I rapporti fra la Calabria e la Bulgaria nel Medioevo

 

Ivan Dujcev

 

 

Atti del IV Congresso Storico Calabrese, Napoli 1969, pp. 235-250.

Ristampato: Medioevo bizantino-slavo, Vol. III: Altri saggi di storia politica e letteraria. (Coll. Storia e Letteratura, Raccolta di Studi e Testi, 119. Roma, Ediz. di Storia e Letteratura 1971, 507-521)

 

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Lo studio di un problema tanto specifico quale il problema dei rapporti storici fra la Calabria e la Penisola dei Balcani, in genere, nel Medioevo desta varie difficoltà. Non si tratta, come ci si potrebbe aspettare a prima vista, della scarsità di notizie storiche, ma piuttosto di una certa imprecisione d’informazione nelle nostre fonti storiche. Come si è rilevato più di una volta, per vari secoli dell’epoca medioevale le terre italiche rappresentarono per tutti i popoli della Penisola Balcanica l’Occidente europeo, e mantennero con i territori balcanici rapporti più stretti e regolari che con ogni altra regione del vecchio continente europeo. La vicinanza geografica, come anche alcuni altri fattori d’indole politica, economica e culturale, contribuirono allo stabilirsi di questi contatti e al loro mantenimento nel corso del Medioevo. Lungi dal darci — parlando di questi contatti — delle indicazioni precise, le nostre fonti storiche talvolta si limitano a menzionare in termini alquanto generici l’Italia, senza alcuna specificazione più dettagliata. È necessario ricorrere quindi a testimonianze supplementari per stabilire con maggiore precisione se i rapporti hanno avuto luogo con le regioni settentrionali o con quelle meridionali della penisola.

 

I territori occidentali della Penisola dei Balcani sono disposti in vicinanza immediata rispetto all’Italia; perciò è ben naturale che essi avessero con essa contatti più assidui e più durevoli, di molteplice natura. Sulla storia dei contatti fra l’Italia e la Dalmazia, ad esempio, disponiamo di numerosissime testimonianze, del resto ben note, che sarebbe fuori luogo trattare qui in dettaglio. Le regioni orientali e sud-orientali della Penisola Balcanica invece erano collegate piuttosto con l’Impero d’Oriente, e perciò i loro contatti con l’Italia in genere e con la Calabria in modo particolare costituivano qualche cosa, se cosi può dirsi, d’insolito e perfino d’eccezionale nella loro vita storica.

 

 

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Questo fatto sarebbe forse sufficiente, per se stesso, ad attirare l’attenzione dello studioso verso un tale studio — a porre il problema, a raccogliere e sistemare le notizie disponibili disperse in varie fonti e mai raccolte sino ad oggi. La trattazione di questo problema, anche se in forma piuttosto provvisoria e non esauriente, come viene presentata nelle pagine che seguono, interessa non soltanto la storia nazionale dell’Italia e delle terre bulgare o balcaniche, ma contribuisce a chiarire anche un problema molto più vasto e lungamente discusso — quello dei rapporti fra l’Oriente e l’Occidente nel corso dei secoli di mezzo. In altri termini, ci si dovrebbe porre la domanda, se i territori orientali e sud-orientali della Penisola Balcanica, posti in prossimità della capitale dell'Impero bizantino, erano realmente collegati esclusivamente con Bisanzio e dipendevano, nella loro vita politica, economica e culturale, da Bisanzio e solo da essa, oppure avevano dei contatti anche con l’Occidente, con l’Italia e, in modo speciale, con una delle sue regioni meridionali qual’è la Calabria.

 

Senz’alcuna pretesa di menzionare qui tutte le testimonianze sui contatti fra le terre bulgare e la Calabria durante l’epoca medioevale, ne ricordiamo almeno alcune fra le più importanti. Occorre rilevare che già nei primi secoli dell’epoca bizantina, durante le guerre dell’esercito bizantino contro i Goti, nel corso della prima metà del secolo VI, soldati di origine tracia o slava si trovarono nelle regioni dell’Italia meridionale e nella Calabria. Così, secondo una indicazione di Procopio di Cesarea [1], nel 538 nella città di Otranto giunsero ottocento soldati di stirpe tracia, a capo dei quali era Giovanni, nipote del famoso generale bizantino Vitaliano, il quale nel 512-514 aveva turbato tutta la Tracia con la sua minacciosa rivolta [2]. Ancora più importante è un’altra indicazione del grande storico bizantino [3], il quale c’informa che nella guerra contro il Re dei Goti Totila, nella medesima città di Otranto si era stabilito il generale Giovanni, insieme con una schiera di trecento soldati della stirpe degli Anti, vale a dire degli antenati degli Slavi Orientali dei tempi posteriori.

