Il Cammino dell’Angelo tra strade e santuari di Puglia

 

Giorgio Otranto

 

In: AA.VV., Roma-Gerusalemme. Lungo le vie francigene del Sud, Roma 2008, pp. 82-94

 

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Lo studioso protestante tedesco Ferdinand Gregorovius (1821-1891) definì il santuario micaelico di Monte Sant’Angelo, sul Gargano, “la metropoli del culto dell’Arcangelo in Occidente”: tale definizione trova puntale riscontro in una storia che dura da più di quindici secoli e ha contribuito e creare un ricco patrimonio di fede, arte e cultura e a fare del promontorio garganico uno dei luoghi previlegiati della religiosità e della devozione popolari dell’Europa medievale. Ancora oggi meta di un intenso flusso di pellegrinaggi che si sono perpetuati senza soluzione di continuità sin dalla tarda antichità, il santuario garganico è il primo e storicamente più importante di una lunga teoria di santuari dislocati tra la Daunia, la Terra di Bari e il Salento, lungo le vie che attraversano la regione e convogliano i pellegrini verso la Terrasanta, grazie ad una fitta e funzionale rete portuale (Siponto, Barletta, Bari, Brindisi, Otranto, Taranto).

 

Terra di santuari e terra di transito, la Puglia era attraversata da due vie di scorrimento veloce come l’Appia e la Traiana e da una fitta serie di strade secondarie, diverticula, sentieri, tratturi, costituenti un complesso sistema viario che ha facilitato contatti e rapporti fra Oriente e Occidente.

 

Lungo le vie e le rotte pugliesi hanno viaggiato da sempre mercanti, naviganti, pellegrini, missionari, imperatori, re, uomini e donne di ogni estrazione sociale, che hanno contribuito a diffondere concezioni, esperienze, dottrine e, in ambito religioso cristiano, i culti dei santi, tra i quali, appunto, quello dell’Arcangelo, già molto radicato in ambienti ebraici e bizantini.

 

Michele, il cui nome in ebraico significa “Chi come Dio?”, è, con Raffaele (“Dio guarisce”) e Gabriele (“Potenza di Dio”), uno degli angeli menzionati col proprio nome nella Sacra Scrittura ed è più volte oggetto della rivelazione biblica, che gli attribuisce funzioni e compiti specifici.

 

Messaggero di Dio, protettore di Israele e poi della Chiesa, guerriero e capo delle milizie celesti, liturgo, psicagogo e psicopompo sono gli attributi più noti di Michele, il cui culto si è alimentato dei diversi apporti della letteratura apocrifa, giudaica e giudeocristiana, pagana e gnostica.

 

In Oriente la devozione per gli angeli in generale e per Michele in particolare si diffuse in Frigia, soprattutto nella zona di Colosse e Laodicea. Qui l’Angelo, venerato in prima istanza come taumaturgo e medico, operava prodigi servendosi di un’acqua miracolosa. Oltre che in Frigia, il culto dell’Arcangelo era presente in Egitto, Siria, Grecia, in altre aree dell’Asia Minore, sulle coste e nelle isole; in Bitinia era attivo un santuario nel quale scorrevano acque termali, presso cui si recavano, per curarsi, pellegrini provenienti soprattutto da Costantinopoli.

 

Anche nella capitale orientale dell’impero, la devozione per l’Angelo fiorì in epoca abbastanza antica. Sulla sponda europea del Bosforo, al nord della città, è attestata, nel IV secolo, l’esistenza di un michaelion, un santuario già dedicato alla dea Vesta, riconsacrato da Costantino all’Arcangelo e divenuto famoso per le apparizioni e i miracoli operati da Michele: Sozomeno testimonia che, nel V secolo, vi si praticava il rito dell’incubatio e vi conseguivano la guarigione anche persone afflitte da attacchi febbrili.

