Alcune notizie ed osservazioni in proposito degli Studi critici, del prof. Ascoli  (1863)

Domenico Comparetti

 

Rivista italiana di scienze, lettere ed arti colle Effemeridi della pubblica istruzione

Tipografia Lombardi, Milano

 

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I.  (Le colonie greche nell’Italia meridionale)  (Rivista italiana, № 126, 1863, 100-102)

II. (Le colonie rumene dell’ Italia; Frammenti albanesi il sig. Ascoli)  (Rivista italiana, № 134, 1863, 228-232)

II. Intorno agli Slavi del napoletano, notizie comunicate dal professore Ascoli  (Rivista italiana, № 140, 1863, 329-330)

 

 

I. Rivista italiana di scienze, lettere ed arti

Anno quarto, № 126, 16 febbraio 1863

 

 

Sommario.

 

·       STUDI STORICI. — Lotte del Normanni e degli Slavi contro i Carolingi. VI. (Francesco Conti.)

·       ETNOLOGIA. — Alcune notizie ed ossevazioni in proposito degli Studi critici del professore Ascoli. (D. Comparetti.)

·       SCIENZE APPLICATE. — Fabbricatone dell’acciaio, secondo il processo Bessemer. (Ingegnere Rivera A.-R.)

·       BIBLIOGRAFIA. — NOTIZIE VARIE. — PUBBLICAZIONI. — MINISTERO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA. — Circolare. — Decreti. — ANNUNZI.

 

. . .

 

ETNOLOGIA

 

Alcune notizie ed osservazioni in proposito degli Studi critici, del prof. Ascoli.

 

 

Non è mio scopo in questo articolo dare ai lettori della Rivista un ragguaglio del libro da non molto pubblicato dal prof. Ascoli, nel quale questo dotto ed assennato quanto modesto filologo ha sottoposto a critica rispettosa ed imparziale alcuni degli scritti contenuti negli Studi linguistici del prof. Biondelli. So che altri si propone di darne conto in questo periodico, e quindi non volendo invadere il campo altrui mi limito a segnare qui alcune osservazioni speciali occasionate dal libro del signor Ascoli per qualcuno dei soggetti che sono in esso trattati, di cui io mi sono più specialmente occupato o mi occupo tuttora. Tali sono le ricerche sulle colonie straniere in Italia, e ciò che il signor Ascoli intitola Frammenti albanesi.

 

Cominciando da quanto si riferisce alle colonie straniere in Italia la prima cosa su di cui credo dover richiamare l’attenzione dei lettori e l’esistenza delle colonie greche. Il signor Ascoli a pagina 83 asserisce contro Biondelli, coll’appoggio di una grande autorità vivente, da lui consultata, non avverarsi la presenza di popolazioni greche nell’Italia moderna, e ritiene che i 18,000 coloni che il Biondelli chiama Greci, altri non siano che Albanesi. Da critico coscienzioso però egli ha ritirato questa sua asserzione in una nota aggiunta in fondo al volume, nella quale cosi si esprime :

 

Errò chi mi fece dubitare delle asserzioni del sig. Biondelli circa la presenza di popolazioni greche nel Napoletano. Codeste popolazioni vi hanno, ed il signor Domenico Comparetti deve aver pubblicato non ha guari qualche saggio di loro dialetto.

 

Queste parole del prof. Ascoli mi suggeriscono l’idea di poter contribuire a dilucidare la questione su questo punto interessante, esponendo quanto segue.

 

 

(- Le colonie greche nell’Italia meridionale)

 

L’esistenza di colonie greche nell’Italia meridionale è cosa da lungo tempo asserita da parecchi scrittori che rimontano fin quasi all’epoca del risorgimento delle lettere in Italia. Biondelli ne ha citati alcuni, come pure ne ha citati l’illustre Federigo Pott in un articolo rimasto ignoto al sig. Ascoli, e di cui dovremo poi far parola; del resto il numero di quelle citazioni potrebbe ancora aumentarsi. Tutte questo autorità però a generalmente parlare non son tali che valgano ad allontanare ogni dubbio, e ciò per una ragione assai potente quale è quella dei confondere che generalmente suol farsi dei Greci cogli Albanesi. È cosa già da molti osservata come fino ai notissimi coloni siculo-albanesi si dia il nome di greci dal popolo italiano di quelle contrade, ed anche da molti scrittori i quali spesso non più del popolo mostrano di sapere quanta differenza sia fra greco ed albanese. Alcuni viaggiatori, come p. e. Bartels, Keppel Craven, Swinburne, ecc., han visitato quei luoghi e nelle loro opere han parlato di colonie greche colà esistenti. Ma anche l’autorità di essi lascia qualche cosa da desiderare al critico avveduto. Infatti la conoscenza del greco antico quale un uomo dotto può avere, e la pronunzia di quella lingua quale è adottata dalla maggior parte dei dotti di Europa, se non sia accompagnata dalla conoscenza del più volgare greco moderno, non basta a subito riconoscere questa lingua sentendola parlare, e a non confonderla coll’albanese, quando questo egualmente s’ignori. Ciò poi tanto più facilmente si avvera quando greco ed albanese si trovino sotto una stessa influenza corrompitrice quale sarebbe nel caso nostro quella esercitata dall’elemento italiano. Questo ch’io dico serve di spiegazione a quel poro accordo che in certi casi si osserva fra scrittore e scrittore, pel quale avviane che là dove uno dice d’aver trovato greci un altro dica di aver trovato albanesi. Ora, conviene osservarlo, il sig. Biondelli non ha posto in chiaro resistenza delle colonie greche in Italia altrimenti che riferendosi all’autorità dei vari scrittori antichi e moderni che ne parlano. Il sig. Ascoli non ha avuto torto se di ciò non si è contentato, e trattandosi distare a certe testimonianze più o men concludenti, ha potuto controbilanciare l’autorità di queste coll’autorità di persona ch’egli non nomina, ma a quanto sembra d’alto valore, che a lui faceva credere non doversi prestar fede a quanto si diceva intorno a questi moderai italo-greci. Il solo modo di trovare il bandolo in siffatta questione era quello di ricorrere all’autorità dei fatti anzichè a quella delle persone, ed il fatto che in tal caso può servire di prova più chiara ed evidente è quello che consiste in un saggio della lingua parlata in quei luoghi che si dicono abitati da colonie greche. Dinanzi a tal prova di fatto piega qualsivoglia autorità di altro genere, e quindi il sig. Ascoli appena risaputane l’esistenza non esitava a dar per non detto quant’egli aveva asserito.

 

Or dunque io credo utile a porre la cosa in maggior evidenza l’accennar qui brevemente quali siano i saggi del dialetto greco-calabro ai quali allude il signor Ascoli, come pure parlar di alcuni altri egualmente ignoti, a quanto sembra, a lui ed al sig. Biondelli.

