Delle colonie Slave nel regno di Napoli

 

Lettere dei professore Giovanni de Rubertis

 

 

Zara, In febbraio 1856.

 

Tipografia Demarchi-Rougier

 

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    - (Предговор от далматинеца Медо Пуцич (Medo Pucić; Orsato Pozza))

- Lettera I. (Giorgio Castriotto; Montemitro, Sanfelice, Tavenna, и Cerritello)

- Lettera II. (Мontelongo. Palata. La festa del primo Maggio)

- Lettera III. («Perchè poi gli Albanesi e Schiavoni s’introducessero, e fossero stati ricevuti in dette regioni, fu perchè Giorgio Castriota, loro Principe...»; Carattere e Costumi)

- Lettera IV. («degli uomini sommi»)

- Lettera V. (Palata. Gradina, Križina)

- Lettera VI. (Sepino, Isernia e Bojano)

    - (Appendice): "Vlahinja zljubljena" (Влюбена италианка) + "Djevojka zaljubljena" (превод на хърватски)

 

Sento che nonpotrei far cosa più grata a’ miei compatriotti di quello che publicare per intero le lettere, gentilmente affidatemi col seguente viglietto dal mio amico l’illustrissimo signor Conte Orsatto Pozza, su alcuni Slavi da noi ignorati, viventi da oltre tre secoli su terra italiana e che tenacemente conservano usi e costumanze nostre, certo non del tutte scevre d’influenza straniera, ma sì lieve, che potrebbono forse far vergognare a molti, i quali, su terra nativa, se ne lasciarono completamente denudare per vaghezza di novità, o per malinteso amor proprio, o forse per passione ancor più vile.

 

ANTONIO CASALI.

(Estratto dall’Osservatore Dalmato.)

 


 

         (Предговор от далматинеца Медо Пуцич (Medo Pucić; Orsato Pozza)

 

Casali mio!

 

Tu sai come, passato l’estate del 52 in Russia scendessi nell’ inverno a Napoli, e come dopo aver ammirato il colosso slavo del Settentrione ricercassi al Mezzogiorno le traccie d’ un pigmeo slavo, che sapeva nascosto fra le varie popolazioni del Regno siciliano. Oggi voglio farti parte delle mie ricerche, e tu ascrivi al mio amore pei minimi se, lasciato ad altri il vezzo di trattar della Russia, io ti trattenga piuttosto colla descrizione della colonia slava che vive nella contea di Molise sulla sponda italiana dell’ Adriatico. Non intendo però di parlare in nome proprio, ma solo di comunicarli alcune lettere d’uno Slavo regnicolo, di D. Giovanni de Rubertis, il quale, percorse con lode di poeta estemporaneo le città del Regno e di Romagna, ora insegna in Acquaviva le lettere umane. Sia tua cura di porle a conoscenza degli altri slavofili. Addio.

 

Zara il 1.° di febbrajo 1856.

Il tuo POZZA.

 


 

 

(LETTERA I.)

 

A Sua Eccellenza

il signor conte ORSATTO POZZA de ZAGORIE

NAPOLI.

 

Con sommo piacere mi son veduto all’improvviso onorato de’ suoi pregevoli caratteri; e però riprotestandole sempre la più sincera stima ed amicizia; e ringraziando distintamente la bontà del suo animo indulgentissimo, mi accingo a darle un dettagliato riscontro. La prevengo per altro, che le poche notizie che io potrò darle, non saranno quelle di un sommo archeologo, quali dovrebbero essere, e quali Ella forse si aspetta, e desidera ; ma saranno quelle che dare si possono da chi segregato dal mondo letterario, e privo direi quasi d’ ogni umano consorzio, vive oscuro ed ignoto in un microscopico angolo della sannitica terra.

 

            Parte storica. — Varii storici parlano della venuta delle colonie Slave in questo Regno; e l’epoca è rimarcata con somma precisione. Verso gli anni 1462 il famoso Giorgio Castriotto sopranominato Scanderbeg, avendo costretto Maometto secondo, figlio e successore di Amuratte,

 

 

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a fare la pace, passò in Italia, trattovi dalle preghiere del Pontefice Pio Secondo (Enea Silvio Piccolomini) per soccorrere Ferdinando I d’ Aragona assediato in Bari dal duca d’Angiò. Lo Scanderbeg, alla testa di scelti guerrieri Albanesi, e Slavi, sconfisse per ben due volte il Principe di Taranto; attaccò l’Angioino, e riportando una completa vittoria, lo costrinse a togliere l’ assedio. L’ Aragonese, rassicurato sul trono, accordò alle milizie Albanesi e Slave, in ricompensa de’prestati servigii, di potersi stabilire in colonie verso le contrade occidentali bagnate dall’ Adriatico ; ma essendo stato costretto lo Scanderbeg a ritornare in Albania per difendere i proprii Stati di bel nuovo attaccati dal Sultano Maometto II, i suoi soldati lo seguirono ; e il loro valore costrinse l’ orgoglioso Ottomano a togliere l’assedio di Croja. Morto finalmente Scanderbeg verso gli anni 1467, le milizie Albanesi e Slave, sdegnando di sottomettersi al dominio di Maometto, che giurato aveva di esterminare la cristianità; e memori delle concessioni loro accordate dalla munificenza di Re Ferdinando, passarono a stabilirsi in queste contrade, seco trasportando mogli, figli, e quanto avevano di più caro e prezioso. Il P. de Poncet gesuita publicò nel 1709 la vita di Scanderbeg molto istruttiva ed interessante. Più precise relazioni si leggono nelle memorie storiche di monsignor Tria Vescovo di Larino, publicate in Roma per Giov. Zempel presso Monte Giordano 1744. In quest’ opera ben voluminosa si parla a lungo della venuta delle colonie Albanesi e Slave, che avvenne verso gli anni 1468.

 

 

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Le colonie Albanesi fondarono Portocannone, Campomarino, Ururi, Chicuti ecc. e le Slave fondarono Montemitro, Sanfelice, Tavenna, e Cerritello. Gli abitanti di quest’ ultimo villaggio, che erano Albanesi e Slavi, verso gli anni 1537, spaventati dal tremendo flagello del Cholera, abbandonarono i pochi edificii eretti; come rilevasi da una convenzione stipulata fra’ coloni Albanesi e Slavi, e i Cavalieri dell’ Ordine di Malta, a’ quali si appartenevano in fendo queste contrade; convenzione che esiste tuttavia nel nostro archivio comunale. Fu allora che gli Albanesi, e Slavi si separarono; e i primi fondarono Montecilfone; e i secondi, allettali dalla salubrità del clima, fondarono a breve distanza di Cerritello un altro villaggio, che, dalla freschezza delle acque, ebbe il nome di Acquaviva. E veramente le nostre acque sono sì chiare, sì fresche, e sì dolci, che io le trovo superiori a quelle tanto decantate dal Cigno di Vaichiusa. In compruova di quanto si è esposto riguardo alla venuta delle colonie Slave in queste contrade, stimo opportuno trascrivere alcuni squarci ricavati dalla prelodata opera di monsignor Tria; pag. 309 pp. 22-23:

 

„Cosicché come si legge nel dizionario geografico del Martinieri, dopochè i Turchi si fecero padroni di questo paese, (parla dell’ Albania) molli de’ suoi abitanti scelsero di ritirarsi a Cattaro, e in altri luoghi de’ Veneziani, o nell’ isole vicine. I più nobili se ne andarono nel Regno di Napoli. I figliuoli di Giorgio si ricoverarono in Napoli sotto il Re Ferdinando, e furono fatti marchesi di S. Angelo, e di Tripatela.

