Colonie Slave nell Italia meridionale

 

Giuseppe Gelcich 

 

 

Tipografia Sociale Spalatina, Spalato 1908

 

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        Colonie Slave nell Italia meridionale [*]

 

 

A proposito di quanto, or non è molto, fu detto delle colonie slave nell’Italia meridionale, non sarà inutile raggiungere altresì che l’Ascoli ed il Baldacci non dovrebbero essere stati nè i soli nè i primi a studiarle. Una preziosissima monografia del 1856, edita a Zara coi tipi De Marchi-Rougier, ci dà la corrispondenza che il prof, de Rubertis ebbe sulle „Colonie slave del regno di Napoli" col conte Orsatto Pozza di Ragusa. Oltre a quanto ne scrisse l’Ascoli che visitò quelle colonie nel 1867, fra il 1880 ed il 1885, qualche cosetta in proposito sarebbe uscita anche dalla penna di Risto Kovačić di Risano, che, circa in quell’ epoca, fu ripetute volte ospite gradito di quelle colonie. Qualche altra cosa, poi, ne dettò (1904—1906) l’avvocato Dottor Smodlaka di Spalato, nel „Pensiero croato" di Zagabria ed altrove.

 

Finalmente del prof. dott. Aranza si leggono alcuni cenni nel volume 14 dell’ „Archivio di filologia slava" del prof. Jagich di Berlino, mentre documenti e memorie si trovano nelle pubblicazioni di Ljubić e di Makuscev.

 

In quanto al fatto delle trasmigrazioni di codesti coloni slavi nell’ Italia meridionale, è senz’ altro incontestato che esse avvennero non altrimenti che per mare. Trasmigrazioni slave dalle coste orientali dell’Adriatico, per terra, e d’intere famiglie non ebbero mai meta immediatamente tanto lontana, sia che avvenissero per isfuggire al flagello delle invasioni,

 

 

*. Questi pochi cenni furono consigliati da quanto sulle „Colonie slave nell’ Italia meridionale" ha detto un giornale di Trieste, il „Piecolo della sera" dell’8 febbraio p. d. (n.o 9521 — XXVII), accennando ali opuscolo del prof. A. Baldacci di Palermo.

 

Secondo il prelodato professore, almeno per quello s’ ha da dedurre dal „Piccolo“, „le emigrazioni di Slavi in Italia sarebbero state due, ed entrambi per mare: la prima probabilmente nel periodo in cui gli Slavi si stabilirono come invasori nella Dalmazia nel VII. ed VIII, secolo, e la seconda per sfuggire all’ invasione dei Turchi, specialmente „al tempo della morte di Skanderberg".

 

 

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o sia che fossero consigliate dal bisogno di migliorare con un lavoro vieppiù rimunerativo, e sotto cielo più propizio, le proprie condizioni economiche. Le trasmigrazioni per terra furono tutte assai lente, per lo più di singoli individui, e, quasi sempre, graduale conseguenza d’imprese, e di speculazioni già felicemente incominciate in patria.

 

L’idea poi di far risalire il principio delle trasmigrazioni di genti slave nell’Italia meridionale già all’epoca delle invasioni lungo la costa orientale dell’Adriatico, torna alquanto ardita. Occupato il montano ed invasi i suburbi del littorale dalmatico, fino alle porte delle città romaniche, nè Serbi, nè Croati ebbero, almeno per tutto quel secolo, ragione di pensare a conquiste o ad espansioni anche al di là del mare. Che avrebbero detto gli imperatori di Costantinopoli di tale velleità? Che se successivamente tino al secolo X. qualche Slavo si è trasferito dalle coste dalmatiche a quelle dell’ Italia, sotto gli auspici dei rapporti politici creati dai diversi sovrani ch’ebbero a dominarne la penisola, non si vorrà per ciò sottintendere delle trasmigrazioni, con l’intendimento nettamente determinato di piantarvi delle colonie, o che almeno fossero numericamente capaci di dar vita a qualche coloniale stabilimento.

 

É vero clic dal secolo IX in poi fino al secolo XIV, i Narentani e successivamente gli Almissani corsero d’ Adriatico per consolidarvisi, contendendone il dominio ai Veneziani: è per altro certo, parimenti, che le loro spedizioni non ebbero mai direttamente di mira le coste italiane. Si sa inoltre che, dal secolo XI in poi, intanto che Narentani ed Almissimi si fortificavano nel canale della Narenta e nell’adiacente isolario, tutti gli altri Slavi del litorale dalmatico si mostrarono propensi piuttosto a recedere dal mare, che ad attraversarlo, per cercare al di là di esso nuovo e più vantaggioso campo di espansione. Lo comprova per avventura, la facilità con la quale i costoro principi, dalle regioni montane si adattarono a rinunziare, verso adeguata annua contribuzione, ai possedimenti littoranei, che, perciò, passarono sotto il dominio dei municipi romanici. Ne viene, di conseguenza, che un esodo dalla costa orientale dell’ Adriatico verso l’ occidentale, debba essere assolutamente escluso, per tutto il periodo caratterizzato da cosilatte evoluzioni.

