SCIENZE STORICHE - 31

 

Il “Liber de apparitione”, il santuario di san Michele sul Gargano e i Longobardi del Ducato di Benevento

 

Giorgio Otranto

 

In: Santuari e politica nel mondo antico, a cura di Marta Sordi

Contributi dell’Istituto di storia antica. Volume nono

 

Vita e Pensiero. Pubblicazioni della Università Cattolica del Sacro Cuore

Milano 1983

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    Indice  —  Presentazione

 

PARTE TERZA. Un esempio di continuità religiosa dall’antichità al medioevo: il santuario garganico:

 

 

Il “Liber de apparitione”, il santuario di san Michele sul Gargano e i Longobardi del Ducato di Benevento

 

GIORGIO OTRANTO

 

1. Premessa  210

2. L’episodio del toro  213

3. La guerra tra Napoletani e Sipontini-Beneventani  223

4. Le origini del santuario  236

 

 

            1. Premessa

 

In una grotta naturale, sulla cima del monte Gargano in Puglia, è attestata, sicuramente dal VI-VII secolo, resistenza del santuario di san Michele, il più famoso luogo di culto micaelico dell’Occidente latino, che fu nella tarda antichità e nell’Alto Medio Evo mèta di continui pellegrinaggi di personaggi illustri e di gente di ogni condizione ed estrazione sociale, provenienti anche da terre molto lontane [1]: un fenomeno interessantissimo di fede e religiosità popolare che si è perpetuato ininterrottamente sino ai nostri giorni. Il santuario, le cui origini, come vedremo, possono risalire anche agli inizi del V secolo, è stato recentemente al centro dell’attenzione di un gruppo di studiosi di settori diversi della ricerca, i quali, partendo da quello che può essere definito un vero e proprio corpus di iscrizioni cristiane altomedievali e di segni e simboli tracciati sulle strutture del santuario, hanno approfondito alcuni aspetti del complesso monumentale micaelico e della sua storia nell’epoca compresa tra il VI e il IX secolo [2].

 

 

1. Cfr. Arm. Petrucci, Aspetti del culto e del pellegrinaggio di San Michele sul monte Gargano, «Atti del IV Convegno di studi sul tema Pellegrinaggi e culto dei Santi in Europa sino alla prima crociata», Todi 1963, pp. 166180; F. Avril-J. Gaborit, L’Itinerarium Bernardi monachi et les pèlerinages d’Italie du sud pendant le Haut-Moyen-Age, «Mélanges d’archéologie et d’histoire», 79 (1967), 276-279.

2. AA.VV., Il Santuario di San Michele sul Gargano dal VI al IX secolo. Contributo alla storia della Langobardia meridionale, a cura di C. Cadetti e G. Otranto, Bari 1980; in seguito citato «Atti Monte Santangelo». Il volume contiene saggi di un gruppo di studiosi dell’Istituto di Letteratura cristiana antica dell’UniversÌtà di Bari (C. Colafemmina, C. D’Angela e M. Salvatore, oltre ai curatori) che hanno lavorato sul monumento in stretta collaborazione con studiosi di altre Università: M.G. Arcamone, M. Cagiano de Azevedo, C.A. Mastrelli, A. Quacquarelli.

 

 

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Di particolare rilievo è risultata la scoperta di tre iscrizioni runiche, le prime finora rinvenute in Italia [3]. Le nuove acquisizioni, lungi dall’essere definitive, consentono, e ancor più stimolano, una revisione critica dei dati tradizionali elaborati dalla precedente storiografia. Ne emergono talvolta ribaltamenti, talaltra conferme di vecchie soluzioni, ipotesi e intuizioni, talaltra, infine, aspetti che pongono in una nuova luce la storia del santuario garganico che dalla metà del VII secolo appare intimamente connessa con alcune vicende che interessarono i Longobardi del Ducato di Benevento.

 

Uno dei problemi più dibattuti da coloro che si sono interessati alla vita del santuario è quello delle origini del culto micaelico sulla montagna garganica. Le recenti sopra accennate indagini lo hanno però lasciato in ombra. Allo stato attuale della ricerca esso va ripreso e riesaminato per tentare di acquisire ulteriori elementi di giudizio.

 

Il documento letterario più importante su cui si fonda la ricostruzione delle origini del culto micaelico sul Gargano è costituito dall’anonimo Liber de apparitione Sancti Michaelis in Monte Gargano [4], una singolare operetta che non solo è priva di ogni riferimento preciso a episodi o personaggi storici e all’epoca di composizione, ma che presenta fatti e dati difficilmente interpretabili in un quadro unitario e omogeneo. Tutto ciò ha indotto la critica a proporre datazioni diverse che si collocano nell’arco di quattro-cinque secoli, dal VI al X secolo. Al VI la datano, oltre a numerosi studiosi di memorie locali, Arm. Petrucci [5] e Quacquarelli [6], il quale riconosce che essa ha subito processi di reductio e amplificatio nei secoli successivi;

 

 

3. Una quarta iscrizione runica, attualmente allo studio di M.G. Arcamone, è stata recentemente scoperta nel santuario dallo stesso gruppo di studiosi deiristituto universitario barese.

4. Per il Liber de apparitione, la Historia Langobardorum di Paolo Diacono, la Historia Langobardorum Beneventanorum di Erchemperto, la Chronica Sancti Benedicti Casinensis e la Vita Barbati episcopi Beneventani seguo l’edizione di G. Waitz in MGH, Scriptores rerum Langobardicarum et Italicarum saec. VI-IX, Hannoverae 1878.

5. Aspetti del culto..., pp. 150-152. Precedentemente lo stesso Petrucci, in un articolo tanto breve quanto ricco di intuizioni e spunti interessanti per la storia del culto micaelico sul Gargano, aveva accolto la datazione di Waitz (v. infra nota 9): L’unico eletto tra gli altri monti, «Quaderni del Gargano», 3, Foggia s.d., ma 1954, 3-14.

 

 

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Gothein [7] la fa risalire alla seconda metà del VII secolo; lo Stiltingh [8] a fine VIII-inizi IX; Waitz [9], Gay [10] e Lanzoni [11] al IX; Testini [12] a dopo il IX secolo. Questa notevole oscillazione è dipesa, a mio parere, oltre che dalle obiettive difficoltà che un libellus come l’Apparitio comporta, dal fatto che gli studiosi si sono di volta in volta soffermati solo su singoli aspetti della questione, senza considerare nel loro insieme l’ambiente in cui l’operetta è maturata, le sue finalità, i riflessi che ha avuto nella diffusione del culto micaelico anche lontano dal Gargano e le tracce che ha eventualmente lasciato nella tradizione locale e nel vasto materiale liturgico altomedievale [13], che abitualmente mutua numerosi elementi da atti di martiri, vitae, passiones e apparitiones di santi.

 

Oltre che dall’Apparitio il culto di san Michele sul Gargano è attestato da un’anonima Vita Sancti Laurentii, presunto vescovo sipontino tra il V e il VI secolo, del quale non si hanno altre notizie. Questa Vita, composta molto probabilmente tra il IX e il X secolo, presuppone l’Apparitio, di cui in qualche caso pare voglia completare o precisare il racconto [14].

 

 

6. Gli apocrifi nei riflessi di un graffito del Calvario e il «Liber de apparitione», «Atti Monte Santangelo», p. 237.

7. L’Arcangelo Michele santo popolare dei Longobardi, trad. ital., «Rassegna Pugliese», 13 (1896), 110.

8. In AA.SS. Sept. 8, p. 54.

9. In MGH, p. 540.

10. L’Italia meridionale e l’impero bizantino dall’avvento di Basilio I alla resa di Bari ai Normanni (867-1071), trad. ital., Firenze 1917, pp. 185-186.

11. Le diocesi d’Italia dalle origini al principio del secolo VII, Faenza 1927, I, p. 279.

12. Nota introduttiva ai monumenti paleocristiani del Gargano, «Puglia Paleocristiana», 1, Bari 1970, 6.

13. Al momento di licenziare questo lavoro, ho in corso di stampa su «Vetera Christianorum» (18 [1981], II fasc.) un saggio dal titolo Il Liber de apparitione e il culto di San Michele sul Gargano nella documentazione liturgica altomedievale.

14. Della Vita sono state tramandate due recensioni, la minor e la maior. La prima, redatta su commissione di un vescovo di nome Benedetto, risale al IX-X secolo; la seconda, interpolata, è probabilmente dell’XI secolo; cfr. Lanzoni, Le diocesi..., pp. 279-292. Arm. Petrucci data la prima recensione alla fine del VI secolo — l’Apparitio per lui risale a qualche decennio prima — e considera la seconda molto più tarda (Aspetti del culto..., pp. 148-152). Per i Bollandisti, invece, la recensione più ampia è quella originale mentre l’altra è «ex priori contracta et interpolata» (AA.SS. Febr. 2, pp. 56.60). La recensio maior contiene una grave incongruenza sul piano storico (v. infra, p. 238 nota 125).

 

 

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Finora essa è stata spesso fusa, e diciamo pure confusa, con l’Apparitio: ne è scaturita una ricostruzione del culto micaelico sul Gargano ricca, articolata e apparentemente convincente, che, però, non ha alcun fondamento storico.

 

La presente ricerca, incentrata su due dei tre episodi presenti nell’Apparitio (il terzo riguarda la consacrazione della grotta-basilica), è parte di un lavoro a più ampio respiro, di prossima pubblicazione, che intende approfondire globalmente le diverse questioni connesse con la singolare operetta.

 

 

            2. L’episodio del toro

 

Il primo dei tre episodi dell’Apparitio è quello cosiddetto del toro, di proprietà di tal Gargano, un personaggio molto ricco che è detto aver dato il nome al Monte («...qui et ex eventu suo monti vocabulum indidit»). Egli una sera, al rientro del suo numeroso gregge all’ovile, si accorge che manca un toro: organizzate con i suoi servi le ricerche, lo rinviene in prossimità di una grotta e, preso dall’ira, tenta di colpirlo con una freccia avvelenata che, però, ritornando inspiegabilmente indietro, colpisce lui. I Sipontini, impressionati dall’episodio, chiedono il da farsi ad un non meglio precisato vescovo, il quale dispone un digiuno di tre giorni per conoscere la volontà di Dio. Alla fine del digiuno al vescovo appare Michele che presenta l’episodio come voluto da lui per dimostrare di essere il patrono dei Sipontini. Questi, in seguito alla rivelazione, non osano entrare nella grotta, ma si riuniscono fuori di essa per rivolgere il culto a Dio e all’Arcangelo [15].

 

 

15. Appar. 2:

 

«Erat in eadem civitate predives quidam nomine Garganus, qui et ex eventu suo monti vocabulum indidit. Huius dum peccora, quorum infinita multitudine pollebat, passim per divexi montis latera pascerentur, contigit, taurum, armenti congregis consortia spernentem, singularem incedere solitum et extremum, redeunte peccore, domum non esse regressum. Quem dominus, collecta multitudine servorum, per devia quaeque requirens, invenit tandem in vertice montis foribus cuiusdam adsistere speluncae, iraque permotus, cur solivagus incederet, arrepto arcu appetit illum sagitta toxicata. Quae velud venti flamine retorta, eum a quo iecta est mox reversa percussit. Turbati cives et stupefacti, qualiter res fieret effecta — non enim accedere propius audebant —, consulunt episcopum, quid facto opus esset. Qui, indicto ieiunio triduano, a Deo monuit esse quaerendum. Quo peracto, sanctus Domini archangelus episcopum per visionem alloquitur, dicens: ‘Iam bene fecistis, quod homines latebat a Deo quaerendum: mysterium videlicet hominem suo telo percussit, ut sciatis, hoc mea gestum voluntate. Ego enim sum Michael archangelus, qui in conspectu Domini semper adsisto. Locumque hunc in terra incolasque servare instituens, hoc volui probare inditio omnium quae ibi geruntur ipsiusque loci esse inspectorem atque custodem’. Hac revelatione conperta, consuetudinem fecerunt cives hic Dominum sanetumque deposcere Michaelem. Duas quidem ibi ianuas cernentes, quarum australis, quae et maior erat, aliquot gradibus in occasum vergentibus adiri poterat, sed ne ultra eruptam intrare ausi sunt, prae foribus orationi vacabant».

 

 

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Si tratta di un episodio apparentemente incomprensibile, soprattutto per quel che riguarda il rapporto tra la prima parte del racconto (Gargano colpito dalla freccia) e la seconda (l’Arcangelo che si proclama «inspector atque custos» del luogo e riceve con Dio il culto dei Sipontini). Né finora la critica ne ha fornito una interpretazione unitaria convincente, a parte le osservazioni di Bronzini sugli elementi demologici del culto micaelico in rapporto alla stratigrafia dei miti garganici [16]; queste osservazioni, comunque, vanno integrate perché l’episodio sia unitariamente letto non solo nelle sue premesse e nei suoi risvolti demologici, ma anche nei suoi motivi di aggancio al Vecchio Testamento.