 

Nel 1820 il sig. Carlo Witte viaggiando per l’Italia meridionale rammentava di aver letto in Eustace (Classical tour through Italy, vol. III, pag. 129) che in qualche parte più meridionale delle provincie napoletane erano abitanti che tuttora parlavano greco. Nell’intendimento di accertarsi di questo fatto, cominciò a far delle ricerche che riuscirono infruttuose, finchè giunto a Reggio ebbe notizia di alcuni paesi nei quali si parlava greco, e conobbe anche alcuni abitanti di quelli, coi quali parlando potè deporre ogni dubbio circa la verità di quanto Eustace asseriva. Meglio ancora potè accertarsi della cosa visitando i luoghi stessi, cioè la città di Bova, ed i villaggi denominati, secondo egli riferisce, Cardeto, Montebello, Choria, S. Pantaleone, Contofani, Galliciano, Roccaforte, Rogudi, Chorio di Rogudi, Amendolea, Campo di Ameodolea. Volendo portare seco le prove dei fatto ed insieme dar saggio delle speciali caratteristiche del dialetto greco colà parlato, egli prese nota di una cinquantina di vocaboli, e pose in iscritto alcuni canti popolari di quei luoghi, cosa, com’egli osserva, assai difficile a farsi con esattezza a cagione della pronunzia affatto strana e della gran corruttela di quella lingua. Uno di questi canti accompagnato da una breve notizia in proposito pubblicò il sig. Witte nel 1821 nel Gesellschafler, pag. 697. Questo fu poi ripubblicato nello stesso anno india Liste der Börsenhalle, numero 2835, e poi nel 1827 fu dato tradotto da Schmidt-Phiseldek nel suo Auswahl neugricch. Volkspoesien (Braunschweig), pag. 50. Reduce dal suo viaggio il sig. Witte passando per Bologna comunicò questo e gli altri canti da lui raccolti a Mezzofanti, il quale li trascrisse in caratteri greci ed in forma greca rilasciando l’autografo (datato di Bologna 10 febbraio 1821) al raccoglitore. Finalmente nel 1856 parlando questi in proposito coll’illustre professore Pott, costui lo pregò di rimettergli la sua copia insieme a quella dei Mezzofanti, ed ottenutala, con erudito commento storico-filologico pubblicò il tutto nel Philologus, vol. XI, pagine 245-269.

 

 

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Questa pubblicazione del celebre professore di Halle credetti io dovesse interessare anche i dotti italiani, e quindi non essendo il Philologus comunemente letto fra noi, volli riprodurre quei testi greco-calabri in Italia, e con poche mie osservazioni li rimisi a luce nello Spettatore italiano (giugno 1859, pag. 452). Questi sono appunto i canti ai quali allude il prof. Ascoli, i quali furono poi inseriti nella Raccolta di canti popolari greci del sig. Arnoldo Passow (Popularia carmina Graeciae recentioris, Lips. 1860) dove si leggono a pagine 261, 117 e 448. Ma a ciò non si limita tutto quanto è stato pubblicato fin qui di neo-italo-greco.

 

Esiste uno scritto rimasto ignoto al sig. Biondelli ed al sig. Ascoli intitolato Cenni storici intorno alle colonie greco-calabre di Tommaso Morelli. — Napoli, 1847 (Stabilimento del Guttenberg). Il prof. Pott non seppe nulla di questo scritto, nè io stesso lo conosceva quando ripubblicava i canti summenzionati, e ne ignorerei tuttora l’esistenza se un mio amico di Napoli a cui per caso capitò fra mano, sapendo come io mi occupassi del soggetto in esso trattato, non avesse avuto la gentile premura di farmelo avere. L’autore di questo libercolo che certamente avrebbe voluto soddisfare alla curiosità dei dotti informandoli come si doveva di queste, com’egli dice, nazioni aborigeni venute a stanziare fra noi, ha trattato il tema interessante come sapeva e poteva. Dopo varie notizie non so se troppo vecchie o troppo nuove ma certo inutili si arriva al capitolo secondo del suo scritto, nel quale egli tratta

 

della diocesi di Bova e dell’idioma greco che sebbene corrotto si parla tuttora in detta città ed in taluni de’ suoi paesi, con un vocabolario di parole greche alla fine.

 

Questo vocabolario che per noi è la parte più interessante dello scritto è costituito da una nota di circa 350 vocaboli greco-calabri segnati in caratteri latini con a fronte i corrispondenti italiani e greci antichi. Disgraziatamente gli errori tipografici che ingombrano il volume generano dubbiezze intorno al vero suono di più d’un vocabolo. Del resto questa lista di parole non fa che confermare quel che già si era rilevato dalla pubblicazione del prof. Pott, cioè l’impronta esclusivamente neo-greca di questo dialetto. Nei brevi capitoli terzo e quarto si dicono poche cose dei costumi delle donne di Bova e del loro abbigliamento.

 

Finalmente nel capitolo quinto l’autore dà l’elenco dei paesi abitati dai Greci, di ciascuno dei quali ha già parlato più o meno nel capitolo secondo. Questi sono nel distretto di Reggio: Bova, Amendolea, Galliciano, Roccaforte, Rogudi, Condofuri, Santa Caterina, Cardeto. Oltre a questi l’autore annovera come paesi in origine greci ed ora italiani che sono nella stessa provincia di Calabria (distretto di Gerace) i seguenti: Pentelattilo, Motta Numeria o S. Giovanni, Africo, Palizzi, Pietrapennata, Staiti, Brancaleone, Bianco, Mottaplati, Crepacore, Casigliano, Canolo. I paesi di S. Agata in Gallina e Mosorofa in diocesi di Reggio sarebbero anch’essi, secondo l’autore, greci in origine ed ora italiani.

 

Oltre allo scritto del Morelli ed a quanto raccolse il Witte come saggio del dialetto greco che si parla a Bova e ne’suoi dintorni, io posseggo tre brevi canti popolari raccolti in una escursione geologica per quei luoghi dal defunto prof. Leopoldo Pilla. Di questi io vado debitore al sig. Francesco Palermo a cui il Pilla li consegnò e che gentilmente volle comunicarmeli.

 

Ma non soltanto del greco parlato in Calabria si ha qualche saggio a stampa, chè pur da non molto un saggio fu pubblicato di quello che si parla in terra di Otranto. Nel 1857 Spiridione Zambelli (Zampelios), illustre greco, noto particolarmente per la sua raccolta di canti popolari greci, sapendo che il signor Kirkolouis suo amico si recava a fare un giro nell’ Italia meridionale, lo pregava caldamente di procurargli qualche notizia intorno ai greci abitatori di quella parte della nostra penisola. La sua preghiera fu esaudita, e l’amico cortese presto raccolse alcune notizie interessanti in una lettera che il sig. Zambelli non tardò a render di pubblica ragione riproducendola tal quale nel periodico greco intitolato Νέα Πανδώρα (tom. VIII, 1857, giugno, pagine 105-108). Questa lettera che ho sott’occhio, contiene alcuni appunti presi dall’autore nel villaggio che porta il nome greco di Calimera e contiene di più interessante: l° una raccolta di circa 30 frasi famigliari, e circa 80 vocaboli; 2° una poesia intitolata La vergine ai picdi della croce, che il sig. Kirkolonis dice composta da un poeta popolare vestito della greca fustanella (fustanelloforos). È singolare però che il sig. Kirkolonis il quale ha trovato un ravvicinamento da fare fra una strofetta di questa poesia ed un passo di un coro dell’Ecuba, non siasi accorto che le dieci strofette di cui tutta questa poesia si compone, sono pressochè tutte tradotte o imitate dallo Stabat Mater. La strofetta p. e. che ha destato la sua attenzione è la seguente:

 

Es to cosmo pea cardia

Stei pseri donda e Maria

Essu tosa clamata ?

 

traducendo a parola: nel mondo gual cuore starebbe secco vedendo Maria in tanto pianto? facilmente si riconosce la strofetta dello Stabat:

 

Quis est homo qui non fieret

Christi matrem dum videret

In tanto supplicio.

 

È chiaro elio il poeta italo-greco ha tradotto imitando l’originale anche nel sistema di versificazione. Non essendo la Νέα Πανδώρα gran fatto letta in Europa (benchè lo meriti per le notizie interessanti in fatto di cose greche che spesso contiene), fu cosa assai ben pensata, il riprodurre la lettera del signor Kirkolonis tradotta in tedesco nel periodico di Herrig: Archiv für das studium der neueren Sprachen, vol. 24, 1858, pagine 136-146  .

