininterrotta a livello popolare e senza interventi culti appaiono spesso assai problematici) ; la figura femminile con il petto scoperto e con tre mammelle dei dolci rituali calabresi, molisani o laziali non può non avere relazione con antiche iconografie della fecondità. Ma vi sono anche motivi ornamentali o figurazioni di cui è possibile individuare il rapporto assai stretto con fatti artistici del mondo medievale e moderno: fregi delle sponde dei carretti siciliani, ad esempio, che sembrano direttamente connessi con fatti di ornamentazione architettonica del periodo normanno; motivi di tappeti rustici umbri, di cui si rintracciano gli antecedenti nell’arte rinascimentale ; scene di tavolette votive dipinte o magari anche di zucche incise che dipendono dalla pittura (o dalla oleografia) dell’Ottocento, e cosi via.

 

Tra i fenomeni piú frequenti vi è la commistione o fusione di elementi di età storica diversa e di diverso livello culturale all’interno dello stesso fatto: nelle questue di maggio si hanno, anche in una identica zona, sia intenzioni cristiane (richieste fatte in nome delle anime purganti) sia residui di intenzioni magiche (legame esplicito tra la generosità dei donativi e la felicità futura dei donatori) ; sul cono d’erbe della pagliara molisana, che non ha certo origini cristiane, si colloca una croce, e il suo giro cerimoniale nel paese ha come punto obbligato di passaggio la casa del parroco ; sui menhir della Bretagna si trovano collocati, o dipinti, numerosi simboli cristiani, ecc. Commistioni analoghe mostrano altri fatti che abbiamo già menzionato: le procedure costrittive delle processioni per la pioggia, le formule di chiusura di certe preghiere, le « vanissime superstizioni » del Sinodo di Ferentino. Ma è superfluo continuare nell’enumerazione giacché il fenomeno, come abbiamo piú volte ripetuto, investe in sostanza tutti i fatti folklorici. Sarà piú utile invece considerare un po’ meno frettolosamente gli incontri, le commistioni ed i contrasti di concezioni di livello culturale diverso in due settori di notevole consistenza: quello detto del «ciclo della vita» e quello del «ciclo dell’anno». [4]

 

 

            Incontri e contrasti di concezioni lungo il « ciclo della vita ». Come è ben noto, gli eventi naturali della nascita e della morte, della pubertà e dell’accoppiamento, essenziali sul piano biologico, sono stati sentiti e vissuti come emergenti e critici anche sul piano della storia: da un lato come frontiere che si sollevano al di sopra della quotidianità della vita e ne distinguono le fasi, dall’altro - là dove predominino concezioni mitiche o mistiche del mondo - come punti o momenti di addensamento e di tensione delle forze magiche o della sacralità religiosa. E in effetti tutti i gruppi umani hanno costruito schemi di comportamento rituale e cerimoniale, o di semplice solennizzazione simbolica o celebrativa, per affrontare e dominare culturalmente il momento dell’immissione di un nuovo individuo nel gruppo o quello della sua scomparsa, la raggiunta maturità sessuale o il passaggio dal celibato alla vita coniugale.

 

Schematizzando e semplificando, in questo complesso di cerimonie possono riconoscersi due gruppi di intenzioni e di azioni. Da un lato ci sono le pratiche piú o meno direttamente riconducibili all’intenzione di dominare, governare, utilizzare le forze magico-religiose messe in movimento dall’evento: allontanamento delle influenze malefiche, propiziazione e incremento di quelle benefiche, previsione del futuro

 

 

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(sovente considerata essa stessa capace di produrre l’evento divinato). Dall’altro lato ci sono invece gli atti piú o meno sacrali ai quali è affidata la realizzazione culturale del passaggio da una condizione all’altra : senza questi atti l’evento naturale non potrebbe dirsi compiuto, né potrebbe essere socialmente riconosciuto.

 

La società moderna ufficiale, nelle manifestazioni che essa considera come sue proprie, è giunta all’eliminazione quasi totale delle pratiche dirette al controllo ed allo sfruttamento delle forze magico-religiose ; quanto poi alla serie degli atti che rendono culturalmente efficienti e socialmente validi gli eventi naturali della nascita, della morte ecc., essa li ha collocati sul piano della sacralità cristiana, ove addirittura non li abbia resi del tutto profani.

 

Ma le cose vanno diversamente in quel che chiamiamo mondo popolare. Anche li invero la funzione di rendere valido appieno ognuno degli eventi e dei passaggi è ormai affidata essenzialmente ai sacramenti cristiani o ai riti civili : l’immissione di un nuovo nato nella società dei redenti o in quella dei cittadini si realizza anche senza il bagno magico-cerimoniale del neonato, ma non senza il battesimo o senza la registrazione anagrafica del nome ; il vincolo matrimoniale è valido anche senza il complesso delle cerimonie domestiche tradizionali, ma non senza la sua celebrazione civile o religiosa, e cosi via. Tuttavia, nel mondo popolare, attorno ai riti ufficiali continuano ad esistere forme cerimoniali e pratiche magico-religiose che si legano a piú arcaiche concezioni: sono questi appunto i fatti folklorici, e cioè fatti indifferenti per la validità ufficiale — civile e religiosa - dei passaggi, e in genere rifiutati, o ridimensionati secondo una ideologia o un gusto cerimoniale diversi dalle classi colte, ma esplicitamente o implicitamente considerati necessari, se non addirittura indispensabili dai volghi.

 

Resistono innanzitutto le concezioni e le pratiche di carattere apotropaico, propiziatorio e divinatorio. Anche in zone evolute, ancor oggi la nascita è preceduta, accompagnata o seguita da numerose osservanze tradizionali di questo tipo : pratiche medico-magiche dirette a vincere la sterilità, che talora sono state trasferite sul piano del culto cristiano, ma che sovente restano ancora legate a concezioni arcaiche sul potere magico delle acque e simili; cautele usate verso la donna perchè nella critica fase della gestazione non subisca danni che si ripercuoterebbero sul nascituro (oltre alle ben note credenze sulle « voglie », si pensi al pericolo rappresentato da corde, lacci, nodi), e perché la sua carica di forza magica non agisca a danno di altri; previsioni sul sesso del nascituro o predizioni sul suo destino, e mille altre osservanze arcaiche talvolta divenute rare e singolari (come ad esempio quella della « fuga » cerimoniale del marito al momento del parto), talvolta invece diffusissime e intense (come quella degli amuleti che a dispetto di tutte le secolari interdizioni ecclesiastiche continuano ad essere collocati tra gli abiti del battezzando). Sono concezioni e pratiche che, come mostrano gli amuleti or ora ricordati, si intrecciano strettamente anche all’atto sacramentale essenziale : questo dunque costituisce ormai il nucleo indispensabile e dominante (è esso solo che da turco, come in certe zone ancora si dice, fa diventare cristiano), ma non riesce a liberarsi dalla convivenza con atteggiamenti assai diversi e addirittura contrastanti.