 

 

1. Procopids Caesariensis, Libri de bellis, ed. J. Haury: VI, 5 - p. 170, 1-5.

2. Su questa rivolta cfr. G. Ostrogorsky, Histoire de l'Etat byzantin, Paris 1956, p. 97 sgg.

3. Procopius Caesariensis, op. cit., p. 398 3-16.

 

 

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Merita rilievo anche la notizia di Procopio circa la presenza nella cittadella di Ruskiane (porto della città di Turi, nell’Italia meridionale), verso l’anno 548-549, di un certo numero di soldati di origine tracia ed illirica, assieme con un capo militare conosciuto sotto il nome di Gudilas il Tracio [1].

 

Sono ben note le testimonianze di alcune fonti occidentali sulla penetrazione dei Protobulgari nel corso della prima metà del secolo VII nelle regioni dell’Italia meridionale, a Benevento, Isernia ed altrove [2]. A questo proposito però sorge tutta una serie di domande, alle quali non è facile dare una risposta soddisfacente. Così, non è chiaro innanzitutto fin dove verso il Sud nella Penisola italica si erano spinti i cosiddetti Protobulgari e quali tracce avevano lasciato dietro di sé nella storia del paese. Come per varie altre regioni dell’Italia medioevale, anche per il Mezzogiorno e specie per la Calabria ci si deve chiedere come spiegare la presenza di numerosissimi toponimi e nomi di persona della radice Bulgar che si trovano in dette regioni [3]. Senza entrare in dettagli nella discussione e cercare di collegare sempre simili toponimi e nomi personali con il nome etnico dei Bulgari [4], si deve dire che questi elementi linguistici si possono interpretare — come del resto per tutta l’Italia — in vari modi. In primo luogo, naturalmente, possiamo attribuirli alla presenza dei Protobulgari, già nell’alto Medioevo. La terra arida della Calabria, bruciata dal sole, dove la vita si conquista al prezzo di sforzi enormi, poteva rappresentare però un territorio di rifugio in certi periodi: i toponimi e nomi

 

  

1. Procopius Caesariensis, op. cit., p. 427, 6-14.

2. Per i dettagli da vedere, con una certa riserva, le pubblicazioni del compianto V. D'Amico, I Bulgari trasmigrati in Italia, Campobasso 1933; Importanza della immigrazione dei Bulgari nell'Italia meridionale al tempo dei Longobardi e dei Bizantini, in Atti del 3° Congresso internazionale di studi sull'alto medioevo. Benevento - Montevergine - Salerno - Amalfi 14-18 ottobre 1956, Spoleto 1959, pp. 369-377, con altre indicazioni bibliografiche.

3. Qualche indicazione utile v. presso D’Amico, Importanza, p. 371 sgg.

4. Sull’etimologia del nome v. le indicazioni presso Gy. Moravcsik, Byzantinoturcica. II. Die Sprachreste der Türkvölker in den byzantinischen Quellen, Berlin 1958, pp. 100-106.

 

 

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personali della radice etnica bulgara possono interpretarsi dunque come testimonianza dell’immigrazione dalla Bulgaria in Italia in periodi particolarmente infelici per il popolo bulgaro, ad esempio all’inizio del secolo XI, quando le terre bulgare vennero conquistate da parte dell’esercito dell’imperatore bizantino Basilio II Bulgaroktonos (976-1025), oppure durante la seconda metà del secolo XIV e l’inizio del secolo seguente, dopo la conquista turca dei territori balcanici. Aggiungiamo pure che in parte questi toponimi e nomi di persona si devono collegare con l’immigrazione in Italia di eretici bulgari, in primo luogo di Bogomili, perseguitati nel corso dei secoli di mezzo. Infine, alcune testimonianze del genere si possono interpretare come resti linguistici dei rapporti politici ed economici fra le terre italiche e la Bulgaria nei tempi passati. Una risposta soddisfacente a tutti questi quesiti si può dare naturalmente soltanto dopo un’analisi approfondita delle testimonianze linguistiche, collegandole con la vita storica del popolo bulgaro durante vari periodi della sua esistenza assai tormentata. Per i primi secoli del Medioevo si deve ricordare anche un altro fatto di non minore importanza. Alludo ai riflessi che ebbe nella vita della popolazione della Calabria e dell’Italia meridionale, in genere, l’invasione degli Slavi, nel corso del VI e VII secolo, nella Penisola dei Balcani e lo stabilirsi di questa popolazione di stirpe nuova nei territori dominati sino a quel periodo da Bisanzio. Alcune notizie di singolare interesse su questi avvenimenti ci sono fomite dalla ben conosciuta Cronaca di Monemvasia che, in vista di una nuova edizione di questo preziosissimo documento bizantino, devono essere trattati a parte, come spero di fare altrove [1].