 

Questo che il sig. Kirkolonis ha raccolto è il solo saggio a stampa ch’io conosco del dialetto greco di Terra di Otranto. È in mie mani però un altro saggio inedito consistente in mia poesia di ben 28 strofette composta da un poeta popolare di Martano villaggio di poco discosto da Calimera. Di questa vado debitore alla cortesia del signor Trinchese nativo di quel villaggio e già studente di medicina in questa università di Pisa. Da questo giovane tanto colto e studioso quanto cortese io aspettava notizie anche più copiose e schiarimenti interessanti intorno al dialetto del suo luogo natale, quando, poco dopo averlo conosciuto, compiendo i suoi studi meritava d’esser mandato dal Governo a perfezionarsi a Parigi.

 

Voglio lusingarmi ch’egli trovi tempo almeno per esaudire la preghiera ch’io gli feci di scrivere e pubblicare le notizie ch’egli meglio d’ogni altro è al caso di dare su questo soggetto interessante.

 

Tutto questo è quanto io conosco del dialetto greco parlato in Italia. Qui però qualcuno potrebbe riprendermi, perchè avendo io qualche cosa d’inedito non ho ancora pensato a darlo in luce.

 

 

(1) Teodoro Kind noto da molti anni come cultore della lingua e letteratura neo-greca ne diede anche una breve notizia nel Jahrbücher für Philologie unde Pädagogik di Fleckeisen 1859, 2. Abth, pag. 471.

 

 

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Veramente fin dall’anno decorso io mi proponeva di raccogliere in un volumetto quel poco che io ho d’inedito insieme ai vari saggi de’ quali qui ho parlato, sparsi in pubblicazioni che non è facile procurarsi o consultare. Senonchè, mentre mi accingeva al lavoro illustrativo da cui era mio intendimento far che il tutto fosse accompagnato, una lettera dell’illustre italo-albanese signor Girolamo de Rada mi fece avvertito che presto era por venire in luce un’edizione dei canti popolari greci ed albanesi della provincia d’ Otranto, per cura del sig. Cossitti, sottoprefetto di Brindisi. Ciò mi determinò a differire la mia pubblicazione, volendo prima vedere quel che si contenesse nel libro annunziatomi, il quale però tarda ormai troppo a comparire.

 

Non lascerò qui di parlare delle colonie greche d’Italia senza prima fare una osservazione. Il sig. Biondelli parlando di questo rammenta le antiche colonie greche e l’antica Magna Grecia, mostrando di credere alla esistenza non mai interrotta in Italia di tali colonie fui da tempi remotissimi. L’opinione ch’egli tiene in ciò, non è nuova per vero dire, chè anzi s’incontra presso la maggior parte di coloro che di tali colonie hanno parlato. Niebuhr ebbe anch’ egli questa idea (Röm. Gesch. I, 60), che del resto è naturalissima, quando non si abbia che una notizia assai vaga, come egli aveva, di paesi di Calabria nei quali si è parlato greco fino a tre secoli fa, o d’altri in cui questa lingua si parla tuttora. È chiaro però che per sapere se quell’idea possa con sicurezza ritenersi per vera, è necessario procurarsi notizie precise e dettagliate sugli abitatori di quei paesi e principalmente sulla special natura della lingua da loro parlata. Per questa ragione, il prof. Pott nell’articolo di cui sopra ho parlato, si proponeva di cercare, analizzando i canti che poneva a luce, se veramente tracce di greco antico esistessero tuttora in Calabria (1). La risposta ch’egli otteneva dalle sue ricerche era, conforme sopra accennammo, negativa, e negativa è pur quella da noi ottenuta dall’analisi d’altri saggi ignoti all’illustre professore di Halle. Infatti evidentemente quel dialetto altro non è che il più volgare neo-greco un poco più corrotto nelle forme e particolarmente nella pronunzia per l’influenza dell’elemento italiano con cui si trova mescolato. Quest’argomento contro l’opinione di chi vorrebbe vedere in questi coloni i discendenti degli antichi italo-greci, potrà essere pienamente apprezzato da chiunque avendo in pratica il greco odierno non quale è scritto da certi tali, ma quale è parlato dalla plebe, dia un’occhiata ai saggi italo-greci già pubblicati, ed è inoltre avvalorato grandemente dalle notizie che si hanno circa i costumi, vestiario, rito, ece., di quella gente che sicuramente può dirsi gente neo-greca venuta a stabilirsi fra noi in tempi relativamente assai moderni. Una indagine più accurata potrebbe condurre a risultati più precisi e positivi circa il tempo della loro venuta iu Italia, ed il luogo di Grecia da cui vennero; tale indagine però non può farsi che sul luogo (2). Per ora mi par si possa asserire con sicurezza che queste colonie venuero in vari tempi ed anche da vari luoghi, poichè p. e. ho osservato che il dialetto di Calimera e Martano presenta notabili differenze da quello di Bova. A poter poi meglio riuscire in siffatte ricerche converrebbe che il dialetto italiano parlato da quelle parti fosse meglio conosciuto e studiato di quello che è, e che maggior luce si diffondesse sui vari dialetti neo-greci, dei quali però, convien dirlo a loro elogio, i dotti di Grecia si vanno ora occupando con ardore degno di essere imitato. E fin qui sia detto delle colonie greche.

 

 

(1) Il suo articolo è intitolalo: Altgriechisch in heutigen Calabrien?

 

(2) Giunge ora a mia notizia che il summentovato signor Zambelli si recava testè a visitar quei luoghi, avendo per iscopo le ricerche di cui parliamo. Egli è già reduce dal suo viaggio dal quale ha raccolto frutto di rilevanti notizie che speriamo veder presto pubblicate.

 

 

(Continua)

 

D. COMPARETTI

 


 

II. Rivista italiana di scienze, lettere ed arti

Anno quarto, № 134, 13 aprile 1863

 

Sommario.

 

·       ISTRUZIONE SUPERIORE. — Sopra alcuni scritti recenti del senatore Bugalini e del professore Studiati di Pisa, concernenti gli studi medici e i loro rapporti colle scienze fisiche e naturali.

·       ETNOLOGIA. — Alcune notizie ed ossevazioni in proposito degli Studi critici del professore Ascoli. – II. (D. Comparetti.)

·       GEOGRAFIA, VIAGGI, COSTUMI. — Lettera seconda. (R. T.)

·       BIBLIOGRAFIA. — CARTEGGIO LATTERARIO. — NOTIZIE VARIE. — MINISTERO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA. — ANNUNZI

 

. . .

  

ETNOLOGIA

 

Alcune notizie ed osservazioni in proposito degli Studi critici, del prof. Ascoli.  (*)

II.

 

 

Oltre alle varie colonie straniere che abitano l’Italia meridionale, delle quali parlano i signori Biondelli ed Ascoli, credo dover qui di volo rammentare che esiste anche in quella parte della nostra Penisola una colonia slava, di cui non mi pare che’essi avesser contezza, sendo che non parlino che delle slave dell’Italia superiore. L’esistenza di questa colonia può dirsi, per quanto io so, rivelata per prima volta in un articolo delle Mittheilungen di Petermann (1857, pag. 556), da cui anche Diefenbach ha tolto la notizia che ne dà a pag. 207 delle Origines Europacae. In un articolo delle stesse Mittheilungen, del 1859, si torna a parlare di questa colonia nei termini seguenti:

 

«Di non piccolo interna è una colonia slava della provincia di Molise nel napoletano. Essa esiste da più di 500 anni, conta circa 3000 anime, e si trova nel luogo chiamato Wodajwa (si. woda, acqua, ziva, viva), in italiano Acquaviva. La lingua dei coloni ha grande somiglianza col croato, benchè i più colti parlino italiano anche meglio ed in modo più armonioso di quello si faccia nei dintorni. L’istruzione elementare nella scuola del paese è slava, come pure slava è la lingua che i preti adoperano nel predicare. È singolare altresì che questa colonia slava sta in fatto di civilizzazione non solo molto innanzi al paese da cui proviene in origine, ma anche si trova ad un grado di coltura più elevato di quello u cui si trovano gli abitatori dei luoghi circonvicini» (qui l’autore dell’articolo rimanda all’ Ausland del 1857, n° 35 che non ho a mano).