 

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E’ probabile che il culto per l’Angelo sia giunto sulla montagna garganica, all’epoca compresa nella diocesi di Siponto, proprio da Costantinopoli, grazie agli intensi rapporti da sempre esistenti tra il mondo greco-bizantino e la Puglia. Le prime notizie sull’insediamento del culto nella grotta garganica risalgono al V secolo e sono messe in relazione con tre apparizioni dell’Angelo, che la tradizione ha fissato al 490, 492 e 493, sulla base del Liber de apparitione sancti Michaelis in monte Gargano (=Apparitio), uno scritto anonimo di VIII secolo, privo di elementi cronologici precisi.

 

A mio parere, l’arrivo del culto per l’Angelo sul Gargano potrebbe risalire anche a qualche decennio prima, quando la nuova religione si era ormai affermata in tutta la circostante area pianeggiante.

 

L’Apparitio, dopo aver dato le coordinate topografiche della città di Siponto, presenta tre episodi connessi con le tre apparizioni dell’Angelo, in una delle quali Michele preannunzia a Beneventani e Sipontini (Longobardi) la vittoria in una battaglia contro i Napoletani (Bizantini). Subito dopo l’Apparitio descrive dettagliatamente il contesto naturale in cui si è insediato il culto e la grottasantuario, con riferimenti alla prassi cultuale e liturgica, ai miracoli, ai primi pellegrinaggi. Quando si insediò sulla montagna garganica, quello per l’Angelo era un culto essenzialmente iatrico e naturale. L’Apparitio narra infatti che Michele guariva dagli attacchi febbrili per il tramite di un’acqua miracolosa (stilla) che sgorgava dalla roccia all’interno della grottasantuario.

 

È significativo che su questo promontorio, prima che vi si affermasse la devozione per Michele, fossero onorate divinità come Calcante e Podalirio, il cui culto iatrico-divinatorio ricorda alcune caratteristiche di quello micaelico. La presenza dell’acqua e le peculiarità del contesto fisicoambientale (grotta, bosco, montagna, roccia) caratterizzarono da subito la tradizione garganica e si tipizzarono fissandosi in diversi contesti storico-ambientali per tutto il medioevo.

 

Sulla montagna garganica, ricca di boschi, anfratti e caverne, immersa in uno scenario naturale aspro e selvaggio, il culto per l’Angelo trovò le condizioni ideali per il suo radicamento e il suo sviluppo. Posta sulla sommità della montagna, scavata nel cuore della roccia, in una grotta naturale che si addentra per circa ventiquattro metri nelle viscere della terra, la chiesa micaelica è definita cripta e domus angulosa, con le pareti irte di sporgenze e rientranze, con la volta rocciosa irregolare, che in qualche punto ancora oggi si sfiora con la testa, in qualche altro a mala pena si tocca con le mani; all’esterno, la sommità della montagna è in parte ricoperta da un bosco di cornioli (cornea silva) e in parte degrada verso un altopiano verdeggiante.

 

Verso la fine del V e, soprattutto, nel VI secolo, la grotta garganica fu visitata da pellegrini provenienti prima dalle regioni limitrofe e poi, via via, da più lontano. Forse sono da connettersi ai primi pellegrinaggi al Gargano due chiese costruite a proprie spese, nelle diocesi di Larino e Potenza, da alcuni fedeli, i quali poi chiesero a papa Gelasio (492-496) che fossero consacrate all’Arcangelo. Queste chiese, edificate su terreni di proprietà privata, potrebbero essere un riflesso della diffusione del culto micaelico nelle zone circostanti in seguito ai primi pellegrinaggi al santuario. E’ verosimile che la devozione per Michele abbia raggiunto questi centri percorrendo vie interne, come la Siponto-Arpi-Herdonia-Venosa, che collegava la regione sipontina con Potenza,

 

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e la via litoranea che, proprio nei pressi di Larino, lasciava la costa adriatica e, passando per Teanum Apulum, attraversava il Gargano giungendo a Siponto.