 

 

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Ferdinando Castriotta marchese di S. Angelo morì nella battaglia di Pavia. Su di ciò stimiamo doversi avvertire, (riprende ora monsignor Tria) che laddove il Martinieri asserisce, che le suddette famiglie s’introducessero in detti luoghi a tempo del Re Ferdinando d’ Aragona, debba intendersi, che ciò avvenisse a tempo di Ferdinando I, il quale regnò dal 1458, fino all’ anno 1494, quando, essendo egli morto, gli succedè il Re Alfonso XI in questi regni; e così resta giustificato il reggente Moles, il quale nelle sue decisioni par. I N. 100, pag. 16, vuole che s’introducessero questi popoli in diverse regioni del Regno al tempo di Ferdinando I. Sunt in hoc Regno Villae aliquae ab exteris Regni, V. S. a Sclavonibus, Graecis, et Albanensibus incoluntur; quod a temporibus Regiones Regni Regis Ferdinandi Primi arbitror fuisse introductum; quia illis temporibus regiones illae Albaniae, et Dalmatiae a Turcis invasae fuerunt; et proinde facta fuit demigratio ipsarum, et novae Coloniae in „Regno institutae."

 

E ciò basti per la parte storica. In altra mia lettera le porterò de’ libri e de’ manoscritti in lingua slava esistenti in questo Comune; delle reliquie, o de’ ruderi di Cerritello ecc.; perchè ora mi caccia il lungo tema.

 

 

            Caratteri — Costumi. — Il carattere dei miei concittadini, che sono di una statura, e complessione erculea, è fermo e dignitoso. Non usano mai il Voi, o l’ Ella parlando a qualsiasi magistrato : il Tu è l’unica voce di cui si servono. Ne’ contratti di vendita difficilmente si rimuovono dalla prima richiesta; come se vendessero a prezzi fissi.

 

 

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Molti ignorano la lingua italiana; in modo che nelle fiere i gentiluomini debbono alle volle fare da interpreti. Sobrii e frugali sopportano con animo costante i colpi di avversa fortuna; ed io posso assicurarla di non aver mai veduto piangere i nostri Slavi, quantunque nelle forti e grandi emozioni si veggano ne’ loro volti impressi i caratteri del più vivo, e profondo dolore. Cosa ne pensa? Il vero dolore non ha lagrime !... Le donne al contrario si mostrano inconsolabili nelle sventure. E poiché siamo a questo punto, non le grava che io le parli un poco de’ funerali. Non posso trascrivere, come Ella desidera, tutte le parole che si pronunciano piangendo dalle nostre donne, allora che un estinto giace sulla bara, perchè si raccontano i più bei tratti della vita del trapassato; ma le scriverò alcune che sono rimaste impresse nella mia mente, perchè il mio cuore ne fu vivamente commosso. Era passata a miglior vita una vezzosa fanciullina di cinque anni ; e la sua sorella maggiore, invocando l’ anima di un suo fratello del pari estinto, pronunciava piangendo queste parole:

 

Bratte moi, zaghie prid nasçu divoica ! Ponesiu unebbe prid Bogh ! Uçiniu put; ti znasce ka nasça divoica jè mala.

 

O mio fratello, esci innanti alla nostra ragazza ; menala in cielo innanti a Dio ! Imparale la strada: tu ben sai che la nostra ragazza è piccola ! La madre dall’ altro canto riprendeva :

 

Ruxicza moia di si pola? Boxe moi, uhit za vlase ova moia sçura ! Derxiu svasdan krajem tebbe ! Zascto nis vasçei men? Boxe moi, Boxe moi!...

 

O mia rosa dove sei andata?

 

 

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Dio mio, prendi pe’ capelli questa mia figlia, e tienila sempre a te vicino! Perchè non hai preso me iu sua vece ? Dio mio, Dio mio ! ! Queste parole sforzano al pianto; e però stimo meglio toccare cose che sollevano, e non rattristano l’animo. Solo la prego di alzare la mano a’ varii errori di ortografia; perchè ho stimato scrivere le parole Slave nel modo come ora da noi si pronunciano.

 

Le nostre donne sono di una bellezza sorprendente. — Che Circasse, che Mingreliane! . . Le giovinette non usano mai velarsi il capo prima di passare a marito; ed amano meglio dividere in varie traccio i loro capelli, e quindi annodarli con un nastro in un modo grazioso. Invano i Vescovi della nostra Diocesi hanno ordinato, che si fossero velate almeno quando si recavano in Chiesa: non si è potuto mai giungerne a capo. Il vero Slavo non abbandona così facilmente i costumi de’ suoi antenati. Le giovinette adunque si velano solamente quando si accostano alla mensa Eucaristica. Oh se Ella, o signor Conte, potesse mirare la scena che presenta nella mattina del Giovedi Santo la nostra bellissima Chiesa! Quale spettacolo ! Le giovanette modeste, e raccolte si accostano alla mensa Eucaristica per cibarsi del pane degli Angioli ! Que’ volti atteggiati da profonda mestizia, ed ombreggiali da un velo candido come la loro anima, sono veramente incantevoli!... Sono il vero tipo del bello ideale!..

 

            Canti Popolari. — Noi non abbiamo che pochissimi canti popolari, trasmessi da antichissime tradizioni. Sono quasi tutti del genere erotico.

 

 

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Ve ne ha uno che mi sembra veramente bello e tale da paragonarsi ad uno de'più gentili canti di Ossian! Eccone il soggetto: Un giovine Cavaliere si innamora perdutamente di una leggiadra contadina per nome Maria, il cui cuore era già impegnato. Ivan Dovicze, così chiamavasi il Cavaliere, vedendosi mal gradito, anzi disprezzato, risolve di rapirla. Confida la sua ardente passione ad una donna, prega, scongiura, minaccia. La mette a parte de’ suoi disegni; e la prega d’ indurre la giovine Maria a recarsi insieme con essa a coglier rose in una vicina prateria: Lasciasse a lui la cura del resto. La trama ottenne il suo scopo. La povera contadina aveva appena colto un mazzolino di rose, che sentì afferrarsi per un braccio dal giovine Cavaliere. Cadde tramortita; ed Ivan Dovicze, profittando di quel momento, la pose in sella, e via di gran galoppo per un bosco. Quì il canto è interrotto; ma è facile dalla chiusura conoscere il resultato. Maria fu vilmente tradita, e abbandonata! Il canto comincia con un dialogo tra la bella contadina, e la complice del giovine Cavaliere.

 

Lipa divoica hommo pò ruxicze !..

 

Bella giovinetta andiamo per rose ecc. Quando Maria tornò in patria, le sue gote erano pallide e scolorate come le foglie di un vizzo fiore; e il suo respiro era affannoso ! Ecco come soleva lamentarsi della perfidia del suo rapitore:

 

Ja mam vit tvoie sarcze Ivan Dovicze

Sasciuscit kakko sasciusciu ove ruxicze,

Ke ja sad versgem svora ova stinu

Di svakku nocch placcem zá tebbe !..

 

 

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Come le sembra questa chiusura? Non è dessa sublime, patetica, commovente? Sono stato assicurato che in Montemitro potrò avere una copia forse esatta di questo canto popolare. Un gran numero di alunni affidati alla mia direzione, non mi permette per ora recarmi colà; ma appena potrò rubare un’ ora alle mie scolastiche occupazioni, spero di andarvi, e fare quelle raccolte che stimerò più pregevoli, onde rendermi sempre più meritevole di quella stima ed amicizia di cui Ella mi onora. Ma son io sicuro di un felice successo? I nostri canti popolari, guasti e corrotti dalla tradizione, potranno da me essere presentati in piena luce? La poesia Scandinava, o Scaldica, non ebbe un universale successo europeo, come la Celtica, perchè non ebbe la sorte di avere un Macpherson, che ne avesse saputo purgare la ruggine! E così forse avverrà de’nostri canti popolari; perchè io non ho il genio dell’ illustre traduttore di Ossian ! Del resto, faccia Iddio!

 

Nekka ciniti Bogh! Veselimose Brat nasce jezik; i nekka ciniti Bogh ! On ghledà na nebbe, i na zemgli ! Falimmo imme Gospodinovo !

