Memorie di un Viaggio tra gli Slavi della Provincia di Molise

 

Michelangelo Fonzo

 

Gazzetta della provincia di Molise (Campobasso, 6 Ottobre & 3 Novembre 1872)

 

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A. Memorie di un Viaggio tra gli Slavi della Provincia di Molise  (Gazzetta della Provincia di Molise, 6 Ottobre 1872)

- Acquaviva

- San Felice Slavo

- Montemitro

- Costumi (Le nozze — Le veni — L'amicizia — Il ballo — I morti — Il canto — Le vile)

 

B. Continuazione delle memorie sugli Slavi Larinensi  (Gazzetta della Provincia di Molise, 3 Novembre 1872)

- Palata

- Tavenna

- Petacciati

- San Giacomo degli Schiavoni

- Panslavismo

  

A. Gazzetta della provincia di Molise (Campobasso, Anno VI., Num. 77, 6 Ottobre 1872)

 

Sommario

- L'Esposizione di Vienna

- Memorie di un Viaggio tra gli Slavi della Provincia di Molise

- Notizie diverse — Inserzioni legali — Nuovo sistema Brevettato Lossa — Bollettino Commerciate.

 

...

 

 

2

 

MEMORIE DI UN VIAGGIO TRA GI I SLAVI

in Provincia di Molise

 

Il 6 Gennaio 1870 io moveva da Casacalenda per San Felice Slavo, dove il Consiglio Provinciale Scolastico mi mandava a maestro di scuola. L'aria era fredda e mi entrava nell'ossa; e il vento mi percuoteva in faccia come a colpi di frusta. I pensieri mi si combattevano in capo a ondate, e si rassomigliavano benissimo al cielo di quel giorno. Un cielo arruffato: nuvoli, lampi, tuoni: sembrava un tempo da diavolo, una giornata alla tedesca.

 

Quel palpito, quel sentimento sconosciuto che punge indistintamente chi viaggia in paesi nuovi per lui, io lo sentiva tutto e forte.

 

In mezzo a Schiavoni ! ..... ehm ! ... proprio l'ehm de’bravi di Don Rodrigo !

 

Tra gli Schiavoni, i bravi o Don Rodrigo mi accesi il sigaro.

 

Il sigaro mi sveglia il cervello; e quando filmo mi si affacciano certi istinti storici e poetici. Infatti ricordai la battaglia di Kòsovo, dove la scimitarra turca tagliò tanto popolo slavo, e lo ridusse a vagare, e lo calpestò, dove potè, senza misericordia: ricordai Márko Kraljevic, che tanto ingrandiscono i canti popolari, perchè il suo popolo vi si specchia: ricordai Lazzaro Grebljanovic, che santificò quella sconfitta col sangue, e la tramandò lucente di luce divina, come l'estrema stella del tramonto di uri popolo.

 

Se un accento nuovo non mi avesse bruscamente scosso, il mio istinto storico minacciava di mettermi una febbre .... una febbre anche storica.

 

Due Acquavivesi mi liberarono da questo pericolo; ma il camposanto di Acquaviva, che sta innanzi innanzi al paese, mi gittò nella febbre poetica.

 

Grand'anima di Kossuth, la tua Ungheria è una tomba anch'essa, abbiti la lagrima di uno straniero che sospira pel tuo popolo.

 

O Petöfi Sondar, torna, torna fra noi onde sei nascosto: ripiglia l'armonica güsla (1), e vieni ad ispirare ancora la tua Polonia che un popolo fratello opprime. Allora mi vennero a mente certi versi di Giovanni de Rubertis e li cantai:

 

Sulla tomba del prode Petöfi

Forse or sorge l'ortica ed il cardo;

Ma la patria sospira il suo bardo

Che per esso pugnando spirò.

 

 

ACQUAVIVA

 

Oh ....., ecco Acquaviva .... e l’oh fu lungo e sonoro, come lo dette Dante una certa volta.

 

Le femminucce si domandavano: Kö je ón?..  Kó su óni dvá ?... ïzkle grèdu?... (2) E noi dritti, senza voltarci, come soldati sotto le fila.