 

 

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Ned è possibile ammettere, che tale movimento possa essere subentrato più tardi, quando cioè (XIV e XV secolo) gli Slavi d’oltremonte fecero, in quella vece, ogni sforzo possibile per riavere ed ampliare tutti gli antichi loro possedimenti adriatici, attentando per sino alla indipendenza municipale delle citta romaniche. Gli sconvolgimenti d’Ungheria favorirono questo movimento; ma l’arrestò il successivo avvicinarsi del Turco, onde i Veneziani ebbero aperta la via alla completa e definitiva conquista della Dalmazia, il cui possedimento era stato loro da secoli accanitamente contrastato.

 

Ed i Veneziani ben trovarono e la necessità ed il modo di prevenire tosto e per sempre negli Slavi del littorale dalmatico, l’idea dell’ emigrazione rendendone loro e lieto e vantaggioso il soggiorno. Agendo diversamente, l’assottigliarsi continuo della popolazione agricola ne avrebbe messo in forse il dominio, ed in ogni caso ne avrebbe almeno fiaccata la potenza marittima, ne avrebbe scemate le risorse economiche. Che se in realtà avvenne di veder ciò nullameno dei formali trapianti colonici, cotesti trapianti, quale p. e. fu quello di Peroe in Istria, s’ effettuarono tutti sotto gli auspici, o meglio per volere ed a spese del senato veneziano: ma sempre entro i confini dei domini di San Marco, nè d’ altre genti mai che di Slavi chiamativi da oltremonte.

 

Avvenne in quella vece una lenta e quindi inosservata trasmigrazione dalla Dalmazia, di uno o tutto al più di due individui alla volta, che, abbandonando per sempre questo paese, andarono in cerca di pace e di lavoro, sotto all’ egida di qualche trono ereditario, e quindi al di là dei domini della serenissima, negli stati austriaci, nel reame di Napoli, nelle terre pontificie, nella Toscana, nella Spagna e fin in Turchia. Ma di codesta emigrazione siccome nessuno ebbe a tener conto allora, cosi tornerebbe affatto fuor di proposito il parlarne adesso.

 

Nondimeno chi volesse risalire proprio alle tenebre dei secoli grossi, potrebbe sospettare che, occasione ad un primo coloniale stabilimento di Slavi nell’Italia meridionale, abbia dato p. e. la spedizione al Gargano che, nel secolo IX, sconfisse e respinse gli Agareni (867) i quali dopo aver distrutte le città di Budua, Rose e Cattaro, avevano assediata con la stessa mira anche quella di Ragusa, minacciando di stragi e l’una e l’altra riva. Gli istoriografi di quei tempi, lieti di aver messo in sodo l’avvenimento che decise dell’ esistenza dei municipi adriatici,

 

 

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non trovarono opportuno di constatare se l’uno o l’ altro dei campioni scesi fino a quelle parti dalle forre erzegovesi, non abbia ricalcate le vie della patria, per piantarsi definitivamente da quelle parti. Ma è l’istoria dei Mussulmani di Sicilia che sa dirci qualmente, attorno il 918, il Mehdì, non fidandosi di render le armi all’universale de’ suoi, adocchiati i gianizzeri prediletti di Ibrahim-ibn-Ahned, i sobrii e prodi Slavi, ne congegnò un nuovo e quanto altro mai poderoso corpo d’ esercito, per le spedizioni contro l’ Italia. D’ altra parte, quand’ anche per il concorso di tali circostanze, nei secoli IX e X si fosse in realtà effettuato un qualche coloniale trapianto, è fuor di dubbio che questo, sopraffatto dalle mille e mille vicissitudini, che d’allora in poi agitarono e sconvolsero gl’ Italiani, si sarebbe ad essi perfettamente assimilato, perdendo ogni, se pur lontano, indiziò d’ origine slava.

 

Infatti l’ odierno Quariier del Capo ch’ è il più grosso rione della città di Palermo, e contiguo al porto, si addomandava fino a pochi secoli fa il „Quartier degli Slavi", dalle genti appunto che Saian, il celebre paggio dello Zupano Michiele, lasciava colà dopo l’ultima delle sue scorrerie in Sicilia (929 Ottobre) sotto le insegne fatemitiche.

