Colligite fragmenta ne pereant  [*] II.

II. “Gran mirci” a Messina: la vera storia di una falsa paternità

 

Aristarco Scannabue (Frederico Martino)

 

 

«Archivio storico messinese», 93 (2012), pp. 451-462

 

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    Premessa  451

- La falsa gratitudine di un imperatore d’Oriente  452

- La vera gratitudine del re di Sicilia  456

    Epilogo 459

    Appendice. Toledo, Fundación Casa Ducal de Medinaceli, Fondo Messina, legajo 198, 67  461

 

            Premessa

 

Gli spaesati turisti girovaganti per la città, discesi dai falansteri galleggianti che ci ostiniamo a chiamare navi da crociera, o gli sfortunati cittadini costretti a navigare l’infido oceano della burocrazia, hanno occasione di soffermare lo sguardo su una misteriosa scritta che campeggia, in caratteri d’oro, sui neri cancelli, forgiati in ferro, posti a proteggere gli ingressi del Palazzo Comunale di Messina.

 

La frase è copiata da una lapide che, prima del terremoto del 1908, era visibile sulla porta di una torretta al cui interno stava la scala a chiocciola che portava all’antico campanile del duomo.

 

Il testo, riprodotto fotograficamente e pubblicato nel 1902 [1], è il seguente: GRA(N) MIRCI A MISSINA. Per la tipologia dei caratteri capitali, è probabile una datazione del manufatto entro il primo terzo del sec. XVI.

 

Per quanto ne sappiamo, è questa l’età più risalente in cui appare, in pubblico, l’espressione di gratitudine rivolta al centro peloritano, ma, come diremo, è possibile che la sua utilizzazione sia di qualche decennio precedente e che il motto abbia inizato a diffondersi sin dalla seconda metà del sec. XV.

 

 

*. Appena si è sparsa voce che sarebbe stato pubblicato il primo numero della rubrichetta di nostra invenzione, ci è venuta la richiesta di inserire, sotto il medesimo titolo, un contributo scritto da un carissimo amico. Attesi i rapporti che intercorrono, da sempre, tra noi e Aristarco Scannabue, non potevamo, né volevamo, rispondere negativamente al suo desiderio. Ecco, dunque, la ragione per la quale appare, qui, un lavoro non nostro. F. M.

 

1. Messina e dintorni. Guida a cura del Municipio, Messina 1902 (ristampa anastatica, a cura di G. Corsi, con il titolo Messina com’era, Messina 1973). La foto della lapide è sul frontespizio, la descrizione e il testo sono alle pp. 268-269. Dopo il sisma, la pietra venne recuperata e ricollocata alla base del campanile, dove rimase sino ai bombardamenti del 1943 e all’incendio della cattedrale. Da allora se ne persero le tracce.

 

 

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Stabilito questo punto, tentiamo di analizzare gli aspetti misteriosi e controversi della frase: la fonte originaria, le vicende che ne furono causa, la lingua in cui fu scritta.

 

 

            La falsa gratitudine di un imperatore d’Oriente

 

Un testo così intrigante e importante per le glorie municipali è stato oggetto di numerosissimi studi e può dirsi, senza tema di smentita, che quasi tutte le informazioni sono reperibili nella vasta letteratura pubblicata nel corso degli ultimi cinque secoli.

 

Tuttavia, la totalità dei lavori prodotti tra XVI e XVIII sec. è opera di esponenti dei gruppi dirigenti locali, o di soggetti ad essi legati, e, per questo, manca di obbiettività e scientificità, mentre gli autori di Otto e Novecento, pur mostrando maggiore prudenza, si sono limitati a registrare l’esistenza di una tradizione senza, però, indagarla criticamente [2].

 

L’esposizione più vasta e, quasi, esaustiva la dobbiamo a Placido Reina, nella seconda parte delle Notizie istoriche della città di Messina [3] e a Caio Domenico Gallo, in alcune pagine dei suoi Annali [4].

 

La loro attenzione è, prevalentemente, incentrata sulla Praxis ton basileon e sul falso privilegio che sarebbe stato concesso da Arcadio ai Messinesi, intervenuti in suo aiuto contro i Bulgari e i ribelli costantinopolitani [5].

 

Secondo questi autori, il Gran Mirci a Missina nient’altro è se non la formula greca usata dall’imperatore per manifestare la sua gratitudine, che, successivamente tradotta in volgare, trovò ampia diffusione in questa più accessibile veste.