 

Chiesto timidamente della casa di Giovanni de Rubertis, e additatalami, entrai. Gli Slavi sono ospitali; ma Giovannino de Rubertis è ospitalissimo. Abbracci, baci, carezze, sembravo un Barbiere di Siviglia in veste da viaggio. Passata la furia delle accoglienze, e uscitone il discorso, dissi il proposito mio di voler fare qualche studio sugli Slavi; e ia promessa la mantenni: due mesi dopo io parlava lo slavo di là: ma ho fatto poco, perchè attendere alla scuola elementare e studiare per sè significa in buon volgare andare in pazzia.

 

Acquaviva — voda-ziva(3) è un paese sul lembo d'un colle, da cui sdrucciola e s’infanga. La strada che ci viene da San Felice è impraticabile d'inverno per la melma che s'ha a guazzare; ma quella da Palata ispira qualche sentimento di sublime terribile di natura. È un sublime terribile in carne ed ossa, non da retori: è paura davvero quella che vi assalta; e quel tale sentimento mi son pentito d'averio passato. Certi burroni a picco, certi viottoli scoscesi, alla cui sinistra scorre il torrente di Acquaviva, vi fanno fare la croce, se ci credete. Quando io passava di la, mi raccomandava alla guida con tutto il coraggio di chi tiene un momentino cara la pelle; e se fossi stato sicuro di non essere chiamato pauroso, mi sarei messo a gridare. E con tutto questo, sebbene fa maraviglia a me stesso, io avea la sciocchezza di pensare, e pensare a Walter-Scott, che mi avrebbe saputo descrivere da maestro questa selvaggia natura. E poi pensai dell'Inghilterra severa, di Byron gentile, di Schaskepeare grandioso, di Maria Stuarda sventurata, di Elisabetta protestante, e ... e poi un discorso sui buccellati di San Biase mi trassero di correggiata. E noi per quei buccellati benedetti, e un altro poco mi scappava maledetti, andavamo ad Acquaviva quella volta.

 

Acquaviva è il paese dove lo Slavo si è maggiormente ingentilito, e le donne farebbero accrescere il numero de’manicomi se si facessero capire dai nostri dandys di città. Gran Provvidenza dunque: parlino sempre slavo le Acquavivesi, o quel loro incarnato e quella loro bianchezza andrà incontro a seri inconvenienti. E poi la lingua ha acquistato un certo accento dolce in bocca ad esse: se fosse quella di San Felice e di Montemitro, via; ma io gli Slavi gli amo come sono, da capo a piedi, e se mi si toglie loro la lingua, non avrò più che farmene.

 

Appena dopo pranzo, riposi piede nella staffa.

 

 

SAN FELICE SLAVO

 

Spunta finalmente San Felice Slavo !....

 

Si distende quant'è sul taglio d'una collina: dalla parte mia è uno spazio ad uso di sepoltura con una squallida cappellata in mezzo; e dalla parte opposta si leva il campanile della malissimo ridotta chiesa. Quel primo aspetto mi sbigottì; ma l’accoglienza ch'ebbi mi risollevò a speranza.

 

C'erano Slavi da due secoli c meglio, Slavi fuggiti dallo strazio che faceva il Turco della loro patria, quando, sul cadere del passato e sorgere del secolo presente, come si conta, (giacchè per quello che facessi non m’è stato possibile d'imbattermi in ricordi scritti o storie) il barone Pappacoda da Larino, che qui avea molti feudi, visto il poco numero di abitanti che non giungevano a coltivare sue terre, chiamò altre braccia slave dalla Dalmazia. Questa gente, com'è di tutti i popoli immigrati, cercò difese naturali, e si chiuse in quest’eremo abitacolo di foltissima boscaglia. Che, maravigliato, rimira il viandante, e non considera che la miseria del dipoi, e la quasi passata necessita di difesa, costrinse gli abitanti a tagliarne gran parte per procacciarsi fuoco. Cominciata, più per caso io credo, che per altro, l'opera di mescolamento tra Italiani e Slavi, questi, ch’erano più tenaci di memorie, dettero a quelli lingua e costumi; e se mi si lascia il vocabolo, dirò che successe inslavimento d'italiani. La cui indole greca per origine si legò alla pacifica e pastorale de primi; e i mesti ricordi di sventure slave composero una sola storia coi più mesti di sventure italiane. In quell'oasi nel deserto, in quell'isola nel mare, contenti al poco, bastevoli a sè, non turbati da romore d'armi, si moltiplicarono assai, ed una parte allora si versò su Montemitro, ch'era pochi e sparsi casolari di campagna. E così è che San Felice Slavo e Montemitro Slavo formano ora un comune riunito. Ma, venute meno le stirpi originarie di Slavi, e rinsanguatesi le nuove con sempre freschi Italiani che venivano di fuori, ne cominciarono mano mano a risentire, e si vennero, com'essi stessi dicono con una parola che mi pare ben formata, initalianendo. Di maniera, che se li piglierà vaghezza o capriccio di viaggiare da queste parti, o amoroso studio dello Slavo, lo ritroverai più schietto e rozzo in Montemitro, dove poco accasamento d'Italiani successe; meno rozzo, ma maligno in San Felice, dove quelli di Fossalto, (e fu legge di equilibrio, per esserci sproporzione fra la terra, che è molta, e gli abitatori, che son pochi) in questi ultimi tempi massimamente, inondarono a porre famiglia e stanza; quasi interamente civile in Acquaviva.