 

Il primo percorso dall’Oriente verso il santuario garganico fu quello fatto, durante la guerra grecogotica (535-553), da Artellaide, una giovane bizantina che, come tramanda la sua Vita, giunse a Siponto da Costantinopoli via Valona o Durazzo (Albania): a Siponto le fu richiesto un contributo in denaro per poter effettuare dei lavori in ecclesia s. Michaelis, quae sita est in monte Gargano; ma ella preferì recarsi personalmente nel santuario e, dopo essersi raccolta in commossa preghiera, pro opere ipsius ecclesiae dedit triginta aureos. Subito dopo, raggiunse Benevento, percorrendo la via che da Siponto, passando per Arpi e Lucera, conduceva ad Aecae, l’attuale Troia, dove ci si immetteva sulla Traiana.

 

L’episodio di Artellaide dimostra non solo che il santuario aveva già bisogno di opere di ristrutturazione, ma anche che la sua notorietà cominciava a diffondersi negli ambienti bizantini.

 

Sul calare del VI secolo, sulla scena sociale e politica dell’Italia meridionale fecero la loro comparsa i Longobardi, i quali, dopo aver fondato con il duca Zottone nel 570 il ducato di Benevento, cercarono a più riprese sbocchi sul Tirreno e sull’Adriatico, per impossessarsi delle fertili pianure campane e pugliesi. In questo moto espansionistico, probabilmente facendo nel senso inverso il percorso di Artellaide, si spinsero più volte sino a Siponto, allora sotto il dominio bizantino, e vennero a contatto col santuario micaelico, che attirò subito la loro attenzione. Essi, infatti, dovevano sentirsi particolarmente attratti da Michele, nel quale trovavano attributi e caratteristiche del pagano Wodan, considerato dai popoli germanici dio supremo, dio della guerra, psicopompo, protettore di eroi e guerrieri: quello dell’Arcangelo era, per alcuni aspetti, un culto congeniale alla sensibilità dei Longobardi.

 

Pur non escludendo che i primi contatti tra la dinastia longobarda di Benevento e il santuario micaelico possano risalire, come ha recentemente ipotizzato Ada Campione, all’epoca di Gregorio Magno, fu verso la metà del VII secolo che essi si concretizzarono in una strategia che era insieme politica e religiosa.

 

Secondo quanto tramanda Paolo Diacono, i Bizantini, attorno al 650, attaccarono il santuario di S. Michele. Il longobardo Grimoaldo I, duca di Benevento (647-671), accorso prontamente sul Gargano, respinse l’attacco dei Greci infliggendo loro una grave sconfitta. Questo episodio ebbe una notevole eco tra i Longobardi, la cui storiografia, da Erchemperto alla Chronica s. Benedicti Casinensis, nel IX secolo ha continuato ad esaltare l’evento come frutto della protezione di S. Michele; esso segnò ufficialmente l’inizio di quel singolare e duraturo legame tra la dinastia longobarda e il culto micaelico che ebbe, per tutta l’epoca medievale, numerose significative attestazioni in ambienti colti e popolari e in fonti di ogni tipo, da quelle epigrafiche a quelle archeologico-monumentali, iconografiche ed archivistiche. Dopo il 650 la regione garganica fu di fatto assorbita nel ducato di Benevento e rimase politicamente sottomessa prima ai duchi e poi ai principi sin verso la fine del IX secolo. Il territorio della diocesi sipontina, inoltre, su specifica richiesta del vescovo beneventano Barbato, fu posto dal duca Romualdo I (662-687) sotto la giurisdizione della diocesi di Benevento.

 

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La battaglia del 650 ha influito profondamente sulla storia dei rapporti tra Longobardi e culto micaelico. Quando, nel IX secolo, accanto alla data tradizionale del 29 settembre, cominciò a comparire l’8 maggio come dies festus della dedicazione della chiesa micaelica, la storiografia longobarda fece risalire proprio a quel giorno una delle tre apparizioni di Michele e la vittoria di Grimoaldo sui Bizantini, contribuendo a creare una tradizione che si è perpetuata ininterrottamente nei secoli.

