Messina e il suo distretto. Dalla «fidelitas» all’esercizio della giurisdizione

 

Federico Martino

 

(In: La valle d’Agrò. Un territorio, una storia, un destino, Convegno Internazionale di Studi (Messina, 20-22 febbraio 2004), I, L’età antica e medievale, a cura di C. Biondi, Palermo 2005, pp. 39-56

 

(Abstract)

 

1. Poteri ai cittadini e controllo del territorio nell’Italia comunale

 

Gioacchino Volpe tracciò i lineamenti essenziali del complesso insieme di rapporti che intercorsero tra città e territorio nella fase della nascita e del consolidarsi del Commune civitatis. In particolare, notevolmente diffusi risultano i «patti di fedeltà», tra signori territoriali e cittadinanza organizzata in Comune, aventi ad oggetto, per il signore, la difesa della città in caso di guerra, con l’obbligo di residenza per una parte dell’anno e di prestare il servizio militare in qualità di civis. In altre occasioni, le città ricorsero allo strumento del «feudo oblato», facendosi cedere dal signore il suo territorio e riconoscendolo in cambio di un giuramento di fedeltà al Comune.

 

Lo strumento del «feudo oblato» è servito ai Vercellesi per assicurare loro l’estensione della zona d’influenza su un territorio oggetto delle mire espansionistiche pericolose.

 

 

2. La condizione delle città in Sicilia

 

Quando Ruggero II prescrive l’osservanza delle leggi regie, ma fa salve le consuetudini che non contrastano con esse, segna la tappa di un percorso che è già alle sue spalle e resta da compiere.

 

Per questo, la vita del Regnum è destinata sempre ad oscillare tra due opposte polarità: le spinte accentratrici della Corona, che mira a rimuovere ogni diaframma tra sovrano e sudditi, e le tendenze centrifughe generate dalle forze feudali. Tutto ciò non poteva non riflettersi sulle città meridionali. Le magistrature locali, che nei primi decenni della conquista ampliano la loro sfera d’influenza sino ad abbracciare parte della campagna, da un lato vedono progressivamente restringersi gli ambiti della loro giurisdizione, a causa dell’infeudamento di vasti territori circostanti, e dall’altro perdono competenze a favore dei funzionari regi.

 

Ma nella realtà vi sono poteri che non si lasciano ridurre nel quadro del diritto pubblico concepito e in parte realizzato dai sovrani normanno-svevi; sono forze, queste, che si trovano in contrasto tra loro e che negli anni delle crisi dinastiche hanno modo di farsi valere contro la Corona.

 

 

3. La fine della dinastia e il diploma di Arrigo VI.

 

Il più antico documento che dà corpo alle pretese messinesi di esercitare il controllo su una vasta area della Sicilia orientale data dal momento in cui lo sbarco di Arrigo VI nell’Isola segna il definitivo passaggio del Regno alla dinastia sveva.

 

a. Il problema dell’autenticità del documento.

 

In assenza dell’originale, storici e diplomatici sono stati obbligati a formulare congetture sulla base degli elementi interni, tramandataci dalle copie rimaste. Con questi limiti, il più attento studioso del diploma del 1194 ha analizzato il testo, rilevando in esso elementi di grande contraddizione. Da una parte, infatti, il luogo e il tempo dell’emanazione, lo stile del protocollo, sono assolutamente conformi a quanto sappiamo della cancelleria sveva di quegli anni. Dall’atro, il tenore di talune disposizioni appare abnorme e inattendibile. Per tali ragioni si concluse che il documento è un falso ottenuto riutilizzando parti di un documento autentico a noi non pervenuto.

 

Nel 1937, Camillo Giardina ritenne di poter sostenere l’integrale falsità del testo. Tale opinione rimase dominante sin quando il fortunato rinvenimento, nell’Archivio Ducal Medinaceli di Siviglia, di tutte le pergamene sottratte a Messina nel 1679 consentì l’autopsia dell’archetipo dal quale erano state tratte le copie studiate dagli storici dell’Otto e Novecento.

 

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L’esame diretto porta a nuove e diverse conclusioni. Il testo della pergamena non presentava varianti di rilievo non lascia dubbi sulla sua autenticità.

 

b. Perché e per chi fu emanato il diploma del 1194.

 

Il diploma di Arrigo VI va spiegato alla luce di due ordini di considerazioni. Il primo riguarda la diversità culturale dell’imperatore germanico. Il secondo attiene alle contingenze nelle quali l’atto viene emanato.

 

Arrigo doveva garantirsi un sicuro e rapido passaggio nell’Isola e il controllo del centro peloritano era essenziale. Sembra, però, che una parte cospicua del locale gruppo dirigente si fosse schierata con la regina Sibilla, grazie all’influenza esercitata dall’ammiraglio Margarito da Brindisi. Non è, quindi, improbabile che l’imperatore, già durante la marcia verso la Calabria, abbia preso contatti con gli oppositori messinesi dell’ammiraglio, promettendo loro il rilascio di concessioni commisurate alla posta in gioco. È comunque certo che il 28 ottobre, quando Arrigo sbarcò nella città, questa si era ribellata da alcuni giorni, aveva espulso i seguaci di Margarito e ne aveva confiscati i beni. La strada era ormai aperta e lo Svevo iniziò la sua avanzata verso Palermo.

 

 

4. Da una crisi all’altra: la rivolta del Vespro e i falsi privilegi per Messina.

 

Non sappiamo se il documento del 1194 abbia mai avuto integrale applicazione né se dopo la conquista di Palermo, l’imperatore abbia cancellato gli effetti più dirompenti del privilegiato originario. Peraltro, il regno del figlio di Arrigo, Federico II, fu il meno propizio al manifestarsi di tendenze autonomistiche ed anche Messina subì una durissima repressione. Le mai spente aspirazioni messinesi all’egemonia sulla Sicilia orientale dovettero, dunque, attendere una nuova crisi dinastica. Dopo l’esplodere del Vespro, nell’agosto 1282, durante una estrema trattativa per evitare la guerra con Carlo d’Angiò, il gruppo che allora controllava la città presentò al sovrano, perché li confermassero un complesso di falsi privilegi che si pretendevano concessi dai Romani, dai Bizantini e dai re normanni. Quasi tutti contenevano elementi tratti dal diploma autentico del 1194, in particolare il riconoscimento della preminenza di Messina sul territorio da Lentini a Patti.

 

Anche questa volta, però, gli sforzi dei Messinesi andarono delusi. L’insieme delle richieste contenute nei falsi ledeva a tal punto interessi vitali della Corona che Carlo preferì l’alea della guerra e la parola passò alle armi. Tuttavia, le minute di quei privilegi, mai concessi e mai confermati, rimasero negli archivi cittadini in attesa di tempi migliori e i nuovi sovrani aragonesi soddisfecero la tradizionale aspirazione del gruppo dirigente ad avere un proprio «distretto».

 

Pochi mesi dopo la pace di Caltabellotta, il 2 ottobre 1302, Federico III d’Aragona, che aveva consolidato il proprio potere anche in virtù del coraggio e dei sacrifici della città del Faro, ne compensò la fedeltà con una concessione che segnò un punto fermo nella storia istituzionale di Messina. Il privilegio prevedeva che città, terre e luoghi situati nella zona compresa tra la pianura di Milazzo e il fiume Alcantara fossero sottoposti alla giurisdizione dello Strategoto e della sua Corte.

 

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