 

 

2. Sembra, questo, il dato costante di numerose tradizioni messinesi che, sovente, costituiscono delle vere e proprie pie frodi, come il capello e la lettera della Madonna o le reliquie dei Santi Placido e compagni. Anche quando se ne deve ammettere l’origine fantasiosa e criticamente insostenibile, le si lascia circolare, circonfuse da un’ambigua aura di sacralità e mistero: vulgus vult decipi, ergo decipiatur ! Rispetto a quest’andazzo, è in controtendenza l’articolo di G. G. Mellusi, Dalla lettera della Madonna alla Madonna della lettera. Nascita e fortune di una celebre credenza messinese, che appare in questo stesso numero della Rivista, nella sezione Saggi.

 

3. R Reina, Delle notizie istoriche della città di Messina, Seconda Parte, Messina 1668, pp. 208-233.

 

4. C. D. Gallo, Gli Annali della città di Messina, nuova edizione con correzioni, note e appendici del sac. A. Vayola, vol. primo, Messina 1877, pp. 120-132.

 

5. Sul punto, rinviamo a F. Martino, Una ignota pagina del Vespro: la compilazione dei falsi privilegi messinesi, “Archivio Storico Messinese”, 57, 1991, pp. 19-76, con bibl. precedente.

 

 

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Va, comunque, notato che, nel corso del XV secolo, nessuno di quelli che ricordano il privilegio e la connessa narrazione della Praxis [6] menziona la frase. Ed è particolarmente significativo che, ancora nel secolo successivo, Francesco Maurolico, pur dedicando ampio spazio al racconto degli eventi e al preteso diploma, entrambi proclamati indubitabilmente autentici, ignori del tutto il motto [7].

 

Sembra, dunque, che le fatidiche parole non siano state considerate da tutti parte integrante della leggenda di Arcadio e che, anche dopo la loro apparizione sul campanile, abbiano seguito una sorta di percorso carsico. Comunque sia, verso il sesto decennio del Cinquecento, riemersero prepotentemente e rifulsero di nuovo e più grande splendore.

 

Il dubbio merito di ciò va a Giovanni Bolognetti, giurista felsineo chiamato ad insegnare nello Studio peloritano con un salario assai cospicuo [8].

 

Il solerte professore, che arrotondava lo stipendio facendo la libera professione, era intervenuto, con il peso della sua scienza, in una controversia che contrapponeva la città a quanti le negavano il diritto di essere capitale del regno, diritto che le sarebbe spettato in forza delle concessioni di Arcadio [9].

 

Per sostenere l’autenticità di un testo divenuto sempre meno difendibile, man mano che si affermava un metodo critico nella filologia e nella storia,

 

 

6. E’ il caso dell’Epistula de legatione Siciliae ad regem Joannem di Ludovico Saccano (L. Gravone, Ludovico Saccano: elogio di Alfonso di Aragona e relazione di una legazione siciliana a re Giovanni, “Atti dell’Accademia di Scienze Lettere e Arti di Palermo”, Serie IV, vol. XV, 1954-1955 [fasc. II], parte II, pp. 109-173) e della c.d. Protesta dei Messinesi al conte di Prades (G. Arenaprimo, La protesta dei Messinesi al Viceré conte di Prades nel Parlamento Siciliano del 1478, “Atti della R. Accademia Peloritana”, anno XI, 1896-1897, pp. 167-209 e bibl. ivi cit. , ora ristampato in Id., Opere, volume primo, Saggi [1885-1899], a cura di G. Molonia, Messina 2011, pp. 313-337 ).

 

7. F. Maurolico, Sicanicarum rerum compendium, “Thesaurus antiquitatum et historiarum Siciliae” (a cura di G. Graevius, P. Burmannus), vol. IV, Lugduni Batavorum 1723, coll. 112-118.

 

8. P. Craveri, Bolognetti (Bologneti, Bolognetto, Bolognettus), Giovanni, “Dizionario Biografico degli Italiani”, vol. 11, Roma 1969, s. v.