 

Il primo problema è costituito dall’espressione «qui [Garganus] ex eventu suo monti vocabulum indidit» che è concordemente attestata dalla tradizione manoscritta diretta e indiretta [17], ma che ha dato adito ad una impressionante sequela di errori e di falsi di cui è bene sgomberare il campo una volta per tutte. Vediamo di che si tratta.

 

F. Ughelli nella sua Italia Sacra [18], nella parte dedicata alla trattazione della diocesi di Siponto, propone il testo dell’Apparitio sulla base del codice Vaticano Latino 6074,

 

 

16. G.B. Bronzini, La Puglia e le sue tradizioni in proiezione storica, «Archivio Storico Pugliese», 21 (1968), 87-97.

17. L’espressione ricorre anche nei Martirologi di Adone (PL 123, 368) e, in una formulazione sintatticamente diversa, di Notkero (PL 135, 1155: «de cujus eventu vocabulum monti inditum est»). Il fatto che Notkero le abbia dato una forma diversa, senza intaccarne il senso, prova come nel ix se-: colo l’espressione non suscitasse alcuna perplessità.

18. F. Ughelli, Italia Sacra, Venetiis 17212, vii, coll. 816-818.

 

 

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databile alla fine dell’XI secolo [19]. L’erudito fiorentino, però, nel dare il testo, si prende una licenza abbastanza grave in quanto fa assumere all’espressione sopra ricordata la forma «...qui ex eventu suo Montis sibi vocabulum indidit», senza in alcun modo precisare di aver egli stesso modificato il testo tràdito dal codice. A tale modifica egli fu certamente spinto dal fatto che nell’incipit dell’Apparitio, secondo il Vaticano Latino 6074, è detto, tra l’altro, che gli eventi narrati nell’operetta si sono verificati nel 506 mentre era «magister militum» in Siponto tal Gargano [20]. Come poteva - si sarà chiesto lo studioso - una persona vissuta nel VI secolo aver dato il nome al Monte, che senza dubbio si chiamava Gargano già molti secoli prima? [21]. Egli ha certamente ritenuto più probabile che quel «magister militum» avesse preso nome dal Monte: di qui il suo intervento gratuito che si configura come una banalizzazione del testo e un tentativo di risolvere la difficoltà sollevata dalla lezione genuina secondo cui fu Gargano a dare il nome alla montagna. Dall’Ughelli in poi quasi tutti gli studiosi hanno ritenuto essere quella del Vaticano Latino 6074 - quella manipolata per intenderci, dal momento che questo codice non è stato edito da altri - la lezione genuina [22].

 

 

19. Cfr. A. Poncelet, Catalogus codicum hagiographicorum Latinorum Bibliothecae Vaticanae, Bruxelles 1910, p. 164; P. Salmon, Les manuscrits liturgiques latins de la Bibliothèque Vaticane, iv, Città del Vaticano 1971, n. 183.

20. Il Vaticano Latino 6074, f. 174 v riporta:

 

«Incipit inventio Basilicae beati Michahelis archangeli Anno quingentesimo sexto ab incarnatione domini nostri Iesu Christi, indictione quartadecima, imperante imperatore Zenone, in presulatu autem Romanae sedis presidente Gelasio pontifice, cathedram vero Sipontinam tenente Laurentio presule, in supradicta Sipontina (f. 175r) civitate erat magister militum nomine Garganus/ Quibus presidentibus inventa est ecclesia Sancti Michaelis archangeli octavo idus Madii, ad laudem domini nostri Iesu Christi et...».

 

Si tratta di un brano sicuramente interpolato e con incongruenze sul piano storico: Zenone e Gelasio nel 506 erano morti rispettivamente da quindici e dieci anni.

 

Ringrazio l’amico M. Miglio che ha visionato per me il Codice Vaticano.

 

21. Per i numerosi autori greci e latini che fanno riferimento al Gargano cfr. Meluta D. Marin, Topografìa storica della Daunia antica, Napoli 1970 p. 22.

22. Sarebbe troppo lungo dare un elenco completo; mi limito ad alcuni nomi: I.M. Giovene, Kalendaria vetera mss. aliaque monumenta ecclesiarum Apuliae et Iapygiae, Neapoli 1828, i, p. 156; AA.SS. Sept. 8, pp. 58.62; C. Angelillis, Il Santuario del Gargano e il culto di S. Michele nel mondo, Foggia 1956, il, p. 12 nota 1; F.P. Fischetti, Mercurio, Mithra, Michael. Magia, mito e mistero nella grotta dell’Arcangelo, Monte Santangelo 1973, pp. 19-20.

 

Gioviano Pontano, nel De bello Neapolitano, riporta l’episodio della prima apparizione dell’Arcangelo sul Gargano. Il rapporto tra il pastore e il Monte è presentato con un’espressione interpretabile nell’uno e nell’altro senso; cfr. Bronzini, La Puglia e..., pp. 87-88.

 

 

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Anzi qualcuno, per conferire maggiore credibilità alla lezione dell’Ughelli, ha voluto fare del Vaticano Latino 6074 il codice più antico dell’Apparitio attribuendolo, senza alcun fondamento, all’VIII secolo [23]. E c’è stato addirittura chi ha individuato Gargano nella persona di tale Elvio Emanuele (Gargano) che sarebbe morto nel 528 e il cui ricordo sarebbe attestato in due singolari iscrizioni M. Per quante ricerche abbia fatto non sono riuscito a conoscere né la provenienza né l’attuale luogo di conservazione di queste iscrizioni, non riportate dal Mommsen neppure tra quelle falsae vel alienae [25]. Si tratta certamente di due falsi da attribuire a qualche cultore di memorie locali che ha voluto colmare alcuni vuoti nella vicenda dell’apparizione dell’Arcangelo.

 

Per parte mia ritengo che l’espressione abbia un suo proprio significato che permette anche di cogliere appieno il nesso tra l’eliminazione di Gargano e l’adesione dei Sipontini al culto micaelico; essa va dunque interpretata in connessione con tutto il contesto. Per far questo bisogna partire dalle parole dell’Arcangelo il quale dichiara che l’episodio, incomprensibile agli uomini, si era verificato per sua volontà perché i Sipontini capissero che egli voleva assicurare loro la sua protezione

 

 

23. Angelillis, Il Santuario..., p. 12 nota 1. Nonostante già in AA.SS. Sept. 8, p. 54 il Vaticano Latino 6074 fosse considerato interpolato, l’errore di Angelillis è stato meccanicamente ripetuto in non pochi studiosi (V.G. Valente, La leggenda garganica, Roma 1977, pp. 28.90; Bronzini, La Puglia e..., p. 88; quest’ultimo avanza qualche riserva sulla datazione del Vaticano Latino 6074 all’VI li secolo, ma non lo considera posteriore al IX).

24. L. Pascale, L’antica e la nuova Siponto, Firenze 1932, p. 100; Angelillis, Il Santuario..., p. 12 nota 1; G.A. Gentile, Storia dell’antica Siponto, Prosinone 1974. pp. 252-253; E. Benvenuto, Le origini cristiane di Siponto alla luce dei resti archeologici, Foggia 1967, pp. 85-86 (quest’ultimo riporta le iscrizioni, ma si dichiara perplesso circa la loro autenticità).

25. CIL ix, 697-699.6242 (autentiche), 133-136 (falsae vel alienae). Neppure C. Serricchio prende in considerazione queste epigrafi: Iscrizioni romane paleocristiane e medievali di Siponto, Manfredonia 1978 (cfr. a p. 11 i riferimenti ad altri studiosi di epigrafìa sipontina). Per alcuni criteri di distinzione tra epigrafi autentiche ed epigrafi false cfr. M.P. Billanovich, Falsi epigrafici, «Italia Medievale e Umanistica», 10 (1967), 25-110.

 

 

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ed era ormai «...omnium quae ibi geruntur ipsiusque loci... inspector atque custos»“. Alla luce di questa affermazione è innegabile che l’episodio intenda segnare il momento in cui il cristianesimo sconfigge e sostituisce il paganesimo rappresentato da Gargano e fino ad allora dominante sulla Montagna. Bronzini vede in Gargano la personificazione di un ρως πώνυμος del Monte e propone con molta cautela di considerare tale personificazione come una lontana eco, un’ultima sfuggente orma di un primitivo culto di Gargan attestato dalla tradizione orale soprattutto nella Francia occidentale [27]. Egli si limita a presentare la sua proposta come semplice ipotesi di lavoro, probabilmente perché, pur convinto che la versione originale sia quella che vuole Gargano come eroe eponimo, vede questa versione «sconfermata dalla tradizione scritta dell’Apparitio» in cui Gargano sarebbe detto aver preso nome dal Monte [28]. Anche Bronzini, cioè, è stato indotto in inganno dalla tradizione formatasi in seguito alla manipolazione dell’Ughelli, ma va detto che egli ha il merito di aver insistito sull’altra lezione - quella genuina - e di aver intuito il significato generale dell’episodio in rapporto ai suoi elementi demologici.

 

In definitiva, da un esame più attento della tradizione manoscritta dell’Apparitio la proposta di Bronzini esce notevolmente rafforzata. Cominciamo col dire che, ove si escluda il Vaticano Latino 6074, evidentemente interpolato [29], nessun codice dell’Apparitio presenta Gargano come vir;

 

 

26. Apparitio 2.

27. È significativo che proprio sulla costa occidentale francese, tra la Bretagna e la Normandia, fosse consacrato all’inizio dell’VIII secolo un altro santuario a san Michele su un monte che si chiamava anticamente Mons Tumba e che, in seguito a quella consacrazione, assurse a grande notorietà col nome di Mont Saint Michel. Non ho trovato conferma ad una interessante notizia di Bronzini (La Puglia e..., p. 90) secondo cui quel monte, prima dell’arrivo del culto micaelico, si chiamava Mont Gargan o Mont de Gargan. In Francia esiste un Mont Gargans, ma nella Haute Vienne, nel sud della Francia.

 

Ringrazio i colleghi L. Cardi e N. Vlora che hanno consultato per me antiche carte geografiche e fonti specifiche.

 

28. Bronzini, La Puglia e..., p. 88.

29. Anche il Martirologio di Adone, risalente alla metà del IX secolo, presenta l’inserzione di «vir» che, a parte ogni altra considerazione, a me pare in contrasto con l’indefinito «quidam» e la specificazione «nomine Garganus» («quidam vir praedives, nomine Garganus...»: PL 123, 368): va, comunque, tenuto presente che si tratta di un testo molto tardo.

 

 

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anzi alcuni particolari del racconto sembrano lasciare intravedere in lui qualcosa di più di un semplice mortale: egli viene, infatti, presentato come molto ricco e potente, proprietario di una grande moltitudine di capi di bestiame e con numerosi servi a disposizione; con queste attribuzioni e con l’appellativo di dominus con cui viene pure indicato, pare lo si voglia qualificare quasi come un personaggio, un eroe mitico, irascibile e vendicativo come gli dèi, che incarna alcuni caratteri propri della società pagana agricola e pastorale. Anche l’erat iniziale sembra evocare tempi remoti in una atmosfera vagamente fiabesca [30].

 

Dell’espressione «[Garganus] ex eventu suo monti vocabulum indidit» si può dare una duplice interpretazione. Intendendo eventus nel senso di adventus [31] si potrebbe ipotizzare l’arrivo sul Gargano di un personaggio già tanto noto da dare subito il proprio nome al Monte. Con questa affermazione l’anonimo autore dell ‘Apparitio potrebbe anche aver voluto evidenziare il rapporto profondo, esistente fin dalle origini, tra paganesimo e montagna garganica, anche per dare maggior rilievo all’opera di cristianizzazione svolta dall’Arcangelo sul sacro Monte. Intendendolo, invece, nel senso di casus [32] ci sarebbe da supporre che la montagna abbia preso il nome da Gargano in seguito a qualche episodio di rilievo che aveva avuto quel personaggio come protagonista e che naturalmente non può essere quello narrato nell’Apparitio nel quale egli è soccombente [33]. Nell’uno e nell’altro caso è evidente che l’Apparitio testimonia solo un frammento di questo mito che doveva essere più ricco ed articolato e che,

 

 

30. L’«erat in eadem civitate» che introduce l’episodio del toro nell’Apparitio richiama il famoso inizio della favola di Amore e Psiche di Apuleio (Met. 4,28: « Erant in quadam civitate rex et regina... »). simile alle introduzioni favolistiche e popolari di tradizione orale, ma attestato anche nel romanzo e nella storiografia classica; per le diverse posizioni della critica a riguardo cfr. T. Maniero, Amore e Psiche. Struttura di una «fiaba di magia», Genova 1973, pp. 39-40 note 10-11.

31. Come tale lo registra, e proprio in riferimento al testo dell’Apparitio, F. Arnaldi, Latinitatis Italicae Medii Aevi inde ab a. DCLXXVI ad a. MXXII Lexicon imperfectum, Bruxelles 1939, i, s. v. adventus.

32. Cfr. J.F. Niermeyer, Mediae Latinitatis lexicon minus, Leiden 1976, s.v. eventus.

33. Sulla base della tradizione micaelica connessa anche con l’Apparitio, il luogo ha preso il nome di Monte Santangelo, come avvenne a Costantinopoli, dove fu chiamato Μιχαήλιον un santuario prima dedicato alla dea Vesta (v. infra p. 242) e in Normandia (v. supra p. 217 nota 27).