 

Giustapposizioni e intrusioni analoghe si hanno anche per le nozze: basti pensare che questo o quel modo di comportarsi dei protagonisti durante la cerimonia sacra è ritenuto capace di assicurare all’uno o all’altro il predominio nella futura vita coniugale.

 

 

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L’orso è ancora protagonista di molte cerimonie carnevalesche: la «bestia » e i suoi accompagnatori in una mascherata della Carniola Inferiore (Slovenia).

 

A destra in alto: Maschere tradizionali di Rottweil (Württemberg), portate in occasione della festa detta Narresprung, o « Salto dei Matti ».

 

Una maschera carnevalesca del Carso sloveno

 

I mamutones sardi di Mamoiada (Nuoro) costituiscono un singolare esempio di quell’impiego di pelli e di campanacci nelle maschere carnevalesche che è ancora largamente diffuso in Europa.

 

 

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E si potrebbero elencare facilmente numerose pratiche che conservano in modo piú o meno evidente un carattere scongiuratorio o propiziatorio o di previsione: dalla scelta dei giorni fausti, agli spari o scoppi un tempo chiaramente apotropaici; dal lancio di manciate di grano, riso, monete, confetti, che propiziano ogni abbondanza, agli auspici che si traggono da questo o quell’incidente della cerimonia, ecc.

 

Ma per le nozze - e intendiamo tutta la successione di fasi che vanno dalla « richiesta » alla celebrazione del rito e ai successivi adempimenti - anche la serie di atti che realizza il « passaggio » e rende socialmente valido l’evento ha conservato una sua notevole organicità. Vero è che delle antiche forme di celebrazione del matrimonio restano solo alcune tracce (il « toccamano », che ricorderebbe la dexterarum coniunctio, o certe « fughe » o certi « ratti », che sarebbero l’estremo residuo di antichi istituti matrimoniali, ecc.) ; vero è pure che oggi, in genere, queste tracce si trovano collocate fuori della fase sacramentale culminante; vero è infine che rarissimi sono ormai i casi in cui la consumazione del matrimonio diviene legittima in forza di cerimonie domestiche di cui il rito ufficiale costituisce solo una conferma. Tuttavia le osservanze non ufficiali costituiscono ancora una serie ben ordinata e ben precisa di momenti : un vero e proprio cerimoniale domestico entro cui la celebrazione ufficiale religiosa o civile si trova come stretta da ogni parte e, per cosi dire, inglobata. In moltissime zone, anche evolute, la precede infatti una ben ordinata successione di atti cerimoniali o addirittura rituali: dal trasporto pubblico del corredo alla preparazione del letto nuziale, dalla vestizione della sposa al corteo che accompagna l’uomo che va a rilevarla ed a quello che scorta ambedue in chiesa. Seguono poi al rito ufficiale, e completano la sequenza, il corteo di ritorno; gli sbarramenti che esso (se non li ha incontrati prima) trova ora lungo la strada (corde o nastri che vengono rimossi solo dietro pagamento di un pedaggio piú o meno simbolico); l’accoglienza cerimoniale che la suocera fa sulla soglia della casa maritale, con l’eventuale consegna alla nuora di oggetti simbolico-rituali (rocca, pane e sale, chiavi, ecc.), ed anche con la recitazione di formule stereotipe, talvolta dialogiche ; il « salto » della soglia ; il pranzo, con eventuale compimento di gesti di significato anche oggi assai evidente almeno sul piano simbolico (bere nello stesso bicchiere, ad esempio), o di piú riposta motivazione (rottura della focaccia o della scodella) ; i discorsi o i canti che oggi appaiono, e sono, soltanto allusivi (si pensi al noto canto della Cena della sposa con la sua trasparente simbolizzazione della fame amorosa della fanciulla che ingigantisce di sera in sera), ma che un tempo trovavano precisa collocazione nel cerimoniale anche osceno, di incremento della fecondità, ecc.

 

A ben guardare, il complesso di questi atti e la loro ordinata successione costituiscono una vera e propria rappresentazione cerimoniale. Talvolta questo carattere è sottolineato perfino dal nome: in alcune parti della Russia il rito nuziale è generalmente detto svadebnaia igra, e cioè rappresentazione di nozze. Inoltre ogni fase della sequenza cerimoniale costituisce chiaramente un atto dell’azione drammatica, e molti di questi atti, a loro volta, sono altrettante piccole azioni drammatiche :

 

 

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cosi il « pianto » cerimoniale della sposa o delle lamentatrici professionali e retribuite, cosi i dialoghi sviluppati in formule tradizionali e con parti diverse assegnate ai diversi gruppi, cosi i canti strettamente legati alle singole fasi (vestizione della sposa o preparazione del letto nuziale), di cui si hanno esempi in molti luoghi e in particolare nelle zone slave. Analogo carattere presenta la ricerca della « sposa che si nasconde » dei paesi dell’Europa settentrionale, o il dialogo tra i rappresentanti dei due gruppi familiari (dialogo spesso affidato all’improvvisazione, ma su trame ben precise : la sposa è un’agnella o una colomba ; lo sposo la chiede, mentre i parenti della sposa la negano, ecc.) della nota pricunta gallurese in Sardegna o degli analoghi usi di Parenzo o di Pola.

 

Il notevole grado di conservazione del complesso delle cerimonie domestiche di nozze è dunque evidente: sembra che la natura sostanzialmente gioiosa dell’occasione abbia consentito alle ideologie piú moderne delle nozze (e in particolare a quella cristiana) di dissacrare le piú arcaiche forme cerimoniali o rituali senza per questo dover giungere a distruggerle. Non che sia mancata un’azione diretta ad estirpare del tutto gli abusi piú o meno gravi e significativi, ovunque avvenissero: l’editto che il cardinale Vincenzo Maria Orsini, poi divenuto Benedetto XIII, emanò nel 1704 per la sua diocesi di Benevento, vietava « le cantilene che sogliono farsi da due zitelle in atto che gli sposi escono di casa fino al ritorno nella stessa casa », e proibiva « parimenti l’abuso che, posta sulla mensa nuziale la focaccia grande, sia poi rotta sul capo di uno, et indi distribuita agli sposi, e contragga con loro affinità spirituale, come azione per tali circostanze superstiziosa, vana ed incapace di cagionare l’affinità spirituale ». Ma in genere, per i fatti meno rilevanti o per quelli piú resistenti alle proibizioni, l’azione si è volta soltanto a separare il sacro dal profano, limitandosi a vietare che le pratiche condannate venissero effettuate in chiesa, e implicitamente lasciandole vivere fuori dell’area sacra e del momento sacramentale : cosi infatti il cardinale Orsini a proposito del lancio di confetti ed altro stabiliva « che in chiesa non si buttino cose dolci né fettucce, né quattrini nell’atto che si celebra il matrimonio, né prima né dopo, sempre che si sta in chiesa », rinunciando cosi alla pretesa di vietare quel lancio anche « nell’entrata della sposa in casa », come invece aveva fatto il già ricordato Sinodo di Ferentino. Cosi le cerimonie precristiane delle nozze hanno potuto in gran parte vivere, trasferendo piú o meno integri i loro antichi valori dal terreno della sacralità a quello della festosità e della solennizzazione : della gioia profana che, per le nozze, non contrasta decisamente con l’ideologia cristiana.