 

9. Il tema della primazia messinese nel regno è presente in quasi tutte le falsificazioni cittadine, ma è specialmente sottolineato nella Praxis e nelle concessioni di Arcadio. Le più antiche utilizzazioni di questi testi, al fine di sostenere le pretese dell’universitas, si trovano ricordate nei saggi cit. supra, nt. 6. Interessanti notizie sugli antefatti della legazione iberica del Saccano, le fornisce la perg. 343 del Fondo Messina, attualmente conservato a Toledo, Fundación Casa Ducal de Medinaceli. Sull’intensa, e proficua, attività diplomatica svolta dal centro peloritano per accaparrarsi il favore del Braccio Demaniale del Parlamento, in occasione dello scontro col conte di Prades, v. i regesti nn. 116-142, pp. 678-687, del lavoro citato infra, nt. 24.

 

 

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il legum doctor si spingeva a dichiarare che l’antico imperatore aveva mostrato la sua eterna riconoscenza ordinando che una epigrafe, con incise le parole Gran mercè a Messina, fosse apposta sul campanile di Santa Sofia a Costantinopoli [10]. Pertanto, proseguiva, nessuno deve ignorare le glorie della città del Faro, proclamate dalle iscrizioni che, da oltre mille anni, stanno sulle torri e sulle mura d’Oriente e d’Occidente [11].

 

Gli studiosi dei giorni nostri possono provare imbarazzo nel decidere se sia maggiore l’interessata improntitudine o la cieca credulità del famoso professore, ma non possono dubitare che risalga a lui la prima, palese, testimonianza di un collegamento tra la Praxis, il privilegio attribuito ad Arcadio e il Gran mirci. Probabilmente, il collegamento non era farina del suo sacco, ma risaliva ai decenni finali del sec. XV o agli inizi del successivo, quando fu scolpita l’iscrizione che stava sulla torretta del duomo.

 

Dopo quel momento, in un periodo non meglio precisabile, negli ambienti colti della città, dovette maturare anche l’idea che, per zittire i malevoli detrattori delle glorie locali, sarebbe stata una gran bella cosa se la formula gratulatoria avesse trasmigrato da uno Stretto all’altro: dal Fretum Siculum al Bosforo, dal campanile del duomo al minareto della capitale dell’impero ottomano!

 

Quest’ultima invenzione fu divulgata da Bolognetti e poco conta che agli assurdi anacronismi della Praxis e del privilegio [12] altri - e più gravi - se ne aggiungessero. Chi si curava del fatto che la prima chiesa di Santa Sofia fosse andata distrutta da un incendio nel 404, tre anni avanti la presunta emanazione del privilegio? Cosa importava che la basilica giustinianea fosse priva di campanile e che i minareti fossero stati realizzati dopo il 1453 [13]?

 

 

10. G. Bolognetti, Consilia, Venezia 1575, cons. 1, n. 35 (in Reina, Delle notizie, cit., p. 230):

 

Arcadius... concedens etiam signum crucis pro insigni suo, quod [Messanenses] imponerent iuxta insigna imperii, prout ipse mandavit Constantinopoli in ecclesia Sanctae Sophiae imponi, cum subscriptione graeca, Gran mercè a Messina.

 

11. Idem, ibid, n. 55 (in Reina, op. cit., pp. 230-231):

 

Ex quibus apparet quod praefatum privilegium Arcadii fuit verissimum et refert vera merita Messanensium, et insignia ab eodem Arcadio concessa ex meritis dignissimis concessa fuere et propterea dicta insignia, seu arma, nobilis civitatis Messanae, ad invidiam multorum cum vero titulo acquisita legitime fuisse, quae palam omnibus regibus et principibus, in muris et turribus vetustissimis sculpta et visa fuere et amplius reperiuntur in ecclesia Sanctae Sophiae, cum subscriptione graeca, Gran mercè a Messina, per mille annos et ultra retenta.

 

12. Le assurdità e gli anacronismi della Praxis e del privilegio vennero posti in evidenza già dagli autori, non messinesi, dei sec. XVI-XVII. Una rassegna e una confutazione si trovano nei lavori cit. supra, nt. 2.

 

13. Della vasta letteratura, si v., almeno: R. Janin, Constantinople bizantine, 1, Paris 1950; M. L. Fobelli, Un tempio per Giustiniano. Santa Sofia di Costantinopoli e la descrizione di Paolo Silenziario, Roma 2005.

 

 

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Tuttavia, gli entusiasmi municipalistici non bastavano a fugare le crescenti perplessità o l’aperta ostilità di quanti erano sempre meno dispoti a tollerare le pretese autonomistiche dei Messinesi, fondate su un folto manipolo di privilegi spudoratamente falsi [14].