 

Lo stesso Grimoaldo volle e seppe sfruttare l’episodio per fini politici: si presentò come protetto dall’Arcangelo, facendo apparire quella vittoria come voluta da lui, e finì col fare del culto micaelico, praticato da Longobardi ariani e Longobardi cattolici, un instrumentum regni per l’unità di tutti i suoi sudditi.

 

Con la sua ascesa al trono di Pavia (662), la devozione per l’Arcangelo si diffuse subito anche tra i Longobardi del nord, soprattutto a Pavia e a Milano, dove Grimoaldo fece edificare alcune chiese dedicate al Santo.

 

La devozione dei Longobardi per l’Arcangelo ha interessato a lungo il santuario garganico, come dimostrano alcune delle circa duecento iscrizioni incise o tracciate a sgraffio sulle sue strutture sia all’interno che sulla facciata dell’ingresso. Si tratta di un vero e proprio corpus epigrafico altomedievale longobardo (VII-IX secolo), che, accanto ad epigrafi “di apparato”, dedicatorie e votive, presenta brevi espressioni, semplici antroponimi e una ricca serie di linee, segmenti, nodi, stelle, figure geometriche deformate e diversi simboli, tra i quali prevale il signum crucis, eseguito generalmente in maniera assai semplice. Siamo in presenza di una documentazione ricca e complessa, che si riferisce a pellegrini di alto rango e di bassa estrazione sociale, a uomini e donne, presbiteri, diaconi, monaci e laici, colti e incolti, provenienti dall’Italia. Altre iscrizioni attestano pellegrinaggi di fedeli provenienti dall’Italia centrale (Arricus de Marsica, in Abruzzo) e settentrionale (Leo de Bergamo), oltre che da altre regioni d’Europa. Alcuni di questi si definiscono peregrini, testimoniando così che questo termine, tra VII e VIII secolo, anche a livello popolare - l’epitaffio di Ansa lo attesta a livello colto- era ormai passato dal significato originario di “semplice viaggiatore, straniero” a quello tecnico di “viaggiatore per motivi di fede”, che, a parere di de Gaiffier, sarebbe attestato solo a partire dall’epoca della prima crociata.

 

Molto importanti sul piano storico sono due epigrafi, cosiddette “di apparato”, nelle quali vengono ricordate alcune iniziative della dinastia longobarda sia di Benevento che di Pavia, miranti a ristrutturare il santuario per adeguarlo alle esigenze dell’accresciuto numero di pellegrini. Una di queste in particolare ricorda esplicitamente il duca Romualdo I (662-687), il quale, “spinto dalla devozione, per ringraziamento a Dio e al santo Arcangelo, fece eseguire a proprie spese” lavori di ristrutturazione all’interno del santuario per rendere più agevole il flusso e deflusso dei pellegrini.

 

Un altro intervento della dinastia longobarda in favore del santuario garganico si deve alla regina Ansa, consorte del re longobardo Desiderio (756-774), la quale, come è scritto nel suo epitaffio composto da Paolo Diacono, adottò alcuni provvedimenti per agevolare il pellegrinaggio a Roma e in Puglia:

“Ormai sicuro, intraprendi il cammino, chiunque tu sia che, pellegrino dalle terre di Occidente, ti dirigi verso la grandiosa città del venerando Pietro e verso la rupe garganica del venerabile antro.

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Sicuro per il suo (scil. di Ansa) intervento non avrai da temere né le frecce dei predoni, né il freddo, né le nubi della notte oscura: per te infatti (Ansa) ha fatto approntare spaziosi ricoveri e cibo”.