 

Per quanto questa notizia possa poco soddisfare alle esigenze della critica, ho voluto farne menzione nella speranza che qualcuno fra noi si occupi di verificarla.

 

 

(- Le colonie rumene dell’ Italia)

 

Sommamente interessanti sono le trenta pagine che il sig. Ascoli dedica alle colonie rumene dell’ Italia, e preziosissimo sono le notizie in quelle contenute circa il dialetto parlato da quei coloni. Io non mi permetterò qui di esprimere la mia opinione sulle particolari vedute del sig. Ascoli quanto all’ origine di quelle colonie o dell’idioma da esse parlato; solo oso azzardare la seguente osservazione affatto speciale, relativa ad un’ idea da lui espressa a pag. 55 del suo volume.

 

«La u in nassul e simili, dic’egli, certamente altro non è in origine che la finale del tema; ma apparisce ormai come parte integrale dell’articolo (dacorom. om, om-ul, un om: uomo, l’uomo, un uomo), e non va risguardata in altro modo rispettivamente al valdarsese.»

 

Secondo questo modo di vedere, egli crede che

 

«la u finale ne’ mascolini valdarsesi come ceru, cielo, lupu, lupo, capu, capo, ecc., sia da riguardarsi come un avanzo dell’articolo, cioè di ul

 

Duolmi di non essere in ciò dell’opinione dell’illustre filologo. In primo luogo osservo che quando anche nella pronunzia del valacco la u finale dei maschili fosse affatto sparita e non si ritrovasse che nella loro unione coll’articolo, non sarebbe esatto a mio credere, il dire che quella vocale debba considerarsi come parte integrale dell’articolo, mentre in tal caso tutt’al più non tenendo conto della sua origine, potrebbe considerarci come semplice vocale d’unione (bindevocal).

 

 

(*) Vedi il num. 126, pag. 100.

 

 

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Infatti in altri maschili che terminano in vocale non muta, l’articolo si presenta sotto la forma di lu o l e non di ul; così. p. e., da tatù (padre) si fa tatù-lu, e non si potrebbe farne tatà-ul a quella guisa come, p. e., da curcubeu (arcobaleno) si fa curcubeu-lu. Del resto non si può neppur dire che questa u finale de’ maschili non uniti all’articolo, perchè muta nella maggior parte dei casi, sia sparita totalmente nella pronunzia del valacco, poichè in più casi essa si sente in modo assai distinto, particolarmente quando sia preceduta da un’altra vocale come, p. e., nei nomi zeu, dio, reu, cattivo, greu, difficile e simili; la qual cosa può dirsi eziandio per la u finale muta in altre forme grammaticali. Inoltre è da notarsi che la ù che sparisce nella pronunzia de’maschili senza articolo, torna a sentirsi o cessa di essere muta quando questi sono seguiti da certe vocali come, p. e., quando si dice timpu’n care, tempo in cui, invece di timpu in care. Quantunque poi gli scrittori rumeni non tutti e non sempre segnino la u muta tinaie de’maschili, pur nondimeno nelle grammatiche rumene (1) essa è considerata como appartenente al tema e distinta dall’articolo scrivendosi, p. e., vecinu-lu il vicino. Tutto ciò mi conduce a conchiudere che se questa vocale nella pronunzia e nell’ortografia rumena si considera come appartenente al tema e se veramente, com’è facile intendere, sotto l’aspetto etimologico a questo appartiene, non si può considerarla come parte integrale dell’ articolo, ma convien dire invece con Diez che nei maschili nei quali essa è muta, cessa di esserlo quando siano unitì all’articolo. Perciò non direi col sig. Ascoli che la u finale de’maschili valdarsesi sia da considerarsi come un avanzo dell’articolo, ma direi invece che la u finale propria del tema che suol essere muta nei maschili valacchi, non è tale ne’ maschili valdarsesi.

 

Fra le molte caratteristiche singolari del rumeno dell’Istria poste in evidenza dal sig. Ascoli, assai notevole è il cambiamento della r in n frequentissimo in questo dialetto. Veramente Diefenbach avea già notato (2) anche questo fra i cambiamenti fonetici che han luogo dal latino al rumeno. Il sig. Alcoli però ha ragione di osservare che nel rumenismo extra-istriano solo in pochissimi casi ciò si vede effettuarsi. Oltre a mormîntu (sepolcro, da monimentum) e feréstrà, fenestra, ch’ei cita, non ho in mente altro esempio da aggiungere, tranne ràndurica, rondinella, che non meno di ràndunica si adopera nel parlare e nello scrivere dai Rumeni. Come esempi del cambiamento inverso di r in n si possono citare sispinu, sospiro e senìnu, sereno. Altre osservazioni potrebbero farsi intorno a più rilevanti caratteristiche del rumeno istriano delle quali parla il sig. Ascoli. Io però qui non aggiungerò altro su tal soggetto nella speranza che un miglior conoscitore del rumeno, particolarmente ne’ suoi dialetti, parli più autorevolmente ai lettori di questo periodico intorno a questa parte interessantissima dei Saggi critici.

 

 

(- Frammenti albanesi il sig. Ascoli)

 

Nei Frammenti albanesi il sig. Ascoli prendendo in considerazione quella parte degli studi linguistici del Biondelli, in cui si parla della letteratura popolare dell’ Epiro, ragiona dottamente su tal soggetto tenendo conto degli Studi albanesi dell’illustre Hahn, prezioso libro di cui noti si giovò il sig. Biondelli. A buon diritto india difficile questione circa la natura e l’origine del popolo albanese, egli si riporta all’opinione dell’insigne albanologo che per risolverla ha raccolto e adoperato un tesoro di materiali non posseduti dagli altri che lo precedettero in tale arringo. Bello sarebbe stato però che il sig. Ascoli, serbando sempre, com’egli fa, la debita riverenza per l’opinione di un uomo così valente e cosi benemerito di questi studi, avesse pure aggiunto qualche osservazione intorno al valore di quella opinione considerata in rapporto collo esigenze della scienza odierna. Infatti, quando si consideri che la storia del popolo albanese presenta lacune immense, che scarse e pressoché totalmente mancanti sono le notizie relative alle sue epoche antiche, che incerta è pur sempre la natura di taluni antichi popoli coi quali esso si trova o parrebbe dover trovarsi in rapporto, certo non dovrà sembrare strano che si dimandi fino a qual punto possa ritenersi per sicura l’opinione del più grande albanologo moderno, e se questa venga o no comprovata da ulteriori ricerche (3). Mi sia permesso adunque di notar qui qualche cosa su tal proposito.