 

Per rafforzare le difese, occorrevano nuove prove. Questa volta, scese in campo il Reina. Nel 1668, egli narrava che ultimamente il signor Cesare Marchesi, cavaliere della Stella [15], uomo assai stimato per l’antica nobiltà del sangue, per l’integrità e soavità de’ costumi, aveva riferito quanto gli aveva detto un concittadino di specchiata reputazione (purtroppo - aggiungiamo noi - passato a miglior vita e quindi impossibilitato a confermare o a smentire i fatti).

 

Don Bartolomeo Papardo [16], anni prima, aveva compiuto un viaggio ad Istanbul per accompagnare il conte Carlo Cigala [17], che andava a trovare un fratello, convertito all’islamismo e passato al servizio del sultano [18].

 

Durante la visita alla capitale, tra le varie meraviglie, era stata loro mostrata anche l’iscrizione che tanto onorava la lontana patria sicula [19].

 

I contemporanei non ebbero molto tempo per godere della notizia di questa preziosa autopsia, perché, sei anni dopo la stampa del volume in cui era contenuta la narrazione, nel 1674, il gruppo dirigente che egemonizzava la giurazia, difendendo gli interessi parassitari fondati sulle falsificazioni, spinse Messina in una tragica avventura che si chiuse con il completo tracono politico ed economico del centro peloritano [20].

 

 

14. V. supra, nt. 5.

 

15. Su quest’Ordine militare, v Gallo, Gli Annali, cit., vol terzo, Messina 1881, pp. 8384. Uno dei membri della famiglia Marchesi (de Marchisio, Marchese) era stato tra i fondatori dell’Ordine.

 

16. La famiglia Papardo aveva dato alcuni giudici alla città a partire dal sec. XVI (Pietro: 1526, 1532, 1533, 1535; Bernardo: 1537; 1541) e numerosi giurati tra XVI e XVII sec. (Coletta: 1580; Bartolo: 1615, 1627; Bartolomeo: 1635; Cola Maria: 1630; Nicolò: 1636). V. Gallo, Gli Annali, cit., vol. secondo, Messina 1879; vol. terzo, cit., ad indicem, s. v. Giudici e Giurati, sub anno.

 

17. Capostipite del ramo napoletano della famiglia, morì nel 1631. Ascritto al Seggio di Portanova, nel 1597 fu decorato col titolo di conte del Sacro Romano Impero e, nel 1630, ottenne il titolo di principe di Tiriolo dal re di Spagna Filippo IV: http://www.nobili-napoletani.it/Cigala.htm . Il ramo messinese fu presente nella Giurazia con due Filippo (forse nonno e nipote), negli anni 1589, 1597, 1607, 1610, 1668: cfr. Gallo, op. cit., supra, nt. 15.

 

18. Questo singolare personaggio, sul quale v. Gallo, Gli Annali, vol. terzo, cit., pp. 120121, con bibl. precedente, morì a Costantinopoli nel 1605. Il viaggio di Carlo e Bartolomeo va, dunque, collocato negli anni anteriori.

 

19. Reina, Delle notizie, cit., p. 231.

 

 

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Ma certe abitudini, specie se cattive, non si perdono facilmente e, alla metà del secolo di Muratori e di Voltaire, l’annalista Gallo tornava a ricordare, compiaciuto, le asserzioni del Reina, a perpetuo scorno degli inguaribili detrattori della gloria Messanensium [21] !

 

Ognuno valuterà a suo giudizio cosa abbia potuto vedere effettivamente don Bartolomeo e indagherà a suo modo le cause della malafede o della mancanza di senso critico degli eruditi locali.

 

A noi basta aver passato in rassegna le opinioni diffuse e consolidate nella tradizione, per prenderne le distanze e andare alla ricerca di ipotesi più verosimili e meglio fondate.

 

 

            La vera gratitudine del re di Sicilia

 

L’idea più ovvia, che viene in mente al moderno studioso, è che l’espressione attribuita ad Arcadio sia il mero parto della sbrigliata immaginazione di qualche chierico o monaco peloritano, alla pari della Praxis ton basileon e del falso privilegio. Ma, quando ci si occupa della città del Faro, nulla può darsi per scontato. Messina, infatti, è una collettività che, pur disponendo di documenti originali, li occulta e li trasforma in testi apocrifi, che poco aggiungono all’autentico contenuto, oltre all’orpello di una fantasiosa antichità [22].