Questo epitaffio testimonia un intervento di evidente impronta evergetica della regina a favore dei pellegrini che si recavano a visitare la tomba di Pietro e la rupe garganica del venerabile antro. Di tale intervento ci sfuggono lo spessore, le modalità e i luoghi precisi. E’ impensabile che l’iniziativa di Ansa abbia riguardato l’intero percorso (ma quale?) o i tanti percorsi che portavano a Roma e sul Gargano. Al di là dell’enfasi del longobardo Paolo Diacono, sembra probabile che l’intervento della regina abbia interessato solo il tratto finale dell’itinerario che portava al santuario garganico e alcuni ambienti dello stesso santuario, dove potrebbe aver fatto costruire ospizi per i pellegrini.

 

Le iscrizioni garganiche, nel complesso, tramandano il ricordo di centottantadue persone, di cui centosessantotto uomini e quattordici donne, le quali sono quasi tutte di origine longobarda e prive di cultura grafica, al pari di molti altri pellegrini; per tutti costoro c’erano dei lapicidi di stanza nel santuario (hupographeis) che, dietro compenso, provvedevano a scrivere sui muri i loro nomi. Tra quelli ancora leggibili ci sono antroponimi di origine semitica, greca, latina e almeno novantasette di sicura origine germanica: si tratta, per lo più, di antroponimi goti, franchi, sassoni, alemanni e in particolare longobardi come Afridus, Ansipertus, Arechis, Auderada, Cunualdus, Ildirissi, Isitruda, Ludualdo, Maurualdu, Ratemund, Rodigisi, Rumildi, Tato, Varnedruda, alcuni dei quali accostati all’acclamazione vivas in deo. Tale ricchezza e varietà di nomi evidenzia come il pellegrinaggio al Gargano, tra VII e IX secolo, si fosse ormai internazionalizzato, divenendo fenomeno di livello europeo: tutto questo coincide col periodo di massima espansione e di più incisiva presenza dei Longobardi in Puglia, dove i duchi beneventani, nell’VIII secolo, istituirono i gastaldati di Siponto (740), Canosa (747) e Lucera (774). Nel corpus epigrafico garganico rivestono eccezionale importanza quattro iscrizioni in alfabeto runico futhork, un tipo di alfabeto in uso, soprattutto in ambito sacro, nell’Inghilterra anglosassone e in Olanda tra VI e IX secolo. Queste di Monte Sant’Angelo sono le prime iscrizioni runiche rinvenute e riconosciute come tali in Italia. Esse presentano quattro antroponimi di pellegrini anglosassoni, verosimilmente ecclesiastici, che, tra la fine del VII e la prima metà dell’VIII secolo, si recarono per devozione nel santuario garganico, lasciandovi il ricordo autografo della loro visita e confermando l’interesse delle popolazioni di stirpe germanica per esso. Le prime tre (Hereberehct, Herraed, Wigfus) sono tracciate a sgraffio, ad altezza d’uomo, sulla facciata destra della lunga galleria di accesso al santuario; la quarta (Leofwini) è stata rinvenuta all’interno del santuario. Accanto a questi quattro antroponimi va registrato anche quello di un Eadrihd Saxso, un vir honestus che ha voluto dichiarare la propria origine usando, questa volta, l’alfabeto latino. La presenza di questi pellegrini anglosassoni nel santuario garganico getta nuova luce sui rapporti che intercorsero nel VII-VIII secolo tra Inghilterra e Italia e che, sulla base delle fonti letterarie, soprattutto Beda e Paolo Diacono, sembravano interessare quasi esclusivamente Roma, Montecassino e talvolta Pavia. Le epigrafi del santuario garganico dimostrano, invece, che i pellegrini inglesi prolungavano talvolta il loro iter per visitare la grotta-santuario dell’Angelo, ormai divenuta una tappa sulla via per la Terrasanta. Nella seconda metà dell’VIII secolo, i monaci cassinesi tentarono di trattenere presso il loro monastero alcuni pellegrini inglesi, diretti proprio al santuario pugliese.

 

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Oltre alle quattro epigrafi runiche appena ricordate, Maria Giovanna Arcamone ha individuado, sulle strutture del santuario, altri segni sicuramente runici (semplici lettere? antroponimi?), di cui darà notizia in un contributo di prossima pubblicazione su Vetera Christianorum, organo scientifico del Dipartimento di studi classici e cristiani dell’Università degli Studi di Bari.