 

Ed ora il caso vuole che parli dell'aria, della terra e dell'acqua; ma protesto ai cortesi lettori e alle gentili lettrici della Gazzetta, che non voglio esser preso per un filosofo antico, perchè fra quegli elementi ci manca il fuoco, che mi aspetto tutto da queste ultime.

 

L'aria ò buonissima in San Felice, e la raccontando vivamente agli asmatici; buona in Montemitro, e meno che mediocre in Acquaviva. A renderla migliore, prego, con tutto il rigore d'un naso delicato, che gli abitanti di tutti u tre i paesi leggano gli articoli di qualche Almanacco agronomico sul letame. Se poi leggessero tutti, senza distinzione, gli Almanacchi di Mantegazza, farebbero cosa ottima, e troverebbero che questo vivo e colorito scrittore, è un medico comme il faut, ed ha il più grande rispetto per il naso dell'umana specie. Pure, i venti di scirocco che vi dominano, e i rovai, ora gagliardi or lievi, spazzano di tratto in tratto quell'aria, e la gente fa malissimo a lagnarsene, per cagione delle finestre e de’tetti, che reclamano l’opera del vetraio e del muratore. E finisco sull’aria, avvertendo i medici e i moralisti che essa è invidiosa de'capelli, che cadono presto, e de'denti, che si guastano ed ammalano.

 

La terra è fertilissima, e dà vita al lino e a molti altri prodotti; ma poco bene la si coltiva. Gli abitanti non ne vogliono sapere, e io, che ci ho fatto la scuola domenicale di agricoltura, dopo le prime volte, ho spiegato ai banchi. E qui spezzo una lancia contro quelli che hanno fede ne'maestri in fatto di agricoltura; e dico loro che questa deve impararsi ad amare dai proprietarii e da' galantuomini, e che però si deve aspettare ogni bene dalla scuola elementare solamente; la quale, quando avrà educati questi, questi a lor volta educheranno i contadini. La parola della scuola non è anche per poco quella del padrone, che dice al testardo agricoltore: sic volo, sic iubeo, stai pro ratione voluntas.

 

Stupende sono le esposizioni di levante e mezzogiorno, ed eccellenti però i vini, sebbene poco conosciuti al di fuori per mancanza di vie, che si aspettano. Io pure, che a quel popolo mi affezionai come fratello a fratello—bràt-a-bràt — desidero che qualche via si apra di là; ma dentro di me ne piango e temo. La ruota arrecherà si ricchezza o incivilimento; ma toglierà la rimasta semplicità di costumi; spegnerà il linguaggio slavo; spezzerà i quieti pascoli; e la timida agnella, percossa dall'insolito romore, cercherà rifugio segreto fra le mammelle della madre.

 

Ora debbo parlare dell'acqua, e non ne ho coraggio. Diamine: dopo avervi detto che i vini sono eccellenti, se vi dico che l’acqua è buona, buonissima, mi piglierete per un orbo. Ebbene, datevi a quelli; ma quando avrete male ai nervi, ricordatevi che nella campagna di San Felice vi è un'acqua minerale, che mandata a studiare in Napoli, si giudicò potentissima. E in altro punto poi, detto comunemente l'inferno, si sente un'aria calda come di zolfo e altri gas, che fa supporre anche là qualche altra sorgente. — Slavi, se dal tempo avrete luce e civiltà , ricordatevi le meste parole di Nicola Neri: nemoijte zabiti nase jezik. (4).

