Giandomenico Magliano, Larino. Considerazioni storiche sulla città di Larino
Giandomenico Magliano
VOLUME SECONDO
CAPO III. Di Ururi e S. Felice anticamente casali di Larino
§ 1° (Ururi)
Che cosa fosse Ururi (a) avanti la dominazione longobarda, non è facile rintracciare nell’ oscurila dei secoli.
È fama che assai prima del 1000 esistesse un eremitaggio, in sito 3 miglia distante dall’odierno abitato di Ururi. Di certo sorse poi colà una chiesa ed un monastero dal titolo di S. Maria in Aurola, od Aurora, abitato prima dai padri Basiliensi e poscia dai Benedettini. Si fa menzione di tale chiesa e monastero negli atti di donazione di Madelfrido, Conto di barino, dei longobardi Sasso, Falco ed altri, nonchè in quello di Landegardo e moglie, nel quale dicosi che il monastero «a novo fundamento construxit Philippus presbyter et monacus» (b).
Da tali atti di donazioni apprendesi non solo trovarsi il monastero di S. Maria in Aurola nel tenimonto larinate, ma altresì che a quei tempi non esisteavi il casale del quale discorriamo, e che più non era in piedi quel monastero, delle cui rendite si disponeva dai donanti a favore dell’altro monastero di S. Benedetto a Pettinali.
Riedificati poi la chiesa ed il monastero di S. Maria in Aurola, furono dal normanno conte di Loretello, signore di Larino, donati nel 1075 alla chiesa larinate, pel riposo dell’anima sua e dei suoi genitori pro anima mea et Parentum meorum, (c) ; e poichè fra i monaci, campi, boschi ed altro, che specificatamente donava,
(a) Fra i numi che ebbe Ururi, oltre quello di Aurola, sonovi quei di Aurelia, come nelle tre provisioni angioine (Doc. Sez. II. N. 19-21 e 22), Duruni nell’apprezzo di Pinto, Duruzzi nell’Atlante di G. Magini (Bologna 1620) e Duri in qualche Dizionario del principio di questo secolo, nei quali viene riportato ancora come casale di Larino.
(b) Doc. Sez. II. N. 2-3 e 4.
(c) Doc. Sez. II n. 3.
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non fa menzione il conte Roberto del casale, ragione vuole, si ritenga che neanche in quel tempo, ossia nel 1075, esistesse Ururi.
Sorse poscia il casale e, secondo le Prammatiche, fu soggetto al vescovo di Larino, signore di quel luogo, insieme all’altro di Ilice, surto contemporaneamente o dopo quello di Ururi. E così troviamo nel Catalogo dei Baroni, fra i vescovi feudatarii di Capitanata, quello di Larino: Episcopus Larinensis qui tenet Auroram et Ilicem quae sunt fenda (a).
Le Bolle di Lucio III del 1181, e quelle di Innocenzo IV del 1254 (b) confermarono, secondo i Sacri Canoni, questi possessi della Chiesa Larinate che, in parecchie Provisioni dei Re angioini, troviamo pur anche confermati.
Nel 1284, Re Carlo emanò ordine, perchè gli uomini di S. Martino non disturbassero quei di Ururi, vassalli del vescovo. Lo stesso Re emanò altro ordine, nel 1302 contro gli uomini di Loretello per somigliante causa, come pure ordinò, che dall’Università di Larino non si impedisse a quei di Ururi, il pascolo dei loro animali nel territorio dell’ Università. (c)
Re Roberto poi, nel 1317, con una sua Provisione al Giustiziere di Capitanata riconobbe la giurisdizione feudale del vescovo, ordinando che non fossero disturbati i vassalli di Ururi dagli ufficiali dei vicini baroni, dovendo essi godere di una speciale difesa.
Non si possiede notizia sui fatti di Ururi lino a quest’epoca, ma è facile il comprendere come le sciagure di guerra, di pestilenzie e di terremoti, che tanto afflissero Larino, non risparmiarono il suo villaggio.
Il terribile terremoto della notte degli 11 dicembre 1450, con gli altri casali, distrusse eziandio Ururi, che rimase perciò disabitato.
Allorchè poi i Turchi riuscirono ad impadronirsi dell’Albania, dopo la morte del prode Giorgio Castriota, molti dei vinti albanesi preferirono abbandonar la patria e vennero fra noi, dove, benevolmente accolti, fu loro concesso di riedificare molti dei ruinati casali, e fra gli altri Ururi, che fu per tal modo ricostrutto e di nuovo abitato (d).