 

Nel corso dell’VIII secolo, vennero in Puglia alcuni pellegrini per prelevare dalla grotta garganica pignora, cioè oggetti-reliquie, da portare in Francia per fondare altri santuari micaelici ad imitazione di quello garganico. Il più famoso di questi santuari è quello normanno di Mont Saint- Michel, nel quale alcuni monaci, inviati appositamente in Puglia nel 708, portarono frammenti di roccia garganica e brandelli del mantello che, secondo la tradizione, l’Angelo avrebbe lasciato nella grotta pugliese in occasione di una delle sue apparizioni. Il fine era quello di mutuare, per il tramite di questi pignora, le virtù taumaturgiche dell’Angelo e ricreare il modello garganico in Normandia o altrove.

 

Come attesta anche l’antroponimia delle iscrizioni, tra VIII e IX secolo, si recarono sul Gargano molti altri pellegrini provenienti dal regno dei Franchi. Tra questi ha una particolare importanza il monaco Bernardo, il quale raccontò il suo pellegrinaggio nell’Itinerarium Bernardi monachi Franci (= It. Bern.), considerato un modello di resoconto di viaggio, l’ultimo veramente significativo prima delle crociate; in seguito a queste, si registra un parziale cambiamento del concetto di pellegrinaggio, almeno di quello diretto in Terrasanta, e conseguentemente, come nota Menestò, anche delle fonti narrative ad esso collegate.

 

Volendo visitare i loca sanctorum in Oriente, Bernardo si associò altri due monaci (lo spagnolo Teudemondo e il campano Stefano) e, recatosi nell’867 a Roma, ricevette da papa Nicolò I (858-867) la benedizione (benedictio) e l’autorizzazione (licentia) a compiere il viaggio: Inde progressi venimus ad montem Garganum, in quo est ecclesia sancti Michaelis sub uno lapide.

 

Nel descrivere la grotta-chiesa, Bernardo afferma che essa disponeva di più altari e poteva contenere una sessantina di persone; al suo interno, verso Oriente, era esposta un’immagine di S. Michele, mentre sul lato meridionale, sull’altare del sacrificio eucaristico, pendeva un vaso, nel quale venivano deposte le offerte (donaria): a capo della comunità, costituita da molti fratres, era l’abate Benignato.

 

Visitato il santuario garganico, i tre pellegrini proseguirono per Bari, definita civitas Sarracenorum perché all’epoca era sede di un potente emirato arabo; qui i tre chiesero e ottennero dal “sultano” due lettere che descrivevano le loro fattezze fisiche e illustravano il loro itinerario. Si tratta evidentemente di una sorta di passaporto che i tre avrebbero dovuto esibire alle autorità delle città che avrebbero attraversato. Per raggiungere Bari dal Gargano, Bernardo dichiara di aver percorso centocinquanta miglia: evidentemente non viaggiò lungo la via litoranea, molto più corta (ottantasei miglia circa), ma lungo la Siponto-Arpi-Lucera-Aecae, da dove, percorrendo la Traiana (Ordona, Canosa, Ruvo, Bitonto), raggiunse Bari: questo era molto probabilmente lo stesso percorso che aveva fatto all’andata per raggiungere, da Roma-Benevento, il Gargano. Talvolta i pellegrini, per motivi di sicurezza, preferivano percorsi a loro già noti, anche a costo di prolungare il viaggio.