 

 

MONTEMITRO

 

— Che cos’è questo scampanio?

A ier svonu svon? sto je dànas?.

Nè znades? je prvi pètak svibanji (5); ces dòci snami na Muntimiter?

Sàd: cekate (6).

 

Mi vesto, e giù per le scale.

 

Io e quattro miei alunni, messici in coda alla processione, che veniva con tutto San Felice dietro, parlando ora schiavone, ora italiano, potei finalmente sapere che il mese di maggio erano tutte feste. Allora pensai che questo mese fosse sacro per gli Slavi, e me ne confermai, vedendo festeggiarne tutti i venerdì, ed altri giorni, sotto il nome di uno o di un altro santo. Infatti, a Montemitro si festeggia il primo e l'ultimo venerdì per Santa Lucia; a San Felice il giorno dieci per Santa Maria di Costantinopoli, e il trenta per Sun Felice; ad Acquaviva il giorno otto per San Michele; e a Taverna, fondata anche da colonia slava, il dieci, che si va al vicino santuario di Montelateglia. Seguitando la via tra mille voci, e lasciandoci dietro e allato albereti continui, arrivammo a vista di Montemitro. Di qui la processione, uscita incontro alla nostra, la gente si ordinò, ed io ebbi agio di osservare.

 

Montemitro è un paese pigmeo; e pure giganteggia sopra un’alta roccia, che mostra frantumate qua e là le sue viscere di pietra.

 

 

3

 

Ha un orizzonte magnifico: lontano si vede tremolare la marina, e tanti monti sono attorno, che sostengono colle loro cime la volta del cielo.

 

La folla era immensa; o gli urti che riceveva da tutte parti, mi avrebbero fatto perdere l’orizzonte delle ossa, se non mi fossi ritirato in casa del mio ospite e collega. Affacciatomi a una finestra dirimpetto alta chiesa, mi misi a fantasticare sulle religioni e sulle teocrazie degli Orientali, dove i sacerdoti volgono a lor talento e gli animi e i corpi. E poi mi ricordai di quelli che danno il nome di casta ai sacerdoti cattolici, senza pensare che a quel nome va unita l'idea di eredità di scienza e di potere; e che condannano il celibato di essi, senza pensare che pertanto non si è avuto una casta sacerdotale. Stava a questo punto, quando un gruppo di amici mi distrasse.

 

Le feste religiose sono più o meno tutte eguali; e Montemitro si fa presto a vedere. Ebbi solamente a notare una pietra sopra la porta di una cappelletta ruinata, che è scritta di certi segni guasti dal tempo, e che credo caratteri cirillici. Una cosa di simile trovai sulla porta del camposanto di San Felice; ma io non ne ho saputo discifrare nulla. Se qualche antiquario ci capita, che si faccia additare quelle iscrizioni, e me le spieghi, perchè me n’è rimasta grande curiosità. Io non potendo altro, gliene augurerei una anche a lui, e se gli piaceranno, tutte e due al medesimo tempo.

 

Di faxint !. . .

 

 

COSTUMI

Le nozze. — Le veni. — L'amicizia. — Il ballo. — I morti. — Il canto. — Le vile.

 

Un colpo di fucile.... due.... tre.... Una fanciulla, lucente d'oro al collo e alle mani, si avanza fra altre con timido occhio. Tutta rossa in viso, (ma di quel rosso che dà la natura e la vergogna, non di quello che vende il profumiere, o mette qualche altro sentimento), direbbe dal solo aspetto ch'è una sposa, se non seguisse dietro un gruppo di uomini, fra i quali si riconosce lo sposo. Dico si riconosce, perchè chi piglia moglie mostra in tutti i suoi atti l'io, ed un io superbo, che sottopongo umilmente all'osservazione di Augusto Conti, affinchè lo metta come l’Achille degli argomenti per dimostrare l'esistenza della coscienza.

 

Le donnicciuole, chi sulla porta e chi alla finestra, si dicono:

 

Kò je djevoika? Kàko te zove cóvèk? (7).

Ie sin ... na ni put gdjè.

Lìjepa djèvoika, lìjipa (8).

 

Mentre cosi pettegoleggiano sulla via,la fanciulla è entrata in chiesa.

 

Un altro colpo.... e poi un altro..., e via... e la sposa passa nuovamente.

 

Seguiamola.