 

In prosieguo le parlerò della festa del primo maggio, e delle canzoni che si cantano; perchè, sebbene io fossi certo di non annoiarla, atteso la grande curiosità e premura, che Ella mostra avere per le nostre cose, pure avendo già sorpassato i limiti prescritti dalle lettere, stimo meglio dar termine; e rispondere poi man mano a tutti i quesiti, che Ella con tanta gentilezza, ed urbanità, contro ogni mio merito mi proponeva;

 

 

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quantunque mi sembra averle già dato que’ragguagli, che meglio da me si potevano.

 

Non le rimetto la canzone chiestami, perchè credo che le sarà stata a quest’ ora consegnata dal sig. Graziani, [*] che ne ha fatto richiesta ad uno de’ miei alunni. Nell’ affermativa la prego stendere un velo sovra gli errori di ortografia; mentre i miei alunni, costretti ad attendere allo studio delle altre lingue, nulla conoscono della ortografia Slava.

 

Scto ciniti ? Moji Uçinike pisciti nas jezik kakko govoru !

 

La istituzione di una cattedra di letteratura e lingua Slava in Parigi, non mi giunge nuova. Quando una simile cattedra veniva istituita, io mi trovava costà; e leggendo per caso la Gazzetta di Firenze, o di Lucca, ove se ne faceva parola, fra un crocchio di amici convenuti nel Caffè d’Italia, terminata la lettura, parlai loro de’ pregi, e dell’ antichità di nostra lingua. L’Albanese Domenico Mauro, già deputalo nel 1848, osò confutarmi, e sostenere la superiorità della lingua Albanese, per essere più antica, ed armoniosa. Io mi sforzai convincerlo del contrario; ma la quistione non potè terminarsi fra le colonne di fumo, che uscivano dalle labbra de’giovani che ci facevano corona. Il Mauro sostenne la sua opinione in un apposito articolo inserito nel Giornale L’Indicatore. Era questa per me una disfida; ed io l’accettai, raccogliendo di buon grado il guanto; perchè non vi ha Slavo che non senta amore di patria; e che non abbia le vene bollenti per sangue.

 

 

*. Vedi l’appendice.

 

 

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Risposi come si conveniva con un articolo inserito nel Giornale medesimo; e confutai estesamente l’opinione del Mauro, che aveva osato sostenere, essere la nostra lingua gutturale, ed aspra; e che la poesia Slava aver non poteva la dolce armonia del verso, e della rima. Simili granciporri, o strafalcioni eccitavano la bile, ed io ebbi l’ onore fargli toccare con le mani, che la lingua Slava è come la Greca flessibile, ed armoniosa; e che considerare dovevasi come un’ eco delle prime lingue del Mondo. In compruova feci parola del celebre trattato della lingua ebraica e sue affini, dell’illustre Finetti, che riguarda la lingua Slava come madre nobile della moscovita, polacca, boema, vandalica ecc. ecc.; e l’ opera dottissima del Finetti meritò gli elogí di Giuseppe Baretti, che è quanto dire; perchè quell’arcigno criticastro non la sapeva menar buona nemmeno a’ primi barbassori della italiana letteratura. Mi contentai in ultimo rapportare pochi versi dal poema di Giaxich intitolato La Divisione Fraterna; e il Publico pronunciò il suo giudizio. E per me fu sufficiente quello estrinsecato dal sig. D. Gabriele Pepe; il cui nome, credo, non le giungerà ignoto; per essere stato uno de’collaboratori dell’Antologia di Firenze, insieme con Tomaseo, Giordani, Lampredi. ecc.

 

Si compiaccia, Signore, di accusarmi la ricezione della presente, e di onorarmi, prima di partire per Roma, di altri sui comandi, e permetta che io la stringa, ka moi sarcse kakko Brat Brattu.

 

Acqua viva Colle Croci li 6 aprile 1856.

 

Gnegov priateglie, i sluborich

GIOVANNI de RUBERTIS.

 

 

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LETTERA II.

 

Ornatissimo Signore !

 

In continuazione di quanto ebbi l’onore di esporle nella precedente mia lettera, stimo pregio dell’opera aggiungere poche altre notizie, relativamente alle Colonie Slave stabilite in queste contrade, incominciando dalla

 

            Parte storica. — Nelle memorie Storiche di Monsignor Tria, pag. 98 N. 10 11 si legge quanto segue: —

 

„Morto Zotone primo Duca di „Benevento nel 591 gli successe Arechi, eletto dal Re Agisulfo, ed a questi, verso gli anni 641, successe Ajone, che fu il terzo Duca di Benevento. In quel poco tempo che Egli visse, cominciarono a farsi sentire la prima volta li Schiavoni originarii della Sarmazia Europea, che, sbarcati a Siponto, si diedero a depredare la Puglia. All’ improvvisa notizia di questa irruzione di Schiavoni, si fece all’ incontro Ajone, e, venuto alle armi presso il fiume Aufido, detto Lofanto, cadde in un fosso;

 

 

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e sopraggiungendo li Schiavoni, lo ammazzarono, e dopo un anno della morie del padre, Rodoaldo vendicò la morte di Ajone, sconfiggendo, e disperdendo li Schiavoni".

 

Di costoro, dopo la rolla toccata presso Jortore, non si ha più notizia; e i Cronisti del nostro Regno non fanno di essi parola alcuna [*]. Si crede che in seguito fondato avessero Montelongo; i cui abitanti sono ancora chiamati: Schiavoni di Montelongo; e Monsignor Tria assicura, che ai suoi tempi molli vecchi di Montelongo smozzicavano un gergo di lingua Slava. E però, Signor Conte, Ella deve ritenere per certo, che la venuta delle Colonie Slave in queste contrade, rimonta (com’ io le dicevo) all’ epoca di Ferdinando I d’ Aragona; e che il mio paese natio, cioè Acquaviva, veniva fondato dalle Colonie Slave di Cerritello; i cui ruderi richiamano ed arrestano tuttavia la curiosità de’ cittadini, e de’ viaggiatori. Si veggono ancora le mura della Chiesa, in parte diroccate, le fosse sepolcrali, l’altare maggiore, e le nicchie ove si collocavano le immagini ecc. I nostri Sacerdoti (Misnich, o Pope) conservano ancora due pianete, e due calici di argento dorato della Chiesa di Cerritello. E siccome una costante tradizione c’ insegna che le Colonie Slave giunsero in queste contrade nel primo Venerdì di Maggio, così, nel detto giorno di ogni anno, si usa nel nostro paese fare una solenne processione, portandosi un pezzo del legno della vera Croce in un reliquiario di legno dorato,

 

 

*. Su tal riguardo si potrà riscontrare Paolo Diacono, Scipione Ammirato: e Giov: Vincenzo Ciarlanti — Memorie Storiche del Sannio Vol. 3.° pag. 72.

 

 

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incrostato di lamine d'argento, unica reliquia che i nostri antenati hanno posto in salvo dalla rabbia de’Turchi, implacabili nemici del nome Cristiano ! - Molti credono ancora che Palata fosso stata abitata anche da Colonie Slave; ma Monsignor Tria, pagina 513, è di contrario parere; e le sue ragioni sono ben fondate, e convincenti. Infatti i Palatesi difficilmente apprendono la nostra lingua; e se giungono ad apprenderla dopo molli anni di domicilio nel nostro paese, quando la parlano, destano il riso. Potrà Ella, Signor Conte, avere più estese notizie nell’ opera del Summonte: Storia del Regno di Napoli toni: 3.° Lib. 5.° Napoli presso Francesco Savio 1640. Monsignor Tria riporta ancora due lettere autografe, una del Principe di Taranto, e l’ altro di Scanderbeg, che sono un tesoro veramente prezioso, perchè ci fanno conoscere la maniera di scrivere di quei tempi, e l’indole fiera, e bellicosa dello Scanderbeg. Che se Ella ha curiosità di leggerle, sarà mia cura trascriverle parola per parola, e farle a Lei pervenire, appena me ne avrà manifestato il desiderio. E credo che ciò finalmente sia sufficiente per la parte Storica.