 

 

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purtroppo, non è attestato da nessun’altra fonte, né letteraria né archeologico-documentaria. Pur non sottovalutando l’ipotesi che potrebbe essere esistita una leggenda locale [34] trasmessa oralmente, non si può non riconoscere che siamo di fronte ad una difficoltà notevole.

 

Comunque sia, l’episodio è nel suo complesso un esempio chiaro di come la religione cristiana abbia operato quella che i francesi chiamano désaffection e il Bognetti definisce «esaugurazione» di un luogo dall’antico paganesimo [35]. Questa esaugurazione avviene con esplicito riferimento ad uno degli attributi del Santo subentrante, nel nostro caso dell’Arcangelo, il quale, essendo oltre che taumaturgo, psicopompo e psicagogo, anche guerriero [36], si serve della freccia [37] per eliminare Gargano e vincere il paganesimo, pienamente fiorente sulla montagna garganica, che conosceva un’intensa attività cultuale in onore di Calcante e Podalirio, ma che dovette essere un crogiolo di miti e riti diversi, i quali trovavano nella particolare configurazione del terreno, boscoso, selvaggio e ricco di dirupi, anfratti e caverne, le condizioni più favorevoli per il loro fiorire [38].

 

L’esaugurazione da questi miti e culti assume neìl’Apparitio i connotati deila vittoria piena [39] della nuova religione sull’antica ed esalta i meriti dell’Arcangelo in quanto capace di sradicare il

 

 

34. Gothein, L’Arcangelo Michele..., p. 111.

35. G.P. Bognetti, I «Loca Sanctorum» e la storia della Chiesa nel regno dei Longobardi, in L’età longobarda, Milano 1937, iii, p. 310.

36. Per un quadro delle diverse attribuzioni di Michele nella Sacra Scrittura, negli Apocrifi vetero e neotestamentari e nei Padri della Chiesa antica cfr. J.P. Rohland. Der Erzengel Michael Arzt und Feldherr. Zwei Aspekte des vor- und frühbyzantinischen Michaelskultes, Leiden 1977.

37. L’attributo iconografico che caratterizza san Michele guerriero è la lancia con cui uccide il drago, ma secondo una tradizione connessa con l’antico santuario micaelico di Colosse il Santo, per vincere i suoi nemici e le forze avverse della natura, si servì anche di una semplice άβδος: Narratio de miraculo a Michaele Archangelo Chonis patrato 12, «Analecta Bollandiana», 8 (1889), 305; v. infra p. 241.

38. Per i miti presenti sul monte Gargano prima dell’arrivo del culto di san Michele cfr. A. Russi (Un Asclepiade nella Daunia. Podalirio e il suo culto tra le genti daune, «Archivio Storico Pugliese», 19 [1966], 275-287) e il contributo di D. Lassandro, Culti precristiani nella regione garganica (pp. 199-209 di questo volume).

39. Apparitio 2: «Hac [scil. Archangeli] revelatione conperta, consuetudinem fecerunt cives hic Dominum sanctumque deposcere Michaelem».

 

 

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paganesimo intimamente connesso con le origini stesse della montagna garganica [40].

 

Sul Gargano, come spesso in Oriente, soprattutto a Costantinopoli ed in Asia Minore, il culto per l’Arcangelo si è sostituito a precedenti culti pagani [41]. Ed è interessante rilevare che nella grotta garganica, almeno verso la metà dell’VIII secolo, si praticava pure l’incubatio [42] come nel santuario micaelico di Costantinopoli [43] e, forse, di Colosse [44]. Questo rito era diffuso sul Gargano sin da epoca molto antica: Timeo [45] e Licofrone [46] lo attribuiscono a Podalirio, il dio guaritore figlio di Asclepio; Strabone [47] a Calcante.

 

Credo ci si debba pure chiedere il motivo per cui le origini del culto micaelico sul Gargano siano state fondate dalla tradizione orale e dall’anonimo autore su quel frammento di mito: una questione di cui la critica, a quel che mi risulta, non si è mai occupata. L’utilizzazione dell’episodio di Gargano fu dovuta, a mio parere, anche al fatto che esso evocava l’episodio veterotestamentario di Balaam fermato con la sua asina dall’Angelo (Num. 22,21-35), il cui testo presenta numerose analogie con quello dell’Apparitio tanto sul piano dei contenuti quanto su quello della dinamica del fatto. Vediamole.

 

Il toro che, abbandonando il gregge, cambia il suo percorso richiama l’asina che, alla vista dell’Angelo, devia dal cammino e va per i campi (Num. 22,23). Il toro, che Gargano rinviene fermo davanti all’ingresso della grotta, richiama l’asina che si

 

 

40. Anche nel Lazio, sul monte Tancia, san Michele avrebbe sconfitto l’idolatria simboleggiata da un serpente che occupava una grotta poi consacrata all’Arcangelo; cfr. M.G. Mara, Contributo allo studio del culto di S. Michele nel Lazio, «Archivio della Società Romana di Storia Patria», Roma 1960, 269-290.

41. v. infra pp. 241-243.

42. La notizia è contenuta nella Vita di Magdalveo, vescovo di Verdun, il quale, poco dopo la metà dell’VIII secolo, si recò in pellegrinaggio a Gerusalemme fermandosi al Santuario garganico: « ...pro foribus aliquantis excubans noctibus confortatur angelicis consolationibus, exhilaratur divinis revelationibus » (AA.SS. Oct. 2, p. 538).

43. Ce ne informa Sozomeno, Hist. eccl., 2, 3, 11: GCS 50, 54.

44. Cfr. Narratio de miraculo..., 3, p. 292.

45. Fragm. 15 (Fragmenta Historicorum Graecorum, C. e Th. Müller, Parisiis 1841, p. 196).

46. Alex. 1050.

47. Geogr. 6, 284.

 

 

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blocca davanti all’Angelo (Num. 22,26-27); ed è molto probabile che l’anonimo autore dell ‘Apparitio intendesse attribuire proprio alla presenza dell’Angelo la sosta del toro presso l’ingresso della caverna. 11 toro, cioè, avrebbe riconosciuto, come l’asina, l’Angelo a differenza dei loro padroni [48]. Gargano dispone, come Balaam (Num. 22,22), di servi. Gargano, « ira permotus », si appresta a colpire il toro come Balaam «iratus» (Num. 22,27) percuote per tre volte l’asina. Gargano vorrebbe uccidere il toro come Balaam l’asina (Num. 22,29); tutti e due, però, sono fermati dall’Angelo e messi nella impossibilità di continuare ad operare, in un modo o nell’altro, contro il Signore; Gargano, che rappresenta il paganesimo, viene eliminato; Balaam, il mago indovino [49] che faceva il suo viaggio con cattive intenzioni (Num. 22,32), si assoggetta alla volontà dell’Angelo (Num. 22,34-35), ma in seguito anch’egli muore di morte violenta.

 

Queste analogie possono far supporre che l’anonimo autore dell’Apparitio abbia utilizzato solo alcuni tratti dell’antica leggenda locale su Gargano: quelli, cioè, che gli consentivano, magari anche con qualche aggiustamento, un aggancio naturale, anche se non esplicitamente affermato, con quell’episodio veterotestamentario che aveva per protagonista l’Angelo. Certo queste analogie non dovevano sfuggire agli antichi cristiani, sempre pronti a cogliere e a sottolineare la dimensione e l’apertura biblica di situazioni, fatti, personaggi. Anche il particolare della freccia che ritorna indietro volgendosi contro l’arciere è un motivo presente nella letteratura cristiana antica; Girolamo e Cassiodoro [50], interpretando l’«arcus pravus» di Ps. 77,57, mettono in rilievo come la malizia degli uomini finisca spesso col danneggiare essi stessi. Va sottolineato, comunque, che il fenomeno della freccia che è volta indietro trova una singolare e ancor più interessante analogia proprio sul Gargano

 

 

48. Questo particolare del toro e dell’asina che riconoscono l’Angelo sembra richiamare Is. 1,3: «Il bue riconosce il suo proprietario e l’asino la greppia del suo padrone».

49. Balaam fu sempre considerato dalla tradizione tardogiudaica e cristiana come un alimentatore di idolatria e dissolutezza; cfr. K.G. Kuhn, s.v. Βαλαάμ, in Grande Lessico del Nuovo Testamento, Brescia 1966, n, coll. 27-32 (= TWNT 1, 521-523).

50. Hier. Ep. 125, 19, 3-4: CSEL 56, 139; Cass. Exp. in ps. 77,57: CCL 98,727.

 

 

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col mito di Diomede e con l’episodio dei due fratelli uccisisi a vicenda, ricordato da Servio ad Aen. 11,247; nell’uno e nell’altro caso, come ha ben rilevato Lassandro [51], alcune pietre assumono una direzione opposta a quella voluta dal lanciatore: siamo in presenza di un motivo che si è a lungo conservato nella tradizione locale pagana e cristiana.

 

L’episodio del toro ha lasciato un’interessante traccia all’interno del complesso monumentale micaelico; lungo la muratura interna del vuoto della scala dritta costituente la navata sinistra dell’antico santuario, sottostante alla navata angioina, sono presenti tracce di affreschi tra cui sono ancora leggibili, anche se a fatica, le immagini dell’Angelo, di cui si può notare un’ala, e del toro dell’Apparitio. D’Angela [52] ha ipotizzato che tutto l’ambiente dovette essere affrescato con scene desunte dall‘Apparitio e forse da un ciclo biblico, che, alla luce di quanto finora osservato, poteva comprendere anche l’episodio di Balaam. Quest’ultimo, anche se per un’epoca tarda (il XII secolo) è attestato più volte in collegamento con Michele nel vasto repertorio scultoreo dell’area garganica: è, infatti, rappresentato proprio a Monte Santangelo su un capitello della cosiddetta Tomba di Rotari [55], vicinissima al santuario dell’Arcangelo, e sul capitello del portale della chiesa di san Leonardo a Siponto, ai piedi del Garganoin un’altra scena di questo stesso capitello è raffigurato san Michele che uccide il drago. La fama dell’episodio del toro in epoca altomedievale e medievale superò anche i confini pugliesi. Esso è, infatti, rappresentato in un affresco della chiesa rupestre di Santa Maria del Parto in territorio di Sutri: vi figura l’Arcangelo,

 

 

51. Per l’analisi dei due episodi in questione cfr. D. Lassandro, Culti precristiani nella regione garganica, in questo stesso volume, pp. 208-209.

52. C. D’Angela, Gli scavi nel Santuario, «Atti Monte Santangelo», p. 370.

53. Per le questioni connesse con l’origine di questo monumento cfr. Alfr. Petrucci, Cattedrali di Puglia, Roma 1960. pp. 45-53; L.L. Lotti, Problemi storici e artistici relativi al complesso monumentale di S. Pietro, della Tomba di Rotari e di Santa Maria Maggiore in Monte S. Angelo, Bari 1978, pp. 57-58. All’interno della Tomba di Rotari sul primo capitello a destra è rappresentato l’Angelo che evita il sacrificio di Isacco; sul secondo Balaam con l’asina. Alfr. Petrucci, per quest’ultimo soggetto, parla, come per l’immagine rappresentata sul capitello sinistro del portale della chiesa di san Leonardo di Siponto (v. infra nota 54), di «pellegrino del Gargano».

54. Alfr. Petrucci, Cattedrali..., pp. 69-71.

 

 

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Gargano che imbraccia l’arco, alcune frecce che vengono volte indietro e una schiera di pellegrini che salgono al Montes.

 

 

            3. La guerra tra Napoletani e Sipontini-Beneventani

 

Il secondo episodio fa riferimento ad una guerra che i Napoletani, definiti pagani, muovono a Beneventani e Sipontini, i quali, su invito del loro vescovo, indicono un digiuno di tre giorni per invocare la protezione dell’Arcangelo. Dopo la battaglia, vinta naturalmente da Sipontini e Beneventani, i Napoletani si convertono: a ricordo dell’evento san Michele imprime l’impronta dei suoi piedi presso la porta settentrionale del santuario [56].

 

Si tratta di un episodio che ha fatto molto discutere gli studiosi perché offre elementi utili alla datazione dell’Apparitio, alla ricostruzione dei rapporti tra Longobardi di Benevento e culto micaelico e, conseguentemente, alla conoscenza del culto stesso in un particolare momento della sua storia.