 

Neanche il Gran mirci sfugge a questa singolare regola: esso ha origine in un testo, meno antico e meno nobile di quanto avrebbero voluto i Messinesi, ma sicuramente autentico e ancor’oggi conservato in terra iberica.

 

Senza ripercorrere le ben note vicissitudini dell’archivio e della biblioteca conservati nel campanile del duomo al momento della resa della città alla Spagna (1678), basta ricordare che, tra i materiali sequestrati dal conte di Santo Stefano (1679) e passati nell’Archivo Ducal Medinaceli a Siviglia [23] e, da qui, a Toledo, oltre alle pergamene, era una cospicua quantità di documenti cartacei, concernenti la cattedrale e l’universitas.

 

 

20.

·       F. Martino, Messana Nobilis Siciliae Caput, Roma 1994, pp. 124-132;

·       L. A. Ribot García, La monarquía de Espana y la guerra de Mesina (1674-1678), Madrid 2002, con ampia bibliografia.

 

21. Gallo, Gli Annali, vol. primo, cit., p. 130, nt. b.

 

22. Martino, Una ignota pagina, cit., passim.

 

23.

      ·       C. Giardina, Capitoli e privilegi di Messina, Palermo 1937, pp. IX-XVI;

      ·       A. Sanchez Gonzales, El largo peregrinar de un archivo siciliano por tierras españolas, “Messina. Il ritorno della memoria”, Palermo 1994, pp. 129-141.

 

 

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A differenza delle bolle e dei diplomi, che hanno suscitato una entusiastica (e meritata) attenzione negli studiosi e nell’opinione pubblica, le carte sono rimaste neglette, nonostante, già nel 1980, F. Martino avesse pubblicato ampi regesti di ciò che riguardava la città [24].

 

Tra questi, al n. 81 [25], era segnalata la lettera, del 12 giugno 1410, inviata ai giurati da una Compagnia di gente d’arme, formata da Catalani e Siciliani, per chiedere di essere aiutata a traversare lo Stretto, in quanto priva di risorse per il ritardato pagamento del soldo da parte della Corona [26].

 

Le traversie dei soldati si collocano negli ultimi giorni del regno, e della vita, di Martino il Vecchio e a noi interessa sottolineare alcune espressioni usate dall’ignoto redattore della missiva, che scriveva in catalano.

 

Per rendere particolarmente efficace la captatio benevolentiae dei giurati, l’autore si preoccupa di glorificare i sacrifici sopportati e i risolutivi aiuti forniti dai Messinesi ai re d’Aragona per la riconquista dell’Isola (la città è detta comenzament e fi de la conquesta di Sicilia) e aggiunge un ricordo personale: Martino il Giovane, morto l’anno avanti [27], era uso ripetere sovente le parole Gran merces a Missina.

 

Nonostante nel regesto l’espressione fosse riportata integralmente e posta tra caporali, per quanto ne sappiamo, nessuno ne ha mai rilevato la sostanziale identità con il preteso motto di Arcadio [28].

 

 

24. F. Martino, Documenti dell’«universitas» di Messina nell’Archivio Ducale Medinaceli a Siviglia, “Quaderni Catanesi di Studi Classici e Medievali”, II, 4, 1980, pp. 641-706.

 

25. Id., op. cit., p. 670.

 

26. La trascrizione del testo e la riproduzione del documento sono pubblicate infra, Appedice. La copia fotostatica da cui sono tratte fu effettuata da F. Martino, a Siviglia, nel 1978.

 

27. Sposo di Maria figlia di Federico il Semplice e poi di Bianca di Navarra, divenne re di Sicilia nel 1392. Morì il 25 luglio 1409, dopo una campagna militare per la conquista della Sardegna, e gli succedette il padre, Martino il Vecchio, che regnò sino al 31 maggio 1410. Che l’estensore della missiva intenda parlare di lui, e non del padre, si ricava dall’espressione: lo senyor Rey de Arago et de Sicilia, a qui deus perdo,... (v. infra, Appendice, r. 4), esclusivamente riferibile a qualcuno già defunto. Sappiamo che la notizia della morte di Martino il Vecchio fu comunicata, da Cagliari, a Bernardo Cabrera, a Catania, solo il 13 giugno e che questi la trasmise ai giurati messinesi il 21 (Martino, Documenti, cit., reg. nn. 82, 83, p. 671) Pur tenendo conto del fatto che la Compagnia risiedeva nel centro etneo, è quasi impossibile che dei semplici soldati abbiano conosciuto la morte del sovrano prima del Cabrera. Un interessante ritratto intimo di un monarca così amico dei Messinesi è offerto da G. Beccaria, Spigolature sulla vita privata di re Martino in Sicilia, Palermo 1894 (rist. anastatica, con prefazione di S. Tramontana, Messina 1993), che per la sua narrazione usa materiali conservati nell’Archivio di Stato di Palermo.