(a) Il Capasso dottamente vuole che questa parte sia stata aggiunta al Catalogo nel tempo degli Svevi.
(b) Doc. Sez. II n. 10.
(c) Doc. Sez. II n. 19, 21, 22 e 20.
(d) Alfonso I d’Aragona per riacquistare la Calabria, ribellatasi a lui, chiamò nel regno molti valenti capitani Albanesi. Costoro, guidati da Demetrio Reres ristabilirono l’ordine in breve tempo, ed il Re, a rimunerarli, nominò con diploma del 1448, Reres capo di quella contrada ed i figli Giorgio e Basilio, capitani delle truppe albanesi, che volle si stabilissero in Sicilia per tener fronte alle scorrerie dei Francesi. Questa fu la prima emigrazione degli Albanesi nelle province meridionali e da essa sorsero i paesi albanesi della Calabria e della Sicilia.
Allorchè Ferdinando I chiamò in suo aiuto Giorgio Castriota, detto Scanderberg, contro gli Angioini ed i Baroni, donò al principe albanese i tre feudi di Trani, Siponto e S. Giovanni Rotondo, nei quali molti soldati albanesi preferirono restare, quando il loro duce fece ritorno in patria. Ai rimasti si aggiunsero altri dei 5000 combattenti che Scanderberg mandò in aiuto del Re di Napoli, sotto gli ordini di suo nipote Cairo Stresio. Ebbero così principio lo colonie albanesi nella Puglia.
Morto a Lissa nel 1463 il valoroso Castriota, e riuscito ai Turchi d’impadronirsi dell’ Albania, gran parte dei prodi, che avevano combattuto sino agli estremi, emigrarono, riunendosi in buon numero a quelli stabiliti fra noi, ed essendo rimasti disabitati pel terremoto molti luoghi, fu ad essi permesso l’abitarli. Sorsero così i paesi albanesi della terra di Otranto e quelli, a noi vicini, di Chieuti, Casalnuovo, Campomarino, Casalvecchio, S. Paolo, Portocannone, Montecilfone ed Ururi, nonchè varii casali di Larino. Secondo il Rodotà (Rito Greco in Italia), S. Croce fu abitata dagli Albanesi nel 1470. Il Dorsa poi (Ricerche e Pensieri sugli Albanesi) riferisce che Ururi fu fondato dagli albanesi nel 1540; desumendolo egli dalla capitolazione di cui parleremo. Prende abbaglio il Dorsa; Ururi come abbiamo visto fu fondato molti secoli prima e nella capitolazione si dico che essa si fa per la conservazione del casale, ossia per salvarlo dalla distruzione, ordinata degli altri casali albanesi, ed è chiaro che, appunto per salvarlo, si pensò a dare ordine al governo del luogo, formandolo ad Università. E come mai avrebbero gli albanesi ottenuto di edificare ed abitare Ururi, nell’ anno stesso in cui si distruggevano i casali di S. Elena e Colle di Lauro, per patto espresso tra i Larinesi e Pardo Pappacoda? Non vi ha dubbio che Ururi fu abitato dagli Albanesi insieme agli altri paesi dianzi accennati verso il 1466, allorchè moltissime famiglie vennero con la Principessa Elena e un suo fratello Giovanni, figli di Scanderberg, a stabilirsi nei feudi donati a loro padre. Risulta da vari documenti, che gli Albanesi furono guidati nei luoghi nostri dalle famiglie principali dei de Samuele, Bocci, Grossi, Petto, Tanussi (oggi Tanassi) e Musacchio. Quest’ ultima famiglia principesca di Epiro era Signora di Musachiema, e nella guerra per l’indipendenza si collegò con i Castriota, con cui era apparentata, e con essa emigrò.
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Aliorchè, piu tardi, i Francesi occuparono il Regno di Napoli, si reggeva la sede episcopale di Larino da Giacomo Petrucci, e questi, partiti i Francesi, fu, al dir dello storico Tria, dal nuovo barone, Ettore Pappacoda, desideroso di prendersi Ururi, accusato d’aver parteggiato pei Francesi. È più facile però che essendo Giacomo Petrucci figlio del celebre cancelliere di Re Ferdinando, e per tal ragione cognato altresì di Pardo Orsini (a) privato per fellonia del possesso della città nostra, mischiato si sia il vescovo, nei moti di quei tempi; certi però siamo, che il nome di lui leggesi fra quei dei ribelli baroni.