 

Il contrasto ha assunto invece caratteri di forte drammaticità per la morte. L’ideologia cristiana del « passaggio ad un mondo migliore » considera la morte come un momento di liberazione e di gioia: essa dunque può concedere alla debolezza degli affetti umani solo la mestizia o un dolore contenuto e illuminato dalla speranza. Gli affetti e le necessità di vita soffrono invece l’evento del distacco come lutto e disperazione. Se l’Apostolo ammonisce che non bisogna rattristarsi al modo dei pagani « che non hanno speranza », la donna che piange la perdita della « trave che reggeva la casa » impreca: « Cristo, che cosa mi hai fatto! ». Inoltre è evidente che per i funerali non poteva attuarsi una distinzione tra cerimoniale domestico e rito religioso cosi netta come per le nozze :

 

 

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Ragazze slovacche che « portano la morte », raffigurata da una pupattola in costume tradizionale, durante una delle cerimonie stagionali di «espulsione» ancora frequenti nel mondo contadino europeo.

 

 

i cortei o i pranzi nuziali non contengono alcun elemento sacro, e la liturgia ufficiale può disinteressarsene in gran parte; tutti i momenti della sequenza funeraria (in casa o in chiesa, al cimitero o negli anniversari) sono invece resi sacri dalla presenza del morto, e sono quindi ufficialmente disposti e regolati dall’ideologia e dalla liturgia cristiane della morte. Di qui un decisivo contrasto che nella lotta contro la lamentazione funebre, e nella ostinata resistenza di quest’ultima alle millenarie condanne civili ed ecclesiastiche, ha avuto il suo episodio piú evidente ma non unico.

 

Ritroviamo attorno alla morte credenze ed osservanze assimilabili, per le concezioni che implicano, a quelle della nascita o delle nozze : segni premonitori (dal ben noto canto della civetta agli scricchiolii improvvisi, dai sogni di uva nera o di uova marce alle coincidenze tra un funerale ed un matrimonio ecc.) ; pronostici (un morto che non si raffredda o che resta con gli occhi aperti preannuncia un altro decesso) ; mezzi per alleviare o abbreviare l’agonia (dare un certo orientamento al letto o collocare un giogo al capezzale, togliere il cuscino di piume o uccidere un gallo) ; divieti o tabu (non spazzare la casa o non accendere il fuoco, non cucinare o non fare il bucato), e via dicendo.

 

Alcune pratiche si legano ad arcaiche concezioni della morte: essa è spesso concepita come una forza che contagia e dalla quale occorre purificarsi con mezzi appropriati (per esempio con il lavarsi le mani in un ruscello al ritorno da un funerale). Altre concezioni sono piú prossime a quelle ufficiali del cristianesimo: si immagina la morte come una separazione tra corpo e anima, ma l’anima viene concepita in modo assai corposo e ingenuamente antropomorfico: occorre spalancare le finestre perché possa uscire. Talvolta si hanno invece vere e proprie personificazioni di carattere medievale: è famoso l’Ankou di Bretagna, un essere maschile che, armato di frusta, guida la scricchiolante carretta, e che talvolta annuncia un prossimo decesso, talvolta uccide, talvolta trasporta i cadaveri; e ben noto e anche il « carro dei morti » del folklore irlandese.

 

Alla concezione antropomorfica dell’anima e dell’oltretomba si legano i residui di antiche pratiche: la scodella dei morti che si poneva nella bara in talune regioni francesi; gli oggetti d’uso personale che ancora oggi vi si depongono nel mezzogiorno d’Italia; la moneta che in molti luoghi si colloca in tasca (o anche in bocca) al morto, sia essa concepita o no come pedaggio da pagare nell’oltretomba.

 

Là dove l’organismo familiare ha conservato piú fortemente i caratteri di gruppo patriarcale vasto e unitario, il rito domestico ha mantenuto una piú accentuata autonomia.

 

 

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Valga per tutti l’esempio della Corsica ottocentesca di Prosper Merimée e di Ferdinand Gregorovius: il morto esposto sulla tola (tavola) in una stanza della casa, i parenti e gli amici disposti in corteo (la scirrata), rincontro con i parenti giunti da altri paesi e la gridata, il caracollo delle lamentatoci che, urlando e percuotendosi il petto e strappandosi i capelli, furiosamente girano attorno alla tola, e poi la lamentazione (il vòcero) delle parenti, particolarmente accesa ed eccitatrice alla vendetta nel caso di morte violenta. Del rito domestico fa parte anche il pranzo funebre che in varie località è ancor oggi un vero e proprio banchetto da cui non è esclusa la giocondità (e talora oscenità) rituale, che affonda le radici in arcaiche concezioni di reintegrazione del gruppo mutilato di un suo componente.

 

Come momento centrale di questo cerimoniale antitetico a quello ufficiale, e come espressione piú evidente di un’ideologia della morte assai arcaica, la lamentazione funeraria è stata il punto di scontro piú forte, e non solo nella civiltà cristiana né solo per ragioni di ideologia religiosa: l’hanno combattuta infatti (naturalmente con motivazioni e intenzioni storicamente diverse) cosi la Bibbia come le leggi civili di Solone, tanto le Dodici Tavole quanto i Padri della Chiesa e i concili o i sinodi, sia gli organismi politici dotati di potere coercitivo (oltre i ricordati, ci sono nell’elenco anche gli Statuti comunali e molte legislazioni regie), sia gli orientamenti di gusto di privati (di cui la lettera di Petrarca già rammentata costituisce solo un episodio). E tuttavia la resistenza del costume, anche in modalità nettamente arcaiche sia di gesti sia di espressioni verbali, è stata fortissima e continua ancor oggi in molti luoghi.

 

Ma la durezza dello scontro frontale, che in numerosissime zone geografiche o sociali ha portato alla scomparsa totale della costumanza, non ha mancato di attenuarsi reciprocamente.

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Gli ex-voto in ferro delle regioni centro-europee hanno caratteri notevolmente arcaici: un animale votivo del XIX sec. (Cecoslovacchia). - I pani e i dolci vengono sovente modellati (amano o con stampi) per particolari ricorrenze cerimoniali. Cavalli e carrozza di pasta della Boemia, XIX sec.; anche le uova pasquali vengono decorate con motivi tradizionali.