 

            La festa del primo Maggio. — Otto individui, che sono quasi sempre i più anziani del paese, portando in mano ramicelli di avellani, ornati di nastri, e di fettucce di vario colore, girano pel paese cantando canzoni popolari. Un giovine ben tarchiato, e svelto della persona, è ordinariamente quello che si destina a rappresentare il Maggio.

 

 

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Indossa egli un pagliajo, che lo ricopre fino ai piedi, composto di giunchi, di vimini, e di rami di varii alberi; ed ha sulla cima tutte le primizie che la terra produce in simile stagione. L’ allegra brigala al festevole suono di chitarre, di tamburiglie, e di nacchere si reca in Chiesa; e solo il Maggio (chiamano cosi la persona che rappresenta il mese) si ferma avanti la porla di essa. Dopo aver inteso con grande divozione la Messa, che si celebra a richiesta della brigata, il Parroco, vestito di cotta, esce fuori della Chiesa a benedire il Maggio; e terminata la funzione, il Parroco medesimo si prendo tutto ciò che il Maggio offre di bello e di buono; come per esempio Asparagi, Lumaconi, Giuncate ecc. Allora tutti si mettono in giro cantando, e suonando. Il Maggio esegue balli grotteschi, che ricordano quelli de’Satiri, e de’Fauni; ed a’ curiosi suoi salti odi le grida, e gli sghignazzamenti di cento vispi fanciulli, che fanno a gara di malmenarlo, e tambussarlo in mille guise. Gl’ individui della festevole brigata giunti avanti la porla di una casa, si dividono in due file, ed incominciano a cantare alternativamente; e quattro di essi sostengono le parti del Coro. I primi quattro cantano cosi

 

Ko je reccà ka Majo nimasce docchi?

Odeca naprid on vidi gnega procchi [*]

 

Coro

Lipe Gospodine nasse,

Hittite nammi sctogodi,

Mi jesmo cegliade vasce.

 

 

*. pronunziano docchie e procchie.

 

 

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I primi quattro.

 

Ja viggiu nasce zemglie trave punne

Ja viggiu vasce ovçe punne vunne.

 

Coro

Ja viggiu sit,

Dobra doscja vascja lit.—

Ja viggiu nacve;

Punne vino vasce bacve.

 

Qui il capo della brigala vedendo che il Maggio si sta in riposo, grida ad alta voce: Igrai Maio, Igrai Maio: Balla Maggio, Balla Maggio: E ’l Maggio a ballare, e far salti grotteschi, scotendo il pagliajo che dondola: si che sembra un vero orso che balla colla scimmia sul dorso.

 

Succede un momento di silenzio, e quindi si riprende il canto

 

I primi quattro

Majo jè nammi donnie lipe dane.

Ja viggiu, dube, punne vasce grane ! —

 

Coro

Lipa moia Loziça

Ka buddesce ciuddo roditi

Izvan put li sc’ ma voditi. —

 

I primi quattro

 

Bogh duca nasce grade i nasce stine

Zdravje [*] vammi, i svikhi vasce sine.

 

Tutti

Lippe Gospodine nasce,

Hittite nammi sctogodi,

Mi jesmo cegliade vasce.

 

 

*. pronunciano Sdravo-Salute.

 

 

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Spesso negl’ intermedii si canta alle volle in lingua volgare

 

Chi t’ ha ditto che Maio non è benuto ?

Esci quà fora, e lu truove bestuto ecc.

 

Terminato il canto, il Maggio caccia fuori da un finestrino la testa, facendo mille smorfie, e sberleffi; e i fanciulli a ridere, a gridare, a battere le mani.....

 

Voci alte e fioche, e suon di man con elle.

 

Calmato il frastuono, il Maggio caccia la mano fuori del finestrino, per prendere ciò che gli viene offerto dalla generosità degli astanti, come per esempio ciambelle, pane, cacio fresco, vino ecc.

 

Si accosta il momento di andare altrove. Egli è allora che il Maggio deve mettere in opera tutta la sua destrezza ed astuzia. Deve egli profittare di un momento per involarsi, e fuggire col suo pagliajo sulle spalle con la celerità del lampo; perchè le giovinette dalle finestre si fanno a gettargli sopra mezzine, e giare d’ acqua; e di rado avviene che il Alaggio possa svignarsela, e scamparla. E gli si getta dell’acqua per indicare, che per l’ ubertosità del ricolto basta che nel mese di Maggio almeno una sol volta piovesse copiosamente. Terminato il giro del paese, l’intera brigata si reca su di un colle vicino, ove il Maggio lascia il suo pagliajo, e rientra poi in paese circondato dai suoi compagni, e col capo coronato di verdeggianti rami a guisa di un baccante. Si entra cantando e suonando, .... ma le voci son rauche; il suono del timballo non è più vivo sonoro, ed animalo; ma debole e discordante !..

 

 

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Le mani cadono penzoloni; e le dita agitano invano le castagnette!.. Il vino ha fatto il suo effetto: la festa è terminala con tutta l’ allegrezza, con ogni Maiuma, (diciam così con proprietà di lingua) e con tutte le cerimonie prescritte dall’ uso. Questa mia descrizione un poco lunga avrà forse. Signor Conte, annojato il suo animo? Ma come fare? Noi altri borghesi al contrario non sappiamo mai annojarci di vedere la festa del primo Maggio. Che se Ella, Signor Conte, volesse avere la compiacenza di far inserire questa descrizione (purchè lo stimerà a proposito) in un giornale di qualche rinomanza, forse farebbe cosa grata non dico ai 75 milioni di Slavi nostri confratelli, ma almeno a quei pochi che abitano in queste contrade, che ricordano di essere Slavi: e che altro conforto non hanno, che la dolorosa rimembranza della loro origine.

 

Un’ altra parola per ciò che riguarda la parte Storica. I nomi de’ capipopolo (Vaivode) s’ignorano; e, per quanto mi costa, non vi ha Cronista, o Storico che ne faccia parola. II tempo, che tutto traveste ed involve, ha gettato nella notte dell’ oblìo i loro nomi, e li ha dispersi, come i granelli di sabbia che il vento del deserto solleva e disperde.

 

Pochi libri abbiamo noi in lingua Illirica, e sono i seguenti: Un uffiziò della Beata Vergine Offìcze Divicze Marie; la cui prima pagina è metà lacerata; in modo che non si conosce quando, e dove fu stampato. Un ufficio della Settimana Santa, il cui frontespizio mancò, e da ciò si conferma l’opinione di Monsignor Tria, cioè, che le Colonie Slave

 

 

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conservarono per lungo tempo il rito Illirico. Un manoscritto contenente la vita di S. Benedetto; e che si crede esser Testo di Lingua. Finalmente abbiamo un Vocabolario Illirico—Latino—Italiano. Questo prezioso libro era stato posto in dimenticanza; ma Ella con la sua lettera ha fatto, che ora fosse nelle mie mani di giorno e di notte; e che formasse il mio studio favorito. Eccone il frontespizio : Grammatika Italiunska Ukratho za naucitti Latinski Jezik. E porta questo titolo, perchè è preceduto da una breve grammatica Schiavona-Lalina-Italiana. In fronte poi del Vocabolario si leggono queste parole: Blago Jezika Slovinskoga ecc. Ecco tutta la nostra Illirica Pinacoteca!!.