 

I cronisti ed i novellatori italiani ricordano, qua e là, l’ uno o l’ altro sclavo : è vero ; ma, se sotto questo nome si ha da intendere persona di razza slava, nè implica, nè può implicare che s’ abbia a scorgervi dei germogli di qualche coloniale stabilimento slavo in Italia. In codesti sclavi si avrebbe da scorgere piuttosto qualche mercante, qualche avventuriero, passato in Italia a cercarvi un onorato pane qualunque, sotto la salvaguardia di quelle circostanze che successivamente, la mercè di trattati, apersero ed agevolarono il commercio ai municipi dell’una e dell’altra riva adriatica. Che altro mai se non la ragione del traffico, appunto in quei dì, attraeva in Bosnia, in Erzegovina, in Montenegro, in Albania, in Serbia e altrove tanti illustri italiani, per le vie di Ragusa e di Cattare, dalle più fiorenti città della penisola? Anche oggidì degli Slavi fanno tratto tratto capolino nei principali empori d’Italia. Vi si recano adesso come vi si recarono anche nei secoli passati, a vendere le derrate dei loro paesi e i prodotti delle loro industrie, ad acquistar drappi, velluti, coralli e simili. E vi rimangono ancora oggi, come vi rimanevano per l’ addietro,

 

 

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ad agevolar il traffico ai propri sotto le vesti di agenti, fattori, sensali, interpreti, ecc., oppure ad esercitarvi qualche industria. Di tali dev’essere, p.e., stato quel Martinus „qui fuit ex genere sclaborum" che il codice Cavense ricorda all’anno 981. Il Makuscev ha una serie di circa sessanta Slavi che, tra il 1378 ed il 1571, avrebbero esercitato in Ancona l’una o l’altra industria manuale.

 

Del resto, a proposito degli sclavi, citati alle volte dai cronisti e dai novellatori italiani, non sarà forse inutile il ricordar qui eziandio la gran quantità di Slavi schiavi, comperati al mercato di Narenta e in altri scali della costa dalmata, e trasferiti a quelle parti. Si sa quanto fiorisse nei secoli VII—X il mercato di carne umana, e come nel commercio di schiavi che conducevasi nel Mediterraneo, quelli di razza slava venissero considerati siccome merce, di prima qualità. Si sa che sclavi-slavi venivan esposti fin nei mercati di Venezia e di Roma dove papa Zaccaria, inorridito dello scempio a cui tanti redenti venivano tradotti per avidità di lucro, ne proibiva lo scambio. Si sa che complici in tanto vilipendio dell’ umana dignità furono i Greci, i Latini e fin gli stessi Slavi, che, umani verso gli schiavi che tenevano in casa; non reputavano obbrobrio il vendere uomini fin del loro stesso sangue. Carlomagno ricordò (785) l’anatema, di Zaccaria, e si sa il pericolo, a cui una volta (sec. XIV) si era esposto il Comune di Ragusa, appunto per aver tollerato un tal commercio, e da cui poi se la cavava con quella famosa abolizione della schiavitù e del mercato di carne umana, che doveva assicurarle bellissima pagina nella storia dell’ umano incivilimento.

 

Le prime trasmigrazioni slave in Italia sarebbero state imposte dalle invasioni dei Turchi?... È facile il sospettarlo, ma si conoscono fin i nomi dei singoli, che, in quei momenti fortunosi, dall’ Albania, dal Montenegro e dalla Erzegovina sono calati in Dalmazia ; laddove non si sa di navi noleggiate per conto di profughi che avrebbero cercato salvezza in Italia. I villaggi e fin le città del littorale dalmatico accolsero i profughi d’ oltremonte, ch’ ebbero, dovunque, ospitalità e lavoro. Molti poi si spinsero incalzati fin nella Croazia e nell’Ungheria; ma il mare, e meno ancora in proporzioni tali da popolare delle terre nelle forme di proprie e vere colonie, nessuno in quell’ occasione s’ è pensato di varcarlo.

 

 

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Anche lo Scanderbeg traversò l’ Adriatico da Budua a Ragusa, e di là, per Meleda, in Italia; ma quando vi andò accompagnato da qualche lancia spezzata, o da manipoli di arcieri albanesi, e montenegrini, nessuno mai si sarebbe permesso di abbandonarlo per via, disertandone la causa.