 

Il fatto centrale di questo episodio è costituito da una guerra combattuta

 

 

55. Cfr. Otranto, Il Liber de apparitione...

 

56. Apparitio 3:

 

«Haec inter et Neapolitae, paganis adhuc ritibus oberrantes, Sepontinos et Beneventanos, qui 250 milibus a Seponto distant, bello lacessere temptant. Qui antistitis sui monitis edocti, triduo petunt indutias, ut triduano ieiunio liceret eis quasi fideli patrocinio sancti Michaelis implorare présidium. Quo tempore pagani ludis scenicis falsorum invitant auxilia deorum. Ecce autem nocte ipsa quae belli precederei diem adest in visione sanctus Michael antistiti, preces dixit exauditas, spopondit se affuturum, et quarta diei hora bello premonet hostibus occurrendum. Laeti ergo mane et de angelica certi victoria, Neapolitani demoniaco redacti spiritu, obviant Christiani paganis, atque in primo belli apparatu Garganus inmenso tremore concutitur; fulgura crebra volant, et caligo tenebrosa totum montis cacumen obduxit, impleta prophetia, quae Dominum laudans dicit: ‘Qui facit angelos suos spiritus et ministros suos flammam ignis‘. Fugiunt pagani, partim ferro hostium, partim igniferis inpulsi sagittis, et Neapolim usque sequentibus atque extrema quaeque cedentibus adversariis, moenia tandem suae urbis moribundi subintrant. Qui autem evaserant periculum, comperto, quod angelus Dei in adiutorium venerat Christianis — nam et sexcentos ferme suorum fulmine videbant interemptos —, regi regum Christo continuo colla submittentes, armis induuntur fidei. Cumque domum reversi victores vota Domino gratiarum ad templum referebant archangeli, videntes mane iuxta ianuam septentrionalem, quam predixi, instar posteruli pusilla quasi hominis vestigia marmori artius inpressa, agnoscuntque, beatum Michaelem hoc presentiae suae signum voluisse monstrare. Ubi postea culmen adpositum et altare inpositum, ipsa ecclesia ob signa vestigiorum Apodonia est vocata».

 

 

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dai Napoletani contro Sipontini e Beneventani, della quale si sono date infondate e talvolta fantasiose ricostruzioni [57].

 

Tra quelle finora avanzate, due sono le proposte che mi sembrano proponibili sul piano storico; esse rimandano a due guerre combattute la prima nel VI, la seconda nel VII secolo. Le recenti indagini sul complesso monumentale garganico privilegiano, come vedremo, la seconda. Ma procediamo con ordine. Arm. Petrucci, riprendendo un’ipotesi del bollandista Stiltingh [58], pensa che l’episodio bellico in questione possa riflettere una fase della guerra greco-gotica (535-553). Napoli, che all’inizio della guerra era in mano dei Goti [59], nel 536-537 fu conquistata da Belisario [60] e nel 543 cadde nuovamente in potere dei Goti di Totila [61] i quali fecero della città un centro di resistenza e di espansione; l’episodio dell’Apparitio potrebbe, per Petrucci [62], riferirsi ad un attacco dei Goti-Napoletani contro i Sipontini, probabilmente nel 547, anno in cui Procopio attesta la presenza di Totila sul Gargano [63].

 

Per quel che riguarda il riferimento ai Beneventani che vengono presentati come alleati dei Sipontini,

 

 

57. C. Troya sostiene, per esempio, che l’episodio dell’Apparitio è da mettere in rapporto con una sconfitta subita dai Greci di Anastasio nel 493 ad opera dei Sipontini (Storia del Medioevo, Napoli 1839-1855, vol. iv, parte ii, pp. 481-482). Angelillis (Il Santuario..., p. 21) sembra dar credito al Troya anche se poi va alla ricerca di altri presunti episodi bellici in cui sarebbero stati coinvolti i Sipontini e ne individua uno che si inserirebbe nella guerra tra gli Eruli di Odoacre e i Goti di Teodorico, per i quali avrebbero parteggiato i Sipontini. Si tratta di ricostruzioni meccanicamente riproposte dagli studiosi di memorie locali che mirano a fissare, sulla base dell’Apparitio e, soprattutto, della guerra tra Napoletani e Beneventani le origini del culto micaelico all’epoca di Gelasio I (492-496). A me pare, invece, e lo vedremo in seguito, che non ci sia alcun rapporto tra le origini del culto micaelico e l’episodio déll’Apparitio. Per un quadro delle diverse proposte cfr. Valente, La leggenda..., pp. 49-59. Altre ipotesi sono state avanzate, talvolta anche bizzarre: i Napoletani dell’Apparitio sarebbero i Saraceni o gli Slavi; e c’è stato anche chi ha ipotizzato che a voler depredare, come tramanda Paolo Diacono (v. infra nota 67), il santuario siano stati i Longobardi e non i Greci; cfr. alcune di queste ipotesi in G. Pochettino, I Langobardi nell’Italia meridionale, Caserta 1930, pp. 103-104.

 

58. In AA. SS. Sept. 8, p. 60.

59. Proc. Bell. Goth. 1, 8.

60. Proc. Bell. Goth. 1, 9-10.

61. Proc. Bell. Goth. 3, 7.

62. Arm. Petrucci, Aspetti del culto..., p. 152.

63. Bell. Goth. 3, 22.

 

 

225

 

Petrucci è dell’idea che esso sia un’aggiunta posteriore da espungere, quindi, dal testo unitamente alla relativa «qui 250 milibus a Seponto distant» [64]. Per parte mia sono convinto che il riferimento ai Beneventani, sul quale già in passato alcuni studiosi hanno richiamato l’attenzione vada conservato nel testo. Esso, anzi, alla luce delle recenti indagini archeologico-documentarie che hanno reso ancora più evidenti gli stretti legami intercorsi, a partire dalla metà del VII secolo, tra il santuario garganico e i Longobardi del Ducato di Benevento, assume un rilievo tutto particolare. La prima occasione [66] nella quale Beneventani e Sipontini sono impegnati gli uni accanto agli altri contro un nemico comune è certamente costituita dall’attacco che i Bizantini attorno al 650 portarono «ut oraculum Sancti Archangeli in monte Gargano situm depraedarent»: in aiuto dei Sipontini accorse il longobardo Grimoaldo I, duca di Benevento (647-671), che riuscì a sventare l’attacco dei Greci [67] dando inizio ad un lungo periodo di solidarietà e di alleanza tra Sipontini e Beneventani. Di un altro presunto scontro tra i Greci, questa volta guidati da Costante il, e Grimoaldo sul Gargano nel 663, spesso confuso con quello del 650 circa [68], non trovo alcuna traccia nelle fonti [69].

 

 

64. Petrucci, Aspetti del culto..., p. 162.

65. Gothein. L’Arcangelo Michele..., p. 110; Lanzoni, Le diocesi..., p. 279; Valente, La leggenda..., pp. 51.57; A. Gaeta, Fascino di storia sulla rupe garganica. Il Gargano dalla preistoria all’Alto Medioevo, Lioni 1980, p. 94.

66. A ragione il Troya (Codice diplomatico longobardo dal 568 al 774, Napoli 1852, i, pp. 508-309) respinge l’ipotesi di precedenti studiosi secondo cui Siponto sarebbe caduta in mano dei Longobardi nel 594. Prima del 650 i Longobardi certamente vennero a contatto con i Sipontini (v. infra p. 240), ma non riuscirono a sottometterli.

 

67. Paul. Diac. Hist. Lang. 4, 46:

 

«Qui [scil. Grimuald] dum esset vir bellicosissimus et ubique insignis, venientibus eo tempore Graecis, ut oraculum sancti archangeli in monte Gargano situra depraedarent, Grimuald super eos cum exercitu veniens, ultima eos caede prostravit».

 

Nel 642 Aione, duca di Benevento, tentò di attaccare gli Slavi che erano sbarcati sulla costa adriatica accampandosi presso Siponto, ma fu ucciso con uno stratagemma. Subito dopo Rodoaldo vendicò Aione e cacciò gli Slavi dalla Puglia; cfr. Paul. Diac. Hist. Lang. 4, 44. Questo episodio, come ho già rilevato (v. supra p. 224 nota 57), non sembra poter essere messo in relazione con quello presentato nell’Apparitio.

 

68. Cfr. Valente, La leggenda..., p. 56; Gaeta, Fascino di..., p. 94. Il Lanzoni (Le diocesi..., p. 279) fa risalire l’episodio al 647 circa, ma lo attribuisce a Costante II che venne in Italia solo nel 663.

 

 

225

 

Il nuovo stato dei rapporti tra Benevento e Siponto fu sancito nel 663 [70] allorché Barbato, vescovo di Benevento, dopo un fallito attacco bizantino alla città campana [71], chiese ed ottenne da Grimoaldo di poter estendere la propria giurisdizione episcopale sul santuario di san Michele e sull’intera diocesi sipontina [72], la quale ritornò ad avere un proprio vescovo solo nel 1034 [73].

 

La vittoria di Grimoaldo presso il promontorio garganico ebbe subito una notevole eco in mezzo ai Longobardi; Grimoaldo stesso molto astutamente si presentò come protetto da Michele e fece apparire quella vittoria come voluta dall’Arcangelo [74]; e fu proprio l’episodio del Gargano a segnare l’inizio di quel singolare legame tra monarchia longobarda e culto micaelico che Grimoaldo, soprattutto dopo l’ascesa al trono (662), rese sempre più stabile e profondo, favorendo con iniziative diverse la venerazione dell’Arcangelo nei confini del Regno; a Pavia, per esempio, fece erigere la chiesa palatina di san Michele [75].

 

 

69. P. Corsi (Costante II in Italia, «Quaderni Medievali», 5 [1978], 67.70) opportunamente osserva che «questa tradizione deriva con tutta probabilità da un amalgama di vicende accadute in tempi diversi, alle quali fu certamente estranea la spedizione condotta da Costante»; per lui l’unica base sicura delle numerose tradizioni pugliesi connesse con Costante II è una vaga espressione di Paolo Diacono: «Beneventanorum fines [Constans] invasit omnesque pene per quas venerat Langobardorum civitates cepit» (Hist. Lang. 5,7).

 

Il Corsi ha pubblicato una serie di interessanti articoli su Costante II in Italia, che stanno per essere raccolti in un volume: La spedizione in Italia di Costante II: fonti e problemi, «Nicolaus», 3 (1975), 169-198.343-392; Costante II in Italia, «Quaderni Medievali», 3 (1977), 32-72; 5 (1978), 57107; 7 (1979), 75-109.

 

70. Vita Barbati episcopi Beneventani 5. Per G.P. Bognetti la fusione delle due diocesi è posteriore al 663 (S. Maria Foris Portas di Castelseprio e la storia religiosa dei Longobardi, in L’età longobarda, Milano 1966, ii, pp. 347-348).

71. Hist. Lang. 5, 7-10.

72. Vita Barbati episcopi Beneventani 7.

73. Dopo la riconquistata autonomia il primo vescovo della diocesi di Siponto fu Leone; cfr. P.B. Gams, Series episcoporum ecclesiae catholicae, Graz 1957 (rist. ed. 1873-1886), p. 924. L’ultimo vescovo sipontino prima dell’unificazione delle diocesi di Siponto e Benevento fu Rufino che nel 649 partecipò al concilio romano convocato da papa Martino I; cfr. J.D. Mansi, Sacr. conc. nova et ampl. coll., Graz 1960 (rist. ed. 1901), x, p. 866.

74. Bognetti, S. Maria..., p. 333; I «Loca Sanctorum»..., p. 334; G. Barai, I Longobardi in Italia, Novara 1975, pp. 100-101.

75. Bognetti attribuisce a Grimoaldo la costruzione di questa chiesa (S. Maria..., p. 344) sulla base di un passo di Paolo Diacono (Hist. Lang. 5, 3); cfr. M. Cagiano de Azevedo, Memorie della vittoria sul Gargano e del culto di S. Michele a Milano, «Atti Monte Santangelo», p. 505.

 

 

227

 

A Milano introdusse il culto micaelico e fece costruire due chiese dedicate all’Arcangelo: quella «subtus domum» e quella cosiddetta ‘alla chiusa‘ o ‘all’acquedotto‘ [76]. Questa attività edilizia dei Longobardi, connessa con la loro devozione per l’Arcangelo, ha interessato anche il santuario garganico ed ha lasciato sicure testimonianze in alcune iscrizioni incise sulle sue strutture. Una di queste, tracciate su un pilastro in una zona di assoluta preminenza, ricorda Grimoaldo i e suo figlio Romualdo I (662-687), definito «eius regni cumsortior»:

 

+ h(i)c patri eius [r]egni [c]umsor[t]ior

+ e[re]ctor sic terre[n]a su[m]tsit

+ c]elestia n[u]m[q]ua[m] relinqui[t.

 

Si tratta di un’epigrafe di tono dedicatorio-celebrativo mirante a ricordare ai pellegrini che visitavano il sacro speco opere di costruzione o di ristrutturazione del santuario fatte eseguire da Grimoaldo che viene definito «erector» e del quale si dice, evidentemente in riferimento alla sua accorta conduzione che accanto agli aspetti più propriamente politici non trascurò quelli religiosi, «sic terrena sumtsit/ celestia numquam relinquit» [77]. Lo stesso Romualdo i viene ricordato in un’altra interessante epigrafe del santuario incisa pure essa in una zona di massima evidenza:

 

+ d[e] donis d(e)i et [s(an)]c(t)i a[rcha]n

 

 

76. L’attribuzione della prima chiesa è meno sicura dell’altra; cfr. Cagiano de Azevedo, Memorie..., pp. 506-509.

 

77. La lettura e l’interpretazione di questa epigrafe e di quelle di cui alle note 78, 80, 83 si devono a C. Carletti, il quale nel «pater» riconosce Grimoaldo, in «eius regni cumsortior» il figlio Romualdo che nel 662 gli succedette alla guida del ducato di Benevento e perciò fu compartecipe del suo regno (Iscrizioni murali, «Atti Monte Santangelo», pp. 13-14.64-65). Carletti, poi, riferisce a Romualdo il termine «erector» che io preferirei riferire a Grimoaldo perché così si evita un improvviso cambio di soggetto nella seconda linea (tra Romualdo e Grimoaldo) e si comprende forse meglio il «terrena sumtsit/ celestia numquam relinquit». In definitiva Romualdo, se l’iscrizione fu fatta incidere da lui, potrebbe aver voluto ricordare, oltre che opere di ristrutturazione fatte eseguire dal padre, una caratteristica della sua azione politica.