(a) Parte III. Capo VI.
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Per salvarsi dai guai che lo minacciavano, ricorse il vescovo larinate alla protezione di Andrea di Capua, duca di Termoli e conte di Campobasso, assai in favore in Corte ; fu però giuocoforza al vescovo cedergli la giurisdizione criminale di Ururi, sua vita natural durante, e valendosi di tal concessione, il duca di Termoli appropriossi, senz’ altro dei vasti poderi dei Pontoni; e sull’esempio di lui, i Signori di Roteilo, duchi di Biccari, tolsero al vescovo di Larino i beni detti di Capobianco, Finocchito e Camerelle, (a), e persino l’utile signoria di Ururi, talchè nel processo per la liquidazione delle rendite dello stesso Ururi trovansi Marcello Caracciolo ed il suo discendente Marulli, pretendenti di tale utile signoria (b).
I fieri Albanesi intanto nello stabilirsi fra noi non perderono le abitudini dei padri loro; e continuarono, come nelle gole delle loro native montagne, a far uso prediletto delle armi, e con continue scorrerie si resero assai molesti alle vicine Università (c).
Ordini severi perciò emanarono i vicere, acciocchè fossero sgombrati e dati alle fiamme i casali occupati dagli albanesi, e le Università, come quella di Larino (d), stabilirono patti speciali con i loro baroni, perchè si sgombrassero dagli albanesi i casali, e più non si pennellesse loro di stabilirne nei rispettivi territorî.
Salvaronsi quei di Ururi, per la potenza del loro barone del tempo, monsignor Mudarra, spagnuolo ed amicissimo del vicerè, e fu stabilita una capitolazione, nell’anno 1540, con la quale fu dato regolare governo al casale, e si concedette ai suoi abitanti il jus pascendi, di arare et serere cogli altri dritti iuxta solitum et consuetum (e).
Non lasciarono però gli Albanesi le loro guerresche abitudini, e continuarono a farsi ragione con le armi e sorta lite fra loro,
(a) Lunghe e continuate liti si dibatterono fra i vescovi ed i baroni, pel possesso di cotali beni. Monsignor Mudarra, valendosi dell’amicizia che lo univa al vicerè D. Pietro di Toledo, ottenne la restituzione degli usurpati possessi, come da atto del notar Gio. Antonio de Cutenellis di Larino dell’anno 1540; ai tempi però di Monsignor Balduino vennero di nuovo usurpate le dette tenute, e più non si riebbero dulia chiesa di Larino.
(b) Processo tra l’Università di Larino ed il magnifico vescovo di detta città per la liquidazione del casale di Ururi dell’anno 1549, n. 1262 della Sommaria, fol. 76.
(c) Su m monte Lib. 5. Cap. 2.
(d) Doc. sez. 1 n, 2. Patto n. 11.
(e) V. detta Cap. cit. Proc. del 1519 n. 1262.
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si divisero in due partiti, dei Glossi l’ uno e dei Becci l’ altro e, durante le loro continue lotte, non poche incursioni fecero nei vicini casali. Calorosi reclami specialmente dell’ Università di Larino, indussero il Vicerè D. Pietro di Toledo, ad ordinare che fossero scacciati gli Albanesi da Ururi e che il casale fosse dato alle fiamme, come si era fatto degli altri.
E perchè dal vescovo sarebbesi perduto parte della rendita, se ne dispose la liquidazione, ordinandosi che dall’ Università di Larino si corrispondesse, al vescovo stesso, la rendita che egli prima ricavava da Ururi. Ebbesi così il processo del 1549, da noi citato.
Interessante è la liquidazione della suddetta rendita fatta da Aniello Scatola, ufficiale della regia corte in Larino, davanti al quale furono uditi nei giorni 11, 12, 15 e 16 settembre di quell’anno: il nobile Vincenzo de Massariis (capitano generale e governatore di Ururi), Giovanni Antonio de Catenello (egregio notaio), il magnifico Domenico Antonio de Scimato, il nobile Paolanionio de Cornacchielli (tutti quattro di Larino); Giorgio Saraceno, Andrea de Conte (alias Glave), Andrea Bizzarro, Costa Giragono, Pietro Plescia, Giovanni de Palumbo, Giorgio Luce, Giovanni di Antonio Frate, Lazzaro Bizzarro, Giovanni di Colaglave (tutti di Ururi); Leo di Giordano (di Roteilo); i venerabili Pietro ed Alfonso de Barruchis, Leo Cicerone, Diomede de Rossi (diacono), venerabile Matteo Gentile, onorabile Mastro Francesco, onorabile Donato de Ianigro (tutti di S. Martino).