 

All’ opposto, le trasmigrazioni di maggior conto e che in realtà contribuirono all’ origine di coloniali stabilimenti slavi in Italia, furono quelle incalzate dal furore delle incursioni alle quali l’ Ottomano si sentì indotto poi, vedendosi conteso il pacifico godimento delle sue conquiste, a dispetto di tutti i trattati, di tutte le ratifiche le mille volte sancite e giurate. Per quanto i governi degli stati limitrofi si sforzassero di mantener fermi con esso tutti i migliori rapporti di un’ amichevole e pacifica vicinanza; i sudditi, quasi non avessero avuto mai altro di mira che di esporre i governi a continui pericoli, eccedettero in malversazioni, le quali, degenerando in eterne rappresaglie, assunsero non di rado il carattere di un’efferata caccia all’infedele. Fin l’imbelle donnicciuola non esitò di spianar crudelmente l’ archibuso a strazio del Turco. Ve lo dica l’ Orbini, tanto devoto dell’ eroismo delle Perastine.

 

Di qui incursioni e saccheggi mai più previsti ; di qui attacchi arbitrari e violazione di confini, con pretese incessanti d’indennizzi, di ratifiche e proteste d’ogni maniera. E dei malintesi che alle volte ne derivarono, non mancò mai chi seppe fare suo pro’, traendo l’ occasione per indurre il Turco alla guerra, e trascinarlo, la mercè di vergognose alleanze, alla rovina di stati civili.

 

Ora tra le emigrazioni provocate dalle guerriglie che i Turchi ebbero a sostenere, per consolidarsi nel dominio dei Balcani e delle quali è da tener conto, perchè di esse si può discorrere su basi storicamente documentate, si dovrebbero annoverare in primo luogo, le due dovute alla caduta e all’ eccidio di Scutari. L’ una andò per la via di Budua, e si spinse fino a Genazzano, portando seco, o, come narra una pia leggenda, seguendo quell’immagine,, in grazia alla quale diveniva poi tanto famoso il santuario della «Madonna del buon consiglio". L’ altra fu quella che il governo della repubblica trasferì, parimenti per la via di Budua, ma direttamente a Venezia, per mantenerne gl’ individui più ragguardevoli nei diversi uffici della dominante, per colonizzare coi meno abbienti la terra di Gradisca,

 

 

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di cui, a questo effetto, divideva successivamente alcune terre in cento cinquanta particelle coloniche. Erano dessi gli ultimi quattrocentocinquarita uomini che accompagnati a centocinquanta donne, all’atto della capitolazione di Scutari, avevano seguito il Provveditore Antonio da Lezze, portando seco e averi, ed armi, e reliquie, e vasi sacri di chiese : miserande reliquie essi stessi di una popolazione distrutta dalla fame e dalla guerra in un assedio di ben undici mesi (1478—1479). Ora, lo Skanderbeg era già dei più fin dal 17 gennaio 1468.

 

A dir vero, di codeste due prime emigrazioni sarebbe stato senz’ altro inutile far parola, in quanto che non vi si trattava di Slavi. Erano codesti profughi degli Albanesi, della stirpe nobilissima dei Ghega, che popola le regioni al nord dello Schkumbi. Importava, non di meno, ricordarne l’ esodo, per stabilire quando e da chi abbiano appresa gli Slavi d’ oltremonte, la via che, attraverso l’ Adriatico, avrebbe potuto condurli a un porto qualunque di salvezza. Albanesi parimenti, furono i fieri rampolli della stirpe dei Toski, che, dalle regioni al sud dello Schkumbi, esulando quasi contemporaneamente ai Gheghi, ebbero, assieme a molti peloponnesiaci, ricetto in Sicilia, ai giorni e sotto gli auspicii di Ferdinando d’ Aragona (1458—1495), dall’ arcivescovo di Monreale, da Giovanni Vilarant e da altri.

 

Ed infatti da quest’ epoca in poi, il passaggio del mare, da Budua alle coste della Puglia, fu trovato facilissimo dagli Slavi d’oltre monte; anzi, esso si rese loro in breve tanto famigliare quanto è agli odierni loro discendenti quello, attraverso l’ oceano, alle lontane Americhe o alla Terra del Capo. Ne è prova, frale altre, il ripetersi tanto frequente della’ minaccia di volersi trasferire in Puglia, che gii Stradiotti provvisionati di Budua e di Albania hanno fatto al senato di Venezia, tutte le volte che si trovarono a corto di quattrini (1503—1527).

 

Tuttavia, come in questi passaggi così nemmeno in quelli dei mille e più fanti che Venezia condusse successivamente, in più riprese, dal Montenegro, e sempre per la via di Budua, in Italia, a Padova, a Vicenza a Rimini, in Puglia ed altrove, sarà lecito intravedere senz’ altro, i fattori elementari degli stabilimenti coloniali, dei quali si occuparono i Pozza, i De Rubertis, i Kovačić, gli Smodlaka, gli Aranza, gli Ascoli, i Baldacci e chi lo sa quanti altri ancora fino al Rescetar.