 

Dopo aver letta e studiata quella parte del libro di Hahn in cui egli tratta la questione principale, a me avvenne di ammirar grandemente l’ingegno dello autore e di rimanere convinto che i dati dei quali egli avea fatto uso non potevano essere più saviamente combinati, nè la questione poteva esser con questi meglio trattata. Nondimeno a me sembrava che qualche cosa mi rimanesse a desiderare per convincermi delle conseguenze a cui l’autore conduce. Ciò, a mio credere, va attribuito all’avere il signor Hahn nel trattare la questione omesso di tener conto di un dato principalissimo qual è quello che può ricavarsi dalle ricerche filologiche sulla lingua albanese. È vero che la natura della lingua parlata da un popolo non sempre sta in rapporto coll’origine primitiva di esso, e che se, p. e., i Bulgari parlano oggi una lingua slava ciò non toglie che essi siano d’origine non slavi (4), ma è vero altresì che nelle indagini storiche circa le origini convien pure determinare qual sia questo qualunque rapporto, il quale del resto tanto più stretto apparisce quanto più la lingua esclusiva incute propria del popolo in questione, per natura e caratteristiche sue speciali si trovi isolata o si allontani dalle altre conosciute. Ciò che agli occhi nostri più di ogni altra cosa qualifica il popolo albanese è la lingua da esso parlata. Questa è che conservandosi mirabilmente ad onta delle cause forti e molteplici che si opponevano alla sua esistenza, ha impedito che quel popolo si perdesse, come di molti avvenne, andando a confondersi nel seno di altri popoli prevalenti su di lui. È l’albanese un altro esempio della lingua considerata come potente elemento conservatore di nazionalità anche allora quando le nazioni politicamente considerate, abbiano perduta la loro unità e la loro indipendenza; sotto il quale aspetto può paragonarsi al basco, al magiaro, alle lingue celtiche, ecc.

 

 

(1) Veggasi, p. e., quelta di Massimu, di cui ho sott’occhio l’ultima (ottava) edizione (1861).

 

(2) Ueber die romanischen Schriftsprachen, pagina 67.

 

(3) Qui crediamo opportuno non lasciar di menzionare due scritti relativi al libro di Hahn, rimasti ignoti a quanto sembra al sig. Ascoli. Il primo è di Giorgio Nicocles di Cozani in Macedonia, scritto in greco ed in latino col titolo De Albanenzium sive Schkipitar origine et prosapia, Gorringae, 1855. In questo l’autore si scaglia contro le dottrine di Hahn particolarmente per cio che spetta l’autoctonia degli Albanesi. L’altro è il lacoro di Fallmerayer col titolo Das Albanesitche Element in Griechenland, München, 1857 (estratto dagli atti dell’accademia). Questo e diviso in tre memorie delle quali la prima soltanto si riferisce alla questione sull’ origine e l’antichità degli Albanesi, ed in essa lo illustre frammentista difende le dottrine di Hahn dagli attachi di Nicocies cui sferza col solito suo spiritoso motteggiare.

 

(4) Vedi Zeuss, d. Deutschen, I, 710 e segg.; Schaffarik, Slaw. alt. (her. v. Wuttke), II, 166 e seguenti.

 

 

230

 

Ora la prima questione che popoli siffatti più particolarmente caratterizzati dalla loro lingua presentano alla scienza, è appunto quella della natura di essa lingua. E che ciò si verifichi anco per l’albanese può scorgersi di leggieri osservando che infatti il principal problema agitato fin da quando i dotti cominciarono ad occuparsi degli Albanesi fu quello della loro lingua, e che quel problema diede luogo a molte opinioni ed assai discrepanti e spesso assai strane, cominciando da Leibnitz che nell’albanese trovava del celtico, fino a Mons. Crispi che coll’albanese spiegava le misteriose parole del convito di Baldassare (1). Questo problema così interessante per ogni albanologo, non è stato trattato dal sig. Hahn benchè egli adunasse nel suo volume il più ricco tesoro di notizie che oggi si possegga su quella lingua. Evidentemente nel raccogliere tutti quei materiali egli ha mostrato di intendere quanto grande dovesse essere l’utilità di un lavoro filologico comparativo per diffondere luce sulla questione principale, ma forse non credendosi al caso d’intraprenderlo egli stesso, pare abbia piuttosto inteso a prepararlo per altri. Alcuni confronti di vocaboli che egli fa in qualche luogo mostrano in vero ch’egli è convinto d’una data affinità esistente fra greco-latino ed albanese, ma non giovano ad altro che a far intendere qual sia l’opinione dell’autore su tal soggetto, mentre infatti non servono nè possono servire a dare a quell’opinione il valore di un principio dimostrato. Questa mancanza poi tanto più si fa sentire quando il lettore che dagli studi albanesi ha desunto l’idea dell’affinità dei tre popoli, greco, latino e albanese, viene a sapere che un linguista così valente qual è Federigo Pott non solo nega l’affinità della lingua albanese col greco e col latino, ma nega eziandio la pertinenza di questa lingua al ceppo indo-europeo (2). Certo l’opinione di quest’uomo autorevole non è poi un dogma di fede e può anche credersi ch’egli abbia errato, tanto più che altri non meno autorevole di lui tiene opinione affatto contraria, ma pur troppo, convien dirlo, la scienza non ha puranco ottenuto la dimostrazione filologica del principio che fa supporre il sig. Hahn.

 

Il migliore e più autorevole lavoro che oggi si abbia sull’albanese è la nota memoria di Bopp (3), ed in questa il padre della filologia comparata confessa che le sue ricerche non lo hanno condotto ad altro che a riconoscere sicuramente la pertinenza di questa lingua al ceppo indo-europeo; speciale affinità col greco e col latino dic’egli di non aver potuto ravvisare. Ciò non toglie che tale affinità possa esistere e che qualcuno possa giungere un giorno a dimostrarla. Schleicher (4) prima e dopo il lavoro di Bopp, mostrò e mostra di esserne convinto, cosi pure Rapp, Max-Müller ed ultri, tanto che oggi par questo un assunto generalmente ammesso nella scienza, che però niuno, ch’io sappia, ha scientificamente e completamente dimostrato e che pure conviene che lo sia.

 

Quando tale dimostrazione siasi data, l’albanese potrà essere di qualche giovamento nelle ricerche sulle antiche lingue italiche (non so se particolarmente in quelle relative all’etrusco, come crede il professore Ascoli), sempre però servendosene con molta precauzione, in vista dello stato di corruttela a cui questa lingua si trova, ed in cui soltanto la conosciamo (5). Del resto abbiam luogo a sperare che qualche altro lavoro comparativo sull’albanese non tardi a venire a luce, poichè sappiamo che questa lingua è ora soggetto di studio per più di un filologo, e fra gli altri mi piace rammentare qui il mio dotto amico, signor Demetrio Camarda, italo-albanese, che da tempo se ne occupa, o che, spero, farà presto conoscere il risultato delle sue ricerche.