 

 

228

 

+ geli fiere iusse et don[avit

+ Romouald dux age[r]e pietate

+ Gaidemari fecit.

 

Romualdo, dunque, in segno di ringraziamento a Dio e al santo Arcangelo, spinto dalla pietas volle e finanziò la costruzione o la sistemazione di qualche ambiente del complesso monumentale micaelico; il riferimento esplicito al finanziamento dell’opera in questione («donavit») fa pensare ad un intervento edilizio di notevole impegno; si tratta molto probabilmente della sistemazione di tutto il complesso, della costruzione di due scale per il flusso e deflusso dei pellegrini e di una lunga galleria di accesso, utilizzata anche come ricovero dei pellegrini [78].

 

Sulla base degli elementi qui raccolti è lecito supporre che Romualdo i abbia proseguito e completato i lavori di sistemazione o ristrutturazione iniziati dal padre nell’ambito della sacra grotta. Le opere eseguite da Grimoaldo I e Romualdo i sono un’ulteriore prova dell’intenso programma di edilizia religiosa realizzato dai duchi di Benevento [79].

 

Una terza iscrizione, sul concio sottostante a quello della prima epigrafe, ricorda in tono acclamatorio una visita al santuario compiuta da Romualdo II, duca di Benevento (706-751), e da Gumperga, sua prima moglie:

 

+ Gabriel [a]ng[el]us qui b[o]s protegad

+ Rumuualdu dux

+ Gunperga

Deu]s iudicium tu[um re]gi da e[t] iusti [ti] a tua

fi]liu regi.

 

Le ultime due linee riportano integralmente Ps. 71,1-2, che, inserito in questo contesto, si configura come una preghiera a Dio perché conceda a Romualdo n la capacità di ben governare

 

 

78. Carletti, Iscrizioni murali, pp. 15.90-91. L’Apparitio fa riferimento alla galleria («longa porticus»), ma non alle due scale che sono ancora leggibili nelle superstiti strutture del santuario.

79. Cfr. M. Cagiano de Azevedo, Problemi archeologici dei Longobardi in Puglia e Lucania, «Vetera Christianorum», 8 (1971), 337-348; cfr. anche note 75 e 76.

 

 

229

 

e al figlio, il futuro duca Gisulfo II (742-751), nato dal matrimonio con Gumperga, il senso della giustizia [80].

 

Altre due iscrizioni presentano altrettanti momenti e motivi della religiosità longobarda sui quali non è inutile richiamare l’attenzione. La prima, incisa in corrispondenza di quello che doveva essere l’ingresso settentrionale dell’antico santuario, è dedicata a Pietro e Paolo, «ianitores regni caelorum». Considerata la venerazione che ancor prima di convertirsi al cattolicesimo i Longobardi avevano per san Pietro [81] custode del regno dei cieli, non è escluso che sia stata fatta incidere in occasione del primo contatto che essi ebbero con la comunità del santuario allorché dovettero provvedere con Grimoaldo e Romualdo ad opere di ristrutturazione de] complesso micaelico [82]. L’ultimo testo epigrafico in questione presenta un’espressione («Dominus pater Domini») che si configura come una vera e propria professione di fede nella divinità del Figlio, che, al pari del Padre, viene indicato col termine Dominus: una tale espressione riporta naturalmente a non prima della seconda metà del VII secolo, epoca in cui i Longobardi del sud, anche per l’opera svolta da Barbato, vescovo di Benevento, e da Teoderada, moglie di Romualdo I, si convertirono dall’arianesimo al cattolicesimo [83].

 

Nel complesso queste iscrizioni, sia che ricordino opere di ristrutturazione eseguite all’interno del santuario, sia che ricordino visite e pellegrinaggi di rappresentanti illustri della dinastia longobarda, sia che presentino alcuni caratteri peculiari della religiosità longobarda, sempre testimoniano gli stretti legami intercorsi tra il santuario micaelico e i Longobardi proprio a partire dalla metà del VII secolo e dall’episodio che vide Grimoaldo difendere sul Gargano l’«oraculum sancti Archangeli»“.

 

Gli anni compresi tra il successo di Grimoaldo sul Gargano e

 

 

80. Carletti, Iscrizioni murali, pp. 15-16.69-70.

81. Cfr. Bognetti, I «Loca Sanctorum»... p. 336.

82. Per l’iscrizione di Pietro e Paolo cfr. G. Otranto, L’iscrizione di Pietro e Paolo, «Atti Monte Santangelo», pp. 181-206.

83. Carletti, Iscrizioni murali, pp. 17.60. Per l’opera missionaria di Barbato alla corte di Romualdo i cfr. Vita Barbati episcopi Beneventani 1; Bognetti, S. Maria..., pp. 347-348.

84. Hist. Lang. 4, 46.

 

 

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la sua ascesa al trono di Pavia furono quelli durante i quali venne maturando la conversione dei Longobardi dall’arianesimo al cattolicesimo [85] e in questo processo di maturazione è probabile che abbia influito anche l’episodio garganico il cui esito favorevole i Longobardi hanno sempre attribuito a san Michele. Certamente il culto per l’Arcangelo, in quanto praticato da Longobardi cattolici e Longobardi ariani, servì a Grimoaldo che, nonostante fosse esponente delle correnti ariane di Benevento [86], fece di quel culto un instrumentum regni per l’unità di tutti i Longobardi [87].

 

L’episodio dell’Apparitio, per ritornare al nostro discorso, sembra essere l’antefatto storico e culturale di una serie di eventi e di dati che interessano la presenza longobarda prima nel Ducato di Benevento e successivamente in tutto il Regno. Questi dati, che sono di provenienza diversa e per ciò stesso più indicativi e probanti, fanno pensare che l’operetta, nella sua stesura attuale, sia stata prodotta in ambienti longobardi o, per lo meno, rielaborata in tali ambienti per tentare di longobardizzare anche le origini del culto micaelico sul promontorio garganico. Una conferma a questa affermazione viene dalla storiografia longobarda del secolo IX che ha esaltato la vittoria conseguita da Grimoaldo al Gargano presentandola come voluta dall’Arcangelo Michele. Erchemperto monaco, nato da famiglia longobarda ed educato a Montecassino (m. 904), autore di una Historia Langobardorum Beneventanorum che prosegue l’opera di Paolo Diacono fino all’889, nel presentare la guerra combattuta nell’859 da Capuani contro Salernitani, Amalfitani e Napoletani, attribuisce l’insuccesso di questi ultimi al fatto che essi avevano dato inizio alle ostilità contro i Longobardi di Capua l’8 maggio:

 

 

85. Fu re Ariberto I (653-661) ad emanare un decreto per l’abolizione dell’arianesimo che rimase però inascoltato in molti settori. Il trionfo del cattolicesimo ortodosso si ebbe col re Cuniberto (686-698), sul cui scudo era rappresentata l’immagine di san Michele (Hist. Lang. 5, 41).

 

Per le varie fasi attraverso cui si realizzò la conversione dei Longobardi cfr. Bognetti, S. Maria..., pp. 32-34; Barni, I Longobardi..., pp. 98-119.

 

86. Negli ultimi anni della sua vita Grimoaldo I fece costruire a Pavia una chiesa dedicandola a sant’Ambrogio, notissimo esponente dell’antiarianesimo (Hist. Lang. 5, 33).

87. Bognetti, I «Loca Sanctorum»..., pp. 334-335.

 

 

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«Nam octavo Idus Maias, quo beati Michaelis archangeli sollemnia nos sollemniter celebramus, quo etiam die priscis temporibus a Beneventanorum populis Neapolites fortiter caesos legimus, hac ergo die, nullum honorem dans Deo, [Sergius] misit duos liberos suos... et Landulfum... cum quibus Neapolitum et Melfitanorum exercitum... dans ei preceptum ut Capuam obsideret... » [88].

 

Tra le fonti cui fa esplicito riferimento («legimus») Erchemperto per l’episodio del Gargano è senza dubbio l’Apparitio, il cui racconto si arricchisce del particolare secondo cui quell’episodio era avvenuto l’8 maggio, diventato ormai giorno festivo per tutti i Longobardi. Ma non bisogna dimenticare che Erchemperto, per i fatti accaduti fino al 744, ha utilizzato anche e soprattutto la Historia di Paolo Diacono [89].

 

Su questa base, il brano sopra riportato, che presuppone l’una e l’altra fonte, attesta implicitamente che l’episodio dell’Apparitio e di Grimoaldo al Gargano sono la stessa cosa. È probabile che Erchemperto, se avesse giudicato discordanti o diverse le due versioni, non avrebbe mancato di notarlo o, per lo meno, non si sarebbe espresso nei termini in cui si è espresso, che richiamano una tradizione ormai consolidata («beati Michaelis archangeli sollemnia nos sollemniter celebramus») nella quale Michele ha un posto di assoluto rilievo per quel che riguarda non solo aspetti religiosi ma anche politici della Langobardia meridionale. E questa tradizione non può che essere quella che è nata con la vittoria di Grimoaldo, la quale segna anche l’inizio del culto dell’Arcangelo presso i Longobardi. L’espressione prisca tempora ha una sua logica se si pensa che Erchemperto scrive sul finire del IX secolo a quasi due secoli e mezzo dall’episodio garganico.

 

Sulla medesima linea è la Chronica Sancti Benedicti Casinensis, da alcuni attribuita ad un abate di nome Giovanni e redatta pure nella seconda metà del IX secolo [90]. Il suo autore, nel narrare alcune vicende della guerra tra Longobardi di Capua e Napoletani, fa esplicito riferimento all’episodio del Gargano:

 

 

88. Erchemp. Hist. Lang. Ben. 27.

89. Erchemperto, in apertura delia sua opera, definisce Paolo «vir valde peritus» (Hist. Lang. Ben. 1).

90. Per l’epoca e l’autore di questa operetta cfr. Waitz, in MGH, pp. 467-468.

 

 

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«Per idem tempus Neapolites audacter super Capuanos venire in bellum conati sunt, eo siquidem die quo beati Michaelis est festivitas. Huius Langobardi auxilio freti, exierunt adversus Querites, et tanta in illis caede bachati sunt, ut plurimi ex eis gladio fuisset peremti multique capti, nonnulli in fluvio se proicientes; residui vero perpauci vulnerati in urbem reversi sunt suam... Secunda Neapolites haec ruina extitit similis, quo olim in Gargano cum beato Michelo archangelo agere temptaverunt » [91].

 

Ancora una volta i Napoletani sono detti aver attaccato battaglia nel giorno festivo di san Michele e ancora una volta i Longobardi, fidando nell’aiuto dell’Arcangelo, li sconfiggono gravemente.

 

Il tono col quale Erchemperto e la Chronica rievocano le gravi disfatte dei «Neapolites» sembra richiamare Paolo Diacono e l’Apparitio. Al «fortiter caesos» di Erchemperto [92] in riferimento agli sconfitti Napoletani fa riscontro l’«ultima caede prostravit» di Paolo Diacono [93] e «tanta in illis caede» della Chronica [94]. Anche certe situazioni in cui vengono a trovarsi durante e dopo la battaglia i Napoletani sembrano molto simili [95]. Di rilievo è la convergenza tra i termini «pagani» e «Querites» con cui vengono designati i Napoletani rispettivamente nell’Apparitio [96] e nella Chronica [97]. A nessuno sfugge che né i Napoletani del VII secolo - l’epoca della vittoria di Grimoaldo -, né quelli del ix potevano essere definiti pagani, ma è evidente che tale appellativo ha una motivazione fortemente polemica: per i Longobardi del sud, ormai pienamente integrati nell’ortodossia cattolica, i Napoletani, loro tradizionali nemici, non possono che essere pagani.

 

Credo ci si debba pure chiedere perché l’Apparitio,

 

 

91. Chronica Sancti Benedicti Casinensis 14.

92. Hist. Lang. Ben. 27.

93. Hist. Lang. 4, 46.

94. Chronica Sancti Benedicti Casinensis 14.

95. Chronica Sancti Benedicti Casinensis 14: « ...plurimis ex eis Neapolitis gladio fuissent peremti multique capti ... residui vero perpauci vulnerati in urbem reversi sunt suam»; Apparitio 3: «Fugiunt pagani, partim ferro hostium, partim igniferis inpulsi sagittis ... moenia tandem suae urbis moribundi subintrant». Quest’ultima espressione ne ricorda molto da vicino un’altra di Erchemperto: «...fugibundi moenia illius urbis tandem ingressi» (Hist. Lang. Ben. 8).