 

 

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Per le concessioni da parte del mondo egemonico, all’esempio già fornitoci dalla posizione del Petrarca, basti qui aggiungere quello di un sinodo, notevole anche perché abbastanza recente: è quello di Anagni del 1805, che condanna al solito la lamentazione funeraria, ma tuttavia concede che essa abbia luogo tra le domestiche mura dove le « donnicciole », pur con la raccomandazione di moderarsi, « potranno lamentarsi e piangere a loro arbitrio ». A documentarci invece il reciproco cedimento delle concezioni e dei comportamenti arcaici stanno non solo le forme attenuate in cui il cordoglio viene oggi praticato in molte zone, ma anche la chiara inclusione nei testi del pianto di elementi di rassegnazione cristiana, e soprattutto il comporsi dell’espressione in forme metriche piú prossime a quelle abituali nella nostra cultura e con intenzioni commemorative o celebrative che piú non contrastano con i modi di dolore che la nostra società accetta e riconosce; dice un pianto di Mascioni in Abruzzo (e adattiamo un poco le forme troppo dialettali) : « O Pè, / che fa’ che non revè ! / Repassa giú alle prata / Repiglia la cavalla / Riviettene a Mascioni ». [5]

 

 

            Sacralità precristiana e cristianesimo in alcune cerimonie del « ciclo dell’anno ». Quando il cristianesimo iniziò la propria azione espansiva, di cui l’introduzione di un nuovo calendario di tempi sacri costituisce un momento ideologico-organizzativo di essenziale importanza, esisteva già un articolato complesso di cerimonie e di riti diretti a garantire il regolare svolgersi dei cicli astronomici e stagionali, ad assicurare la fecondità dei raccolti, a realizzare culturalmente o a solennizzare i passaggi da una fase all’altra dell’anno. Questo piú antico calendario di azioni rituali e cerimoniali, che i cristiani sommariamente dissero pagano, s’era venuto formando e consolidando attraverso centinaia di anni, ed era già ricco per suo conto di stratificazioni storiche e di articolazioni per zone culturali. Le sue forme greco-romane ne costituiscono solo un aspetto: al fondo restavano presenti elementi piú antichi, nati nel quadro dei tempi e delle necessità di una vita agricola elementarissima e di una arcaica ideologia magico-religiosa ; e c’era poi tutta la vasta zona dei popoli non grecizzati nè romanizzati. L’urto tra il mondo cristiano e il mondo pagano, o meglio la serie di urti esercitatasi per un tempo assai lungo e su aree culturali molto diverse tra loro, ha dato luogo necessariamente ad un’estrema varietà di risultati, condizionati anche dal passaggio del cristianesimo dal suo momento subalterno-rivoluzionario a quello egemonico e d’ordine. Di qui il complesso panorama di sovrapposizioni, contaminazioni, sincretismi che ci offrono le cerimonie e i riti folklorici del «ciclo dell’anno ».

 

È questo uno dei terreni piú ampi e ardui della ricerca. Proprio sui fuochi di - maggio o di Ognissanti, sull’acqua di San Giovanni o dei riti pluviali, sulle questue di Capodanno e di Carnevale, sui rami e sugli alberi di maggio o di Pentecoste, sulle maschere carnevalesche o di altri riti agrari ecc., si è appuntata infatti l’attenzione documentaria e ricostruttiva dei piú impegnati ricercatori (Mannhardt e Frazer, per non nominare che questi), nei loro complessi e ardimentosi tentativi di identificare antichi culti solari, spiriti degli alberi, sistemi organici di concezioni magiche, ecc.

 

 

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I « giganti processionali » e il mito dei Giganti: distribuzione delle attestazioni e linee di propagazione (secondo K. Beitl, Umgangsriesen, Vienna 1961, carta 4).

 

 

Si aggiunga che su questo stesso terreno si è mossa in parte anche la discussione (sovente piú apologetica che non scientifica) circa la derivazione o meno di culti e luoghi sacri cristiani da culti e luoghi sacri pagani (è evidente infatti l’importanza del tema e dei relativi documenti folklorici per la discussione cattolico-protestante sul culto mariano o su quello dei santi).

 

Ma la ricostruzione e l’interpretazione delle forme religiose originarie, o la genesi di questo o quel culto cristiano costituiscono solo alcuni aspetti del problema proposto dalle concezioni e dai comportamenti folklorici lungo il ciclo dell’anno. C’è un altro aspetto che piú direttamente ci riguarda; per usare le parole stesse con cui un dotto padre bollandista, H. Delahaye, riconosceva il fenomeno, è il problema della « persistenza, in mezzo alle popolazioni cristiane, di certe usanze di origine molto antica in opposizione dichiarata alle credenze o alla morale del cristianesimo ». La Chiesa,prosegue Delahaye, «non ha smesso mai di combattere, variando la sua tattica e con diverso successo, queste superstizioni che sono una eredità dei nostri antenati pagani ». Esse tuttavia persistono anche se « in generale non hanno alcun legame con il culto pubblico » ; e « per un caso fortuito », dice Delahaye, « si trovano mescolate a pratiche religiose regolarmente approvate » oppure sono « accoppiate al nome di un santo », anche se ciò « non vuol dire che abbiano ricevuta alcuna consacrazione ». Il problema è appunto quello dei modi di questa opposizione dichiarata, delle forme di queste mescolanze, e di questi accoppiamenti, del carattere fortuito o meno della loro esistenza, e dei successi o insuccessi della tattica impiegata.

 

 

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Da questo punto di vista, accantonando qui problemi piú grossi (siamo di fronte ad uno dei fatti centrali della storia culturale europea) e restringendoci ad una schematicità addirittura scheletrica, può dirsi che i fenomeni verificatisi in rapporto alla successione di urti pagano-cristiani siano piú o meno i seguenti : introduzione di nuove solennità sacre che piú o meno casualmente o intenzionalmente coincisero o non coincisero con date già sacre del mondo precristiano; dissacrazione totale di tempi sacri precristiani che o furono cancellati del tutto dal ciclo delle solennizzazioni o vi rimasero con puro carattere di festa profana; cristianizzazione di tempi sacri precristiani resa necessaria dalla loro troppo radicata vitalità; persistenze, in forme per nulla cristianizzate, di riti legati a concezioni e tempi precristiani.

 

In altri termini l’antico calendario è stato sostanzialmente disorganizzato, ma il nuovo, nella zona folklorica, non è riuscito ad eliminare del tutto né le date né le forme celebrative né le concezioni soggiacenti. Si aggiunga che le stesse forme celebrative cristiane hanno avuto Una loro evoluzione, ma non senza che molte aree geografiche o sociali si attardassero sulle forme antiquate.

 

La varietà storico-culturale di questi fenomeni, e il loro complicato intreccio morfologico e ideologico, si riflettono anche in talune catalogazioni schematiche delle cerimonie folkloriche del ciclo dell’anno, costruite per ragioni evidenti di comodità espositiva. Si veda ad esempio la classificazione (abbastanza ragionevole e comoda, quando si tenga conto delle numerosissime intersezioni tra un gruppo e l’altro) che Van Gennep ha proposto nel corso del suo Manuel, in parte modificando il suo precedente inventario della materia di cui abbiamo già riferito. In questo schema dunque si distinguono le « cerimonie cicliche » da quelle « calendariali » e da quelle « agricole ». Nel primo gruppo si collocano le cerimonie che vengono eseguite durante periodi di tempo piú o meno lunghi e piú o meno corrispondenti alle stagioni ; e vi si distinguono un ciclo della fine d’inverno (o di Carnevale-Quaresima), uno dell’inizio di primavera (o di Pasqua), uno di primavera (o di maggio), seguiti da quelli del solstizio d’estate (o di San Giovanni), di mezza estate (o di ferragosto), d’autunno o preinvernale (la cui esistenza effettiva è piú problematica degli altri), e infine, a chiudere il ciclo astronomico e stagionale, da quello invernale o dei Dodici Giorni (che va da Natale all’Epifania}; Le « cerimonie calendariali » invece si succedono secondo l’ordine del calendario solare e si eseguono di regola in un solo giorno o piú raramente in due (vigilia e festa vera e propria) : è questo il gruppo delle feste patronali, di quelle dei santi e del culto mariano. Alla categoria delle « cerimonie agrarie » appartengono infine le celebrazioni o i riti che hanno rapporto con i lavori agricoli (semina, fìena' gione, mietitura, vendemmia ecc.) e non con i cicli o con il culto dei santi.