 

28. L’unica differenza è merces invece che mirci. Non è difficile ipotizzare una lieve corruzione, dovuta all’adattamento linguistico operato dai Siciliani. Peraltro, sia Bolognetti, sia l’iscrizione posta sul gazophilacium cittadino (v. infra, nt. 32) danno la forma merce.

 

 

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A più di trent’anni, dunque, ci è parso utile porre in evidenza il fatto e farlo oggetto di qualche considerazione.

 

Non insisteremo sulle ragioni che stavano a base della riconoscenza del defunto sovrano verso i Messinesi [29], cercheremo, piuttosto, di capire come abbia avuto origine l’erronea paternità della formula gratulatoria.

 

Le spiegazioni possibili sono due: o il re aragonese conosceva una frase, riferita al primo imperatore d’Oriente, e se ne appropriò, traducendola e riformulandola in catalano, o l’espressione nacque sulle sue labbra, nella sua lingua nativa, durante gli anni che, a partire dal 1392, lo videro, con il duca di Montblanc, lottare a lungo contro il baronaggio isolano, e, solo successivamente, fu ricondotta ad Arcadio [30].

 

La prima ipotesi è assolutamente insostenibile, poiché, come s’è visto, il Gran mirci non è attestato prima degli inizi del Cinquecento e manca ogni elemento per ipotizzare che fosse noto avanti gli ultimi decenni del secolo XV. Infatti, se è vero che la Praxis e il privilegio risalgono ai tempi del Vespro, è altrettanto vero che, pur accennando genericamente alla riconoscenza di Arcadio, non contengono l’espressione in esame ed entrambi, al pari delle altre falsificazioni, tornarono ad essere usati solo in età alfonsina, dopo il 1437, ma sopratutto a partire dal 1459 [31].

 

Al contrario, a favore della seconda ipotesi esistono dati numerosi e significativi.

 

In primo luogo, vi è il fatto che la lettera sia stata conservata nel campanile [32], dove non era contenuto l’archivio corrente, che stava nel palazzo dei giurati,

 

 

29. Il lettore curioso potrà ripercorrere gli sforzi sostenuti dai cittadini peloritani per favorire la riconquista aragonese dell’Isola leggendo i regesti della fitta corrispondenza intercorsa con il nuovo sovrano e il padre, duca di Montblanc, negli anni 1392-1396: Martino, Documenti, cit., pp. 658-670.

 

30.

·       V. D’Alessandro, Politica e Società nella Sicilia aragonese, Palermo 1963, pp. 127-160;

·       R. Moscati, Per una storia della Sicilia nell’età dei Martini, Messina 1954.

 

31. Martino, Una ignota pagina, cit., pp. 66-72. Il fenomeno ha fatto pensare, contrariamente al vero, che tutte le falsificazioni fossero di età alfonsina. Per quanto concerne la leggenda di Arcadio, la più antica menzione risale al Saccano: v. supra, nt. 6.

 

32. La presenza dei documenti cartacei accanto alle pergamene è attestata dal verbale della confisca, effettuata il 9 gennaio 1679, edito dal Giardina, Capitoli, cit., pp. LIX-LXIV. Nell’accurata relazione di Rodrigo de Quintana si fa anche menzione dell’armadio, fatto fabbricare dai giurati nel 1567, in cui era deposto il materiale. Ci pare interessante che, sul mobile, oltre all’iscrizione che ricordava la data e l’occasione in cui era stato realizzato, campeggiasse il nostro motto, peraltro in forma quasi identica a quella tramandata dalla lettera: Gran merce a Messina.

 

 

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ma una sorta di speciale archivio storico, un tesoro [33], in cui trovavano posto, oltre ai manoscritti della libraria magna, i documenti - membranacei e cartacei - sui quali si fondavano le prerogative dell’universitas: diplomi, che concedevano o confermavano privilegi, e lettere di sovrani, città etc., che testimoniavano le glorie e i meriti acquisiti, nei secoli, dal centro peloritano.