 

Gli studi albanesi molto possono aspettare dagli Albanesi stessi, quando alcuno di loro voglia darsi ad esaminare scientificamente la lingua sua nativa con quel metodo che oggi siffatte indagini richiedono, I dotti non albanesi che fino ad ora han fatto qualche studio comparativo su quell’idioma, ebbero di questo quella conoscenza che si può ricavare dall’analisi di grammatiche e di dizionari non sempre esatti nè completi, conobbero l’albanese come potrebbe conoscersi una lingua morta, di cui pochi monumenti sian rimasti, e se l’avessero inteso parlare, non l’avrebbero capito. Io sono ben lungi dal credere che al caso loro possa applicarsi quanto in fatto di lingue d’altro genere Böhtlingk osservava contro Schott, asserendo che una conoscenza limitata delle lingue poste a raffronto non basti a classificarle sicuramente e senza tema di errare. — Solamente osservo che, se l’analisi semplice di un dizionario e di una grammatica e di una versione biblica può condurre a certe conseguenze, la piena cognizione della lingua può condurre a vedere assai più addentro, e sopratutto vale ad allontanare le molte sviste e malintesi in altra maniera pressochè affatto inevitabili. E per quot’ultima parte può servir d’esempio un errore singolare, in cui, certamente senza sua colpa, cadde l’istesso Bopp. Britas è un verbo albanese che Lecce nelle suo Osservazioni sulla lingua albanese spiega por io raggio; Bopp, nella memoria che sopra abbiam citata, parlando incidentemente di questo verbo, prende, com’è naturale, il significato raggiare, assegnato da Lecce, per mandar raggi, e traduce quindi strahlen. Inoltre, stando sempre a quel significato, in apposita nota egli osserva dottamente come sia possibile ravvicinare quel verbo alla radice sanscrita b’ràg’, splendore. Ma Bopp non I sapeva nè poteva immaginare che Lecce si fosse tolto, il permesso di scrivere raggiare per ragliare! (6). — Questo errore del resto scusabilissimo, certo non menoma punto il valore dei risultati ottenuti dall’illustre filologo in quel suo scritto interessante, ma pone in chiaro che, quando uno studio comparativo si istituisce su di una lingua non direttamente conosciuta, ma solo indirettamente osservata nel quadro che di essa offre una qualche grammatica, neppure un Bopp può schivare ogni abbaglio possibile. —

 

 

(1) Per la storia della varie opinioni intorno agli Albanesi ed alla lingua loro, veggansi Xylander die Sprache der Albanesen, pagine 275 e segg.; Max Müller, The language of the seat of war, pagine 36 e segg.; Fallmerayer, Das Albanesische elemente, ecc. I Abth, pagine 12 e segg.

 

(2) Blätter für litterarische unterhaltung (1855). Zeitschrift der Morgenländische Geseltschaft (1855).

 

(3) Ueber das Albanesische in seine verwandtschaftlichen Beziechungen, all’accademia di Berlino nel maggio 1854.

 

(4) Nel libro sulle lingue dell’Europa moderna Schleicher asserisce la reale esistenza di tale affinità, e dà un saggio di dimostrazione che pero è ben lungi dall’essere completa. Egli steso osserva che le forme della coniugazione albanese sono bensi indo-europee, ma non è possibile ravvisare in esse speciale affinità colle forme greche. Ciò non l’impedisce di ammettere il principio asserito che ritiene in altri suoi lavori compreso l’ultimo, il Compendium der Vergl. gramm., ecc. Vedi le prime pagine del primo volume.

 

Vedi anche Stier in Kieter monatsschrift f. Wiss. u. Litt. 1854, pagine 860 e segg. È da consultarsi anche uno scritto di questo dotto cultore degli studi albanesi, pubblicato nel giornale di Kuhn nel decorso anno, intorno ai nomi di bruti in albanese.

 

Non conosco il valore di un’opera di Reinhold, citata da Stier in proposito dell’albanese, pubblicata in Atene nel 1855. Non mi riuscì ancora di vederla.

 

(5) In rapporto colle lingue italiche già la considerava Schleicher in un articolo dello Rheinisches Museum, 1859, p. 329 e seguenti. (Kurzer Abriss der Geschichte der italischen Sprachen).

 

(6) Convien confessare che Xylander in cio si è mostratto più avveduto. Referendo questo verbo insieme a molti altri (pagine 44–45) come paradigma di contogazione seconde Lecce, pare ch’egli abbia avuto qualche sospetto intorno al suo vero significato, e quindi, invece di segnarne l’equivalente in tedesco, come ba fatto di tutti gli altri, per questo solo ha lasciato tal quale ciò che ha trovato in Lecce in italiano britas, io raggio.

 

 

231

 

Ad evitare siffatti errori e procedere più sicuramente, ad ampliare il campo delle cognizioni relative a tal soggetto, crediamo di grandissimo vantaggio possa riuscire la cooperazione di tutti quei colti albanesi che, animati da vivo sentimento nazionale, vogliano mostrarsi fieri del nome che portano ed amino trovare una via a sempre più illustrarlo. Essi possono far conoscere caratteristiche non ancora avvertite del loro idioma, e varietà dialettali del medesimo non ancora studiate, e lo studio comparativo di questo possono anche meglio di altri far progredire, quando vogliano e sappiano iu ciò procedere con quei metodo e tener conto di quelle leggi chetiene e che stabilisce oggidì la scienza comparativa delle lingue. Quest’ultima condizione avrei lasciata sottintesa, quando taluni scritti di albanesi, certamente distinti fra i loro connazionali, non mi avessero quasi obbligato ad e. primerla ed accennarla come indispensabile. —

 

I nomi di Masci, Crispi, De Rada, Dorsa ecc. son noti ai cultori di cose albanesi, che nei loro scritti spesso trovano notizie interessanti: è cosa però che reca maraviglia e dolore insieme il vedere quanto lontani in certe loro idee essi si mostrino dall’odierno stato della scienza. Citiamo qui solo un esempio recentissimo: Vincenzo Dorsa, italo-albanese, già unto per un libro interessante da lui pubblicato nel 1847 sugli Albanesi (Ricerche e pensieri), nel decorso anno 1862 dava in luce i suoi Studi etimologici sulla lingua albanese, messa a confronto con la latina e la greca (Cosenza 1862). Non daremo qui nè un ragguaglio nè un giudizio di questo scritto, ma come prova di quanto sopra asserimmo, ci limiteremo a citarne qualche passo che togliamo alle Avvertenze filologiche ed etnografiche che il Dorsa premette al suo lavoro etimologico.

 

«I lunghi studi dei moderni sulla etnografia ci han reso indubitato il fatto, che le lingue antiche non siano altro che rami d’una lingua primitiva, antidiluviana, dialetti d’una sola madre comune. Non pretendiamo nè crediamo a proposito dilungarci a discorrere su quanto ha formato e forma tuttavia la disperazione dèi dotti, ad esaminare cioè quale sia stata questa lingua primigenia onde derivarono tutte le altre. Si pretende pure dalla maggioranza degli scrittori che questo vanto appartenga all’ebraica, ecc. ecc.» (pag. 7)....

 

«Le autorità dei dotti, e in special modo di Malte-Brunn, Court de Gebelin, Mazocchi ci guideranno per segnare alcun altro punto di affinità con gli altri idiomi indo-europei e anche semitici, derivati I ure in origine da una madre comune. Seguiremo lo svolgimento delle parole, guidati dalle stesse leggi onde si svolgono le idee, e invocando e maestro il Vico e inspirandoci nella sua mente divinatrice, forse ci sarà dato di tracciare in qualche modo una storia ideale della lingua albanese, come il Vico medesimo I’ha tracciata della latina, e come a compiere il voto di questo grande Italiano, Giovan Grisostomo Adelung e il Valer eseguirono in altra lingua originale la tedesca» ( pag. 9).