 

 

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I passaggi che avrebbero contribuito alla prima istituzione di colonie slave nell’Italia meridionale, sono dovuti ad altre cause, e sono posteriori di qualche anno a quelli or ora citati ; sono dovuti cioè all’ ultimo tentativo fatto per riavere al dominio del Montenegro i Černoević.

 

Il Turco l’aveva vinta sui Černoević; il Montenegro era ormai ridotto in un modesto sangiaccato. In sulle prime, ne aveva minacciato il tranquillo possedimento l’indole irrequieta, lo spirito turbolento di quel Giorgio Černoević, che, vivendo a Venezia, dove sposò una Erizza, avrebbe potuto, quando meno se lo fosse aspettato, provocar di là rivolte e cause di nuove guerre. Ma caduto anche in disgrazia del senato veneziano, Giorgio rifece la via dèi Balcani, per finire poi, come già da molti anni era finito il fratello di lui, apostata, a’ piedi del Gran-Divano. Il Turco relegando (1503) lui pure in Anatolia, a godersi gli ozî di vistose risorse, aveva ritenuto di eliminare in esso, dalla Europa, e per sempre, ogni pericolo di nuove turbolenze nel Montenegro. Se non che, l’anno dopo (1504), la Erizza, trovandosi a corto di quattrini, fece intendere di volersi ridurre col figliolo a Budua, nel cui territorio il marito di lei aveva pur lasciato qualche cosetta al sole. La notizia dell’idea della Erizza, ebbe per i Montenegrini la forza di un grido di guerra, e l’anno dopo (1505 luglio) tutto il paese fu in armi per negare al Turco l’usuale haraggio (tributo). Il sangiacco di Scutari irruppe violentemènte nel paese con 6000 armati, e già nel primo attacco ben 600 Montenegrini furono passati a fil di spada. — ,,Ha preso 500 anime et fattovi grandissima crudeltà". — Ma il sangue non valse a reprimerne la baldanza; le invasioni si ripeterono con ostinata energia facendosi sempre più crudeli. Il Gran Sultano, non appena morto Giorgio Černoević, ne richiamò dall’ Asia il fratello Schenderpascià, sulla cui lealtà era ormai certo di poter fare i migliori assegnamenti (1513), e l’inviò col titolo di sangiacco al governo del Montenegro, nella speranza che il popolo si sarebbe arreso di buon animo, alle costui persuasive. Infatti Schenderpascià Černoević vi ebbe cordiale e festosa accoglienza, e, tanto per assicurarsi l’appoggio degli stati limitrofi, incominciò tosto à fare i begli occhi al Senato di Venezia. Suo primo atto di buona vicinanza con la repubblica (1514) fu l’invio d’un ambasciatore al principe, al quale, tra altro, porse in dono una reliquia di Santo Stefano,

 

 

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legata in argento e con scritture greche, che si dovrebbe conservare ancora nel tesoro di San Marco.

 

Ma l’ espediente non sortì l’effetto desiderato dalla Sublime Porta. Schenderpascià domandando poi dalla repubblica di Venezia la consegna di certe terre che uno de’ suoi antenati aveva possedute per qualche tempo, aveva dato adito alla speranza di veder tra breve ricomposta la signoria dei Černoević, e quindi proclamata l’emancipazione dal dominio della Mezzaluna. Comunque, vuoi là miseria, in cui, dopo tanti e tanti anni di guerra versava la popolazione, o vuoi piuttosto la fiducia che, più o meno fondata, il paese riteneva di poter riporre nel braccio forte di un sangiacco nazionale contro le velleità del governo turco, i messi calati nel Montenegro, per riscuotere il solito haraggio, furono, e con maggior acrimonia, rimandati al confine. Poichè non fu possibile indurre altrimenti i Montenegrini a migliori consigli, si trovò necessario di sopraffarli con un formidabile apparato di forze, e con estremi veramente spaventevoli. I luogotenenti dei sangiaccati vicini, ne invasero da tutte le parti il paese; i campi ne furono devastati, i casolari e le chiese abbandonate alle fiamme; uomini, donne, fanciulli inesorabilmente trucidati. Fu un fuggi fuggi disperatissimo. Quanti ebbero la forza eli prendere là via del mare, tutti calarono a Budua, che, a ricoverare tanta gente, ed a sostenerla contro l’attacco del Turco, avrebbe dovuto essere di gran lunga più vasta, più forte e più agguerrita. E perciò si volle respingerli; ma quando si seppe che il gianizzero s’avanzava a gran passi, e che ogni altra via di salvezza era già preclusa, s’impose a loro favore la voce dell’umanità, e tutti furono trasferiti in Puglia. Nel 1517 (ottobre, novembre e dicembre) se ne rinnovò lo strazio, e per l’identica ragione; e Budua, accogliendo sempre quanti ebbero la fortuna di afferrarne le porte, tutti fornì di mezzi di trasporto, ponendo tutti in salvo sulle coste dell’Italia meridionale. Nè si sa che di costoro l’uno o l’altro abbia mai più varcato l’Adriatico per rivedere la patria.