96. Apparitio 3.

97. Chronica Sancti Benedicti Casinensis 14.

 

 

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Erchemperto e la Chronica attribuiscano ai Napoletani, e non ai Greci, come più correttamente fa Paolo Diacono [98], lo scontro con Grimoaldo sul Gargano. Per rispondere a tale domanda bisogna considerare lo status dei rapporti intercorsi sin dalla seconda metà del VII secolo tra i Longobardi di Benevento e la città partenopea. Nel 570/1 i Longobardi occuparono Benevento, centro strategico di notevole importanza e porta di accesso al meridione, e fecero della città sannita il caposaldo e la testa di ponte per le loro incursioni e la loro avanzata verso il sud; muovendo da Benevento, i Longobardi, incalzati da necessità vitali che il montuoso Sannio non poteva soddisfare, cercavano uno sbocco sul Tirreno e sull’Adriatico per impossessarsi delle fertili pianure della Campania e della Puglia anche per assicurarsi più comode vie di penetrazione verso la parte più meridionale della penisola [99]. In questo loro moto espansionistico i Longobardi del Sud vennero a contatto, oltre che con scarse sopravvivenze gotiche, con i Bizantini che dominavano nell’Italia meridionale e che furono lentamente ricacciati lungo le coste, sulle quali il dominio dei Longobardi, anche per la loro scarsissima propensione per il mare e la navigazione [100], o non si propagò o rimase sempre alquanto incerto. Napoli era, dopo Roma, la città che i Longobardi bramavano maggiormente annettersi e tra il 591 e il 592 [101] Arechi I (591-642), duca di Benevento, tentò di conquistarla, ma non vi riuscì grazie all’intervento di Gregorio Magno il quale, preoccupato del fatto che la città era in quel frangente priva del duca, di un capo militare e perfino del vescovo, mandò a Napoli il tribuno Costanzo perché ne organizzasse con i cittadini la difesa [102].

 

 

98. Hist. Lang. 4, 46.

99. E. Pontieri, Benevento longobarda e il travaglio politico dell’Italia meridionale nell’Alto Medioevo, «Atti del ni Congresso di studi sull’Alto Medioevo», Spoleto 1959, pp. 19-21.

100. Anche quando ebbero conquistato città come Siponto, Salerno e Bari, i Longobardi non si preoccuparono affatto di organizzare una flotta o una marineria; cfr. Cagiano de Azevedo, Problemi archeologici..., p. 348.

101. Per i continui tentativi di Arechi di conquistare Napoli e gli altri domini bizantini dell’Italia meridionale cfr. Pochettino, I Langobardi..., pp. 72-90. È probabile che già il predecessore di Arechi, Zottone, primo duca di Benevento, abbia tentato di conquistare Napoli; cfr. Troya, Codice diplomatico..., pp. 30-33.

102. Reg. ep. 2, 34. Gregorio Magno, nella stessa occasione, raccomandò a Giovanni, vescovo di Ravenna, di esortare l’esarca ad inviare a Napoli un duca, senza il quale la città poteva ritenersi perduta (Reg. ep. 2, 45). Sulla questione cfr. Troya, Codice diplomatico..., pp. 272-275; O. Bertolini, I papi e le relazioni politiche di Roma con i ducati longobardi di Spoleto e Benevento, «Rivista di Storia della Chiesa in Italia», 6 (1952), 15-16.

 

 

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Nell’ultimo decennio del VI secolo, i Longobardi riuscirono a conquistare in Campania centri come Nocera, Nola, Atella, Acerra, Capua e, più tardi, anche Salerno, ma né allora né nei secoli successivi, nonostante i ripetuti attacchi e i frequenti scontri, furono in grado di impadronirsi della città partenopea che continuò a difendersi eroicamente salvando anche il Ducato bizantino di cui era a capo [103] e qualificandosi come strenuo baluardo del bizantinismo nell’Italia meridionale. C’è inoltre da rilevare che Napoli sin dall’epoca di Gregorio Magno viene presentata, anche da storici longobardi, come la città nella quale trovarono rifugio e comprensione non pochi nemici dei Longobardi o persone che, per un motivo o per l’altro, volevano evitarli. Gregorio Magno, appunto, attesta che nel 594-595 il clero di Capua, probabilmente per sfuggire ai Longobardi, si era rifugiato a Napoli [104]. Costante II, dopo aver invano assediato Benevento nel 663, secondo quanto tramanda Paolo Diacono [105], trovò asilo a Napoli. Lungo tutto l’VIII secolo e ancor più agli inizi del ix la città era considerata il rifugio degli esuli e dei perseguitati politici del Principato beneventano [106]; a Napoli, per esempio, nell’816 riparò Dauferio, un illustre Longobardo di Benevento, che, a dire di Erchemperto [107], aveva ordito una congiura per uccidere Grimoaldo IV; e nella città campana con i Napoletani il ribelle organizzò la resistenza che fu soffocata dal Principe nel sangue [108]. Lo stesso Erchemperto, nell’annunziare che Arechi II, ultimo duca di Benevento (758-774), subito dopo la caduta del regno longobardo, concesse ai Napoletani la pace, li presenta come coloro che «a Langobardis diutina oppressione fatigati erant» [109],

 

 

103. Pontieri, Benevento longobarda..., p. 22.

104. Reg. ep. 5, 14.27; cfr. Troya, Codice diplomatico..., pp. 332-333; 351-352.

105. Paul. Diac. Hist. Lang. 5, 9.

106. Pochettino, I Langobardi..., p. 195.

107. Hist. Lang. Ben. 7.

108. Hist. Lang. Ben. 8.

109. Hist. Lang. Ben. 2.

 

 

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espressione nella quale si può forse cogliere una nota di umana comprensione per i Napoletani troppo a lungo osteggiati e oppressi dai Longobardi.

 

Sulla base della documentazione raccolta credo si possa dare una spiegazione del motivo per cui l’Apparitio designa col termine «Neapolites» i Greci sconfitti da Grimoaldo presso il promontorio garganico. Evidentemente l’anonimo autore si inserisce nel solco di una tradizione che vede i Napoletani come i nemici κατ’ξοχήν dei Longobardi; una tradizione che presuppone quindi lo stato di ostilità permanente che ha caratterizzato i rapporti tra la città partenopea e i Longobardi di Benevento dalla fine del VI a tutto l’VIII secolo e anche oltre; una tradizione che, anche sulla base del fatto che Napoli era a capo di un Ducato bizantino, ha fortemente assimilato Greci e Napoletani; una tradizione che, alla luce del felice connubio tra l’Arcangelo Michele e la monarchia longobarda, ha voluto appropriarsi anche delle origini del culto micaelico sul Gargano. Tale longobardizzazione del culto doveva essere un fatto già compiuto e totalmente assimilato nel IX secolo se Adone, riportando nel suo Martirologio il testo dell’Apparitio, non presenta più i Sipontini e i Beneventani insieme come avversari dei Napoletani, ma solo i Beneventani [110]; neanche la Chronica Sancti Benedicti Casinensis [111] ed Erchemperto [112] ricordano ormai più i Sipontini come alleati dei Beneventani. Per questi autori, cioè, furono solo i Longobardi e i Napoletani, che sul finire del IX secolo continuavano a fronteggiarsi [113], i protagonisti anche dell’episodio garganico.

 

Quanto finora osservato esclude che l’Apparitio, nella sua attuale stesura, possa essere stata scritta nel VI o VII secolo; penserei piuttosto all’epoca che va dalla metà alla fine dell’VIII secolo o agli inizi del IX, datazione che è anche confermata da altri elementi emergenti dalla documentazione di tipo liturgico [114]. Questa datazione sembra poter anche rendere conto del-

 

 

110. «Interea Neapolitae Beneventanos bello lacessere tentant»; PL 123, 368.

111. Chronica Sancti Benedicti Casinensis 14.

112. Hist. Lang. Ben. 27.

113. Tra l’886 e l’888 i Napoletani vengono ancora presentati da Erchemperto come alleati dei Greci contro i Longobardi: Hist. Lang. Ben. 60.69.71-73.

114. Otranto, Il Liber de apparitione...

 

 

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l’assoluta mancanza di ogni riferimento storico preciso: la qual cosa si può, appunto, capire in un’operetta scritta a più di un secolo dall’evento che ricorda o vuole celebrare, ma non si capirebbe in un’operetta scritta a poca distanza dall’evento stesso. Nel complesso l’episodio del Gargano sembra essere rievocato nell’Apparitio sull’onda di una tradizione orale già adulta che lo ha quasi idealizzato spogliandolo di ogni esplicito richiamo ad epoca, personaggi o eventi precisi, ma preoccupandosi solo di mettere in connessione [‘apparizione miracolosa dell’Arcangelo e le origini del suo culto sul promontorio garganico con la dinastia longobarda, per il tramite di un evento che aveva visto i Longobardi impegnati in una non disinteressata difesa del santuario micaelico; evento che l’anonimo autore dell’Apparitio trasfigura e arricchisce di elementi miracolosi riportandolo all’indietro ai primordi del santuario.

 

 

            4. Le origini del santuario

 

A questo punto rimane ancora in piedi il problema delle origini del santuario, alla cui soluzione l’Apparitio non offre alcun elemento storicamente fondato, né, peraltro, disponiamo di altre fonti che attestino la nascita del culto micaelico sul promontorio. Per tentare di dare contorni meno sfumati al primo contatto tra san Michele e la montagna garganica bisogna rifarsi allo stato di diffusione del cristianesimo nella penisola garganica e nelle località più vicine ad essa, soprattutto Siponto, Salapia (o Salpi) e Lucerà. Questi centri nel IV secolo sono ormai interamente cristianizzati e tra il IV e il V secolo sono anche sedi episcopali. Le fonti attestano la partecipazione di Pardo, vescovo di Salapia, al concilio di Arles del 314 [115] e di Felice e Palladio, vescovi rispettivamente di Siponto e Salapia, al sinodo romano del 465 [116]. Lucerà, poi, nel V secolo era sede di una comunità cristiana particolarmente fiorente e viva e disponeva, nell’ambito del suo territorio, di un monasterium che risale alla prima metà del V secolo e che è il primo esempio di insediamento monastico prebenedettino nella Puglia settentrionale [117].

 

 

115. Cfr. Concilia Galliae: CCL 148, 19.21.

116. Cfr. Mansi, Sacr. conc..., 7, 959-964.

 

 

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Questi dati emergenti dalle fonti letterarie trovano puntuale conferma nei monumenti, nell’epigrafia, nei numerosi ipogei e nelle aree cimiteriali sub divo disseminati su tutto il promontorio [118]. Fu da centri come Siponto, Lucerà e Salapia che il cristianesimo dovette penetrare nelle zone interne e montuose della penisola garganica nel IV o, al più tardi, agli inizi del V secolo.

 

Gli studiosi abitualmente fissano l’arrivo del culto micaelico sul Gargano alla fine del V secolo. Un’espressione della biografia di Gelasio I (492-496) del Liber Pontificalis fa risalire, infatti, all’epoca di questo papa l’inventio della chiesa garganica: «Huius [Gelasti] temporibus inventa est aecclesia sancti Angeli in monte Gargano» [119]; si tratta, però, di un’espressione sicuramente interpolata ricorrente in un solo codice del Liber Pontificalis: il Vaticano Latino 3764 dell’XI-XII secolo [120]. L’interpolazione si fa risalire ad Anastasio Bibliotecario [121] che poco oltre la metà del IX secolo collaborò a revisionare la biografia di alcuni pontefici del Liber Pontificalis. Tale interpolazione potrebbe essere dovuta da una parte al fatto che attorno alla metà del IX secolo l’Apparitio e il culto micaelico del Gargano avevano raggiunto una tale notorietà da lasciare traccia in tutti i Martirologi [122] e, dall’altra, al fatto che Gelasio aveva autorizzato la consacrazione di due chiese a san Michele nelle diocesi di Larino [123] e Potenza [124]. Anastasio Bibliotecario, che naturalmente conosceva l’una e l’altra tradizione,

 

 

117. G. Otranto, Due epistole di papa Gelasio I (492-496) sulla comunità cristiana di Lucera, «Vetera Christianorum», 14 (1977), 123-137.

118. Cfr. A.M. Ariano, Monumenti paleocristiani del Gargano, «Puglia Paleocristiana», 1, Bari 1970, pp. 1-99 (nota introduttiva di P. Testini).

119. Lib. Pont. 51 (L. Duchesne, Paris 19552, vol. 1/2, p. 255, in apparato).

120. Cfr. E.A. Loew, The Beneventan Script, Roma 1980 (Oxford 1914), II, p. 148 (2a ed. ampliata a cura di V. Brown).

121. AA.SS. Sept. 8, p. 54.

122. Cfr. Otranto, Il Liber de apparitione..., passim.

123. Ep. 2 (S. Löwenfeld, Epistolae pontificum Romanorum ineditae, Lipsiae 1885, p. 1).

124. Ep. 35 (A. Thiel, Epistolae Romanorum pontificum genuinae, Brunsbergae 1867, p. 449). La chiesa di Potenza era dedicata a san Michele Arcangelo e a Marco confessore.