 

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Dopo essersi recato in Terrasanta e aver visitato i luoghi dove aveva vissuto e operato il Cristo, al termine di sessanta giorni di difficile navigazione, Bernardo e i compagni sbarcarono sulla costa campana e si recarono al Monte Aureo

 

“dov’è una grotta con sette altari: al di sopra vi è una densa boscaglia. A causa della oscurità nessuno può entrare in questa grotta se non accendendo delle lampade. Qui era abate Valentino”:

 

si tratta della grotta micaelica di Olevano sul Tusciano, a mezza strada tra Salerno ed Eboli. Proseguendo il viaggio probabilmente lungo la via Domitiana e la via Appia, a Roma Bernardo si separò dai suoi compagni e si recò da solo a visitare il santuario di Mont Saint-Michel

 

“collocato su un monte che si protende verso il mare per due leghe. Sulla sommità di questo monte c’è la chiesa dedicata a S. Michele e intorno a quel monte, due volte al giorno, cioè al mattino e alla sera, si frange il mare e gli uomini non possono salirvi fino a quando il mare non si ritira. Ma nel giorno festivo di S. Michele, il mare, nel frangersi attorno al monte, non si congiunge, ma si arresta a mo’ di muro a destra e a sinistra. E in questo giorno solenne tutti quelli che vengono per pregare (ad orationem) possono raggiungere il monte a tutte le ore: cosa che non è possibile negli altri giorni. Qui è abate il bretone Finimonte”.

 

La descrizione di questi tre luoghi di culto, conclusa sempre da un preciso riferimento all’abate (Benignato, Valentino, Finimonte), evidenzia l’interesse di Bernardo per l’organizzazione dei santuari, la cura per i dettagli (immagine dell’angelo appesa, vaso per le offerte pendente, etnia di Finimonte) e per alcune tradizioni locali.

 

La notorietà del santuario garganico e il conseguente flusso di pellegrini fecero in modo che esso fosse spesso al centro dell’attenzione e dell’interesse dei governanti: tra VII e VIII secolo, come ho già rilevato, erano stati i Longobardi del ducato di Benevento ad interessarsene direttamente. E allorché, nell’849, il principato longobardo di Salerno si staccò da quello di Benevento, il trattato di pace e di alleanza stipulato tra i principi Siconolfo e Radelchi prevedeva, tra l’altro, che i Salernitani potessero attraversare i territori beneventani per recarsi ad venerabilem ecclesiam beati Archangeli Michaelis. Nell’869 i Saraceni di stanza a Bari sotto la guida dell’emiro Sawdan attaccarono e depredarono il santuario, per la cui ricostruzione l’imperatore Ludovico II, qualche anno dopo, concesse all’arcivescovo di Benevento Aione, da cui il santuario dipendeva, i mezzi per farlo restaurare. Nonostante questa e altre incursioni saracene del 910 e 952 e nonostante il conseguente stato di abbandono in cui la chiesa micaelica dovette cadere, il flusso dei pellegrinaggi non subì alcuna interruzione, come provano i viaggi effettuati, all’incirca tra il 940 e il 960 da Oddone di Cluny; da s. Fantino, monaco calabrese egumeno nel monastero del Mercurion in Lucania, ai confini con la Calabria; dall’abate Giovanni di Görz, il quale, intorno alla metà del X secolo, vi si recò dopo essere stato a Roma, Montecassino e Napoli; da Flodoardo di Reims che, dopo aver visitato la grotta, dedicò al culto dell’Angelo sul Gargano una parte del suo poema De Christi triumphis apud Italiam. Nel 999 fu l’imperatore tedesco Ottone III a raggiungere, nudis pedibus, la grotta garganica per motivi penitenziali; poi, nel 1022, il suo successore Enrico II 71, papa Leone IX 72, Melo da Bari e tanti altri personaggi di alto rango.

 

Intanto, sul finire del X secolo, all’imbocco della valle di Susa (Piemonte), sorgeva un altro santuario dedicato all’Angelo, noto come Sacra, il cui racconto di fondazione lo qualifica come terzo luogo scelto per sé dall’Angelo sulla terra, esattamente a mezza strada tra il Gargano e Mont Saint Michel. Tra questi tre luoghi di culto si è sviluppato, così, un pellegrinaggio micaelico in linea di oltre duemila chilometri, che possiamo definire come il Cammino dell’Angelo, perché, nel nome di S. Michele,

 

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attraversava buona parte dell’Europa occidentale e aveva spesso come meta finale la Terrasanta.