La Regia Camera con decreto del 25 novembre 1549 (a) e con altro del 17 febbraio 1550 (b), di rettifica al primo, ordinò che le rendite di Ururi fossero date in fitto perpetuo all’ Università di Larino e che questa corrispondesse al vescovo in ciascun anno al tempo del raccolto: grano, carri 15 e 1/2 (ogni carro di tomola trentasei); orzo carri 3; fave, tomola 32; vino, salme 16; paglia, salme 125 (in ragione di una per ciascun fuoco che allora contava Ururi); scudi 25 per fuocatico (a ragione di un tarì per fuoco); ducati 10 per porcelli; oltre altre piccole somministrazioni. Riservatasi poi dalla R. Camera, a favore della Corte, ed a carico del vescovo l’esazione dell’adoa.
E cosi nel 1550 dal capitano Fabio Ciminelli all’uopo inviato dal vicerè,
(a) fol. 76, cit. proc.
(b) fol. 90, id. id.
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Ururi fu bruciato e la pena di morte comminata contro chiunque degli Ururesi avesse asportato armi (a). Gl’ infelici abitanti andarono raminghi, ed il territorio loro fu novellamente aggregato a quello dell’Università di Larino (b). Per le miserevoli condizioni dei tempi, non mantenne l’ Università gl’impegni suoi verso il vescovo, per cui nel 1561 Mons. Balduino concedè in enfiteusi perpetuo Ururi al conte albanese Teodoro Crescio o Crisma, capitano di valore che aveva reso servigi all’Imperatore d’Austria ed al Re di Napoli, per esso ed i suoi credi con tutti i dritti feudali, mediante l’annuo censo di ducati 300, come leggesi nell’atto di concessione del dì 12 dicembre 1561 per mano di notaro Giulio Scupo (c). Con Bolla poi di Papa Pio, alla quale fu dato il R. Exequatur il 5 maggio 1562 (d), venne secondo le riserve espresse nell’atto di concessione, data ad esso piena ed intera esecuzione.
Dal Fisco però fu messo impedimento ai dritti feudali ceduti a Crisma, dicendosi niuna sovrana concessione averli dati al vescovo, dopo che dai Re aragonesi erano stati stabiliti (e).
Volle pertanto il vescovo revocare la fatta concessione, valendosi del prescritto dalle Prammatiche del regno che davano al concedente facoltà di revocare le concessioni, fino a che non fosse intervenuto l’Assenso Regio. Ne nacque un giudizio che durò vari anni, e la concessione fu revocata con istrumento di notar Severino Criscomo di Napoli del 25 ottobre 1565 (f).
Il feudo però rimase tuttavia intestato a Teodoro Crisma (g) fino all’anno 1746,
(a) Anno 1502 Processo per la riabitazione di Ururi. Proc. n. 1705.
(b) Nel 1551 l’ Università di Larino ricorse alla R. Camera contro il Duca di Termoli, che aveva violentemente occupato parte del territorio di Ururi ad essa ceduto, impadronendosi di animali ed altro (V. prov. R. Camera del 18 aprile 1551 allegata al proc. del 1502 per la riabitazione di Ururi). Fini la controversia col duca di Termoli, mercè una transazione fatta a mezzo di Geronimo de Massariis ed Andrea de Cornacchiello, Capo del Consiglio, l’originale della quale esisteva nell’archivio vescovile di Larino e si legge in copia nel vol. I, carta 29 del Trib. Civ. di Mol.
(c) Proc. 1705 fol. 29 e seg.
(d) Vol. 2 Acta pro Regio Fisco ecc. n. 21 Canc. Trib. Civ. di Mol.
(e) La contesa che ne sorse fu definita nel 1710 con una transazione tra il Fisco e mons. Tria juniore.
(f) Conces. vol. 2194.
(g) Ced. Cap. Ann. 1564 n. 879.
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e nel Cedolario dell’anno 1012 fu per errore registrato col nome di Ururi e di Ursara in Capitanata (a).