 

Ricordiamo intanto alcune altre notizie delle fonti storiche, senza osservare un ordine cronologico. Così, per la storia del secolo XI possediamo una testimonianza interessantissima in un testo aiografico: si tratta della Vita di san Nilo il Giovane [2].

 

 

1. Per ora vedasi l’ottimo studio di P. Lemerle, La Chronique improprement dite de Monemvasie. Le contexte historique et légendaire, «Revue des études byzantines», 21 (1963), pp. 5-49.

2. Anonymi Vita S. Nili Junioris Abbati Cryptae Ferratae in agro Tusculano, in MIGNE, P. Gr., CXX (1880), coll. 77-80, precisamente coll. 78D-80 B. Su S. Nilo il Giovane (nato a Rossano ca. 910, morto il 22 di settembre 1004) vedansi, per informazione generale: G. Minasi, S. Nilo di Calabria, Napoli 1892; A. Rocchi, Vita di S. Nilo volgarizzata, Roma 1904; T. Minisci, Nilo il Giovane, in Enciclopedia Cattolica, 8 (1952), col. 1884. Per un errore di stampa nel mio studio: Accenni alla Sicilia nella letteratura bulgara medioevale. Estratto dal: « Bollettino del Centro di studi filologici e linguistici Siciliani », 5, Palermo 1957, p. 13, si parla non di S. Nilo il Giovane, ma di S. Nicolo il Giovane. Sull’episodio della visita di S. Nilo a Rossano da vedere anche ciò che dice G. Racioppi, Storia dei popoli della Lucania e della Basilicata, II, Roma 1902, p. 139 sgg.

 

 

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Leggendo il testo di questa opera agiografica, importantissima come fonte per la storia del monachesimo in Italia nell’età medioevale, troviamo alcune notizie sulla visita del santo nella città di Rossano. Secondo l’agiografo, quando il santo, vestito in modo alquanto strano — per non lasciarsi riconoscere dalla popolazione locale — giunse nella suddetta città, egli venne insultato dai monelli della strada: essi lo chiamarono con nomi ingiuriosi, come «Bulgaro», «Franco» ed «Armeno». Per acquistare un tal significato di ingiuria, questi nomi non si concepivano naturalmente nel loro significato puramente etnico — in tal caso evidentemente essi non avrebbero avuto nessun senso come oltraggio. Essi venivano interpretati, senza alcun dubbio, come una designazione di contenuto religioso, meglio come designazione di movimenti eterodossi, dal punto di vista dell’ortodossia romano-bizantina, e perfino come designazione di correnti ereticali. Bisogna ricordarsi ciò che avvenne nelle regioni della Francia meridionale, dove in séguito alla diffusione del catarismo e di altre dottrine dualistiche affini al bogomilismo bulgaro, il nome etnico dei Bulgari acquistò, già nel Medioevo, un senso peggiorativo, conservandolo nel linguaggio popolare sino ai giorni d’oggi. Quest’interpretazione del nome etnico bulgaro nel passo citato del nostro testo può essere corroborata anche dal significato che veniva dato al secondo nome etnico menzionato, quello cioè degli Armeni. Anche questo nome, senza nessun dubbio, ha qui non tanto il valore di una designazione puramente etnica, ma allude evidentemente a dottrine eterodosse, propagatesi fra gli Armeni e perciò condannate dagli ortodossi e dalla Chiesa cattolica. Si potrebbe porre perfino il problema se dietro una tale denominazione non si nasconde l’accusa di certe dottrine dualistiche, quale innanzitutto

 

 

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quale innanzitutto era la dottrina dei Pauliciani, estremamente diffusa fra gli Armeni e per mezzo di loro divulgatasi anche fra altri popoli del Medioevo. È fuori dubbio che la conoscenza delle eresie divulgate fra gli Armeni era venuta tramite Bisanzio. Notiamo inoltre che anche il nome «Franco», usato dai monelli della strada come un’ingiuria verso il santo, doveva avere per essi non il significato etnico, ma piuttosto quello religioso. Ma vi è un altro piccolo problema che dovrebbe essere trattato a parte. Ciò che stupisce di più in questo modo tanto strano di ingiuriare il celebre santo di Italia è la scelta stessa dei termini considerati un oltraggio: il loro significato in tal senso doveva essere ben conosciuto e di vastissimo uso.