 

La porta della casa che deve riceverla è chiusa. La fanciulla picchia; ma nessuno risponde. Ripicchia, piange, e finalménte, come per forza, la porta s’apre. La suocera od altra parente si trova in posta, e le gitta un pugno di grano con una mano, e un pugno di granturco con l'altra. Così entra. Il via vai nella casa è grande, e se la sposa è povera i parenti del convito — pir — le portano ciascuno cose da mangiare.

 

Oh! Una conocchia con bella chioma e nastri a vari colori, cammina sulle teste, e si porge alla sposa: s'è un uomo che fa il dono, la sposa gli bacia la mano; s'è donna, si baciano in viso.

 

Ma ecco che suona mezzogiorno. A una mensa — stolica — seggono tutte le donne, e a un'altra tutti gli uomini con la sposa. La baldoria di questi si prolunga; ma le donne fan cerchio alla sposa, e chiacchierano e rompono la monotonia dei discorsi con qualche biscotto o noce ed un bicchiere di vino.

 

Ed io, fotografo importuno, mentre elleno sono intese a questa occupazione nobilissima, ve ne fo il ritratto a loro insaputa.

 

Quelle di puro sangue sono grandi e pettorute, e sotto le ciglia sfolgoreggiano un nero occhio slavo. Al tratto assai facili, hanno degli uomini la spigliatezza e la disinvoltura. Un corpetto bruno o di poco diverso colore, disgiunto dalla gonna, bruna anch'essa, nascondono tutto ciò che si deve nascondere. Sopra al corpetto cade un largo collare ricamalo in tela bianca; e sulla camicia kosulja cingono una lunga e larga fascia di lana rossa.

 

E mi licenzio a malincuore dalle donne per dare il posto agli uomini.

 

Sono anch' essi alti e ben fatti : parlano schietto, e contano più bicchieri di vino che disgrazie. Vestono come altrove, ma, dicono i vecchi, che in antico vestivano di rosso di rubbia. Questo si accoppierebbe a un'osservazione di agricoltura del paese; perchè la terra si mostra attissima a questa pianta, non più coltivata. Gli Slavi-Larinesi son tardi a venire alle mani, ma inchinevoli ad aver che fare colla corte, e piatire eternamente. Dell'antica ospitalità è rimasto costume presso i signori solamente; e se tu capiti in casa di contadini a pagare un misero stramazzo, la vecchia di casa ti narrerà le sventure che hanno afflitta la sua piccola patria (perocchè la grande, per lontananza di tempo e di spazio, è smarrita dalla memoria,) nella reazione del sessanta. Se tu avrai pazienza come me, sentirai: se no, la manderai a quel paese dove si mandano i seccanti.

 

L'amicizia ha del sacro; e la parentela spirituale, il comparatico, è vincolo più potente della naturale. Ciò ricorda l'uso dei Serbi, che quand'uno in pericolo chiama un altro col nome di confratello — pobratim — o consorella — posestrima — questi diventa più che fratello del primo, e ne divide il pericolo. Diceva io ad uno scolaro : tira l'orecchio a quello là: ed ei rispondeva da serio: nie, mester, òn mi je kum (9).

 

(10) Mucete, buba bubanj. (11)

 

Un uomo con un tamburello, fatto di una pergamena distesa in un cerchio di legno, attorno al quale tintillano tante sottili lamiue di ottone, salta in mezzo ai crocchi lanciando grottescamente le gambe. Le donne, dopo essersi scusate, negate e fatte pregare un pezzo, al solito, escono al ballo. Quasi sempre lo sposo e la sposa lo aprono. La Slava danza con piè leggiero; l’occhio tien sempre basso, come quello della Miliza dei canti popolari; che, anche all’infuriar della procella, non leva lo sguardo, e il fidanzato se ne strugge.

 

Iè kasno (12) Buona notte... E la comitiva si discioglie.

 

Ed ora, lasciando gli sposi che hanno bisogno di star soli, facciamo un brusco passaggio e parliamo dei morti.

 

Il prete, questo buffone che canta al nostro nascere e canta al nostro morire, e che mi fa fare un periodo cantante, è andato ad amministrare gli ultimi sacramenti, seguito da donne che rispondevano a una canzone religiosa. Lo Slavo canta quando nasce, quando vive e quando muore: canta al villaggio e alla campagna: cantati uomini e donne: cantali fanciulli e vecchi: cantano tutti e cantano sempre! Ma il canto dell' Italo-Slavo non è quello che allieta o ammestisce i balzi del Montenegro e della Serbia : egli canta in dialetto italiano : è un usignuolo (13) che ha dimenticato la sua canzone!