Nel 1583 il capitano Crisma aveva chiesto ed ottenuto che Ururi fosse di nuovo abitato dai proscritti albanesi, ed il casale nella tassazione del 1595 contava già fuochi 18 con altri 42 straordinari (b). Il permesso tuttavia non fu dato nelle forme volute dalle prammatiche, come se ne fa cenno nella provisione della R. Camera del 1676, talchè rimase Ururi descritto nei Cedolari sempre quale feudo rustico, ed essendosi costituiti gli abitanti in Università, furono dagli ufficiali della Corte arrestati i Sindaci e rilasciati liberi dopo speciale provisione.
Mancano poi notizie di Ururi per lungo tempo. Racconta lo storico Tria che per le rivoluzioni dell’anno 1647, Ururi andò soggetta a devastazioni, per cui gii abitanti disertarono ed esso rimase del tutto abbandonato nel 1653, come rilevasi dal sinodo celebrato da monsig. Caracci nel 1655 nei cui atti leggesi: R. Archipresbyter Casalis Ururi vacat ob discessum Populi de Mense Augusti praeteriti anni 1654 ideo nemo comparuit.
Nel 1663 però Ururi era di nuovo abitato, secondo riferisce il tabulario Pinto nel già citato suo apprezzo, dove, parlando della chiesa di S. Primiano, dice che «guarda verso Duruni, habitato da Natione Albanese».
Nel 1676 poi il Regio Fisco, per mancanza di pagamento di adoa e di rilievi pel feudo di Ururi o di Ursara, mosse giudizio per la sua revindica alla corte e nel 1703 ne ordinò anche il sequestro e la vendita, e solo nel 1746 si risolse ogni quistione col vescovo, pagandosi da questi, ducati 80 una volta tanto, e così fu regolarmente iscritto nei cedolarii il possesso di Ururi (c).
Crebbe il casale in prosperità, e sino al finir dello scorso secolo, niuna altra notevole sventura colpì i proscritti Albanesi nella loro patria di elezione. Nel 1799 ed a dì 14 aprile molte truppe di patriotti del nostro circondario, agli ordini del Commissario Nicola Neri, penetrarono in Ururi,
(a) Proc. R. Cam. 23 giug. 1676, vol. 2.° Acta pro Regio ecc. fol. 3, a 4, Canc. Trib. Civ. di Molise.
(b) Il Mazzella (Descr. Reg. Nap.) non riporta nel 1602 Ururi fra le terre abitate.
(c) Tale accordo fu fatto dall’avv. D. Francesco Tria, fratello del vescovo juniore di tal nome. (Ced. Ann. 1732 al 1766. fol. 145 a 158).
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dove quei di Casacalenda si diedero ad atti assai deplorevoli (a) scusati, ma non giustificati, dai sentimenti di vendetta pel danno prima loro recato dagli Albanesi (b).
Nel 1818 il nome di Ururi fu registrato dalla storia per l’eccidio ivi avvenuto dei fratelli Vardarelli (c).
Più tardi nel 1887 il colera vi mietè numerose vittime che ascesero a molte centinaia, contandosi 40 morti in un sol giorno (20 luglio) (d). Da quell’ epoca in poi Ururi fu in continuo progresso di civiltà e di edilizia, e la sua popolazione, che al principio del secolo era poco più di 2000 abitanti, oggi ne conta oltre 3600 (e).
(a) Lett. di Angiolo Giammiro, della munic. di Ururi alla munic. di Casacalenda.
(b) Un gran mimerò di albanesi di Ururi, Portecannone, S. Giacomo, Campomarino e di altri comuni vicini istigati dagli agenti del Duca di Casacalenda, col quale quell’ Università era in lite, assediarono addi 19 febbraio 1799 Casacalenda. Gli abitanti si difesero bravamente e molti degli assalitori caddero uccisi. Mercè le buone parole del padre Giuseppe da Macchia, (G. Mancini — padre G. da Macchia m. s.) che ivi trovavasi a predicare, fu fatta la pace e giurata anche sulla Pisside; ma venne subito violata a tradimento dagli Albanesi, che saccheggiarono persino le chiese e trascinarono seco legato alla coda di un cavallo Domenico de Gennaro, mastrogiurato, che poi trucidarono in Campomarino nel 20 febbraio del detto anno, come rilevasi dall’atto di morte registrato dall’ arciprete D. Lazzaro Carriero nel libro parrocchiale dei morti di Campomarino.
(c) Colletta (St. Reg. Nap. Lib. 8, Cap. II. N. 29) fa una dettagliata descrizione di tale eccidio. Erra però egli ritenendo che quel tristo che si lavò il viso col sangue, fosse di Portocannone, mentre era nativo della stessa Ururi.