Come mai però fra la popolazione della città di Rossano si era giunti a conoscere non solo il nome etnico dei Bulgari, ma anche ad interpretarlo, secondo ogni probabilità, come designazione di un movimento ereticale quale era la dottrina dei Bogomili, affini ai Pauliciani? Indubbiamente questo movimento ereticale era conosciuto dalla popolazione dell’Italia meridionale piuttosto bene, se il nome etnico dei Bulgari aveva acquistato, perfino nella bocca dei ragazzi di strada, un significato talmente peggiorativo. Era un movimento dualistico ed ereticale, i cui divulgatori erano ugualmente i Bulgari e gli Armeni, perciò alla fine le due ingiurie potevano significare la stessa cosa. Non sembra troppo temerario ammettere che adepti del movimento ereticale bulgaro erano penetrati, già nel corso del secolo X e XI, in queste regioni dell’Italia meridionale. Non è qui il luogo per indagare quanto la comparsa e la divulgazione di certe dottrine ereticali nei territori dell’Italia meridionale durante il basso Medioevo debbano attribuirsi all’influsso dell’eresia bulgaro-bizantina. Cerchiamo piuttosto di spiegare alcuni fatti storici che potevano contribuire alla diffusione delle idee dualistiche ed eterodosse. Le lunghe guerre condotte dall’imperatore bizantino Basilio II contro i Bulgari durante quasi mezzo secolo, terminatesi con la conquista di tutti i territori bulgari nel 1018, avevano costretto numerosi Bulgari a cercare rifugio nelle regioni più lontane, perfino fuori della Penisola dei Balcani. Alcuni dei profughi giunsero sino all’Italia.

In appoggio di quest’affermazione si deve menzionare, innanzitutto, una notizia contenuta nella Cronaca del cronista di Bari

 

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Lupo Protospatario [1]. Così, sotto l’anno 1015, egli scrive: «Apparuit stella cometae mense Februarii, et Samuel Rex obiit, et regnavit filius eius» [2]. Immediatamente dopo segue un’altra notizia che riguarda sempre gli avvenimenti storici nello Stato bulgaro: «Occisus est ipse filius prefati Samuelis a suo consobrino, filio Aronis, et regnavit ipse», aggiunge il cronista sotto l’anno 1016 [3]. Il cronista barese, che espone gli avvenimenti storici del periodo fra l’anno 855 e l’anno 1102, ha avuto sotto mano una fonte interessantissima per il suo carattere e il suo contenuto. Si deve rilevare innanzitutto il fatto che l’autore ignoto di questa fonte storica dimostrò un interesse particolare verso gli avvenimenti della Penisola dei Balcani ed in modo speciale della Bulgaria del secondo decennio del secolo XI. Perché egli aveva menzionato — fra tanti altri fatti storici collegati con l’Italia — anche alcuni avvenimenti della storia bulgara, come la morte del re Samuele (972-1014), la presa del potere da parte di suo figlio e la sua uccisione per mano di un suo parente? Occorre rilevare che, salvo qualche inesattezza cronologica, egli era ben informato sugli avvenimenti. Il re Samuele morì effettivamente il 6 ottobre 1014. Il potere passò nelle mani di suo figlio Gabriele-Radomir, il quale governò meno di un anno: verso la prima metà del mese di settembre del 1015 egli venne ucciso da suo cugino Giovanni (Ivan) Vladislav, figlio di Aaron, fratello del re Samuele [4]. Il nuovo sovrano regnò nel periodo compreso tra l’autunno del 1015 e l’anno 1018. Nella cronaca barese i due fatti storici — la morte del re Samuele e l’uccisione del suo successore Gabriele (Gavril)-Radomir sono stati menzionati con un ‘leggero’ errore cronologico, essendo stati riportati cioè all’anno seguente — vale a dire, per il primo avvenimento, invece del 1014 è stato indicato l’anno 1015,


1. Qualche osservazione utile su questa Cronaca da vedersi nello studio di P. Hirsch, De Italiae inferioris annalibus saeculi decimi et undecimi. Dissertatio inauguralis, Berolini (1864), p. 21 passim.
2. Vedasi l’edizione del testo: Lupus Protospatarius: MGH, SS V. Hannoverae 1844, p. 57, 7-8, ad an. 1015.
3. Lupus Protospatarius, op. cit., p. 57, 9-10, ad an. 1016.
4. Per i dettagli sugli avvenimenti storici dell’epoca vedasi V. N. Zlatarski, Istorija na bŭlgarskata dŭržava prez srêdnitê vêkove, I, parte 2. Sofia 1927, pp. 741 sgg.; p. 741 n. 2 sulla testimonianza di Lupo Protospatario; pp. 762 n. 1, 754.