 

            Notizie del giorno. Noi siamo qui colla Missione. Ieri un reverendo Padre ha voluto inculcare dal Pulpito, che le giovinette si fossero velate nel recarsi in Chiesa, per non far pompa della loro bellezza. Le parole del Sacro Oratore furono accompagnate da prolungali scrosci di riso. E da capo coi veli!!. Non avrebbe Ella, Signor Conte, baciato chi rideva? In quanto a me, se mi fosse stato concesso, l’avrei fatto sicuramente, e di buon grado. Le giovani Slave meritano qualunque cortesia.

 

Si compiaccia intanto accogliere i sentimenti della più sincera stima in segno della quale mi pregio di essere.

 

Acquaviva Colle Croci li 9 aprile 1853.

 

Suo Amico e servo sono

GIOVANNI de RUBERTIS.

 

 

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LETTERA III

 

 

Ornatissimo Signore !

 

Volgendo il mese al suo termine, ed approssimandosi il giorno che Ella deve abbandonare il nostro Regno, e partire per Roma, non voglio mancare di augurarle il buon viaggio ; e nel tempo istesso darle quelle notizie, e quelle dichiarazioni che mi chiede relativamente alle concessioni fatte da Ferdinando I d’Aragona alle colonie slave stabilite in queste contrade.

 

Nelle memorie storiche di monsignor Tria, pag. 310, leggesi quanto segue:

 

«Perchè poi gli Albanesi e Schiavoni s’introducessero, e fossero stati ricevuti in dette regioni, fu perchè Giorgio Castriota, loro Principe, guerreggiò co’ suoi a favore de’ Veneziani, del Re di Napoli, e del Papa nelle guerre avute in diversi tempi, specialmente co’ Francesi, e contro il Turco.»

 

Più precise e dettagliate relazioni trovansi nell’ opera del Summonte, storia del Regno di Napoli lib. 5, cap. 2. Potrà Ella adunque riscontrare simile storia;

 

 

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e vedrà che quanto viene esposto da questo storico, coincide a cappello con quelle poche notizie, che io le ho date. Inoltre l’istesso monsignor Tria parla spesso delle Capitolazioni fatte fra le colonie Albanesi e Slave all’ epoca della loro introduzione nel Regno. Ora queste capitolazioni debbono esistere o nell’ Archivio generale, o nell1 Archivio aulico del Regno; ed a Lei non sarà difficile rinvenirle. Quali poi fossero le stragi commesse da Maometto II dopo la morte del Castriota, e come fossero presi di mira gli Albanesi, e gli Slavi (che furono costretti di emigrare) potrà leggere la lettera del Papa Paolo secondo (Pietro Barbo Veneziano) successore di quel Pio II che aveva chiamato il Castriota in aiuto di Ferdinando I d’ Aragona. Questa lettera diretta al duca di Borgogna sforza al pianto; ed io credo che non le rincrescerà leggerne qui alcune parole — Parlando degli Albanesi e Slavi egli dice —

 

Partim caesi gladio suni, partim in miseram servitutem abducti. Oppida quae antehae pro nobis Turcharum substinuerunt impetus, in ditionem eorum venerunt; vicinae gentes quae Adriuticum mare attingunt, propinquo metu exterritae traemunt. Ubique moeror; ubique luctus, ubique mors, et captivitas ante oculos sunt. Audire miserum est, quanta omnium rerum sit conturbatio, lacrymabile inspicere navigia fugientium, ad Italos portus appellere, familias quoque aegentes pulsas sedibus suis paspim sedere per littora, manusque in Coelum tendentes lamentationibus cuncta implere etc."

Raccolta di lettere del Cardinale di Pavia Epis. 163.

 

 

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Nella convenzione poi stipulala fra le colonie Slave, e i cavalieri dell’ Ordine di Malta, rappresentali dal commendatore Antonio Pelletta, si legge: che essendo stato concesso ad essi Slavi di potersi stabilire in colonia nel Regno di Napoli, in ricompensa de’ servigi prestati ; ed avendo essi fissato la loro dimora prima in Cerritello, che hanno abbandonato per causa di peste, (il nostro illustre scrittore Giampaolo dice Cholera) ed essendosi oggi stabiliti in Acquaviva; e perchè queste terre si appartengono in feudo a’ Cavalieri di Malta, così si è stabilito ecc. E qui poi si parla delle prestazioni annue che dovevano pagare i Coloni ; quali prestazioni, essendo un poco gravose, vennero poi abolite con la sentenza della Commissione Feudale, con la quale si ordinava, che i coloni Slavi non dovessero altro pagare a’ Cavalieri suddetti, che il decimo sul ricolto del grano e granone. Essendo stato soppresso l’ Ordine de’ Cavalieri di Malta, le nostre terre passarono in feudo a Sua Altezza Reale il Principe D. Luigi Borbone.

 

            Carattere e Costumi. — Nel carattere dei miei concittadini si osserva qualche cosa di singolare e di straordinario. Una volta che essi hanno preso una risoluzione, non vi ha consiglio o forza che possa rimuoverli. La loro ostinatezza supera qualunque ostacolo ; e non sogliono altrimenti lavare la macchia d’ onore che col sangue. I loro costumi per altro sono semplici e frugali; sebbene alle volle eccedessero nel bere il vino. Vi ha poi nel nostro paese un vecchio di circa novanta anni, clic non ha voluto mai introdurre novità alcuna nel suo modo di vestire.

 

 

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Indossa egli sempre una casacca di panno colore scarlatto, che sembra veramente una porpora, simile direi quasi a’ moderni saccò; ed un berrettino rosso, come un berretto cardinalizio, gli ricopre la testa!... Non è questa una vestitura semplice e singolare?

 

Quando Ella, signor Conte, avrà fatto ritorno in patria, la prego non dimenticarsi de’ Slavi che lascia in questo Regno. Ci dia continuamente sue nuove; e ci faccia particolarmente la grazia di rimetterci que’ Giornali che parlano delle nostre colonie, e de’ nostri costumi. È questa la preghiera che io le dò a nome di tutta questa gente, nelle cui vene scorre ancora il vero sangue Slavo!! Non è forse meraviglia che lontani per quattro secoli circa dalla madre patria, noi conserviamo ancora la nostra lingua, (non avendo perduto che una cinquantina di vocaboli, e che ora mercè le mie cure dovranno di bel nuovo sorgere in vigore) le nostre usanze, e il vero carattere Slavo? Qualunque sia la distanza che possa separarci, Ella non deve mai obliare, che lascia in queste contrade una gente che ha già imparato a pronunciare il suo nome, e che si gloria della sua origine; e che il cuore infine di chi scrive non cesserà mai di palpitare pel gentilissimo sig. conte Pozza de Zagorie — Zdravo !

 

Acquaviva Colle Croci li 18 aprile 1853.

 

Suo Amico o servo sono

GIOVANNI de RUBERTIS.

 

 

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LETTERA IV.

 

 

Ornatissimo Signore!

 

Non avendo altro da aggiungere relativamente alla parte storica, che riguarda la introduzione, e lo stabilimento delle colonie Slave in queste contrade, le parlerò brevemente degli uomini sommi, che esse hanno prodotto in varii tempi. L’eternare la memoria di coloro, che hanno dritto all’ ammirazione de’ posteri, è santo uffizio non solo, ma è eziandio un rendere il dovuto omaggio alla virtù.

 

D. Nicola Neri (mio zio) sommo fisiologo, e medico insigne, oscurato avrebbe la gloria di Cotugno, se un fatale destino non lo avesse troppo presto rapito a’ suoi, ed alle lettere verso la fine dello scorso secolo! Gli storici contemporanei parlano di lui con somma lode, e come uno di que’ genii, i cui nomi segnano un’ êra luminosa; e che spandendo una viva luce nella notte dei secoli, sono il primo impulso dell’ incivilimento de’ popoli. Le opere filosofiche, e mediche da Lui publicate,

 

 

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ben comprovano quanto dolorosa ne sia stata la perdita, e qual danno per le lettere e per la patria; che tuttavia lo rimpiange, e lo desidera.