 

Con tali idee, con tali cognizioni, come credere che gli studi etimologici del signor Dorsa abbian potuto giovare al progresso dello ricerche albanesi? Altrettanto potrebbe dirsi di altri italo-albanesi che scrissero intorno al loro idioma, fra i quali però non vogliamo comprendere il summentovato signor Camarda, che sappiamo tener conto di tutti i lavori fatti fin qui su tal proposito, ed aver perfettamente inteso lo stato della questione e quanto oggi la scienza aspetti o richieda da un buon cultore di tali studi. —

 

Del resto, se il signor Dorsa non si mostra gran fatto al corrente, non vogliamo farne rimprovero a lui, chè ciò sarebbe mancar d’umanità, tinto più ch’egli stesso in qualche modo tal suo difetto riconosce, augurando ad altri ln fortuna negata a lui, chiuso nel fondo delle Calabrie e privo dei mezzi che offrono i grandi centri letterari e commerciali. E quel che diciamo di lui vogliamo dire ancora degli altri, nei quali trovammo l’istesso difetto. Pur troppo le ricerche albanesi non sono le sole a dimostrare quanto male e inegualmente divisa rimanesse per lunga pezza la luce del sapere in Italia, e come questo sia grave danno che aspetta riparo dalla presento opera di rigenerazione. Se però i colti italo-albanesi non sono tutti in condizione di studiare scientificamente il loro idioma, ben possono però favorirne lo studio, particolarmente attendendo all’eccellente osservazione del signor Ascoli (pag. 88) che cioè

 

«Le concordanze albanico-italiane, si negli idiomi che nelle costumanze, gioverebbe assai che fossero messe sotto agli occhi degli studiosi, quasi a continuazione del lavoro iniziato dall’ Hahn. Le corrispondenze di fatti idiomatici, delle quali non saprebbero dirsi a sufficienza provveduti i saggi comparativi del dotto alemanno, sarieno più specialmente interessanti, siccome quelle cui l’indagine può con minor pericolo affidarsi, che non alle somiglianze nei costumi, nelle pratiche, nelle superstizioni, nelle leggendo.»

 

A questo che richiede il signor Ascoli possono gli albanesi d’Italia corrispondere senza grave fatica, sia direttamente, aumentando, p. es., il lessico albanese dato da Hahn, sia indirettamente, pubblicando cioè saggi del loro idioma, che riuscirebbero utili anche in più sensi, quando consistessero in canti popolari. E qui convien confessare che sotto questo aspetto, già molti di essi si resero utili, tanto che può dirsi le prime notizie sull’albanese siano venute dagli albanesi d’Italia, che a preferenza dei loro fratelli d’Epiro si mostrarono desiderosi di far conoscere alla colta Europa il loro idioma. —

 

Cosi dobbiamo rammentare che Lecce, un italo-albanese, fu il primo a dar l’idea d’una grammatica albanese, e che questa grammatica, insieme con quel poco che notò Leake, e le magre raccolte di vocaboli albanesi, fatto da Leake stesso, Bianco, Kawallioti, Daniel e Pouqueville, e la versione albanese del nuovo testamento, servì di base a Xylander, che senza essere albanese e senza aver mai udito parlare quella lingua, seppe con si pochi sussidi fare il miglior libro che esistesse sull’albanese, prima che Hahn pubblicasse il suo.

 

Nè mancarono tampoco italo-albanesi che dessero saggio dell’idioma da loro parlato, quantunque di essi il signor Ascoli non faccia parola. Le poesie di Girolamo De Rada, che a detta di Max Müller è per divenire il Macpherson della sua nazione, oltre al merito letterario che possono avere, e che procurò loro l’onore di una traduzione, possono benissimo servire come testo a chi si occupi dell’albanese. E per ciò che riguarda i canti popolari, se interessantissima è la raccolta dei canti d’Albania, pubblicati da Hahn, dei quali meritamente parla il signor Ascoli, riferendone alcuni con dotte illustrazioni, non meno interessante è quella dei canti raccolti in Italia e pubblicati dal Crispi (1), dei quali non so come il signor Ascoli non abbia fatto parola.

 

 

(1) Nella Raccolte di canti popolari siciliani di Leonardo Vigo, pagine 538–554.

 

 

232

 

Questa raccolta del Crispi ha il merito di contenere, oltre alla traduzione italiana, anche il testo albanese, che manca disgraziatamente audio ai pochi ma bellissimi canti pubblicati dai signor Dorsa (1). Quelli pubblicati da Biondelli, alcuni de’quali già prima di lui lucrano stili da Didier (2), hanno anch’essi questo difetto, che solo per alcuno di essi è riparato dalia raccolta del Crispi, in cui se ne riporta anche il testo, e (come, p. e., in quello sulla morte e risurrezione di Lazzaro) più completamente. Ora, sono circa due anni, mi giunse il manifesto di una raccolta di canti popolari albanesi con versione italiana e note, intrapresa dal summentovato signor Girolamo De Rada. Questi canti, a quanto si rileva dal detto manifesto, non sarebbero invero del genere di quelli pubblicati da Hahn, Crispi, Biondeli, ma nel loro assieme (sono LIX) costituirebbero un’epopea nazionale di forma propria, avente per soggetto la storia dei cavalieri albanesi che caddero per Cristo e la libertà. Il signor De Rada non dovrebbe ormai indugiare più oltre a mandare a compimento una promessa così interessante, per mantenere la quale forse avrebbe fatto meglio rimandare ad altro tempo la pubblicazione dei suoi Principii di estetica.

 

Forse qualcuno potrà osservare che noi ci siamo rivolti agli Albanesi d’Italia quasi esclusivamente. La cooperazione degli Albanesi in generale è ciò che da noi si desidera; abbiamo parlato piuttosto a questi che dimorano fra noi, come ai più prossimi, e nella speranza che le nostre parole, potendo giungere ad essi più facilmente che agli altri più lontani, facciano loro intendere quanto da essi richiede la scienza di cui osammo farci interpreti presso di loro. Quando poi ad altro non potesse servire quel che io ho detto fin qui, certo potrà valere a sempre meglio mostrare agli italo-albanesi che se le sventure dei padri loro li costrinsero a vivere lontani dal paese nativo, non manca in questa terra che li accoglie chi ad essi rivolga la sua attenzione, e pensi a dare a questi figli di una stirpe di forti, che ogni italiano dev’essere fiero d’aver acquistato a fratelli, un qualche attestato di viva e premurosa simpatia.

 

Se ciò io fui in grado di fare, ne rado debitore al bel libro che me ne porse occasione, intorno al quale non mi resta altro ad aggiungere, so non l’augurio che il nostro paese di libri siffatti possa giungere a mostrarsi più ricco, e che nomi, come quello del signor Ascoli, onorevoli per questo ramo di studi, fra noi divengano ogni di più numerosi.

 

 

(1) Ricerchi e pensieri sugli Albanesi, pagine 122, segg., 146, segg.

 

(2) Les Albanais en Italie, nella Revue des deux Mondes, anno terzo (1851), pag. 95.

 

Domenico Comparetti

 

 


 

III. Rivista italiana di scienze, lettere ed arti

Anno quarto, № 140, 25 maggio 1863

 

Sommario.

 

·       ISTRUZIONE SUPERIORE. — Sopra gli studi patologici e clinici, lettera al senatore Calro Matteucci, in esame d’a;cune opinioni di questo. (Maurizio Bufalini.)

·       L’ISTRUZIONE PRIMARIA NELLA PROVINCIA DI PARMA. — relazione del regio ispettore cavaliere Perutelli alla Deputazione provinciale. (E. Liveriero)

·       ETNOLOGIA. — Intorno agli Slavi del napoletano, notizie comunicate dal professore Ascoli (D. Comparetti.)

·       BIBLIOGRAFIA. — UNA CANZONCINA DI PRATI. — CARTEGGIO. — NOTIZIE VARIE. — MINISTERO DELL’ISTRUZIONE PUBBLICA. — ANNUNZI

 

. . .

 

ETNOLOGIA

 

Intorno agli Slavi del napoletano, notizie comunicate dal professore Ascoli.