 

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per il seguente avvenimento l’anno 1016, invece del 1015. Una spiegazione di quest’errore cronologico potrebbe essere cercata nello stesso sistema cronologico dei Bizantini, seguito dai Bulgari o da chi per loro aveva informato sugli avvenimenti il cronista barese: in tale sistema l'anno incominciava con il primo settembre e finiva con il 31 agosto. In tal modo un avvenimento accaduto, come la morte del re Samuele, all’inizio dell’ottobre 1014, poteva riportarsi, secondo il computo bizantino, all’anno seguente se si commetteva una piccola inesattezza. Lo stesso ragionamento vale per la datazione dell’uccisione del re Gabriele-Radomir, avvenuta nel mese di settembre del 1015: anche questo avvenimento storico, commettendo un errore nel computo, poteva essere datato all’anno seguente. Non importa però l’inesattezza nelle indicazioni cronologiche, del resto spiegabile e perfino ammissibile, trattandosi di fatti avvenuti in regioni assai lontane da Bari, ma piuttosto il carattere stesso di queste informazioni forniteci dal cronista. Il fatto stesso ch’egli aveva inserito nel suo testo, fra gli altri avvenimenti degni di essere ricordati, anche due indicazioni sulla storia bulgara degli anni 1014-1015, poi l’allusione ch’egli ci offre sulla successione del ‘consobrinus’, vale a dire dell’uccisore non nominato in modo esplicito Giovanni Vladislav, come anche l’approssimativa precisione della datazione degli avvenimenti — tutto ciò ci induce ad ammettere sia la presenza di ‘informatori’ sicuri, provenienti dalle terre bulgare, sia un certo interesse verso ciò che succedeva in quelle regioni lontane. L’inserimento di queste informazioni nella cronaca di Bari si deve spiegare dunque come una testimonianza di legami con la Bulgaria o almeno con la presenza di profughi di stirpe bulgara nell’Italia meridionale. Non è inammissibile che alcuni fuggiaschi di origine bulgara avessero cercato rifugio in Italia meridionale durante le invasioni dell’imperatore Basilio II Bulgaroktonos e specialmente dopo la conquista dei territori bulgari da parte degli eserciti bizantini. Ai medesimi fuggiaschi di stirpe bulgara si deve attribuire d’altronde, con grande probabilità, anche la penetrazione di dottrine ereticali, come il bogomilismo, fra la popolazione dell’Italia meridionale. Si tratta però di problema a sé, da trattare in modo speciale altrove.

 

Intanto ricordiamo qualche notizia che riguarda un’epoca posteriore. Così, durante la seconda metà del secolo XIII,

 

 

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dopo la ripresa della città di Costantinopoli da parte dell’esercito di Michele VIII Paleologo nell’anno 1261, e quindi la restaurazione dell’Impero bizantino, alcuni avvenimenti storici contribuirono allo stabilirsi di nuovi contatti fra le terre bulgare e l’Italia meridionale [1]. Organizzando la sua vasta coalizione contro l’Impero di Costantinopoli, Carlo I d’Angiò entrò in rapporti con i vari Stati della Penisola dei Balcani, innanzitutto con i Serbi e con i Bulgari, con l’intento di utilizzarli come possibili alleati. Possediamo varie informazioni circa lo scambio di ambascerie fra la corte di Carlo d’Angiò ed i sovrani balcanici dell’epoca. Inutile ripetere che i contatti con i territori della Dalmazia e della Croazia erano particolarmente stretti ed assidui, ma la loro analisi deve essere lasciata fuori dalla presente comunicazione. Si deve notare d’altronde che le testimonianze delle fonti storiche disponibili riguardano la corte di Napoli e le regioni dell’Italia meridionale, nel senso generico del termine, ma nonostante ciò vi sono anche notizie che meritano special rilievo, giacché interessano in modo preciso le regioni della Calabria o vicine ad essa.

 

Così, si conosce il testo di una missiva dell’imperatore Carlo d’Angiò, datata il 12 maggio 1273 ed indirizzata «magistro portolano Apuliae» [2]. Carlo d’Angiò dava l’ordine di concedere al cavaliere Nicolò di Sant’Omero la libertà

 

«extrahere de quocunque porto Apuliae voluerit prò se suaque familia et nunciis illustrium imperatoris Vulgarorum et Regis Serviae sexaginta equitaturas et triginta salmas ordei absque jure exiture».

 

Dal testo di un altro documento, datato alla stessa epoca [3], veniamo a sapere che nella primavera dell’anno 1281, o all’inizio dell’estate dello stesso anno, erano giunti alcuni messi del re bulgaro — probabilmente al porto di Bari. La lettera del sovrano di Napoli è indirizzata «justiciario terr(a)e Bari» e menziona esplicitamente l’arrivo dei messi bulgari: «nunciis magnifici principis imperatoris Bulgarorum».

 

 

1. Sul problema vedansi le notizie presso: Fr. Carabellese, Carlo d'Angiò nei rapporti politici e commerciali con Venezia e l'Oriente, Bari 1911; V. N. Zlatarski, Istorija, III, Sofia 1940, p. 520 sgg.; Dujčev, Accenni, p. 9 sgg.