 

Inaspriti da tanto scempio, i Montenegrini, volendo farla una bella volta e per sempre finita, tentarono di emanciparsi per il Natale de] 1519 fin da quello stesso Černoević, dal quale avevano sperato la loro salvezza.

 

„Sier Zuan Moro, — cosi il Sanuto, — capitanio di le galee bastarde, scrive (a dì 8 et 12 di Zener), come, zonto a Catturo . . . ., fu preso et inteso da Sier Vincenzo Tron rettor et provveditor de lì,

 

 

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come in quelli zorni, erano venuti 4 sanzachi, do di sora e do di sotto, con persone zercha 15 milia per intorniar quelli de la Montagna Negra, fo paese dil Zernovich, qual havia tolto la obedentia al prefato Zernovich, e per conseguente al Signor Turco, del che el Signor li ha mandato a ruinarli, et par habino brasato 5 ville et occiso molti. Et perchè diti di Montenegro fuzivano, et aziò a Budua non li fosse dà recato, esso capitanio vene li a Budua, et scrive sopra questa materia di quello feze de lì."

 

Ma il Moro vi giunse assai tardi, e però anche questa volta molti Montenenegrini poterono ricovrare nelle non lontane Apulie, in grazia unicamente al favore di Budua.

 

Quando poi, nel 1521, la Sublime Porta pretese dolersi del favore che la signoria di Venezia aveva dato agli haracciari del Montenegro, il balio di Costantinopoli, tacendo lo gnorri, rispondeva sforzandosi di richiamare alla mente ’fatti ormai da tutti dimenticati e de’ quali, di conseguenza, non aveva più da gran tempo inteso discorrere. Ed infatti, non si trova più che, dal 1520 in poi, siano avvenuti altri passaggi in massa di Slavi da Budua, o da qualche porto dell’ Albania alle coste dell’ Italia meridionale

 

Trovasi, all’ opposto, che emigrazioni di Slavi dai suburbi litoranei della Dalmazia, e più specialmente dal contado di Zara, per l’Istria, Ancona, la Marca e le Puglie, si ripeterono ancora fino al 1524. La via a quegli approdi era stata loro additata, già nel secolo XI, dalle vittime del mercato umano, e fu in breve battuta da quanti ebbero lì opportunità, sia di smerciarvi le derrate dei propri paesi, sia di esercitarvi un’ industria qualunque, o di trovarvi qualche impiego. Benchè codesti passaggi non fossero nè troppo frequenti, nè numerosi, pure, coll’ andar del tempo il quantitativo degli avventizi slavi in quei paesi ingrossò fuor di misura e ad evidente discapito dei nazionali. Scossa da tal fatto l’ attenzione degli anziani, emerse la necessità di opporre immediatamente un argine all’ affluenza di Slavi escludendoli, a priori, da certi uffizi, come p. e., da quello dei berrovieri, dapprima (1394) salvo quod si scirent dare linguam latinam ut alii latini, e successivamente (1458), quand’anche a questa condizione avessero potuto corrispondere perfettamente, quod nullo modo esse possint birvarii. La loro condizione in Ancona e nella Marca, si fece poi in realtà tristissima,

 

 

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dal momento che sulle loro orme, e a fianco loro, vennero a stabilirsi degli altri elementi, la cui indole apparve in breve, più che compromettente, pericolosa all’ ordine pubblico e fin alla sicurezza individuale dei cittadini. E perciò, avuto il debito riguardo agli Slavi che con onorati maritaggi e con l’ onesto lavoro di molti e molti anni di pacifica dimora, eransi assicurati i migliori diritti all’incolato, tutti gli altri furono (1487) inesorabilmente rimossi dalla città e dalla Marca d’ Ancona. Ad Osmio, p. e., non ve ne restò più uno. Al quale bando, l’altro più decisivo fu aggiunto, che negava senz’ altro qualsiasi ospitalità in quei paesi, a quanti Slavi per l’avvenire vi avessero tentato l’ approdo con animo di fissarvi dimora. Nondimeno, singoli individui seguitarono a frequentarne il paese, e non pochi per stabilirvisi, sotto l’ egida più specialmente dei Francescani, che ve li conducevano per farne vuoi degli orticoltori o dei pastori, o vuoi’ anche per educarne dei conversi, e, non di rado, eziandio dei sacerdoti. Chi non ricorda qui il famoso porcaro bocchese a Montalto e l’illustre esule di Vrana, Fra Tommaso Illirico?