 

 

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le ha fuse insieme ritenendo probabilmente di colmare così una lacuna tanto nella biografia di Gelasio quanto nella storia del culto micaelico in Puglia.

 

L’interpolazione di Anastasio è alla base di molte infondate ricostruzioni di studiosi di memorie locali che, riprendendo anche una indicazione cronologica chiaramente erronea [125] della recensio maior della Vita del presunto vescovo sipontino Lorenzo e fondendola con i dati emergenti dall’Apparitio, fissano gli anni delle apparizioni dell’Arcangelo al 490 (episodio del toro), 492 (episodio della vittoria sui Napoletani) e 493 (episodio della consacrazione della chiesa) [126]. Per parte mia ritengo che l’Apparitio, almeno nella sua stesura attuale, pur lasciando intravedere in modo chiaro le origini del culto micaelico sul Gargano, presenti una serie di elementi che non hanno alcun nesso con la prima fase della storia del santuario e del culto micaelici. Essa è, come ho ripetutamente sottolineato, un tentativo tardo di longobardizzare le origini del culto dell’Arcangelo, manca di ogni riferimento storico preciso esplicitamente espresso e raccoglie più tradizioni, certamente di epoche e taglio diversi, senza preoccuparsi minimamente di armonizzarle. È molto probabile che l’anonimo autore abbia acriticamente fuso quanto leggeva nel «libellus in eadem ecclesia positus» [127], che doveva essere abbastanza antico e trattare solo delle origini del culto garganico, con elementi e motivi maturati nei secoli VII-VIII. Per esempio, l’episodio del toro, la consacrazione della basilica e i riferimenti ai miracoli operati da Michele con l’acqua che sgorgava dalla roccia all’interno della grotta [128] potrebbero appartenere ad uno stadio redazionale molto antico perché riflettono alcuni motivi originari del culto: l’esaugurazione dal paganesimo e la devozione per l’Arcangelo in quanto taumaturgo.

 

 

125. AA. SS. Febr. 2, p. 57: «Anno itaque salutiferae Incarnationis Domini Salvatoris quadringentesimo nonagesimo, indictione quartadecima, Gelasio beatissimo papa Romanae sedi praesidente, et Zenone regnante in regia urbe Constantinopolitana, Sipontina civitas...». Questi dati sono in parte discordanti: nel 490, infatti, Gelasio non era ancora papa.

126. Sarebbe troppo lungo elencarli tutti; cfr. Fischetti, Mercurio..., pp. 19-22; Gentile, Storia..., p. 233.

127. Apparitio 1. Sono propenso ad ammettere l’esistenza di questo antico libellus, anche se essa può sembrare un espediente dell’anonimo autore dell’Apparitio per conferire antichità al suo racconto.

128. Apparitio 6.

 

 

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L’episodio della guerra, la descrizione dettagliata del santuario [129] - che ricorda le moderne guide di alcune chiese - e i riferimenti alla prassi liturgica [130], ricca e diversificata, di coloro che officiavano la chiesa sembrano invece ricondurre ad un’epoca più bassa della storia del santuario: all’epoca in cui i Longobardi, dopo la battaglia contro i Bizantini, erano divenuti molto devoti dell’Arcangelo e avevano ristrutturato il complesso monumentale garganico rendendolo idoneo ad accogliere i pellegrini.

 

In definitiva l’anonimo autore dell’Apparitio, interrompendo la narratio originaria che doveva presentare in successione logica e cronologica gli episodi dell’esaugurazione e della consacrazione della basilica, avrebbe inserito nel racconto l’episodio della battaglia, scandito anch’esso, come gli altri due, da una apparizione dell’Arcangelo. Con tale inserzione egli intendeva collegare le origini del santuario con un evento che aveva avuto per protagonisti i Longobardi di Benevento. Si tratta, beninteso, di ipotesi che andrebbero ulteriormente approfondite e verificate con un’indagine sistematica su tutti gli altri motivi presenti nell’Apparitio.

 

Per quel che riguarda l’arrivo del culto micaelico sul Gargano, abitualmente fissato - come ho già rilevato - alla fine del V secolo, sono dell’avviso che esso risalga sicuramente a prima di Gelasio, alla metà se non, forse, addirittura ai primi decenni del V secolo, quando la nuova fede, dopo la cristianizzazione delle circostanti zone pianeggianti, raggiunse anche le contrade impervie del promontorio. E non è escluso che le due chiese consacrate a san Michele alla fine del V secolo a Larino e Potenza possano essere un riflesso della diffusione del culto micaelico nelle zone circostanti in seguito ai primi pellegrinaggi al Monte; va considerato a tal proposito che a costruire, su terreni di loro proprietà, e a voler dedicare, pro sua devotione, le due chiese all’Arcangelo furono alcuni fedeli: Trigezio a Potenza, Priscilliano e Felicissimo a Larino. È verosimile che il culto micaelico abbia raggiunto questi centri percorrendo le vie interne, come la Arpi-Herdonia-Venosa, che collegavano la regione sipontina con Potenza,

 

 

129. Apparitio 5.

130. Apparitio 6.

 

 

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e la via litoranea che proprio nei pressi di Larino lasciava la costa adriatica e, attraversando il Tavoliere, raggiungeva Siponto [131].

 

Sulla vita del santuario tra V e VI secolo nulla è stato esplicitamente tramandato. Agli inizi la sua notorietà rimase sicuramente circoscritta agli abitanti del luogo e delle zone circostanti, ma nel VI secolo la sacra grotta dovette progressivamente diventare mèta di pellegrini provenienti non solo dalle regioni limitrofe. Alcuni graffiti del santuario, i più antichi, soprattutto segni e simboli, potrebbero risalire a quest’epoca [132]. Sul finire del VI secolo il santuario certamente attirò l’attenzione dei Longobardi di Benevento che nelle loro incursioni dovettero più volte spingersi fino a Siponto; in una di queste nel 593, come tramanda Gregorio Magno [133], catturarono un clericus della chiesa sipontina, dal quale pretesero per la liberazione dodici soldi. Essi dovevano sentirsi particolarmente attratti da Michele, il Santo guerriero capo dell’esercito celeste, nel quale ritrovavano attributi e caratteristiche del pagano Wodan considerato dai popoli germanici dio supremo, dio della guerra, psicopompo, protettore degli eroi e dei guerrieri. Quello dell’Arcangelo era, in definitiva, un culto congeniale alla sensibilità e alla fantasia dei Longobardi, i quali, una volta venuti a contatto col Santo sul promontorio garganico, ne fecero il loro Santo nazionale, facendolo rappresentare sugli scudi e sulle monete e diffondendone il culto dappertutto, anche fuori della penisola italica con la dedicazione di chiese e cappelle a lui intitolate.

 

Il connubio col popolo Longobardo dovette certamente accentuare il carattere guerriero del culto micaelico che alle origini si presentava come culto essenzialmente naturale e risanatore. Sono queste le caratteristiche del culto che si possono rinvenire in epoca molto antica in Oriente dove la devozione per l’Arcangelo era vivissima.

 

 

131. Per un quadro della ricca rete viaria nella zona sipontina in età tardoromana cfr. G. Alvisi, La viabilità romana della Daunia, Bari 1970, pp. 49-69.97-98; Ead., Problemi di topografia tardo antica nella zona di Siponto. La rete viaria, «Vetera Christianorum», 12 (1975), 429-457; per Larino specialmente pp. 450-451.

132. Cfr. Quacquarelli, Gli apocrifi..., pp. 207-222.

133. Reg. ep. 4, 17. Gregorio Magno non cita esplicitamente i Longobardi, ma parla di «hostes». Questi, alla luce della situazione e degli eventi della seconda metà del VI secolo, non possono essere che i Longobardi (cfr. P.F. Kehr - W. Holtzmann, Italia Pontificia, Berolini 1962, IX, p. 234).

 

 

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 Secondo una tradizione testimoniata da un’anonima Narratio di datazione incerta [134], in Frigia, a Colosse o, nei suoi dintorni, a Chonae (forse l’attuale città di Konya) [135], Michele, dopo che gli apostoli Filippo e Giovanni si erano recati in quei luoghi per predicare il Vangelo e preannunziare l’evento che si sarebbe di lì a poco verificato, avrebbe fatto scaturire in una zona impervia e accidentata un’acqua che aveva il potere di sanare gli infermi. Grazie a quest’acqua una fanciulla muta fin dalla nascita, dopo che il Santo apparve di notte in sogno al padre per fargli alcune rivelazioni, cominciò a parlare; il padre, convertitosi in seguito all’evento, consacrò a Michele, sul luogo stesso dove scorreva l’acqua risanatrice, un oratorium nel quale si verificarono numerosi prodigi sempre connessi con apparizioni dell’Arcangelo; secondo la leggenda Michele avrebbe miracolosamente fermato due fiumi impetuosi le cui acque i pagani avevano deviato verso il santuario per inondarlo e distruggerlo [136]. Al di là degli elementi leggendari rifluiti in questo racconto, la devozione per Michele in quanto taumaturgo è per Colosse un dato sicuro, se non proprio per l’epoca apostolica, almeno per i secoli II-III [137]. È probabile che nei luoghi in cui si sarebbero svolti questi fatti fosse prima venerato Eracle [138] o Apollo [139].

 

Gothein [140] ha sottolineato alcune analogie tra la tradizione micaelica di Chonae e quella garganica: nell’una e nell’altra Michele è l’eroe del racconto e rivela la sua potenza in fenomeni naturali miracolosi; nell’una e nell’altra respinge i propri nemici:

 

 

134. Questa Narratio, la cui redazione originale risale ad un’epoca compresa tra V e VIII secolo, ci è tramandata in autori dell X secolo; cfr. M. Martens, L’Archange Michel et l’héritage eschatologique pré-chrétien, in Mélanges A. Abel, Leiden 1978, iii, pp. 147-148.

135. L’individuazione precisa del luogo in cui si svolsero i fatti non è agevole; per le diverse soluzioni cfr. Martens, L’Archange..., pp. 148-149.

136. Narratio 1-12, «Analecta Bollandiana», 8 (1889), 289-307.

137. Per R. Janin (Les sanctuaires byzantins de saint Michel, «Échos d’Orient», 33 [1934], 28) il culto micaelico penetrò agli inizi del IV secolo a Costantinopoli provenendo proprio da Colosse. Per M. Simon (Verus Israel, Paris 1934, pp. 430-431) l’installazione del culto micaelico nella zona di Colosse potrebbe essere precristiana e dovuta a giudei sincretizzanti; cfr. anche Rohland, Der Erzengel Michael..., pp. 114-118.

138. Martens, L’Archange..., p. 152.

139. Simon, Verus Israel, p. 430.

140. Gothein, L’Arcangelo Michele..., pp. 111-112.

 

 

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a Chonae con una fiamma che guizza contro di loro, sul Gargano con una freccia che, quasi fiamma spinta dal vento, colpisce Gargano; accanto a queste analogie una differenza fra le due tradizioni sembra importante: a Chonae l’Arcangelo difende il santuario e il suo custode, mentre nell’Apparitio viene presentato, oltre che come difensore del suo santuario, anche come protettore di un popolo: quello Longobardo.

 

La presenza del culto micaelico nell’Asia Minore è confermata da Teodoreto di Ciro [141] il quale tramanda che in Frigia, in Pisidia e nelle zone confinanti vi erano εκτήρια intitolati a Michele e che un concilio di Laodicea, verso la metà del IV secolo, proibì il culto degli angeli [142].

 

Anche sulla sponda del Bosforo, poco a nord di Costantinopoli, esisteva un Μιχαήλιον. Si trattava di un santuario, prima dedicato alla dea Vesta, che Costantino consacrò all’Arcangelo e che divenne famoso per le apparizioni e i miracoli operati da Michele; persone che versavano in particolari difficoltà o erano afflitte da qualche male, recandosi al santuario, vedevano subito risolti i loro problemi [143]; vi si praticava il rito dell’incubatio [144] come sul Gargano [145]. Un altro interessante particolare accomuna il Μιχαήλιον di Costantinopoli al santuario garganico: nell’uno e nell’altro il potere taumaturgico dell’Arcangelo assicurava la guarigione a persone colpite da violenti attacchi febbrili [146].

 

A parte questi due, che sono certamente tra i più antichi, a Costantinopoli e nell’Asia Minore esistevano numerosi altri luoghi di culto (chiese, oratori, santuari) consacrati a Michele, molti dei quali fondati tra V e VI secolo [147]. I Bizantini ebbero una particolare devozione per l’Arcangelo e sin dalle origini lo venerarono per i suoi attributi di taumaturgo piuttosto che come capo delle milizie celesti;

 

 

141. Ad Col. 2, 18: PG 82, 613.

142. Per l’epoca di questo concilio cfr. C.J. Hefele - H. Leclercq, Histoire des conciles, Hildesheim-New York 1973, vol. 1/2, pp. 989-1018. Per il canone 35 in cui si proibisce γγέλους νομάζειν cfr. pp. 1017-1018.