 

Intanto il mio prete ritorna, e dietrogli il viaggiatore dell'altro mondo, custodito nella sua brava cassa che lo difenderà da qualche probabile cangiamento di atmosfera...

 

La bara han per uso di portarla quattro uomini, se il morto è uomo; quattro donne, se è donna; quattro giovinette, se bambino..... Beccamorti..... oibò..... niente di ridicolo......

 

Una madre, una sorella vengono dietro piangendo e gridando dolorosamente.

 

gdjè grèdes, sàda, sine moi?....

gdjè gdjè?.... nemoj tece tako... rici mi stògodi..... kako cu ciniti senza (**) tibe (14)....

 

I Romani facevano piangere i loro morti dalle prefiche: gli Slavi li piangono essi stessi.

 

Gli angeli custodi o i diavoli tentatori di quest'Itali-Slavi sono le velenice: antico ricordo delle patrie vile, specie di fate, muse e streghe, cui si attribuiscono lieti e funesti influssi. E questo popolo ci crede e crede da senno.

 

Ultima parola sugli Slavi Italiani

 

Di queste colonie parlò Giovenale-Vegezzi-Ruscalla, e gl'Itali-Slavi gli conferivano la cittadinanza.

 

Ascoli, Professore di Filologia Comparata all’Università di Milano, dopo essere stato qui nel 1868 , pubblicò anche lui delle Memorie sugli Slavi e la loro lingua.

 

Giovanni de Rubertis, concittadino, al 1856 diè fuori nell’Osservatore Dalmata, giornale Zaratino, certe Lettere sulle Colonie Slave in Italia; che furono tradotte in russo da Bodianski, Professore all’Università di Mosca. Un ultimo lavoro del medesimo de Rubertis, la Libera Versione dei Canti Serbi di Meda Pucic, raccomandano agl’Italiani lo studio di questo popolo e della sua lingua. A questo popolo e a questa lingua io invio dal profondo dell'anima un augurio e una promessa. L'augurio, che la razza Slava si riunisca presto in una sola famiglia, e la promessa di un'altra parola ancora, che potrà essere un libro o una storia (*).

 

Michelangelo Fonza

 

 

(*) Non è stato possibile serbare interamente l’ortografia slava per le condizioni tipografiche.

 

(1) güsla chitarra slava antichissima.

 

(2) Si spitgo; chi è quegli?.. chi sono quei due?.. donde tengono?..

 

(3) voda-ziva: acqua viva, ed è coll col fatto.

 

(4) Non vogliate dimenticare la nostra lingua.

 

(5) Perchè suonano le campane? — che cos'è oggi?

— Non sai? è il primo venerdì di maggio? vuoi venire con noi a Montemitro?

— Adesso: aspettate.

 

(6) Questa parola svibanji s'è perduta presso questi Slavi Larinesi, e per significare maggio slavizzano malamente la parola italiana.

 

(7) Questi Slavi usano ljudi al singolare, di cui è difettivo; e il cóvèk l'han perduto.

 

(8) Chi è la giovane? come si chiama l'uomo?

 

(9) No, maestro, egli mi è compare.

 

(10) Zittite, suona il tamburo.

 

(11) Nè il buba, tamburo, nè il bubuti e bubnjati, suonare il tamburo, si ritrovano più nella lingua di questa colonia. Qui è bene avvertire come nello Slavo c'è una parola per ciascun suono di strumento.

— È il figlio di.... in quella via dove sta.....

— Bella figliuola, bella!

 

(12) È tardi...

 

(13) Usignuolo in serbo si fa slavic, piccolo Schiavoncello. Quanto amore del canto!

 

(14) Dove vai ora, figliuol mio?.... dove dove... non voler correre tanto..... dimmi qualche cosa..... come farò io senza te.

 

(**) Senza, parola italiana, si è perduto la equivalente brez.

 


 

 

B. Gazzetta della provincia di Molise (Campobasso, Anno VI., Num. 83, 3 Novembre 1872)

 

SOMMARIO

 

- Continuazione delle memorie sugli Slavi Larinensi

- Appendice — Cronaca — Interzioni legali — Gazzettino.