 

Di là dal necessario formalismo dello schema, si colgono elementi concreti. Se ben si guarda, infatti, le cerimonie dette calendariali (alle quali però vanno aggiunte, per questo rispetto, alcune cerimonie cicliche e in particolare quelle pasquali) costituiscono un gruppo di origine essenzialmente cristiana o quanto meno cristianizzato, e per giunta di data abbastanza recente. Le feste patronali o quelle mariane, e il ciclo pasquale, offrono infatti all’esame piuttosto varietà che non profondi dislivelli di cultura.

 

 

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Ciò in linea generale e con le debite eccezioni. Non mancano infatti le assunzioni di componenti precristiane, e si incontrano vari elementi che non appartengono (o non appartengono piu) alle concezioni e alle pratiche ufficiali.

 

Vi sono per esempio feste per santi del tutto leggendari, che la Chiesa tollera, ma che talvolta rifiuta (come dice il recente caso della sconfessione di Santa Filomena). Vi sono poi leggende su reliquie di santi e di martiri ufficialmente riconosciuti e storie di ritrovamenti e traslazioni miracolose, che hanno struttura talmente identica tra loro che non possono non essere il frutto di fantasia che elabora e adatta elementi tradizionali diffusissimi (per fare un esempio, tra i luoghi comuni piú ricorrenti c’è quello della scelta, che le reliquie operarono, del luogo di venerazione mediante arresti miracolosi del carro o della nave che le trasportava). Vi sono infine forme e modi delle celebrazioni che appaiono piú o meno distanti dalla norma attuale : si pensi alle processioni scenografiche o ai resti di sacre rappresentazioni della Settimana Santa (è appena il caso di ricordare che le sacre rappresentazioni, una volta facenti parte delle cerimonie ufficialmente accolte, vennero in seguito condannate dalla Chiesa). È insomma questo il terreno piú proprio del particolarismo paesano o regionale, come quasi sempre avviene per fatti di origine tardo-medievale o rinascimentale (i carri sacri o i misteri di tante processioni, non meno dei carri profani di talune celebrazioni carnevalesche).

 

Ma esistono anche forme celebrative di meno prossimo livello culturale. A Sèdilo, in Sardegna, la festa di San Costantino (un santo ignorato dalla Chiesa occidentale, ma riconosciuto da quella orientale) culmina in una scenografica e furiosa corsa di cavalieri (l’ărdia) attorno alla chiesa; le feste patronali di San Giorgio a Cesana (Vercelli) ed a Chieuti (paese albanese di Puglia), quelle di San Leo a San Martino in Pensilis (Molise), quelle del Legno della Croce e della Madonna di Costantinopoli a Ururi e a Portocannone (paesi albanesi del Molise) sono celebrate con corse di buoi aggiogati a carri, là eccitati dal vino, qui spaventati da scoppi e spari e pungolati a sangue. Non deve credersi che in questi casi la corsa sia una forma di festosità slegata dal culto del santo, e sostituibile con altre forme qualsiasi, come pur avviene in molti casi. Si tratta invece di elementi insopprimibili del culto popolare del santo. A San Martino in Pensilis, alla vigilia della corsa, i partecipanti si recano alla porta della chiesa per laudare, e cioè per cantare un inno in cui il santo patrono si trova ad essere esaltato ed onorato assieme alla primavera che «ci rinnova il mondo ». E la corsa in sé è legata alla pia leggenda del miracoloso ritrovamento delle reliquie, e dei buoi che, trasportandole, si arrestarono a San Martino prescegliendolo tra altri paesi contendenti. Del pari a Cesana la corsa celebra un miracolo di San Giorgio; a Sèdilo (ma la spiegazione è alquanto dotta e non sapremmo dire quanto sia antica e tradizionale) la corsa dell’ ărdia ricorderebbe addirittura e la vittoria di Costantino su Massenzio e il trionfo della fede. Cosi la celebrazione di santi cristiani avviene in forme particolari che non appartengono alle modalità ufficiali né liturgiche né profane, anche se non contrastano (o non contrastano più) con esse, e sono tollerate. Ma resta in fondo qualche eco arcaica: non si può infatti dimenticare che le celebrazioni ricordate - tutte disposte tra la fine di aprile e i primi giorni di maggio - hanno un carattere agonistico che si ritrova nelle feste primaverili piú arcaiche.

 

 

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Processione dei «giganti» a Douai, in Francia.

 

 

Ma le persistenze pagane o superstiziose o come altro dir si voglia hanno piú vaste manifestazioni nel gruppo delle cerimonie agrarie e in molti aspetti delle cerimonie cicliche che ad esse si riconnettono (il maggio, ad esempio, o manifestazioni carnevalesche fortemente cerimoniali di molte zone conservative). Tra i piú noti esempi di queste persistenze c’è quello dell’«ultimo covone ». Diffusa soprattutto nelle isole britanniche, nell’Europa centrale e presso certi popoli slavi, questa usanza della mietitura (vitale ancora in tempi assai recenti) consiste in un trattamento cerimoniale riservato alle ultime spighe di un campo già tutto mietuto: queste spighe, che costituiranno appunto l’ultimo covone, venivano (o vengono) recise con procedure particolari (per esempio percuotendole prima del taglio per cacciarne la « madre del grano », oppure lanciando a gara i falcetti di lontano, oppure contrassegnandole fin dall’inizio del lavoro nel campo e facendole alla fine tagliare dal mietitore piú giovane, ecc.). Analoga cerimonialità per legarle (con nastri e fiocchi, appesantendole con pietre, foggiandole in forme di fantocci o di animali, ecc.), per trasportarle (con l’ultimo carro sul quale deve sedere anche il mietitore che le ha tagliate, oppure a mano da un mietitore che viene burlato dagli altri), per conservarle (appendendole al muro in casa e distribuendone i chicchi ai mietitori della stagione successiva). Diverse tra loro, ma tutte cerimoniali, talune destinazioni speciali dell’ultimo covone : ora furtivamente gettato in un campo vicino da uno dei mietitori che, se scoperto, veniva denudato e battuto, ora invece bruciato oppure gettato in acqua, ecc.

 

 

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Tradizionale rappresentazione di San Nicola in un villaggio austriaco.