2. I documenti sono stati pubblicati presso V. Makušev, Italjanskie archivy i chranjaščiesja v nich materialy dlja slavjanskoj istorii. II. Neapol i Palermo, SPetersburg 1871, p. 28.

3. Makušev, op. cit., p. 28.

 

 

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Bisogna ricordare inoltre il testo di un’altra lettera, che porta la data del 12 settembre 1271 ed è indirizzata ai «segretari» di Puglia, Capua, Benevento, Calabria e Sicilia, con un’indicazione chiarissima:

«Si processum temporis aliquos ambassatores seu nuncios de partibus Achaye, Servie, Bulgarie, Albanie aut de Imperio vel de Regno de Zagarach [1] deferentes aliquas litteras seu a(m)bassarias a dominis ipsarum partium vel regnorum, ad portus vel maritimas jurisdictionis tue declinare contingat eis, nullum aliud super hoc mandatum nostrum expectans, expensas, equitaturas et securum conductum pro ipsis et eorum familiis usque ad nostram presentiam sine difficultate qualibet exhibere procures. . . » [2].

Alcuni nuovi avvenimenti alla corte del sovrano bulgaro durante la prima metà del secolo seguente, sotto il regno del Re bulgaro Michele II Šišman (1323-1330), ebbero per conseguenza un ulteriore afflusso di persone di origine bulgara nelle regioni dell’Italia meridionale. Così, alla corte di Napoli giunse come esule l’ex regina bulgara Anna, moglie del re Michele II Šišman, che venne accolta da Roberto e da Giovanna d’Angiò, come è attestato in alcuni documenti del periodo fra il 1337 e il 1346 [3]. In una lettera che porta la data del I novembre 1337, il re di Napoli ordinava «magistris portulanis Apuliae» di permettere allo ambasciatore della ex regina bulgara — «nuncium prefate imperatricis» — di esportare «frumenti salmas quinquaginta: quia donaverimus noviter excellenti principisse domine Anne imperatrici Bulgarorum, consobrine nostre carissime, de frumento massariarum nostrarum Apulie frumenti salmas quinquaginta» [4]. Con un ordine successivo, datato il 5 luglio dell’anno seguente (1338), si faceva un’altra donazione di frumento: «quia donaverimus noviter — scriveva il re di Napoli [5] — excellenti principisse domine Anne imperatrici Bulgarorum, consobrine nostre carissime, de frumento nostrarum massariarum Apulie frumenti salmas quingentas


1. Sotto il nome «Regno di Zagarach» (Regno di Zagora) spesse volte, nel corso del secolo XIV, s’intendeva lo Stato bulgaro, la cui capitale era la città di Tŭrnovo.
2. Makušev, op. cit., p. 29.
3. Makušev, op. cit., p. 29 sgg.
4. Makušev, op. cit., p. 29 sgg.
5. Makušev, op. cit., pp. 29-30.

 

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quas ad terrarum Ragusii de partibus Sclavonie, ubi habet aliquo tempore cum sua familia commorari, pro usu suo dictaque familie volumus deportari... ». Simili donazioni furono concesse anche più tardi — con una disposizione del 2 giugno [1], del 20 giugno 1346 [2] e del 20 ottobre 1345 [3]. Occorre rilevare come in tutte queste disposizioni viene menzionato sempre il nome della Puglia come il luogo donde doveva essere ricevuto il frumento. Si deve ricordare, a questo proposito, in modo speciale una disposizione della regina Giovanna di Napoli, del 9 agosto 1343 [4], con cui si concedeva il permesso a «Martinucio de Mencia de Ragusia, familiari domestico imperatricis Bulgarie et filiorum eius. . . extrahere de portubus Apulie equos quatuor diversorum pillorum. . . ». Da notare inoltre che si tratta sempre di documenti assai sparsi, e che evidentemente non disponiamo di tutte le disposizioni, che furono emanate per il sostentamento degli emigrati bulgari che vissero nei territori del Regno di Napoli durante la prima metà del Trecento. Devono essere omessi però un certo numero di documenti dell’epoca, ove vengono menzionati vari nomi di origine slava, collegati con l’Italia meridionale, giacché essi potrebbero interpretarsi soltanto ipoteticamente come testimonianze della presenza di Bulgari in dette regioni. Queste indicazioni, insieme con tutte le altre testimonianze disponibili sui contatti fra l'Italia meridionale, la Calabria in modo particolare e le terre bulgare durante il periodo fra il secolo XI e la line del ’300 dovrebbero essere raccolte ed analizzate in uno studio a parte.