 

D. Felice-Maria-Zara (di Sanfelice) sull’esordire del volgente secolo, era il principale ornamento del Foro Napoletano. Sostenne Egli con molto zelo la causa delle colonie Slave contro i Cavalieri dell’ Ordine di Malta, e, possiam dire, che a questo insigne Oratore noi siamo debitori de’ vantaggi, e della prosperità di cui oggi godiamo.

 

D. Giuseppe Rodi fu per molli anni Vicario capitolare della nostra Diocesi; e gettò le prime fondamenta della nostra chiesa, che è uno dei più belli edificii di queste contrade. Ebbe Egli il piacere di vedere quest’ opera terminata, e però sulla sommità del Tempio leggesi una breve iscrizione, che raccomanda il suo nome a’ posteri.

 

D. Pietro Paolo de Rubertis (mio zio) dotto teologo, e profondo giureconsulto, fu il maestro di molti insigni personaggi, che ora sono l’ ornamento del foro, e della patria.

 

D. Luigi Vetta, sacerdote di singolare probità, maestro di filosofia nel Seminario di Termoli, e versatissimo nelle lettere, veniva, tre anni sono, nominalo Vescovo di Nardò in provincia di Lecce, dal clementissimo Sovrano che ora regge i nostri destini. La città di Nardò festeggiò col più vivo entusiasmo l’ arrivo di così dotto Prelato; e quei degni nipoti de’ Salentini si fanno ora un pregio di essere governati da un Vescovo Slavo.

 

 

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NB. Tutti i mentovati individui, eccetto Zara, sono di Acquatica.

 

D. Aurelio de Rubertis (mio germano) è presentemente uno de’ primi Avvocati del foro di Campobasso, metropoli della nostra provincia. Una delle sue più belle arringhe veniva riportata nel num. 12 del Giurista, foglio periodico, che publicavasi in Napoli verso il 1835.

 

I limiti di una lettera non mi permettono di parlare di un tal D. Nicola Spadanuda, versatissimo nelle lettere, e nelle scienze morali. Solo dirò, che quantunque una immatura morte lo avesse rapito nell’ età sua giovanile, pure gli è dovuta ogni lode, almeno per essere stato il maestro dell’ illustre D. Amadio Ricciardi, che fu poi Presidente della gran Corte di appello in Aquila.

 

La mia patria presentemente offre un buon numero di giovani, che fanno molto sperare di loro; ed io son sicuro, che alla piccola mia terra natìa, il destino serba altri titoli di gloria.

 

De’ paesi Slavi, mi sembra che Montemitro sia quello, che forse più conserva i patriarcali costumi de’ nostri antenati. Gli abitanti di questo villaggio sono tutti sobrii, e frugali. Poco, o nulla coltivano le scienze; e quasi lutti sono addetti alla coltura delle terre, ed alla pastorizia ; unico oggetto della loro industria.

 

Le sue lettere, signor Conte, hanno fra noi eccitato un vivo entusiasmo. Si è già progettato di fare eseguire alcuni scavi a Cerritello ; e rinvenendosi per caso de’ preziosi monumenti non

 

 

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mancherò di darle le più precise, ed esatte relazioni. — Hocch inno od mene? Zdravo.

 

Acquatica Colle Croci li 20 aprile 1853.

 

Suo Amico e seno, sono

GIOVANNI de RUBERTIS.

 

 

P. S. La prego farmi conoscere se le sia pervenuta la seconda mia lettera in data de’ nove aprile; perchè temo non siasi equivocala la direzione. Le parlava in essa della festa del 1.° Maggio.

 

 

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LETTERA V.

 

 

Ornatissimo signor Conte!

 

Questa lettera avrà forse la sorte di vedere le porte di Roma, e le mura della città eterna ! Oh Roma ! Non vi ha monumento che non attesti l’ opre de’ Re, de’ Consoli, e de’ Cesari! Non vi ha gleba, non pietra che non richiami alla mente dell’ attonito viaggiatore venticinque secoli di gloria, e di sventura ! E quantunque io non potessi far altro, che vagheggiare col pensiero i superbi monumenti, che cotesta città racchiudo nel suo seno, pure mi stimerò abbastanza fortunato, se Ella dalla cima del Campidoglio volgerà un pensiero non solo a me, ma alla piccola mia terra natia.

 

            Storia patria. — Palata fondata da colonie Slave. — Nella seconda mia lettera, io le diceva, che monsignor Tria era di parere, che Palata non fosse stata fondata da colonie Slave, perchè (sono le sue ragioni) altri paesi slavi, fondati prima di Palata, conservano il loro rito,

 

 

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e la loro lingua, mentre Palala non ha mai parlato l’Illirico, di cui non conserva traccia alcuna. Simili ragioni erano convincenti, ed anch’ io adottai l’opinione del dotto Prelato. Novelle ragioni, e più convincenti delle prime, ora mi spingono a credere il contrario. Essendomi giorni sono recato in Palata, che dista dal nostro paese circa tre miglia, alcuni gentiluomini, che mi onorano della loro amicizia, mi mostrarono sulla porta della chiesa una lapida, su cui leggevasi la seguente iscrizione:

 

Hoc Primum Dalmatiae Gentes Castrum incoluere ac Templum a fondamentis erexere Anno 1531.

 

Secondo questa iscrizione Palata sarebbe stata fondata da colonie Slave, quasi nell’ istessa epoca di Acquaviva. Confesso ingenuamente, che alla lettura di quelle parole, cominciai a dubitare di quanto veniva asserito da monsignor Tria, e nel tempo istesso osai congetturare che Palata fosse stata veramente fondata da colonie Slave. Le iscrizioni lapidarie sono le guide dello storico, anzi i primi monumenti della storia: sono per dir così i fanali destinati a diradare le tenebre che involvono le prime origini de’ popoli. Piena la mente di queste idee, mi sono recato in Tavenna, ove, mi si diceva, avrei potuto rinvenire qualche cronaca, che ne attestasse la vera origine di Palata. Infatti nell’ archivio notarile, esistente in casa del sig. D. Ascanio Zara, mi è riuscito rinvenire una memoria autentica, che sparge una luce sicura sull’ origine di Palata, e sulla venuta delle colonie Slave. Io mi fo’ un pregio trascriverne due pagine parola per parola;

 

 

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e son sicuro che non le rincrescerà di leggere una scrittura, concepita ne’ seguenti termini:

 

            Copia. — Per adempire quanto da V. S. mi è stato ordinato in virtù di decreto nell’ atti dedotti nella Reg.a Cam.a della Summaria penes l’attuario Alonzo Sparano, acciocché io procedessi all’ apprezzo della T.ra d.lla Palaia, ed il Casale di Tavenna, e Santa Justa sita nella Prov.a d.I contado di Molise, e prima monite le parti, mi sono conferito personalmente in d.a T.ra, e Casali, io gli ho fatto le seguenti diligenze hoc modo. Imp.e Ho riconosciuto il silo di d.a T.ra della Palala, e Casali, e q.lli caminato ad Unguem, e riconosciuto la d.a T.ra sta edificata sopra d’ un monte, dal q.le si scopre una parte del mar Adriatico dal Guasto sino a Fortore, e la parte più vicina al mare da d.a T.ra è lontana dieci miglia ; e dalla parte di terra si scopre la montagna d.lla Majella, il Mateje, ed altre montagne d.lla Castelluccia, di Casacalenda, d.lla Rocca, e di S. Felice, ed altre le q.li li stanno attorno dalla parte di Ponente, e Tramontana, essendo ventilata da tutti li venti da ogni parte, e stà murata in parte di mura sempre di p.ni due, o porte ancora aperte p esserne cascate, [*] intorno le q.li mura stanno appoggiate le case de Terracciani, e Cittadini, e molte d.lle d.e Case sono rovinate, et aperte, ed in q.lla vi sono due porte, una d.lla parte di mezzo giorno, e l’ altra fra levante e mezzo giorno.