 

 

Si aggiunga che l’ultimo covone ha sovente denominazioni precise e caratteristiche (la Vecchia, la Nonna, la Strega, la Vergine ecc.), e che spesso gli si attribuisce il compito di predire e assegnare un destino immediato o lontano, negativo o positivo (chi l’ha tagliato, o chi lo riceve in sorte, viene dileggiato e deriso, oppure sposerà entro l’anno, e cosi via).

 

Quali che siano le interpretazioni generali di questo complesso di cerimonie (e ve ne sono varie: spirito del grano, sacrificio di divinità agraria, ecc.), cer a è però la loro originaria ritualità non cristiana; e le tracce restano forti ed evidenti anche là dove la costumanza abbia preso tonalità di gioco e scherzo (tonalità che del resto non contrasta necessariamente con la sacralità di tipo arcaico). Cerimonie dello stesso genere (e se ne ritrovano moltissime nel gruppo delle feste cicliche, quali, tra mille, il « cacciare il marzo » con grida e rumori, o il salutare il maggio con canti e questue e personificazioni) stanno aH’estremo ideologico e culturale piú lontano da quello rappresentato dalle feste introdotte ex novo dalla liturgia cristiana o da essa cristianizzate: costituiscono i frammenti, mai ufficialmente riconosciuti, del calendario sacrale precristiano. Ma, per ridurre almeno un poco la scheletrica schematicità di queste osservazioni, occorre aggiungere che anche queste cerimonie piú arcaiche e non riconosciate in alcun modo dalla liturgia cristiana hanno talvolta subito un processo di commistione con il cristianesimo. Bastino due esempi che ci mostrano due diverse modalità di questa commistione.

 

Il primo esempio è un caso di quasi integrale cristianizzazione (sia pure a livello popolare e senza riconoscimento ufficiale) della cerimonia arcaica dell’ultimo covone.

 

 

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In Alsazia infatti, giunti all’ultimo ciuffo di spighe, i mietitori inginocchiati recitavano (o recitano) tre Pater e tre Ave, seguiti dalla formula altrettanto canonica del segno della croce («In nome del Padre» ecc.), pronunciata nel momento di tagliare le spighe; le quali poi, legate in forma di croce e benedette in chiesa, venivano (o vengono) conservate in casa cosi come si conservano le palme pasquali.

 

Ben diverso è invece il caso del gioco detto del Bon Jesús praticato un tempo dai mietitori in Catalogna. Un mietitore, al centro del circolo formato dai suoi compagni, cantava : « Il Buon Gesù / molto forte lo legarono », e il coro rispondeva : «Poco gli fecero». Il cantore proseguiva elencando tutti i maltrattamenti e tormenti della passione fino alla crocifissione e all’aceto e fiele, ottenendo sempre lo stesso commento del coro : « Poco gli fecero ». Infine chiedeva cosa mai si volesse di piú perché Cristo fosse meglio martirizzato, e la risposta era: « Che lo ammogliassero ». Ad ogni replica del coro i mietitori del circolo si passavano di mano in mano una brocca; chi si trovava ad averla al termine del canto diventava il Bon Jesús, oggetto delle burle e degli scherzi di tutti i mietitori. Tra l’altro uno dei suoi compagni, travestito da donna e fingendo di essere sua moglie, lo invitava a comportarsi seco « intimamente », mentre il gruppo incitava e aizzava. Inoltre se il Bon Jesús era giovane, gli si cercava una sposa tra le ragazze delle case circostanti: la coppia doveva abbracciarsi e, in mezzo al chiasso ed ai lazzi, era spinta a comportarsi « come fanno i fidanzati e oltre ». L’irriverenza del gioco è solo un aspetto assai superficiale e secondario del particolare carattere di questa contaminazione pagano-cristiana; la connessione (appena accennata, ma visibile) tra passione del grano e Passione del dio fatto uomo, la designazione a sorte della vittima degli scherzi, l’esistenza stessa di una tale vittima, l’affiorante licenziosità della seconda parte del gioco, sono elementi evidenti e chiari che indicano piuttosto una paganizzazione del personaggio sacro cristiano che non una cristianizzazione del cerimoniale arcaico.

 

Forme e gradi assai diversi di mescolanze o sincretismi sarebbero larghissimamente documentabili anche dalle cerimonie « cicliche » che comprendono le solennità piú importanti del calendario cristiano. Vi sono casi di coincidenze (e integrazioni) di tempi sacri pagani e cristiani. Il ciclo invernale o dei Dodici Giorni comprende tanto il Natale e l’Epifania, cristiani, quanto il Capodanno, che evidentemente continua le piú antiche Calende di gennaio (e fu perciò combattuto a lungo) ; né può non riconoscersi, in fondo, la sostanziale coincidenza del ciclo con il solstizio invernale. A sua volta la celebrazione cristiana di San Giovanni coincide con quella piú antica del solstizio d’estate; né le pratiche folkloriche della vigilia e del giorno festivo vero e proprio possono considerarsi indipendenti dalle antiche cerimonie.

 

In altri casi invece, come già abbiamo accennato per le cerimonie agrarie, non si è avuta una vera e propria integrazione del ciclo nel calendario cristiano: cosi per il maggio e cosi per il carnevale. E quindi le antiche forme continuano a vivere indipendenti, talora conservando in notevole grado l’antica cerimonialità e ritualità (come è per molte forme del maggio, e come è per tante cerimonie carnevalesche: uccisione del carnevale, sega della vecchia, maschere zoomorfe, cerimonie a sfondo agrario di associazioni giovanili, soprattutto nella penisola balcanica slava e non slava ecc.).

 

 

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Altre volte si è avuta invece una quasi totale dissacrazione: ci si sovviene subito dell’esempio assai facile ed evidente del carnevale cittadino; ma c’è anche quello della discesa di antiche pratiche dal mondo cerimoniale degli adulti a quello dei giochi dei ragazzi (sono essi, ad esempio, che oggi « cacciano il marzo », almeno in Italia). Un evidente caso di dissacrazione totale ci è offerto poi dalle strenne di Capodanno : esse - assieme all’adornar la casa con rami verdi per la stessa occasione - furono duramente condannate dai piú antichi concili e dai Padri della Chiesa, perché connesse con Giano e con Strenia e quindi assolutamente diaboliche. Tuttavia resistettero nell’uso, pur perdendo in gran parte l’antica intenzione; ed è cosi che in seguito, guardando alle intenzioni, si poteva stabilire che se qualcuno avesse inviato o ricevuto strenne come auspicio certo di prosperi eventi avrebbe commesso peccato mortale; solo veniale se le avesse intese come auspicio incerto e semplice augurio di bene futuro; nessun peccato infine se le avesse scambiate solo come segno di affetto e di amicizia. E come tali appunto esse restano ancor oggi, almeno in larga parte della società, pur se non va dimenticato che le questue cerimoniali del mondo folklorico conservano qualche traccia dell’antico valore. Si hanno infine anche casi di riconsacrazione in senso cristiano di date sacre precristiane a lungo combattute. Ce ne offre un esempio chiaro ancora il Capodanno. Rifiutato polemicamente dai primi cristiani che opponevano il loro digiuno ai banchetti pagani in onore di Giano, fu a lungo escluso dal novero dei giorni sacri (perché onorarlo, scriveva un Padre della Chiesa, se ogni giorno si completa un anno e se ne inizia un altro?), ma infine, privato in gran parte dei suoi antichi valori superstiziosi, esso e poi divenuto festa cristiana riconosciuta e obbligatoria. [6]

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Una « Strega » di Offenburg nel Baden: maschera comune a molte tradizioni folkloriche europee.