Non sarebbe fuori luogo però toccare qui la discussione di un problema fondamentale della storia dell'Italia meridionale e della Sicilia — il problema cioè dell’origine della grecità in queste regioni. Appunto studiando il problema dei contatti fra la Calabria e la Bulgaria nel corso del Medioevo pare possibile apportare, a parer mio, un criterio nuovo rispetto ai criteri prevalentemente linguistici e storici applicati sino a questo momento. Si tratta di una analisi comparativa di certi elementi di carattere folkloristico. Da questo punto di vista alcuni testi pubblicati recentemente


1. Makušev, op. cit., p. 30.
2. Makušev, op. cit., p. 30.
3. Makušev, op. cit., p. 30.
4. Makušev, op. cit., pp. 64-65.

 

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— alludo ai testi neogreci raccolti in Calabria, a Rochudi, Condofuri, Bova ed altrove [1] — hanno un’importanza speciale. Detti testi sono interessanti sia per se stessi, sia per le analogie ch’essi offrono con fiabe e proverbi popolarissimi fra la popolazione balcanica in genere oppure particolarmente fra i Bulgari. Così, una fiaba che ha per soggetto la storia di un lupo e di una volpe [2], trova la sua analogia in una fiaba simile, conosciutissima fra i Bulgari sino a tempi recenti. In un racconto popolare della Calabria viene menzionato il motivo folkloristico di gettare per terra un pettine, per impedire il raggiungimento dei fuggiaschi da parte dei loro inseguitori [3], che costituisce un altro motivo assai diffuso fra la popolazione balcanica [4]. In Calabria è stata notata anche la fiaba circa la storia del mago e del suo discepolo [5] — che trova, anch’essa, le sue analogie nel folklore balcanico [6]. Si possono indicare inoltre le analogie più o meno letterali di tutta una serie di proverbi diffusi fra la popolazione italo-greca della Calabria. Omettendo il testo neogreco, cito come esempi alcuni di questi proverbi nella versione italiana: «Il cane che abbaia molto morde poco» [7]; «Il sazio non crede al digiuno» [8]; «Crepa, asino, oggi che domani ti porto erba» [9]; «Tanto va la bambola all’acqua, finché si spezza» [10];


1. G. Rossi Taibbi - G. Caracausi, Testi neogreci di Calabria, Palermo 1959; cfr. la mia recensione: «Byzantinoslavica», 24 (1963), pp. 130-132. Il problema è stato trattato in parte anche nel mio studio dedicato ai rapporti fra i Bizantini e gli Slavi nel campo del folklore: Vizantijsko-slavjanska obštnost v oblassta na narodnoto tvorčestvo, in «Izvestija (= Bollettino) dell’Istituto e Museo etnografico», 6 (1963), pp. 351-358.
2. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., pp. 31-32.
3. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., pp. 77-81.
4. Oltre a «gettare un pettine» troviamo anche la menzione del l’uso di «gettare un pezzo di sapone».
5. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., pp. 40-51, 93-98, 129-135.
6. Vedasi lo studio di J. Polivka, Magjosnikût i negovijat učenik, in: « Sbornik (= Raccolta) del Ministero dell’istruzione pubblica» (in Bulgaria), 15 (1898), pp. 393-448.
7. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., pp. 276, 298, 384.
8. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., p. 296.
9. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., pp. 297, 385.
10. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., p. 298.

 

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«Interrogando interrogando vado per tutto il mondo» [1]; «Tra imposta e stipite nessuno metta le proprie dita» [2]; «Quando piove col sole, si sposano le volpi» [3], con una piccola variante («pioggia col sole, si sposa l’orso»); la favola del falso uomo forte che spezzava con le mani la pietra («La ricotta che fece in minuzzoli con le mani e al drago disse che era pietra bianca») [4], che trova la sua analogia nella favola balcanica sulla lotta fra uno zingaro furbo ed il diavolo, ecc. Fra la popolazione italo-greca della Calabria è conosciuto anche il motivo di gettare una pietra come segno di maledizione [5] che ha numerose analogie nel folklore balcanico e specie bulgaro. Nei materiali pubblicati troviamo inoltre la menzione di una usanza singolare, vale a dire il modo di punire una persona, particolarmente una donna adultera, mettendola su un asino e portandola attraverso le strade dell’abitato in segno di obbrobrio [6]. Ta medesima usanza è ben nota per i Bizantini [7], come anche per i Bulgari quasi sino all’epoca recente [8].

Senza esaurire qui le indicazioni del genere, ci si deve chiedere come spiegare queste analogie tra il folklore della popolazione italo-greca della Calabria ed il folklore dei Balcani, in modo speciale dei Bulgari. Evidentemente abbiamo a che fare con certi tratti caratteristici che risalgono non all’antichità classica, ma piuttosto, se non anche esclusivamente, all’epoca medioevale, vale a dire all’epoca bizantina. Attribuendo simili tratti folkloristici all’antichità classica, non si potrebbe spiegare bene la loro presenza nel folklore degli Slavi balcanici, giacché questi ultimi giunsero a conoscere l’antichità classica prevalentemente per mezzo di Bisanzio e non in modo diretto.