 

 

 CONTINUAZIONE DELLE MEMORIE

SUGLI SLAVI LARINENSI

 

Poichè la carità del natio loco

Mi sirinse, ragunai le fronde sparte

Dante Inf. XIV.

 

In antico le Sibille e i Sacerdoti scrivevano lor detti su foglie poeticamente composte; ed io, del secolo XIX, scrivo le mie cose prosaicamente su carta. Ma siccome metto tutto qua e là su pagine volanti, cosi que’versetti di Dante ci stanno e stanno bene, e non come i motti biblici sui languidi inni religiosi della buonanima di Silvio Pellico. Per continuare poi avverto ch'io non viaggio da baule, ma si Gli sguardi viti e le orecchie intente; e chiedo sensa a Giovanni Prati se gli guasto i versi, e comincio.

 

 

PALATA

 

Palata, parola che fa scorrere certi brividi per le reni di quanti parlano l’espressivo dialetto del mezzodì d'Italia, è un paese fondato da Slavi. Quegli stessi Slavi, che gittarono le fondamenta di Acquaviva, San Felice e Montemitro, e de’quali ho parlato nella Gazzetta del 6 ottobre, vennero e stettero qui. Perchè e quando l’ho detto, come dirò che vennero a piccole schiere per la ragione ch' erano fuggiaschi, nè dovevano destare sospetti, nè grandi mezzi aveano di tragitto. E prima che, rassicurati del luogo, mettessero mano a edificare di pietra e mattoni, rizzarono palizzate e capanne, come il nome stesso ne avverte. Chi gira per il suo lungo e largo paese, trova ancora di tratto in tratto delle scalinate d'ingresso, messe al riparo da soffitti di paglia e travi, sorretti da pali. Ciò va scomparendo ogni di vie più; e l'occhio solo dello storico può aver vaga induzione della origine del paese. Il quale, situato su d'on'altura, mena strazio della zampa del cavalo che ci sale, per i ciottoli che non finiscono mai, e che, battuti e messi a posto, fanno mediocri strade interne. Il versante di mezzogiorno e oriente è vigneti quasi tutto: quello di settentrione e occidente è querce, che vi accompaghano lunghesso le vie, e campi da semina. Cresciuto, più degli altri, di abitanti, questo paese non offre vestigia del suo passato: lingua, costumi, tutto rase il tempo colla sua spada di fuoco. Si è Italiani interamente, se togli il vestire delle donne, che rassomiglia quello degli altri paesi slavi; e qualche esclamazione, p. e. di riso: jào; di dolore: jàò mène; di offerta: ecc.

 

 

TAVENNA

 

È la perla di que'paesi; è la loggia del Circondario di Larino, come diceva un Sotto-Prefetto. Paese allo, ben fatto, con belle vie e bei spiazzati, con gente cortese, e dall'occhio italo- nero-slavo. I cittadini han ritenuta tutta l’ospitalità tradizionale; e però alcuni dissero, con poro sano criterio, Tavenna derivar da Taberna. Un’origine latina: è da stordire i sordi. I paesi slavi la chiamano Tàvela, e, però di altri inconsiderati è fatta derivar da tavola, senza ricordare che in significato di mensa abbiamo stolica, e in significato di un certo taglio di legno abbiamo dàska. Ma innumerevole è la turba dei pazzi; tener loro dietro è lo stesso che lavar la testa all' asino, o al maiale, come fa la mia serva. Tavenna dunque suppongo venire da ta jèdna, questa è una, zemlja, vale a dire, cioè terra. Forse fu il primo punto, dentro continente, che stimarono abitabile a sè gli Slavi immigranti. Ciò è confermato dall'avere le costruzioni certa forma guerresca or quasi perduta; e una porti, che ancora c'è, avvalora vie meglio la mia supposizione. E poi il santuario di Montelateglia mi dice anche qualche cosa: e la processione de’carri in una delle feste me ne rammenta anche qualche altra. I Tavennesi son facili ad apprendere lo slavo, e c'è tuttora de’vecchi che lo partano; e per intenderlo solamente è affare di poco tempo per esso. E conchiudo, invitando gl'impresari di teatro a far qui ricerca di ballerine, perchè le Tavennesi ballano ballano ballano; e un carneval me lo so io!....