 

Dunque, se una banale richiesta di aiuto, avanzata da un pugno di armigeri rimasti senza paga, ebbe l’onore di essere conservata accanto agli scritti di imperatori, pontefici e re di Sicilia, d’Aragona e di Napoli, vuol dire che le furono riconosciuti una importanza e un significato del tutto particolari, proprio per la frase che in essa era riferita.

 

Ma vi è dell’altro. Abbiamo inequivocabili tracce di una periodica attività di revisione e utilizzazione dei materiali contenuti nel tesoro, in concomitanza con l’acuirsi del confronto tra la città, la Corona e Palermo, e le copie di molti documenti cartacei, ancora adesso esistenti in originale nell’archivio Medinaceli, furono trascritte nelle sillogi dei capitoli e privilegi dell’universitas, nonostante avessero natura del tutto diversa, per appoggiarne le ragioni [34].

 

Inoltre, importa richiamare l’attenzione su alcune note dorsali che, in base all’evidenza paleografica, risultano apposte nella seconda metà del XV sec. Sono dirette a sminuire il ruolo di Palermo e ad esaltare il primato della città del Faro nell’Isola [35] e, pertanto, vanno ricondotte al periodo 1458-1478, quando Messina sostenne un durissimo scontro, nel tentativo di rivendicare il primo posto nei Parlamenti di Sicilia. In questi stessi anni, per gli stessi motivi, riemersero dall’oblio di quasi due secoli la Praxis e le concessioni di Arcadio [36].

 

 

            Epilogo

 

Sul fondamento di queste constatazioni, non è difficile, né azzardato, ipotizzare che, in quel tempo, lo sguardo curioso di uno zelante funzionario sia caduto sulla lettera, peraltro già conservata tra i materiali meritevoli di future attenzioni.

 

 

33. Nel transunto della Praxis e del privilegio, fatto a Messina il 20 luglio 1459 (Toledo, Fundación Casa Ducal de Medinaceli, Fondo Messina, perg. 590), si dice (rr. 9-10):

...in gazophilacio dicte civitatis, ubi videlicet rescripta/ apostolica antiquissima Sanctorum Patrum, privilegia sacrorum imperatorum, principum et regum antiquissima et moderna et alie scripture facientes et loquentes in favorem, beneficium, honores et dignitates dicte civitatis de magna importancia conservantur, ubi etiam est libraria magna...

 

34. Martino, Documenti, cit., pp. 648-649 e nt. 29.

35. Id., op. cit, p. 649 e nt. 30.

36. V. supra, nntt. 6, 9, 31.

 

 

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Ecco, allora, che la mente del fortunato inventore fu come illuminata da un lampo: perché non attribuire all’imperatore del V sec., testé riesumato, l’espressione di gratitudine pronunciata da un re di Sicilia morto nel 1409?

 

Ai suoi occhi, il procedimento non costituiva una falsificazione, ma era l’ingenuo ripristino dell’accordo tra fatto e “giusto ordine”, secondo l’opinione corrente nei secoli del Medio Evo [37].

 

L’idea ebbe successo e, già nel primo trentennio del Cinquecento, qualcuno si incaricò di far scolpire la lapide che, con involontaria ironia, venne posta sulla porta del locale in cui stava la vera fonte del motto di Arcadio, mentre, nel 1567, la frase era addirittura incisa sulla fronte dell’armadio che conteneva il tesoro.

 

I palati raffinati, come Maurolico, pur non facendosi scrupolo di accettare le fantasticherie inaccettabili - ma politicamente utili - della Praxis e del privilegio, tentarono di salvare l’anima ignorando il Gran mirci.

 

Tuttavia, la pietruzza era lanciata e, scivolando lungo il piano inclinato delle lotte municipalistiche e dello scontro tra città e Corona, finì col provocare una valanga.

 

Bolognetti, dando prova di totale - e interessata - assenza di buon senso e spirito critico, faceva da cassa di risonanza agli ultimi sviluppi della leggenda e li consegnava al futuro: da quel momento, il fantomatico testo che esprimeva l’imperiale gratitudine era definitivamente autenticato e delocalizzato e, nonostante fossero trascorsi più di mille anni segnati da incendi, terremoti, distruzioni e rifacimenti, stava ancora su un campanile di Santa Sofia, che non esisteva e che mai era esistito.

 

E lì, oltre che sul proprio campanile, i Messinesi seguitarono a vederlo nei secoli a venire!