 

 

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            Cenni sulla storia degli indirizzi di ricerca. Fenomeni sostanzialmente simili a quelli che abbiamo riscontrato nel campo delle cerimonie della vita e dell’anno caratterizzano tutti i settori del folklore: incontri e contrasti, distacchi e commistioni ecc., sono documentabili cosi per la musica come per le fiabe, tanto per la danza quanto per i segni o le figure, sia per i giochi sia per la poesia. Anzi va sottolineato come proprio da quest’ultimo settore, che è tra i piú accuratamente studiati, sono venute alcune vigorose sollecitazioni verso una considerazione piú critica e piú attenta dei rapporti di cultura, e cioè delle relazioni storiche tra mondo culto e mondo popolare.

 

Sono infatti ormai superate le posizioni originarie del popolarismo romantico (sviluppatosi principalmente sul terreno della poesia popolare contrapposta a quella d’arte), che concepivano tanto la poesia quanto le altre tradizioni del popolo come un prodotto spontaneo e nativo di una non meglio precisata anima popolare o nazionale. Cosi (pur con le dovute eccezioni di questo o quell’autore) i fatti folklorici si livellavano in una indistinta globalità, giacché si attribuiva ad essi, fuori di ogni distinzione cronologica e di ogni prospettiva storica, una comune essenza popolare, intesa sia come nascita al di fuori di ogni cultura e di ogni rapporto con altri mondi storici, sia come creazione collettiva al di là e al di sopra di ogni concreta differenziazione individuale. È evidente che così i fatti folklorici venivano concepiti come al di fuori della storia, la quale infatti non conosce assenze assolute di cultura e assolute spontaneità naturali, ignora le misteriose anime dei popoli o delle stirpi, non sa che cosa siano le immobili e inalterate conservazioni nel tempo ; ed è invece fatta - sempre e in ogni suo aspetto - di azioni e costruzioni umane piú o meno consapevoli, ma sempre distinte dalla pura naturalità, sempre nate in un tempo e in uno spazio precisi, e soggette a sviluppi e trasformazioni.

 

Le piú concrete indagini storico-filologiche sulla poesia popolare, che seguirono al primo impulso popolaristico, vennero appunto mostrando la natura mitica e per piú rispetti antistorica della concezione romantica; e sempre piú realisticamente e storicisticamente sono venute considerando la poesia popolare per quella che essa è, e cioè non come il prodotto di una inesistente spontaneità naturale, ma come il frutto culturale di tradizioni poetiche e stilistiche storicamente formatesi, in parte diverse da quelle colte, ma non prive di rapporti con esse.

 

In altri termini, come per le ricerche etnologiche il mito dei popoli di natura si è venuto dissolvendo assieme a quello della pretesa uniformità del mondo primitivo, e ci si è accorti che nessun popolo è fuori della cultura (e cioè della storia), e che tra i cosiddetti primitivi esistono differenze culturali non meno numerose e profonde di quelle che esistono tra i popoli civili ; cosi anche nel campo del folklore il mito del popolo s’è dissolto, i fatti popolari sono apparsi vari e storicamente stratificati, la collettività della creazione è stata ricondotta entro piú critiche dimensioni, e le eterne forze dell’anima popolare sono apparse per quel che in realtà sono: modi mitici di denominare concreti e variatissimi fenomeni storici, e quindi ostacoli ad ogni ricerca fondata su basi scientifiche.

 

Ciò non significa tuttavia che le posizioni romantiche non abbiano avuto una decisiva e fruttuosa importanza.

 

 

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Esse hanno invece costituito un importante passo innanzi verso il moderno storicismo, che infatti poggia anche sul riconoscimento della possibilità e della necessità di assumere i dislivelli di cultura interni alle società evolute come oggetti di indagine scientifica e storica. In effetti il popolarismo romantico, pur nei suoi limiti, diede un impulso notevolissimo in questa direzione. Prima di allora la cultura egemonica e ufficiale aveva certo conosciuto l’esistenza di tali dislivelli interni, ma li aveva in genere collocati fuori dei confini dell’umanità e della cultura, cosi come fuori dell’umanità stavano l’irrimediabile grossolanità e l’inguaribile ignoranza dei volghi e delle classi inferiori. Affermare, come appunto fece il popolarismo romantico, che la poesia scaturiva invece proprio dall’assenza di cultura, e che quel mondo considerato grossolano e volgare era invece l’unico capace di produrre vera poesia, significava spezzare un rigido confine e rompere l’esclusivismo culturale del mondo egemonico. Alla radice di questo atteggiamento romantico stava il pensiero del Vico, con la sua affermazione che la poesia nasce dalla robusta fantasia e non dall’intelletto; vi confluivano anche gli orientamenti antiquari che già da tempo - ed in rapporto con le comparazioni che si erano venute facendo tra il mondo dei selvaggi rivelato dalla scoperta del Nuovo Mondo e le antichità mediterranee o orientali - avevano cominciato ad esaminare i fatti folklorici come antiquitates vulgares, ossia come resti e testimonianze di storia antica.

 

C’era però un forte limite alle concezioni romantiche: ed era quello di non uscire dai confini di una concezione assoluta e antistorica della cultura o civiltà. Se in precedenza tutto il valore era stato attribuito solo alla cultura egemonica e ufficiale, respingendo fuori dell’umanità tutti gli aspetti che, all’interno dello stesso organismo sociale, se ne distinguevano, ora invece si attribuiva tutto intero il valore al popolo, negandolo (almeno a parole) al suo contrapposto: si capovolgeva la valutazione ma non si modificava l’atteggiamento esclusivistico. Da questo limite nascono tante debolezze mitiche e irrazionalistiche del popolarismo, tanto piú gravi e perniciose quanto piú ci si è venuti allontanando dal genuino entusiasmo della prima scoperta di questo nuovo valore. Si spiegano perciò, e hanno anche un preciso e importante valore storico, le negazioni che in seguito altri orientamenti di pensiero (tra cui l’idealismo individualistico nostrano) fecero di questa esaltazione mitica del popolo, avvalendosi anche del frutto delle ricerche, storico-filologiche, che intanto per loro conto erano venute scoprendo rapporti di cultura là dove il popolarismo aveva immaginato spontanee e immediate espressioni dello spirito o dell’anima popolare. Si giunse cosi a ristabilire il positivo ed essenziale valore dell’alta cultura; ma poiché ci si muoveva ancora su un terreno di contrapposizioni astratte e assolute, si tornò a negare ogni interesse, ogni importanza conoscitiva, ogni rilievo scientifico ai dislivelli interni.