(d) Reg. Stat. Civ. Ururi.
(e) Riportiamo qui i nomi di coloro che furono Sindaci di Ururi:
Dal 1809 al 1810 Andrea Occhionero
» 1810 » 1811 Paolant. Grimani
» 1811 » 1812 Angelant. Licursi
» 1812 » 1812 Marco Musacchio
» 1815 » 1818 Angelant. Tanassi
» 1818 » 1822 Giovanni Musacchio
» 1822 » 1825 Costant. Ferrazzano
» 1825 » 1820 Natale de Rosa
» 1826 » 1827 Giovanni Musacchio
» 1827 » 1828 Angelant. Licursi
» 1828 » 1881 Antonio di Tillo
» 1821 » 1836 Giovanni Musacchio
» 1836 » 1839 Carlo Giammiro
» 1839 » 1840 Luigi Occhionero
» 1840 » 1842 Angelant. Licursi
» 1842 » 1845 Gioacch. Primiani
» 1845 » 1846 Giacinto Giammiro
» 1846 » 1848 Emanuele Primiani
» 1848 » 1851 Giovanni Licursi
Dal 1851 al 1852 Giuseppe Musacchio
» 1852 » 1853 Michele Benedetto
» 1858 » 1850 Giovanni Bianco
» 1856 » 1800 Giuseppe Musacchio
» 1800 » 1863 Costant. Musacchio
» 1803 » 1800 Paolo Grimani
» 1800 » 1871 Giuseppe Musacchio
» 1871 » 1872 Luigi Licursi
» 1872 » 1875 Pietro Tanassi
» 1875 » 1870 Andrea Occhionero
» 1870 » 1877 Giuseppe Musacchio
» 1877 » 1878 Commissario Regio
» 1878 » 1882 Luigi Musacchio
» 1882 » 1881 Giacinto Primiani
» 1884 » 1885 Luigi Musacchio
» 1885 » 1880 Giovanni Musacchio
» 1880 » 1889 Giacinto Primiani
» 1889 » 1892 Giovanni Musacchio
» 1892 » 1895 Michele Frate
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§ 2. (S. Felice)
Non si conosce l’epoca precisa nella quale fu edificato S. Felice, detto Slavo per la nazionalità dei suoi abitanti (a). Si ha però certezza che esso ai tempi dei Normanni esisteva, poichè nel Catalogo dei Baroni leggasi:
(a) Questi valorosi uomini originarii della Sarmazia Europea, sotto Giustiniano si avanzarono fino al Danubio. Occuparono gran parto dell’ Illiria, tra la Drava e la Sava, o per la dimora che vi fecero, quella regione acquistò il nome di Schiavonia che tuttavia ritiene.
Presa indi la Dalmazia sulla metà del secolo VII, vennero a noi, sbarcando a Manfredonia allora detta Siponto. Era sul trono dei duchi di Benevento, Aione figlio di Arechi, che li incontrò con potente esercito e gli Schiavali riportarono una completa vittoria ed uccisero al passare di un fiume lo stesso Aione. Ma non fu in tale occasione che gli Slavi si stabilirono fra noi. Mons. Sarnelli (Vescovi Sipontini) riferisce che essi sbarcarono a Vico e Peschici ai tempi dell’ Imperatore Ottone, che li chiamò, col loro re Sueropilo, per scacciare i Saraceni stabilitisi nel Gargano. Detto re fu convertito al cristianesimo e battezzato con i suoi Slavi ai tempi di Adriano II. (Colenucci Lib. II. ) Devesi ritenere che in tale circostanza si stabilissero fra noi le colonie slave, specialmente in Castelnuovo di Capitanata detto perciò nei Quinternioni Castrum Selavorum ed in Castelluccio come ne fa fede il Catalogo dei Baroni più volte citato nel quale leggesi:
Dominus Rogerius de Parisio tenet Castelluccium de Selavorum, quae sunt feuda II. militum et tenet Petra Montis Corvino, quod est feudum I militis.
E questo Castelluccio dev’essere l’attuale Castelmauro, poichè esso viene nel detto Catalogo riportato fra i feudi di Capitanata insieme a S. Martino, Guglionesi, e Campomarino ecc. Oggi Castelmauro non è più abitata da gente Slava, ma è ancora viva la tradizione che essa lo fu in tempi passati e si conserva memoria di alcune iscrizioni, le quali affermavano tale fatto e che furono sciaguratamente disperse.