 

E pazienza per il ben pagato giurista del Cinquecento e per gli eruditi senza acribia del Sei e Settecento, ma che dire di quanti, in pieno Novecento, fecero forgiare i cancelli del Municipio o di coloro che, scavalcando i documenti sicco pede, ancora oggi civettano con clamorose falsificazioni, pudicamente (e ipocritamente) definite tradizioni?

 

 

37. H. Fuhrmann, Guida al Medioevo, Bari 1989, pp. 185-214.

38. ne sit] sic scrips.

39. passar scrips.

 

 

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 APPENDICE

 

Toledo, Fundación Casa Ducal de Medinaceli, Fondo Messina, legajo 198, 67

 

Catania, 12 giugno III ind. (1410)

 

Una Compagnia di uomini d’arme, siciliani e catalani, rammentando i meriti avuti dai Messinesi nel favorire ai sovrani la riconquista di Sicilia, chiede ai giurati di agevolare il passaggio dei soldati in Calabria, poiché sono ridotti allo stremo a causa del mancato pagamento degli stipendi dovuti dal re.

 

Sul verso, sigillo in cera ricoperto di carta. Sul dritto, all’altezza della sottoscrizione, timbro a inchiotro della Casa Ducal de Medinaceli.

 

[1] Molt nobles senyors, o quanta gloria en a quest mon es atribuita als homenes que ab triunfo e corona de lealtat vir[2]tuosament servexen son senyor natural en conquestes e batalles, axi com se pot dir de la molt noble civitat de Mi[3]ssina, la qual incessantment es stata comenzament e fi de la conquesta de Sicilia. On moltes vegades lo senyor Rey [4] de Arago et de Sicilia, a qui deus perdo, parlantes de conquestes, en especial de la de Sicilia, toda vigada dient “Gran [5] merces a Missina”, per que, molt nobles senyors, axi com a quels que tos temps son estats en servir del senyor Rey [6] colona et principi de tot lo benvenir de aquest regne, vos notificam com a ci en servey del molt alt senyor Rey [7] lo senyor Rey de Arago et de Sicilia som certs gentils hommes, axi sicilians com catalans, prenents [8] lo gatge, et sou del dit senyor per la conservacio et beneavenir de quest regne, lo qual gatge nos es degut de sis [9] meses, per la qual raho diverses vegades nos altres havem supplicat la senyora Reyna e son Consell que fos sa [10] merce fer nos contents del dit temps o de partida da quell, com nos altres siam en estrema necessitat de [11] pobrea, la qual senyora e Consell aceron respost e mals obres nos han passats fins axi, la qual cosa [12] nos altres non podem pus soportar, ons, per la ditta necessitat en que som, nos metem en risch de fer nos [13] fer coses de les quals merexirien haver gran reprensio per lo dit senyor Rey et per sos officials, pero la [14] gintilea es a quella qui costrey a cascu de nos altres tals coses no metreles en execucio mas conve a cascu [15] de nos altres o a tots ensems pendre partit licit ab lo qual iscam da questa miseria e pobretat e fazam [16] la honor del dit senyor e nostra en tant com possible ne sit [38]. Perco, molt nobles senyores, tots ensemps havem [17] deliberat de passag [39] nosen en Rijols e a zo per alcuns rahons de les quales les principals son aquestes: que creem [18] passer nostra vida a meys pobrea que aci e, essent en Rijols, sarem pus prests da quest regne en cas que hi fossem mester, [19] ni per la dita senyora Reyna ne fossem requests. Per que, molt nobles senyors, com vos altres siats principals en a [20] quest regne e som certs que affetats e desijats la honor de la Corona de Arago, tam affetuosament com podem [21] vos pregam que en aquest fet del dit passatge nos vullats favorablement aiutar e endreczar per forma que [22] aquesta Companyia non sia divisida, ans sic en par

 

 

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que com aquest regne la hages mister se pusqua haver de [23] continent. E azo serra servir del dit senyor e del regne e de vosaltres. Et pregam vos affectuosament que vos [24] placia donar fe e creenza a Rodrigo de Lion, el qual sen va plenament informat de part de nos altres [25] axi com si nos altres vos lo degiam, e, si negunas cosas vos plaxens a vestra noblea que nos altres fa[26]zam, som prests a vestre servir et emanament. En scripts en Cathania a li XII Iunii de la tercia indicio.

 

[27] De part de la Compagnia de la gent [28] d’arms que son in Cathania, que mol sen [29] recomanen a vos altres.

 

 

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