1. Rossi Taibbi - Caracausi, op.. cit., p. 370.
2. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., p. 374.
3. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., p. 379.
4. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., p. 157.
5. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., p. 56.
6. Rossi Taibbi - Caracausi, op. cit., pp. 220-228.
7. Numerose notizie su quest’usanza si possono trovare presso N. G. Politis : «Taographia», 4 (1912-1913), pp. 601 sgg.; Ph. Koukoules: «Byzantina-Metabyzantina», I, 2 (1949), pp. 75-101; cfr. la nota di F. D(ölger): «Byzant. Zeitschrift», 43 (1950), p. 503; F. D(ölger) (= I. Dujčev): ibidem, 45 (1952), p. 265.
8. Alcune notizie sono fornite nello studio di G. I. Kacarov, Etnografski usporedici, in: «Spisanie (= Rivista) dell’Accademia delle scienze bulgara», 71 (1950), p. 147 sgg.
 

 

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In altri termini, in questo caso si tratta di una comunità bizantino-slava nel folklore, creata dall’epoca medioevale in poi, e non di un’eredità dell’epoca classica. Ammettere che simili caratteristiche folklori-stiche siano da attribuirsi alla presenza di una popolazione slava più o meno numerosa, che abitava le regioni della Calabria ed in genere le terre dell’Italia meridionale, sarebbe poco accettabile. Si deve pensare dunque unicamente a una serie di caratteristiche che sono da collegarsi, per quanto riguarda in modo particolare gli Slavi balcanici, all’influsso di Bisanzio. Non è diffìcile dedurre quindi una conclusione che s’impone da se stessa: collegare cioè la grecità dell’Italia meridionale e della Sicilia innanzitutto con l’epoca medioevale, in altri termini con Bisanzio, sia come risultato della dominazione bizantina in detti territori, sia come una forma di influsso indiretto. Naturalmente qui abbiamo soltanto un aspetto del grande problema, tanto discusso, la cui soluzione definitiva sembra possibile unicamente quando si prendono in considerazione tutti gli argomenti pro e contra.

 

Bisogna fare però, per quanto riguarda il problema dell’influsso bizantino e del bizantinismo in termini generici, una precisazione. Cosa si deve intendere sotto il termine di bizantinismo quando si parla sia della Calabria e dell'Italia meridionale, sia dei territori degli Slavi balcanici? In quale senso si potrebbe parlare di una civiltà bizantina in Italia del Sud, in Calabria e nelle regioni della Penisola Balcanica abitate dagli Slavi meridionali? A tale quesito si deve rispondere nel senso che di una civiltà bizantina si potrebbe parlare innanzitutto collegandola con la presenza di un elemento etnico bizantino-greco. In secondo luogo l’influsso della civiltà bizantina poteva essere dovuto ad un fatto d’indole politica, vale a dire a un periodo di dominazione bizantina in dati territori. Infine, la vicinanza geografica e l’esistenza di legami di varia natura nel campo della vita storica costituiva un fattore per la penetrazione di influssi culturali da Bisanzio. Per lunghi secoli dell’epoca medioevale l’Impero bizantino impersonò la civiltà più sublime conosciuta in quei tempi, e la sfera del suo influsso culturale fu vastissima, sino ad abbracciare tutta l’oikoumene, vale a dire tutti i territori abitati e conosciuti allora. L’Impero di Bisanzio per la sua composizione etnica costituiva uno Stato plurinazionale.

 

 

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In pieno contrasto con l’intolleranza religiosa, che mirava ad imporre la religione cristiana nella sua forma ortodossa come confessione predominante ed unica, la vita interna dell’Impero era caratterizzata da una particolare tolleranza etnica. La civiltà bizantina, con i suoi elementi fondamentali — l’uso della lingua greca e la professione dell’ortodossia — veniva concepita come una civiltà universale di tutti i popoli delle regioni vastissime del mondo mediterraneo. La sfera di questa civiltà bizantina non coincideva affatto né con i limiti territoriali dell’Impero di Costantinopoli, né coi suoi limiti puramente cronologici, vale a dire continuò ad esistere e a svilupparsi alcuni secoli dopo la scomparsa di quest’impero come unità politica ed economica. Così, il periodo della civiltà bizantina nei secoli di mezzo, con i suoi monumenti storici e artistici, non è altro — per i popoli del mondo mediterraneo — che una ricchissima pagina della loro propria storia.

 

    Atti IV Congresso Storico Calabrese, Napoli 1969, pp. 235-250.

 

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