 

 

Nel mio articolo pubblicato non ha guari in questo periodico col titolo Alcune notizie ed osservazioni in proposito degli studi critici del prof. Ascoli, io richiamai l’attenzione dei dotti su di una colonia slava esistente nel napoletano, della quale nè il signor Biondelli nè il signor Ascoli facevano menzione nei loro scritti. Questo ch’io feci non rimase senza frutto, ed il professor Ascoli avendo raccolto notizie interessanti su tal soggetto ha voluto cortesemente darmene un saggio in una sua lettera. Mi lusingo di far cosa grata ai lettori della Rivista servendomi del permesso che l’autore mi accorda di far di pubblica ragione quanto egli mi comunica su tal proposito. Così senz’altro faccio qui seguire le sue stesse parole:

 

«Il giornale zaratino L’Osservatore dalmata deve aver pubblicato, nel febbraio del 1856, alcune ben importanti lettere intorno a quegli slavi. Io non conosco le lettere, ma ho la ventura d’essere in vivissima corrispondenza col valentuomo che le scrisse. Il quale mi è generoso di abbondanti notizie su tutto ciò che riguarda codesti coloni, per guisa che fra non molto io sarò in grado di trattarne con certa ampiezza; e lo farò sul Politecnico di Milano.

 

«Il valentuomo di cui le parlo è il signor Giovanni de Rubertis, slavo egli stesso, nativo di Acquaviva-Colle-Croce (provincia di Molise), dove insegna, od almeno insegnava, eloquenza e filosofia. Uomo di assai abbondante sapere e di mente vivace e immaginosa, questo slavo-napoletano improvvisa nella lingua di Dante ed in quella di Marco Craglievich. Un suo poemetto italiano che si direbbe di attualità palpitantissima (I martiri di Montefalcone e Caccavone, Campobasso, 1863) mi porgerà prossimamente occasione di non breve discorso, e troverà, io spero, molti lettori, anco nella media Italia e nella settentrionale.

 

«Ella intanto delibi i preziosi materiali che mi vennero dal De Rubertis.

 

«Scanderbeg portò nel napoletano, insieme a’primi Albanesi, anco i primi Slavi (o più precisamente Schiavoni o Illirii o Dalmati, ch’è tatt’ uno). I nostri Slavi fondarono allora il villaggio di Montelongo. Morto Scanderbeg (1467) v’ ebbe nel regno abbondante immigrazione sì di Albanesi e si di Slavi, che sottraevansi alla barbarie osmana. Ebbero i coloni slavi 50 anni di franchigie; e però, stante eziandio l’uberosità delle terre, prosperarono in modo, che ebbero presto fondati molti villaggi. Il mio bardo mi nomina : Cerritello (ora distrutto), Palata, Tavenna, Acquaviva-Colle-Croce, Sanfelice, Montemitro, San Giacomo, Ripalda, San Biase. Ora la lingua slava non si conserva che in tre luoghi, cioè in Acquaviva-Colle-Croce, Sanifelice e Montemitro, che fanno complessivamente circa 5000 anime. In Tavenna si parla soltanto dai vecchi e da qualche alunno del De Rubertis. Codeste terre sono tutte, credo, nel Molise, e darebbero complessivamente circa 20,000 abitanti, tutti o quasi tutti di origine slava. «Quasi tutte lo contrade del mio paese (scrive il mio poeta) hanno denominazione slava. Così una chiamasi SELINA da SELO, villa, villetta; un’altra PUC MALI, pozzo piccolo; una terza BERDO VISOKI, colle alto; una quarta JESERINA, da JESER, lago. La contrada più feconda è la RAVNIZA, pianura, e così via. Anche Palata ha le sue contrade slave; ed una chiamasi GRADINA, da GRAD, piccolo paese, un’altra POPLAVIZA, inondazione, una terza KRISGINA, da certa Croce, piantata accanto a una fontana; e Montemitro ancora ha le sue contrade slave, cosi DOLAZ, vallea, ecc.»

 

«Sui condottieri della immigrazione slava (Vojvode) nulla si trovò nelle cronache; ma la popolare tradizione narra che fossero i MIRRO; e la famiglia dei Mirko è tuttora la più estesa in Acquaviva.

 

«Ed io perora non altro le aggiungerò se non un saggio d’improvvisazione illirica del nostro De Rubertis. La m che incontreremo nelle prime persone singolari del presente non è già indizio di linguaggio sloveno (anzichè illirico, serblico), come taluno fra noi potrebbe essere indotto a credere dal non citarsi presso il Bopp altro linguaggio slavo, dallo sloveno in fuori, cui sia costantemente proprio questo carattere. Ma è proprio eziandio, con altrettanta costanza, della favella serblica. È alquanto curioso però che il nostro breve maggio ci porga la m anco in NE-CEM, non voglio (da NE-HOCEM; nello sloveno ugualmente NECEM), mentre sull’altra riva dell’ Adriatico il serblo, per eccezione, non l’ ha più in questo verbo, dicendo -CIU, OCIU, non -CEM OCEM (cfr. nel russo HACIÙ e HÒCIEM ambo io voglio), e che al rincontro non ce la porga presso il verbo essere (NISA, io non sono) appo il quale tutte le lingue slave la mantengono. Ne’ nostri pochi versi ci rione incontro del resto il futuro decisamente serblico (CE DOCCHIE), cioè col verbo volere (CE vuole) per ausiliare (e in questo ufficio vedremo un’altra volta CIU, voglio e non CEM anco presso gli Slavi del napoletano), formazione (comune al rumeno) (1) che è affatto estranea allo sloveno ed al russo.

 

 

(1) Cfr. Studi critici, pag. 65, n° 2.

 

 

330

 

Ma ecco senz’altro le due strofe:

 

Ah! ja necem tvoje suze

E ti hoccesh suze moje.

Ovi serze josh je tvoje.

Nisa nemilo kakno ti.

 

Ah ! io non-voglio tue lacrime,

E tu vuoi lacrime mio,

Questo cuore ancora è tuo,

Nou-sono crudelo come te.

 

Kada stoim sdola zemlie

Nikkor plakat ce ma docchie.

Di ja stoim nimash procchie,

Nimash gazit moju jam.

 

Quando sto sotterra

Niuno a piangermi verrà,

Dove io sto non-hai a passare,

Non-hai a calpestare la mia fossa.

 

 

Questo è quanto il professor Ascoli mi pone iu grado di comunicare ai lettori della Rivista intorno a quei coloni. Qui poi credo sia per me debito di sincerità il riferire come il prelodato professore nella medesima lettera mi faccia osservare aver io avuto torto di disapprovare quanto ei disse in proposito dell’articolo maschile valdarsese. Egli mi rammenta di aver detto soltanto che ridotto il linguaggio ad OM e ad OM-UL (cfr. macedov. CAP-LU, LUP-LU), l’articolo apparisce, ed apparisce senza alcun dubbio, contro la etimologia, UL. Particolarmente poi sulla mia conclusione che cioè la u finale propria del tema che suole esser muta nei maschili valacchi, non sia tale nei maschili valdarsesi, egli osserva aver veramente espresso nel suo libro (pag. 55) che il valdarsere ora ha ed ora non ha questa u finale, e che le situazioni dove non la mostra sono precisamente di quelle situazioni in cui resta via l’altra forma dell’articolo nel valdarsese stesso, e restano via le varie forme dell articolo nel dacoromano.

 

Pongo fine a queste poche parole aggiungendo la notizia del felice incontro ottenuto dal libro del nostro filologo anche oltr’alpe. Un articolo di Stier nel giornale di Kuhn ed uno dell’illustre prof. Pott nel giornale della società tedesca degli Orientalisti annunziano questo libro come tale che fa onore al paese da cui viene non meno che a chi lo scrisse. Gli elogi di giudici così autorevoli non han duopo di commento, e tutti quei lettori ai quali è caro l'onore nazionale e sta a cuore il progesso intellettuale del paese, sapranno sicura mente apprezzarli in tutto il loro valore.

 

DOMENICO COMPARETTI

 

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