 

Ora, il territorio di Zara che in sul principiare del secolo XVI era ancor sempre „popolato et fecondo con bellissimi villaggi, et luochi di qualche considerazione", divenne da un momento all’ altro, per scopò di semplice rappresaglia, il campo di frequenti ed efferate incursioni, sicchè, tra il 1509 ed il 1524, fu „tutto minato et distrutto". Il conte di Zara, Marco Antonio da Mula, descrivendone, nel 1543, la devastazione, riferiva al senato che, giusta memorie da lui eruite, il numero degli Slavi tradotti dal territorio di Zara, in schiavitù, nel termine di soli quindici anni, sarebbe ammontato a ben più di diecimila fra uomini e putti. Di quest’ asserto importa tener qualche conto, per collimare poi con qualche fondamento il valore di quanto, prima del Da Mula, cioè nel 1525, asserirono in senato i sindaci in Dalmazia, Lunardo Venier e Jeronimo Contarmi, dicendo:

 

„Et tuti li contadini, che restavano da le incursion, sono fuggiti; parte de li qual sono andati ad liabitar in Puglia et per la Marca, et parte in Istria et parte sopra le insule di Zara".

 

Imperocchè, se questa trasmigrazione fosse stata, siccome si dovrebbe argomentare dalla relazione dei sindaci prelodati, la conseguenza delle incursioni di un anno solo, cioè dell’ anno 1524—1525, Marin Sanudo, che d’ ogni relazione desunse ne’ suoi diari i momenti più decisivi per la vita politico-amministrativa della Repubblica,

 

 

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ne avrebbe, di certo, registrato l’ avvenimento. Poiché non l’ ha fatto, il passaggio di Slavi nell’ anno 1524—1525, dal territorio di Zara, in Ancona, nella Marca nelle Puglie ecc., descritto da qei sindaci, dev’ essere apparso al senato tanto insignificante che il grande e benemerito istoriografo non ritenne opportuno d’ occuparsene. Marin Sanudo, dovrebbe aver parimenti saputo, già nel 1525, che

 

„dal 1524 in driedo, Turchi restorno di correre così spesso (il territorio di Zara), perchè i villani si havevano un certo ridutto, sotto il quale, ritirandosi et adunandosi insieme, rompettero i Turchi et ne ammazzorno assai".

 

Sapeva anzi, che la fortunata esperienza di questo primo ridotto, aveva consigliata l’erezione di altri fortilizii ancora lunghesso il confine. D’altra parte se „diecimila fra uomini et putti", furono tradotti in schiavitù nel giro di soli quindici anni, oltre le milleduecento anime rapite nelle incursioni del 1499, e le tante perdute negli anni successivi fino al 1509, quanti avrebbero, adunque, varcato ora il mare per cercar salvezza in Italia? E se in Istria ripararono coloro che non hanno avuto il modo di ricoverare nelle isole zaratine, le quali, evidentemente, furono il primo, perchè il più facile, e quindi il principale rifugio agli Slavi del territorio di Zara, quanti mai, nella disperata urgenza di un asilo sicuro, quanti arrischiandosi ad un viaggio più lungo e più faticoso, ne possono essere passati nella Marca o nelle Puglie ? ... Tanti che il conte di Zara, Marco Antonio da Mula, già nel suo primo anno (1543) al governo di quella città, potè farli rimpatriare tutti, alla spicciolata

 

„mandando navi a prenderli, pregando i signori della Puglia di permetter loro il ritorno in patria e..., - glielo creda chi vuole, - perfino rubandoli".

 

La bisogna, dunque, non dev’ essere stata nè lunga nè difficile. Eppoi : — la mobilizzazione vuoi di una o vuoi di più navi alle coste della Marca o delle Puglie, non poteva essere decretata dall’ arbitrio di un Conte. Che se il senato l’ avesse o sancita o decretata, il Sanudo ne avrebbe di certo ricordato l’avvenimento. S’occupa di tante inezie, e di questo avvenimento avrebbe trascurato di registrare la memoria ne’suoi Annali? D’altra parte bisogna tener conto che, in quest’ epoca, i migliori conati della repubblica erano intesi a scongiurare l’emigrazione di Slavi dalla Dalmazia.