 

Il punto da conquistare solidamente era quello di una concezione piú avanzata: la concezione della cultura non come un assoluto, ma come un fatto storicamente relativo. Un contributo essenziale in questa direzione venne dalle concezioni antropologiche nate ed elaborate in Inghilterra a cavaliere tra Ottocento e Novecento. Contro queste concezioni, come vien detto in altra parte di quest’opera, è stata condotta una lunga polemica, che giustamente ha messo in rilievo le debolezze dell’evoluzionismo, del comparativismo e della concezione poligenetica.

 

 

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Ma è necessario dire che la nozione di « cultura » proposta da Tylor ha fornito uno strumento preciso per allargare ben oltre i confini consueti la capacità di comprensione storica dell’uomo moderno. Intendendosi per cultura non le sole manifestazioni elevate del pensiero, ma tutti i prodotti dell’attività dell’uomo in quanto componente della società, si è facilitata l’intelligenza storica anche di manifestazioni in precedenza respinte fuori della storia umana. La superstizione e la magia sono apparse quali esse sono, e cioè fasi dello sviluppo umano: primi mezzi di conquista di un piú vasto dominio sulla natura, primi passi sulla strada che ha condotto, attraverso un lunghissimo percorso, fino alle piú alte forme di scienza e di pensiero. E va notato che in questo quadro di concezioni, che voleva essere rigorosamente positivo e scientifico, non trovavano posto le irrazionali esaltazioni del primitivo o del magico : superstizione e magia erano momenti della storia umana, positivi là dove l’uomo non aveva altri strumenti di conoscenza e di azione, ma ormai superati da concezioni e forme di azione infinitamente piú alte ed efficaci.

 

Cosí l’antropologismo dava una precisa collocazione anche ai fatti folklorici. Essi gli apparivano infatti come sopravvivenze di antichissime fasi storiche dell’umanità : concezioni e comportamenti nati entro determinate situazioni storiche, e poi sopravvissuti ai mutamenti. Fuori dunque di ogni esaltazione popolaristica, i fatti folklorici, assieme ai dati della preistoria e dell’etnologia, assumevano il valore di testimonianze preziose della storia piú remota.

 

Vero è tuttavia che il pregiudizio poligenetico ed evoluzionistico limita notevolmente la posizione della scuola antropologica; ed il concetto stesso di sopravvivenze, cosi come concepito in origine, appare oggi non soddisfacente. Immaginando un’evoluzione unilineare dell’umanità attraverso fasi di sviluppo identiche per tutti ed obbligatorie, la scuola antropologica costringeva la molteplice varietà dei fatti storici entro schemi assolutamente insufficienti e livellava fenomeni diversissimi in una identità inesistente. Un procedimento magico d’una tribù asiatica o africana serviva a spiegare una costumanza popolare siciliana o sarda ; un fatto religioso del mondo classico era posto in relazione indifferenziata tanto con fatti folklorici quanto con fatti etnologici, di qualsiasi età e di qualsiasi zona geografica essi fossero. E poiché lo scopo ultimo delle ricerche antropologiche era quello di identificare le fasi piú antiche dell’evoluzione umana (animismo, magismo ecc.), attraverso le quali si riteneva dovessero passare o fossero passati tutti i popoli (tanto quelli evoluti quanto quelli ancora primitivi), le sopravvivenze erano prese in considerazione sotto il profilo della loro pretesa identità con le forme piú antiche del pensiero e dell’azione umana, e cioè in quanto resti inalterati delle antiche concezioni animistiche o magiche. Ne derivò tra l’altro che il termine folk-lore (un neologismo introdotto alla metà dell’Ottocento in Inghilterra da J.W. Thoms per designare quelle che sino ad allora erano state chiamate popular antiquities) è stato sovente usato (soprattutto nei paesi anglosassoni) per designare non solo e non tanto i fatti e i fenomeni di dislivello culturale interno delle società evolute, quanto piuttosto tutte le espressioni delle concezioni animistiche o magiche, dovunque esse si incontrino. Ed il manuale ufficiale della Folklore Society è per larghissima parte dedicato a credenze, usi, costumi di Andamanesi e Boscimani, di Polinesiani o Malesi e via dicendo.

 

 

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La successiva riflessione storica ha dimostrato illusorie la conservazione inalterata nel tempo delle sopravvivenze e le obbligatorie identità delle concezioni umane. La complessità dello sviluppo storico è apparsa sempre piú evidente, e profondissima la diversità sostanziale di fatti pur morfologicamente abbastanza simili, non solo tra mondo primitivo e mondo evoluto, non solo tra selvaggi e volghi dei popoli civili, ma anche tra gruppo e gruppo dello stesso mondo etnologico.

 

Caduti cosi taluni troppo facili e illusori punti di appoggio delle ricerche (il mito del popolo come gruppo omogeneo e unitario, le sopravvivenze come inalterate conservazioni, Pidentità dell’agire umano, la comparabilità assoluta ed astratta di istituti o concezioni), il compito dello studioso diventa piú arduo ma infinitamente piú valido e produttivo : ricostruire la morfologia e la storia culturale di larghissimi strati delle nazioni evolute, distinguendo e unificando la variata massa di fatti e di intersezioni, con tecniche di volta in volta adeguate e sulla base di visioni critiche rigorose. [7]

 

 

        NOTE BIBLIOGRAFICHE

 

1. Martinet (1960), 159; Del Rio (1747), 426, 374 sgg.; Cirese (1952).

 

2. Bogatyrev, Jacobson (1929), 900-913; Vidossi (1960), 194-209; Botkin (1949-50), 43 sgg.; Mendoza (1947); Cirese (1955, 1957); Huzjak (1957); Krappe (1949-50), 357.

 

3. Volkskundliche Bibliographie (1917 sgg.) ; Boggs (1949-50), 1138 sgg.; Aarne, Thompson (1928) ; Thompson (1961) ; Van Gennep (1937-38), III e IV; Van Gennep (1924), 45.

 

4. Liungman (1937-38); Krohn (1926); Toschi (1955); La Marmora (1826-57); Bresciani (1850); Kuret (1963); Schmidt (1955); Vidossi (1960), 104-17; Maticetov (1953), 207-24; Child (1882-98); Nigra (1888); Krappe (19622), 173-88; Santoli (1940), 77-108; Herzog in Leach (1949-50), 1032-50; Kurat in Leach (1949-30), 276-96; Cocchiara, Argan, Marabotti (1963), 783-836.

 

5. Van Gennep (1909); Handworterbuch (1927-42), III, 406 sgg.; IV, 148 sgg.; VIII, 970 sgg.; Corso (1927); Sokolov (1945), 127; Cirese (1955), 109-10; De Martino (1958); Gregorovius (1912), 283 sgg.

 

6. Mannhardt (1904-52); Frazer (1911-153); Delahaye (1910), 229-30; Van Gennep (1937-38), I, 833, 2235 sgg., 2261; Amades (1950-56), III, 702-3.

 

7. Cocchiara (1952); Cirese (1958, 1960-62); Toschi (1962); Tylor (1871); Burne (1914); Vidossi (1960), 71 sgg., 194 sgg.; Santoli (1958), 1-2.

 

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