Non mancano scrittori che attribuiscono allo stabilirsi degli Slavi fra noi, data più recente, e vogliono che siano venuti con gli Albanesi all’ epoca di Scanderberg. Deducono ciò dal trovarsi vicine, colonie slave ed albanesi, e più dalla lingua parlata dai nostri Slavi, che sembra essere quella che si parlava nel secolo XV, dagli Slavi del Danubio. La storia non esclude che cogli Albanesi siano venuti in Italia degli Schiavoni. È quindi verosimile che la maggior parte di tali Schiavoni siasi riunita alle Colonie Slave giù esistenti fra noi, ed essi dovetter modificare la lingua più antica che si parlava in questi paesi. In una bolla di Bonifacio VIII, (Bossio Stor. gen. ord. S. Giov. Geros.) del 1297 troviamo indicato «Castrum Acquacvivae cum vassallis Schlavonis etc.”. E questa bolla, la quale si trova riportata nel tomo II, p. 117 delle lettere di questo Papa, è la più autentica prova della nostra affermazione.
Da Castelluccio si estesero nel circostanti luoghi, chiamativi dai feudatari, desiderosi di avere a loro servizio guerrieri tanto valorosi e così furono, com’ è da presumersi, edificati Tavenna, Acquaviva, S. Giacomo, S. Felice e Ripalta abitati come si sa da Slavi. Anche Palata fu abitata da Slavi, ma questi vi ottennero soltanto ospitalità, come leggesi in una lapide sulla chiesa da essi edificata per gratitudine.
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Filii domini Mattheus de Sancto Agapito tenent bivitellum de belidonia et sanctum Felicem in Pic. quod est feudum I militis.
Al finire del XIII secolo si possedea S. Felice da Adenolfo di Somma, che lo vendè a Simone della Posta, ostiario e familiare di re Roberto e di Carlo duca di Calabria, che, quale Vicario di suo padre, nel 1° luglio 1321, concedè l’assenso regio (a). Passò poscia a Cristoforo della stessa famiglia, e poi ad Agapito suo figlio che vivea nel 1368; sembra che per ribellione questi venisse privato di S. Felice, conceduto invece agli Orsini, signori di Larino, divenendo così casale della nostra città. Al principio poi del XV secolo lo troviamo menzionato fra le terre ed i casali di Giovanni Orsini nel diploma di Giovanna II, col quale questa Regina confermava nel 1417 il detto Giovanni nella carica di suo Capitan Generale per la terra di Valle Siciliana in Abruzzo, e per la città di Larino e Castri Sancti Felici. È presumibile che questo casale sia stato abitato dagli Slavi, chiamativi dagli Orsini, Signori di Larino (b).
Dalla lista delle entrate della terra di Larino, devolute alla Corte per la ribellione dei Baroni nel 1495, troviamo notato che S. Felice contava alla detta epoca circa fuochi 30, e che ad esso andava congiunto (conjuncto) il castello disabitato, chiamato Castellezza.
In tutte le concessioni della città di Larino, tino alla vendita fattane nel 1683 a Cornelia Muscetola, troviamo S. Felice notato fra i casali della città nostra, e che insieme ad essa si concedevano.
Vuolsi poi che, in tempi assai antichi, fosse S. Felice stato feudo del Monastero di Montecassino, ma niun documento si possiede in proposito.
Non si conosce poi niente in particolare della storia di questo Comune;
(a) Ciarlanti. Vol. 5. pag. 161.
(b) Assai più recente devesi ritenere l’ edificazione di Montemitro, Comune oggi riunito a quello di S. Felice. Di esso trovasi fatta menzione per la prima volta nella numerazione del 1595, che fu di fuochi 34; in quella del 1648 è riportata per fuochi 32, con la denominazione di S. Lucia e Montemitro; in quella poi del 1669 è riportata per fuochi 24, colla denominazione di S. Lucia Montemitro.
Nel 1650 forse la peste dovè renderlo disabitato, altrimenti Salvatore Finto ne avrebbe fatto cenno nella sua minuta descrizione di quella contrada.
Montemitro andò diviso dal feudo di S. Felice fino al 1683, e fu dapprima posseduto dalla famiglia Carafa; nel 1566 passò con Montefalcone alla famiglia del Tufo; quindi a quella Gallo, ed infine alla famiglia Coppola dei Duchi di Canzano (Quint. 14. fol. 217).