 

 

*. Si conferma sempre più il flagello della peste che desertò queste contrade.

 

 

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E p chò il sito di d. T.ra è grande si potriano accrescere in q.lla, ed abitare più di 140 fuochi, essendo L’ aere di d.a T.ra buonis.o con acqua di fontana sorg.e dalla parte di Levante sotto d.a T.ra et in abbondanza, e detto monte dove stà sita d.a T.ra scatorisce da molte parti acqua bonis.a, la q.le pred.a T.ra confina con le T.rre di Montecilfone dalla porte di Levante, e dalla parte di mezzo giorno con il terr.o d.l Casale di S. Leuci di natione Albanese, scoprendosi dalla d.a T.ra anche parte della Puglia. La q.le T.ra della Palata avendola riconosciuta diligentemente, ho ritrovato, che stà mollo scarsa di gente, e sono Schiavoni, e non conoscono da cinquant’ anni in quà diretti P.roni, [*] ma solamente affittat.ri e conforme dissero una volta hanno avuto lite coll’ affit.e Ferrante Avitabile, avendone vissuto semp.e pacificam.e e con quiete, ed ordinariamente vanno vestiti di vesti rozze, ed alla forese, e molti di essi stanno quasi ignudi p la povertà. Verum di buonis.o colore in faccia, e di buonis.a complessione, e robusti, et anco le donne, le q.li similm.e sono d’aspetto rozzo, e vanno a faticare in campagna alle vigne, et a fare legna, e vanno vestite similm.e alla forese, e stanno di comples.e robusta. E detti Schiavoni si dicono venuti a lo tempo de lo Re Ferdinando I et d’Aragona. E p. chè d.a T.ra stà numerata p fuochi settanta cinque nella numonizione 

 

 

*. Si conferma ciò che si asserisce dal Mazzella e da mons. Tria pag. 348 cioè che gli Albanesi, e Illirici non andavano colla numerazione generale de’ popoli del Regno, siccome poi fu fatto; e vissero molti anni senza Padroni.

 

 

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vecchia p ritrovarsi al p.nte decaduta di Gente è stata numerata p fuochi venti. Nella pred.a T.ra non vi sono persone civili, nè Notaro, nè Speciale, nè Medici, nè Dottori, e nè meno vi sono cositori, ma solam.e vi ho ritrovato u ferroro d’ arte grossa, ed un M.ro d’Ascia, li q.li dissero che siano forestieri ; e perciò li d.i Terracciani non usano tenere libri p notare in q.lli li pagamenti ecc.

 

In die 25 maji 1646.

 

F.e Natale Longo Tabulario (poco si comprende.)

 

 

Ora da lutto questo non si rileva abbastanza che Palata fu fondala da colonie slave? Questa memoria segna la data del 1646, vale a dire circa un secolo dopo la fondazione di essa; e non vi erano che venti fuochi ! Era dunque facile conoscere se erano Schiavoni, o Italiani. Ma perchè si è in Palata perduta la lingua slava? Non è difficile la soluzione del quesito. Molte famiglie Italiane emigrando da’ paesi circonvicini, passarono a domiciliarsi in Palata; e crescendo sempre più il numero de’ novelli emigrati, in modo, che oggi Palata conta circa quattro mila abitanti, doveva necessariamente parlarsi la lingua di coloro che formano la maggioranza. Simile congettura è comprovata da un fatto recente. Son circa quindici o venti anni, che dieci famiglie Slave, emigrando dal nostro paese, passarono a domiciliare in Petacciato (anticamente Petazio), fra’ cui ruderi scorgevasi solamente una piccola chiesa, ed il palazzo Ducale, due antichi monumenti che sorgevano fra quelle ruine, come due cipressi in una campagna seminala di tombe.

 

 

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In poco tempo cosa ne è avvenuto? La voce sparsa che colonie slave erano passate in Petacciato; la salubrità del clima; la vicinanza dei mare, e di un bosco interminabile ; la fertilità delle terre, che possono paragonarsi a quelle della Campagna Felice, (Campania Felix) vi richiamarono ben presto molte altre famiglie de’ paesi circonvicini ; in modo che ora Petacciato contiene circa cinquecento abitanti, sotto la cura di un Parroco. Pochi sono quelli che parlano la lingua slava; e fra il volgere di pochi altri anni, essa sarà del tutto dimenticata. Non si potrebbe dire lo stesso anche di Palata? E poi vi sono in Palata delle contrade, che ritengono ancora il nome slavo. Una contrada verso Occidente chiamasi presentemente Gradina; ed una fontana vicino al paese chiamasi Krišina, e si pronuncia Krisgina, da Krisg, che significa croce; perchè vicino alla fontana vi era piantata una croce. Non abbiamo dunque sufficienti ragioni per credere che Palata fosse di origine slava? Bramo, signor Conte, conoscere cosa Ella ne pensa su questo importante soggetto.

 

Le occupazioni scolastiche non mi concedono che due mesi di villeggiatura, cioè settembre, ed ottobre. Verso la fine di settembre spero di essere in Napoli; e quindi se potrò ottenere i passaporti, ho deciso di recarmi costà. Avrò io la sorte di trovarla in Roma ?

 

Aspettiamo con molta, ansietà i libri che ci ha promesso; anche perchè avendo io incominciato a tradurre la vita di S. Benedetto di quell’ Ignazio de Giorgi,

 

 

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di cui Ella mi ha fallo onorevole menzione, mi è mollo necessario un vocabolario, onde poter onorevolmente condurre l’ opra a termine. Son sicuro che Ella vorrà ben presto appagare le nostre aspettative.

 

Mi dia l’onore de’ suoi comandi ; e ringraziandola della bella, e dotta lezione di ortografia slava, mi pregio di essere.

 

Acquaviva Colle Croci li 14 maggio 1853.

 

Suo Amico e servo sono

GIOVANNI de RUBERTIS.

 

 

P. S. Quando la lingua slava sarà del tutto dimenticata in Petacciato, coloro che i nostri tempi chiameranno antichi, potranno conoscere che Petacciato fu la prima volta ripopolato da colonie Slave ? Non sarebbe forse necessario che io mi accingessi a scrivere una cronaca? Cosa Ella ne pensa?

 

 

41

 

 

LETTERA VI.

 

 

Ornatissimo Signore !

 

In mezzo di una città, che racchiude nel suo seno quanto di grande e di sublime presentar possono il Paganesimo ed il Cristianesimo, credo che non le sarà discaro che io venga con questa lettera a distrarla da quelle profonde meditazioni che occupar sogliono l’ animo del viaggiatore ; e mi stimerò fortunato, se Ella nel ricevere la presente, esclamerà: È uno Slavo che mi scrive! Mettiamo da banda la patria dei Scipii e dei Fabii, cessiamo di contemplare il corso di quelle onde, il cui mormorio sembra piangere ancora la gloria delta Regina del mondo; e volgiamo il pensiero alle contrade ove si parla la mia lingua.

 

            Parte storica. — Sepino, Isernia e Bojano, tre cospicue città del contado di Molise, riedificate da colonie Slave. — Non avendo cosa aggiungere relativamente alla parte storica che riguarda le colonie Slave stabilite nel nostro Regno, lungo le sponde Occidentali bagnate dal mare Adriatico,

 

 

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io le parlerò di tre cospicue città, che furono ripopolale da colonie Illiriche, cioè di Sepino, Isernia e Bojano:

 

E Lei non gravi,

Perch’ io un poco a ragionar m’inveschi.

 

Nella storia di Paolo Diacono lib. 5 cap. II e nella cronaca dei Duchi e Principi di Benevento, si rileva, che verso gli anni 667 dell’ êra volgare nuovi popoli s’introdussero in Italia.