 

Se in realtà il passaggio in Italia dal territorio di Zara, vuoi dell’anno 1524—1525, o vuoi piuttosto degli anni 1509—1524,

 

 

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fosse stato capace di dar vita ad uno stabilimento coloniale qualunque, tra l’anno 1524 ed il 1543, se ne sarebbero risentite le conseguenze nell’anagrafe militare di quel distretto. È vero che in generale, i dati statistici esibiti dai provveditori, e più ancora quelli dei sindaci, ove non ne siano, accompagnate le relazioni con la così detta „Description de le anime della terra", sono da considerarsi siccome, se non affatto capricciosi, senza dubbio semplicemente approssimativi, e quindi, anzichenò, discutibili. Per altro è parimenti vero che, in fondo, quelle relazioni sono niente altro che il barometro della vanità di chi le dettava, e che, intendendo anzitutto a magnificar sè e l’ opera propria esagera le cose della provincia a seconda de’ propri bisogni. Ciò non pertanto in mancanza di dati più certi, cento più, cento meno, si possono accettare, momentaneamente, anche i dati approssimativi dei relatori veneziani, ed ammettere che, nel 1524, la popolazione del territorio di Zara, decimata dalle incursioni di ben quindici anni, fosse ridotta al minimo di 5500 abitanti, esclusi, ben si sa, i vecchioni, le donne ed i bambini, che erano stati messi in salvo nelle isole. Cessate nel 1524 le incursioni dei territoriali, già nel 1527, e quindi dopo due soli anni di riposo, più o meno relativo, e ben venticinque anni prima del rimpatrio degli emigrati in Italia del 1543, essa ascese a 9109 abitanti. Questo aumento di popolazione è dovuto verisimilmente al ritorno delle donne, dei vecchi e dei figlioli dalle isole, e, forse anche di parte di quelli ch’ eransi rifugiati in Istria ed in Italia. Ora dal 1527 al 1543 lo stato anagrafico del territorio di Zara, oscilla tra il massimo di 9139 ed il minimo di 9031 anime, avendosi quindi una media di circa 9100 abitanti. Negli anni 1542—1543 la popolazione del territorio di Zara presenta un aumento veramente considerevole. Ma, giusta quanto ne dice lo stesso Marco Antonio da Mula, si sa che codesto aumento era dovuto a quei sudditi turchi, i quali, non reggendo al clima dell’Istria, ove erano stati messi in salvo dai Veneziani, avrebbero preferito, nell’interesse della propria conservazione, ritornare al giogo turchesco, ove non fossero stati trattenuti nel territorio di Zara dalle carezze e dalle prodigalità di quel conte a tutela del confine contro le incursioni nemiche. Le oscillazioni poi, che emergono tra la popolazione della città e quella del territorio e delle isole di Zara, danno una media proporzionata,

 

 

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accennante ad una legge di reciproca compensazione tra i diversi fattori, e quindi ad un giusto e costante equilibrio nello stato complessivo del distretto politico di Zara. Dal quale giusto e costante equilibrio si deve, senz’ altro, dedurre che passaggi di Slavi, dal territorio di Zara si sono bensì avverati, e forse assai di frequente, ma alla spicciolata, nelle modeste proporzioni di un complesso atto tutt’ al più a contribuire all’ incremento di colonie già istituite da altri, non mai a dar vita a nuovi e propri coloniali stabilimenti. Fino al 1553, gli Slavi del territorio di Zara, avrebbero raggiunto un considerevole aumento : se è vero quello che ne scrissero i relatori di quell’ anno, essi sarebbero ascesi a ben 11,994. Ma l’anno dopo (1554) questa cifra si dissolve ed i territoriali di Zara, si riducono appena a 5514. Nè questa volta furono le emigrazioni od i ratti che decisero dello stato anagrafico del territorio; si sa che le più belle plaghe ne furono occupate dal Turco, limitando così per molti anni l’incremento della popolazione.

 

A Palata, nel Molise, è una chiesa che, giusta l’iscrizione onde si fregia, sarebbe stata eretta nel 1536, da quei Dalmati che per la prima volta ne occuparono i dintorni. Si sa che, propriamente in quel secolo, col nome di Dalmati venivano designati, in Italia, anche coloro che, scesi d’ oltre monte, avevano traversato il mare imbarcandosi in Dalmazia, e che parlavano una lingua della quale non potevano essere interpreti che i Dalmati e quanti, anche Italiani, avevano passato qualche tempo in Dalmazia. Eppoi: è egli possibile che in soli undici anni, dal 1525 al 1536, dei poveri coloni siano stati in grado di risparmiare il capitale necessario per erigere, aere proprio, un oratorio qualunque? — In venti anni, forse, ed in questo caso i fondatori ne potrebbero essere stati quelli del 1513—1517.

 

Comunque: le trasmigrazioni furono molte, ma le più forti quelle procurate e protette dall’ azione concorde dei governi ; non mai le accidentali, e meno ancora, quelle alla spicciolata, consigliate dalla paura del momento o dall’ affarismo. Ma, senza ulteriori, lunghe e pazienti indagini, la vera patria delle diverse colonie slave nell’Italia meridionale, non potrà essere indiscutibilmente fissata.

 

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