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ma di leggieri puossi concepire come esso abbia dovuto subire lo fasi stesse della città, alla quale fu sempre legato. Solo si sa che nel 1532 era di fuochi 39; nel 1555 di 55; nel 15G1 di 70; nel 1595 di 82; nel 1648 di 50. La peste del 1656 dovè farlo rimanere disabitato, poichè pochi anni dopo, nel 1663, come ne riferisce Pinto, il barone aveva esentato gli abitanti dalla zecca, pesi e misure, portolania e piazza, perchè da poco essi erano ritornati ad abitare il Casale. Ecco come il detto Tabulario Tinto ce lo descrive: (a)
«É situata (la Terra) nell’alto di una montagna sassosa di pietre vive, ventilata da ogni vento; è luogo salutifero, mantenendosi l’habitatori robusti e con molta età; è racchiusa parte da mura e parte con proprie habitationi coverte parte con scandole e parte con canale di creta, formate con 1° e 2° ordine, divise dalla strada maestra e diversi vichi a destro et a sinistro restrette nel recinto delle sue mura; le strade all’ inverno sono nette per esserne pennose : li habitatori sono di buon aspetto più li huomini che le donne: e benchè sono di natione Schiavone, sono però affabili e cortesi, sono hoggi di fuochi 13 e poco prima di fuochi 18, quali 5 sono passati in altre parti, dove hanno più carezzi e sono difesi da Commissarij. Si esercitano generalmente alla coltura di territorii e vigne et orti, le donne filano alla rocca. Vivono parcamente di pane, vino e frutti, etiam al mese di Aprile hanno le uva fresche per essere luoghi montagnosi et freddi. Vestono mediocremente di panni ordinarii, de’ quali si provvedono come d’ogni altro l’è necessario e pel vitto nelle fiere che si fanno vicine per essere senza botteghe et artisti. Dormano tutti poveramente, nè vi sono persone di consideratione in facoltà, eccetto due o tre case con qualche poca comodità. Si governano per due Eletti et un Sindaco, la nomina et eletione de’ quali si fa in pubblico parlamento e quella inscriptis se al Barone piacerà. Per lo spirituale vi è la chiesa parrocchiale fuori detta terra sotto il titolo di S. Felice ad una nave coverta con canali di creta, solo la croce dell’ altare maggiore è a lamia . . . . . . . . . Vi possiede il Barone il suo palazzo Baronale nell’alto di detta terra entrandosi in esso con sciulia di pietre vive e con portone grande guarnito di tagli di marmo rozzo bianco scorniciato e coverto a lamia. . . . . . . . .”
(a) Atti di Com. Feud. Vol. 194 N. 1383 fol. 50 a 50.
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Riprese vita il casale; nel 1669 numerava fuochi 20; al principio del nostro secolo contava oltre 1100 abitanti, ed oggi ne conta oltre 2300, di unita a Montemitro; a tale sviluppo contribuì l’immigrazione, nella prima metà di questo secolo, di gran numero di famiglie di Fossalto.
Nel 1683, allorchè la città di Larino venne venduta a Cornelia Muscetola, fu escluso dalla vendita dei casali quello di S. Felice, che venne invece acquistato dalla famiglia Coppola dei Duchi di Canzano, alla quale rimase fino all’abolizione della feudalità (a).
(a) Riportiamo qui i nomi di coloro che furono Sindaci di S. Felice:
Dal 1810 al 1811 Clissa Nicola
» 1811 » 1814 Simigliani Nicola
» 1814 » 1817 Lucito Antonio
» 1817 » 1821 Tirone Luigi
» 1821 » 1827 Rulli Nicola Antonio
» 1827 » 1829 Mancini Giovanni
» 1832 » 1833 de Santis Francesco
» 1833 » 1836 Radatta Domenico
» 1836 » 1839 Zara Francesco
» 1839 » 1842 Palumbo Innocenzo
» 1842 » 1844 de Santis Adamo
Dal 1845 al 1850 Zara Gennaro
» 1850 » 1851 Palumbo Andrea
» 1851 » 1855 de Santis Giuseppe
» 1860 » 1863 Daniele Francesco
» 1863 » 1869 Zara Giovannangolo
» 1869 » 1875 Piccoli Gabriele
» 1875 » 1878 Clissa Nicola
» 1881 » 1886 Zara Giacinto
» 1886 » 1891 Giorgetta Domenico
» 1891 » 1895 Clissa Nicola
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