143. Soz. Hist. eccl. 2, 3, 7-13: GCS 50, 52-54.

144. Soz. Hist. eccl. 2, 3, 11: GCS 50, 54.

145. Cfr. AA. SS. Oct. 2, p. 538.

146. Per Costantinopoli cfr. Soz. Hist. eccl. 2, 3, 10: GCS 50, 53.

147. Janin, Les sanctuaires..., pp. 28-52; Id., La géographie ecclésiastique de l’empire byzantin, I, 3, Paris 19692, pp. 337-350.

 

 

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il punto di partenza di questa particolare devozione potrebbe essere stato proprio il santuario frigio di Colosse, da dove poi il culto dovette passare a Costantinopoli e in tutta l’Asia Minore [148], sostituendosi di volta in volta a culti pagani quali quello di Hermes, Eracle, Asclepio, Apollo o Giove [149].

 

Notevoli sono le analogie fra il culto micaelico sul Gargano e quello di Colosse e Costantinopoli: l’acqua risanatrice, le apparizioni, la pratica dell’incubatio per la quale i fedeli ricevevano in sogno all’interno o nei pressi del santuario le rivelazioni dell’Arcangelo, lo scenario selvaggio e naturale in cui s’installa il culto, l’esaugurazione del luogo da una divinità pagana. Emblematico è il fatto che due promontori, quello del Bosforo e quello del Gargano, siano stati notevoli centri di diffusione del culto micaelico rispettivamente in Oriente e Occidente.

 

Alcuni caratteri con cui si presenta nell’Apparitio il culto micaelico fanno, dunque, chiaramente intendere che esso è arrivato sul Gargano dall’Oriente e forse proprio da Costantinopoli; né questo sorprende dal momento che la Puglia, pur essendo una regione di tradizione occidentale, è sempre stata fortemente attenta e protesa, per la sua stessa posizione geografica, verso l’Oriente. Naviganti, commercianti, missionari, pellegrini hanno sempre assicurato, grazie ai porti di Siponto e Brindisi, una notevole circolazione di idee, concezioni ed esperienze tra Puglia e mondo orientale. Né mancarono rapporti e contatti, anche a livello ufficiale, tra questa regione e Costantinopoli proprio nel V secolo, che è l’epoca in cui il culto micaelico approda sui lidi sipontini; basti ricordare che un vescovo pugliese di nome Marianus o Maurianus nel 405 si recò a Costantinopoli con altri vescovi occidentali quale ambasciatore di papa Innocenzo i (401-417) [150]; e Probo, vescovo di Canosa, fu inviato, nella seconda metà del V secolo, ancora a Costantinopoli da papa Simplicio (468-483) perché spiegasse a Leone I, imperatore di Oriente (457-474),

 

 

148. Janin, Les sanctuaires..., p. 28.

149. Martens, L’Archange..., pp. 157-158.

150. Lanzoni (Le diocesi..., pp. 266-267) identifica Marianus, uno degli episcopi Apuli destinatari di un’epistola di Innocenzo i (PL 20, 606), con Maurianus, legato dello stesso papa a Costantinopoli (AA.SS. Oct. 11. p. 592).

 

 

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la posizione di Roma riguardo al canone 28 del concilio di Calcedonia (451) [151]. La tradizione continuerà con Sabino, vescovo di Canosa, che nel 536 parteciperà ad un concilio costantinopolitano [152]. E non è forse senza significato che, nel tentativo di rivendicare, contro la longobardizzazione del culto micaelico sul Gargano, le origini bizantine e fors’anche costantinopolitane del culto stesso, l’anonima Vita di Lorenzo, scritta tra IX e X secolo [153], faccia provenire questo presunto vescovo sipontino proprio da Costantinopoli; a lui, che viene presentato come parente dell’imperatore bizantino Zenone (476-491), secondo la Vita, sarebbe apparso sul finire del V secolo, l’Arcangelo per dirgli «quid faciendum esset» e in una successiva apparizione gli avrebbe promesso la vittoria dei Sipontini sui Napoletani [154]. È evidente, al di là delle incongruenze storiche e dei numerosi elementi leggendari presenti nella Vita, il tentativo di ricollegare le origini del santuario con la tradizione bizantina e costantinopolitana del culto micaelico per il tramite di questo presunto vescovo sipontino, cui l’Arcangelo appare più volte e affida i suoi messaggi. È senza dubbio la risposta degli ambienti bizantini o filobizantini alla tradizione storiografica longobarda che si era appropriata con l’Apparitio, Paolo Diacono, Erchemperto e la Chronica Sancti Benedicti Casinensis, delle origini del santuario garganico [155].

 

Una conferma a questa linea interpretativa viene da una traduzione greca dell’Apparitio, ancora inedita, trasmessa da due codici vaticani, segnalati inizialmente da Arm. Petrucci [156] e attualmente allo studio di G. Cavallo che considera il primo (Vat. gr. 866) della fine del X secolo e di area campana e il secondo (Vat. gr. 821) degli inizi dell’IX e di area pugliese [157].

 

 

151. La notizia è tramandata in un’epistola di papa Gelasio (Ep. 26,10, Thiel p. 407).

152. Mansi, Sacr. conc..., 8, 1141-1142.

153. Cfr. supra p. 212 nota 14.

154. Vita S. Laurentii 4.6-7, AA. SS. Febr. 2, pp. 60-61.

155. Cfr. le osservazioni di Gay, L’Italia meridionale..., pp. 186-187; Petrucci, L’unico eletto..., p. 13; Otranto, Il Liber de apparitione...

156. Una versione greco-bizantina dell’Apparitio Sancti Michaelis in monte Gargano. Roma 1955, pp. 5-15; cfr. Bibliotheca Hagiographica Graeca, Bruxelles 19573, ii, pp. 119-120.

157. Ringrazio l’amico G. Cavallo per le informazioni fornitemi.

 

 

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Questa versione riproduce molto fedelmente l’Apparitio latina per il primo e terzo episodio (quello del toro e quello della dedicazione della basilica) mentre modifica in modo significativo quello relativo alla battaglia: essa, infatti, non presenta i Beneventani e i Sipontini contro i ‘pagani‘ Napoletani, ma associa Napoletani e Beneventani, definiti insieme ‘pagani‘, nella battaglia contro i Sipontini; è evidente che l’anonimo traduttore greco considera i Sipontini, presentati ancora una volta come protetti dall’Arcangelo, sudditi dell’imperatore d’Oriente. Con tale modifica, che associa assai ingenuamente Beneventani e Napoletani, egli intendeva rivendicare le origini bizantine del culto micaelico sul Gargano. Questa versione greca non intaccò minimamente la grande notorietà dell’Apparitio latina tra il X e l’XI secolo e, anzi, come rileva il Petrucci [158] non ebbe alcuna risonanza neppure a Bisanzio, dove furono modellate e rifinite nel 1076 le porte di bronzo del santuario: tre formelle della valva destra, riproducenti altrettanti episodi riguardanti la leggenda garganica, furono infatti illustrate con didascalie tratte dall’Apparitio latina [159]. Segno che l’operazione condotta prima dalla dinastia e poi dalla storiografia longobarda, che si erano appropriate di Michele facendone il proprio Santo e protettore nazionale e modificandone in parte i caratteri e gli attributi originari del culto, era stata irreversibilmente assimilata anche negli ambienti bizantini che tentavano di riappropriarsi delle origini del culto dell’Arcangelo sul promontorio di Puglia.

 

 

158. Aspetti del culto..., p. 165.

159. È anche possibile che le didascalie siano state tratte dall’Apparitio latina per espressa volontà di Pantaleone, il ricco mercante di Amalfi che commissionò le porte del santuario.

 

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SCIENZE STORICHE - 31

 

Santuari e politica nel mondo antico

a cura di Marta Sordi

 

Contributi dell’Istituto di storia antica

volume nono

 

Vita e Pensiero

Pubblicazioni della Università Cattolica del Sacro Cuore

Milano 1983

 

Pubblicazione effettuata con il contributo del Ministero della Pubblica Istruzione

 

© 1983 Vita e Pensiero - Largo A. Gemelli, 1 - 20123 Milano

 


 

Indice

 

Presentazione vii

 

PREMESSA

 

            Santuari e luoghi santi (il problema della terminologia)

- MORENO MORANI. Sull’espressione linguistica dell’idea di ‘santuario’ nelle civiltà classiche 3

- CELESTINA MILANI. Lat. locus sanctus, loca sancta, ebr. meqôm haqqōdeš, māqôm qādôš 33

 

            I. Santuari e politica nel mondo asiatico e greco

- MARIO ATTILIO LEVI. Templi e schiavi sacri in Asia Minore 51

- CINZIA BEARZOT. La guerra lelantea e il κοινόν degli Ioni d’Asia 57

- LUISA PRANDI. L’Heraion di Platea e la festa dei Δαίδαλα 82

- MICHELA CICCIÒ. Il santuario di Damia e Auxesia e il conflitto tra Atene ed Egina (Herod. v, 82-88) 95

- FABIO MORA. Policrate e il santuario di Delfi 105

- FRANCA LANDUCCI GATTINONI. Demetrio Poliorcete e il santuario di Eleusi 117

 

            II. Santuari e politica nel mondo romano e provinciale

- MARTA SORDI. Il santuario di Cerere, Libero e Libera e il tribunato della plebe 127

- ALBERTO BARZANÒ. Il santuario di Pafo e i Flavi 140

- GIUSEPPE ZECCHINI. Il santuario della dea Caelestis e l’Historia Augusta 150

- MARTA GIACCHERO. Santuari indigeni nell’impero romano: i cavalieri danubiani e il cavaliere trace 168

 

            III. Un esempio di continuità religiosa dall’antichità al medioevo: il santuario garganico

- DOMENICO LASSANDRO. Culti precristiani nella regione garganica 199

- GIORGIO OTRANTO. Il «Liber de apparitione», il santuario di san Michele sul Gargano e i Longobardi del Ducato di Benevento 210

 


 

(Presentazione)

 

La tematica Religione e politica nel mondo antico, che è stata oggetto dell’attenzione del Gruppo di ricerca dell’Istituto di Storia Antica dell’Università Cattolica fin dal seminario del 1978-1979 (vol. VII dei «Contributi», 1981), ha condotto nel seminario del 1979-1980 lo stesso gruppo a mettere in luce la importanza assunta, nella storia del mondo antico e nella nascita della concezione di impero universale, dai santuari di Atena Iliaca e dal famoso Palladio (vol. VIII dei «Contributi», 1982).

 

È stata proprio la scoperta di questa importanza, in un certo senso unica, che ha indotto il nostro gruppo ad affrontare in maniera specifica e diretta la tematica del rapporto fra i santuari e la politica nel mondo antico, che è stato oggetto del seminario del 1980-1981 e i cui risultati confluiscono in questo volume. Nella premessa ci siamo posti innanzitutto, con gli articoli di M. Morani e di C. Milani, il problema della terminologia e delle espressioni usate dagli antichi per indicare la realtà cultuale, architettonica e sociale che noi indichiamo con santuario.· i termini impiegati nel mondo greco e latino per indicare questa realtà si sono rivelati numerosi, generici e non specifici, cosicché abbiamo deciso di considerare ‘ santuari ’ tutti quei ' luoghi ’ in cui un culto assuma continuità e divenga tradizionale: tutti i culti di cui ci siamo occupati e di cui abbiamo cercato di cogliere l’importanza politica e l’incidenza nella vita delle comunità che avevano in essi il loro centro sono infatti culti con una precisa determinazione e continuità locale. Particolare interesse ha suscitato da questo punto di vista,

 

 

viii

 

proprio per la straordinaria continuità che rivela dall’epoca micenea all’alto medioevo, la zona cultuale del Gargano, a cui abbiamo dedicato, con gli articoli di D. Lassandro e di G. Otranto, un intero settore della nostra ricerca.

 

Al mondo greco e greco-asiatico sono stati dedicati sei articoli (M.A. Levi, C. Bearzot, L. Prandi, M. Cicciò, F. Mora, F. Landucci Gattinoni), al mondo romano quattro (M. Sordi, A. Barzanò, G. Zecchini, M. Giacchero), nei quali il santuario è apparso di volta in volta come centro della comunità statale e della vita federale, come fonte di ricchezza o di prestigio morale e politico, come oggetto di contesa e garante di legittimità. La tematica si è rivelata estremamente ricca e bisognosa di ulteriori approfondimenti: in vista di uno sviluppo più organico dello stesso tema il nostro Gruppo di ricerca si prefigge pertanto di affrontare, nel prossimo anno, il tema «I santuari e la guerra del mondo antico».

 

Hanno partecipato al nostro seminario, oltre ai membri dell’Istituto e agli iscritti alla scuola di perfezionamento, i colleghi professori M. Giacchero dell’Università di Genova, M.A. Levi dell’Università Statale di Milano, C. Milani dell’Università di Padova, G. Otranto dell’Università di Bari e il dottor M. Morani dell’Istituto di Glottologia dell’Università Cattolica: a tutti va il nostro cordiale ringraziamento.

 

M. S.