 

„Furono questi i Bulgari, usciti da quella parte della Sarmazia asiatica che è bagnata dal fiume Volga; mentre Alezeco duca dei Bulgari, abbandonando i proprii paesi, ed entrando in Italia pacificamente coi suoi Bulgari, offrì il suo servizio a Grimoaldo Re d’Italia, facendo istanza di voler abitare in qualche luogo, che gli destinasse del suo dominio, e pensando Grimoaldo giovare a Romoaldo suo figliuolo contro i Greci, lo mandò al medesimo in Benevento, il quale ricevendolo graziosamente gli die e per abitazione molti luoghi di quel ducato, cioè Sepino, Isernia e Bojano, che per altro erano quasi distrutti per le continue guerre che avevano sofferto, assegnandogliele in castaldato. [*] Dopo 200 anni questo castaldato passò a Guanelperto, di cui si fa memoria presso Erchemberto, e poi sotto il nome di contado da Bojano fu trasferito a Molise, castello vicino a Bojano, e quindi avvenne che fosse detto contado di Molise, il qual nome ritiene ancora presentemente." [*]

 

 

*. Vedi le Disseriazioni di Camillo Pellegrino.

 

 

43

 

Ciò premesso, stimo pregio dell’ opera parlarle distintamente delle tre mentovate città, che se non fondate, furono almeno ripopolate da colonie Slave e propriamente dai Bulgari.

 

            Sepino. Due miglia lontano da Sepino si osservano gli avanzi dell’ antica Sepinum. Fu questa una delle principali città del Sannio. Il Console Papirio nel 459 di Roma l’ espugnò con uccidervi 7600 Sanniti; e menarne prigionieri circa 3000. Distrutta dai Romani, sotto l’Imperatore Claudio, vi fu stabilita una colonia, di cui si osservano ancora gli avanzi. Infatti sulla metà di una gran lapide, rinvenuta in Sepino, si leggono le seguenti parole:

 

Il... CLAV.... dius caes. ...

NERO.... deduxit.

 

Verso gli anni 667 una colonia di Bulgari stabilivasi in Sepino, che poi veniva distrutta dai Saraceni verso gli anni 880. La nuova Sepino, riedificata da coloro che all’ appressare dei barbari abbandonarono la città, sorge due miglia lontano dall’ antica ; ed in essa più non si parla la lingua Illirica.

 

            Isernia. Non vi ha città, a creder mio, che abbia sofferto tante luttuose vicende, come Isernia; dappoichè distrutta per ben otto volte, (cinque da guerra, e tre da terremoti) per ben otto volte, come la Fenice, risorse dalle sue ceneri. Si crede essere stata fondata dagli Aborigeni; ma è certo che fu una delle sette principali città dei Sanniti. Sebbene Sannitica, questa città fu sempre collegata coi Romani, perlochè gli altri Sanniti la devastarono.

 

 

44

 

Livio lib. IX-X ne parla nel 448 e 458 di Roma. Si ha da Vellejo Palercolo che nel 486 sul principio della prima guerra Punica perchè non fosse stata dai Sanniti oppressa, vi fu stabilita una colonia. Strabone lib. 5 la descrive come città distrutta ai suoi tempi. Nuove colonie furono in processo di tempo condotte, e Ciarlanti ci assicura di essere stata distrutta per ben otto volte. Finalmente verso gli anni 667 fu conceduta ad Alezeco duca dei Bulgari, che vi fondò una colonia della sua nazione. Fino all’anno 847 niuna memoria abbiamo d’Isernia; ma sappiamo dalle cronache dell’ Ostiense che in quest’ anno da un terremoto fu intéramente abbattuta. Riedificata di bel nuovo, veniva distrutta dai Saraceni comandati da Saugdan verso gli anni 880. Secondo l’ anonimo Cassinese, fu rifabbricata verso l’ undecimo secolo, ed infatti verso gli anni 1199 fu saccheggiata da Marcovaldo conte di Molise. Nel 1229 passò al dominio dell’Imperatore Federico II. Non vi ha in Isernia alcuna traccia di lingua illirica ; e solo mi resta ad indagare se vi esista in essa qualche memoria, o qualche monumento che ricordi la venuta, e lo stabilimento dei Bulgari in quelle contrade a tempi delle Signorie Longobarde.

 

            Bojano. La città di Bojano è situata nelle vicinanze dell’ antica Bovianum, famosa capitale dei Sanniti Pentri, che probabilmente dovea essere nel piano dove oggi veggonsi alcuni avanzi di fabbriche. Si vuole che sia stata fondata dai Sabelli, e che la nominarono Bovianum dal bue che li condusse.

 

 

45

 

Distrutta da Silla, fu ristaurata nel 705 di Roma, ed in essa vi fu stabilita una colonia di Romani. Oppressa dal flagello della peste, fu dopo pochi secoli abbandonata e deserta, e verso gli anni 667 della nostra èra veniva ripopolata dalle colonie Bulgare condotte da Alezeco. Nell’ anno 853 fu da un terremoto profondata, e nel luogo ov’ era la città surse un lago. Memorando e luttuoso avvenimento, che quello ricorda di Sodoma e Gomorra, che colpite dall’ ira divina venivan sepolte nell’ onde del morto mare! I pochi che ebbero la sorte di scampare dal tremendo eccidio, riedificarono Bojano, che presentemente è una delle belle città della nostra Provincia, ed è sede Vescovile. Oh quali tenebre involvono le prime origini dei popoli! Quali e quante vicende sono mai quelle delle città, e delle nazioni! !

 

È questa la seconda lettera da me diretta in Roma, e però bramo conoscere se la prima le sia fedelmente pervenuta.

 

Mi dia l’ onore dei suoi comandi : ed in attenzione di grato riscontro mi pregio di essere.

 

Acquaviva Colle Croci li 23 giugno 1853.

 

Suo Amico e servo sono

GIOVANNI de RUBERTIS.

 

 

46

 

(Appendice)

 

Ecco la canzone accennata dal de Rubertis nella sua prima lettera. Noi la trascriviamo coll’ortografia organica e le mettiamo a lato una traduzione litterale a maggior intelligenza.

 

Vlahinja zljubljena.

 

Di si poa lipi sunce?

Di si pola zvizda moja?

Ova duša biše tvoja ;

Ko je t’ oja sprida men?

 

Svaki hip ja ta vidahu,

Bihu veseja krajem teb’;

Reci men si jes u neb’,

K’ onda vazet ću ta dò.

 

Uboh ja! ka ti s ma uzdala.

Je ta ima drugi dićalje;

Koji Bog, koji kralje

Ma ta prostit na’ vi sfit.?

 

Ti maši plakat ove suze,

Ko ja hitam svaku noće,

Gruba nemila, ove oče

Vazda plakat maju ta vit.

 

Ah ! ja nećem tvoje suze,

E ti hočeš suze moje,

Ovi serce joše je tvoje;

Niša nemilo kakno ti.

 

Ka ja stojim s dola zemlje

Niktor plakat će ma doći:

Di ja stojim nimaše proći;

Nimaše gaznit moju jam.

 

 

47

 

Djevojka zaljubljena.

 

Dje si pošlo liepo sunce!

Dje si pošla zviezdo moja?

Ova duša bieše tvoja:

Ko te j’ oteo ispred mene?

 

Svaki čas (kad) ja te vidjah

Bieh veseo pokraj lebe;

Reci meni jesi li na nebu

Da ondje uzet ju te dodjem.

 

Tužna mene! ti si me izdala,

A ima te drugi dietić;

Koji Bog, koji kralj

Ima ti prostit na ovom svietu?

 

Ti imaš plakat ove suze

Koje ja lievam svaku noć;

Gruba nemila, ove oči

Vazda plakat imaju te vidjet.

 

Ah ja neću tvoje suze,

A ti hoćeš suze moje:

Ovo srce još je tvoje;

Niesam nemio kano ti.

 

Kad ja budem doli u zemlji

Nitko neće me doć plakat:

Dje ja budem nemaš proći;

Nemaš gazit moju jamu.

 

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