 

 

PETACCIATI

 

Bosco gigantesco e villaggio microscopico, è luogo di ritrovo e di caccia per gli abitanti del paesi vicini; un vecchio castello, che ora è palazzo, accoglie i cacciatori e le loro provviste di robe forti da mangiare. Quel castello e quella situazione dicon chiaro che i primi abitatori ci si ritirarono perchè spaventati o smarriti; e gli eccellenti latticini ricordano l'indole eminentemente pastorale degli Slavi. Non c'è niente che riveli lor venuta: è un paese romito dove andrei a stare colla mia donna se fossimo al tempo di donne, cavalier, armi ea amori. Nella parola Petacciati trovo nondimeno un pèta, cinque, Vollero forse gli Slavi indicare una lor quinta immigrazione?

 

Ma allora avrebber dovuto avere delle relazioni, e qualche documento sarebbe pure rimasto. Han forse voluto significare che vennero in un sol nucleo, e che poi, prolificati, a uso delle primavere sacre de'Germani, si fossero divisi; e che Petacciati fu fondato alla quinta di queste divisioni? È improbabile, perchè non c'era mezzi di venir tutti a una volta, e non sarebbe saputo di saviezza. Avran forse combattuto cogl'Italiani, e saranno stati costretti a disperdersi? Le storie tacciono; e questo silenzio mi rende più persuaso che vennero a pochi per volta (ma per caso, non per previsione loro) fino a sfuggire all'attenzione storica. Finalmente potrei descrivere della caccia che vi si fa, e sarebbe un argomento che piacerebbe ai lettori della Gazzetta; ma non mi vo’privare d’una descrizione che mi potrà servire per qualche romanzo.

 

 

SAN GIACOMO DEGLI SCHIAVONI

 

Verso la fine di ottobre del 1868 io scendeva a Termoli dalla diligenza postale, colla cèra del freddo e col naso solo fuori del mio cappotto da collegiale. Uscito di corto dal collegio, portavo ancora quell’abito; e doveva ire a Guglionesi, dove mi aspettava la mia povera mamma ammalata. Giltati giù cinque o sei biccherini di rhum, e trovato un vetturale, conirattai per la sua mula, e ci mettemmo in via.

 

 

2

 

Il fumo che vidi levarsi a un punto, mi fece sapere che là era S. Giacomo Schiavoni; e il freddo mi consigliò di scendere.

 

È un paese in campagna, e ci s'entra attraversando bei frutteti e belle vigne. Quindi buon vino; e quindi il freddo sparì perfettamente da noi. Niente affatto di slavo: se non ci fosse quel complemento determinativo vicino alla parola S. Giacomo non saprebbero neppur essi gli abitanti di essere figli di Schiavoni. Già, vedendo que'campi v'accorgete che l'agricoltura degl'italiani vinse la pastorizia degli Slavi, e che questi rimisero della loro indole. L’attento osservatore delle fattezze e della lingua, trova pure un certo che di tipo slavo in quelle; e in questa certe lievissime gutturali. Del resto non posso affermar altro con sicurezza che questo paese dovè esser fondato da coloro, che, memori più degli altri di lor patria; non su ne vollero molto discostare; e dai più timidi o prudenti, che, incerti di quello ch'era dentro terra, si vollero tenere vicinissimi al mare. E metto fine a queste mie Memorie con un breve motto sopra un’idea, che s'intitola.

 

 

PANSLAVISMO

 

C'è di quelli che questa parola credono significare che s'abbia a tenere i Casacchi in casa, o che s'abbia tutti a doventar Russi. No : panslavismo è quell'affetto che si nutre per gli Slavi a che si riuniscano in un solo Stato. Tredici popoli, sessanta milioni di uomini parlano la stessa lingua, e perchè non volere che formino una sola nazione? Forse perchè si teme della prepoderanza russa? Oh ! le aspirazioni de'popoll sono determinate dalla postura di essi sui globo e dalla loro indole: ciascun popolo ha le sue: si pensi dunque a comporle. Voi avete voluto porre un mare di barriera alla vela russa, e avete conculcato il diritto d'espansione de'popoli: aspettatetene la rappresaglia, perchè le leggi di natura non si violano impunemente. Io non voglio andare più innanzi in questa materia; ma s’è colpa l'amare tutti i popoli, è la colpa della Peccatrice: il troppo amore !...

 

Michelangelo Ponzo

 

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