 

I tanti pellegrinaggi al Gargano, il tentativo di riprodurre altrove il modello del santuario pugliese, i numerosi antroponimi di pellegrini provenienti da tutta Europa, la ricorrenza della tradizione cultuale garganica in martirologi e opere agiografiche altomedievali fanno del santuario di Monte Sant’Angelo un vero meeting point di pellegrini romani, bizantini e germanici e del culto micaelico un fenomeno di respiro europeo, un fenomeno che rappresenta emblematicamente la nuova visione della storia e della cultura dei secoli V-VIII, non più, o non solo, classicistica e romanocentrica, ma romanobarbarica ed europeista.

 

La fama del santuario continuò ad attirare folle di pellegrini anche dopo il Mille, quando, sulla ribalta politica dell’Italia meridionale, si affacciarono i Normanni, i quali percorsero più volte il Cammino dell’Angelo, che collegava la loro patria alla Puglia. Secondo una tradizione risalente a Guglielmo Apulo, l’arrivo dei Normanni nell’Italia meridionale è collegato proprio ad un pellegrinaggio alla grotta dell’Arcangelo per sciogliere un voto:

 

Horum (scil. Normannorum) nonnulli Gargani culmina montis / conscendere, tibi, Michael archangele, voti / debita solventes....

 

Qui essi avrebbero incontrato il ribelle Melo da Bari che preparava la rivolta antibizantina. In epoca normanna il santuario si arricchì delle famose porte bronzee, fuse a Costantinopoli nel 1076 e, nel 1098, di un ospizio per pellegrini, dopo il quale, nel XII secolo, grazie alla prodigalità di alcuni signori normanni, altri ne furono costruiti lungo le strade che portavano alla grotta.

 

Sino alla fine del Medioevo, oltre a crociati, santi - tra cui secondo la tradizione, anche S. Francesco d’Assisi -, imperatori, principi, re, uomini e donne di ogni condizione sociale, visitarono la grotta anche tanti romei, spesso incaricati di effettuare pellegrinaggi per conto di altri.

 

Qualche anno dopo la metà del XII secolo, il santuario garganico fu visitato dall’abate islandese Nikulas Saemundarson, che annotò puntualmente spostamenti, città, santuari, vie, distanze, tempi di percorrenza e altre notizie di varia natura, rilevando, per la Puglia, che

 

“Siponto giace sotto il Monte di San Michele e si estende su per il monte per dieci miglia di lunghezza e tre di larghezza. Là si trova la grotta di san Michele, e il panno di seta donato dal medesimo Santo. Da lì vi è un giorno di cammino fino a Barletta, da qui vi sono sei miglia fino a Trani, quattro fino a Bisceglie, quattro fino a Molfetta e altrettanto fino a Giovinazzo; da qui sei miglia fino a Bari, dov’è riposto il corpo di San Nicola”.

 

Dal testo di Nikulas possiamo rilevare come, a poco più di cinquanta anni dalla traslazione delle reliquie di S. Nicola da Mira, in Licia, a Bari (1087), la città pugliese costituisse, con Monte Sant’Angelo, una tappa importante nel pellegrinaggio verso la Terrasanta. A partire dal XII secolo, infatti, in coincidenza con la massima espansione del pellegrinaggio gerosolimitano, i due santuari spesso ricorrono insieme nei racconti dei pellegrini.

 

Uno di questi - si tratta di un inglese - nel 1344 annota che da Manfredonia salgono al monte Gargano uomini e asini superando gradoni rocciosi per tre miglia, fino a raggiungere la chiesa di S. Michele in una cavità naturale “nella quale Dio ha operato molti miracoli per il tramite di S. Michele Arcangelo”.

 

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Lasciata poi la montagna garganica, il pellegrino inglese riprese il suo viaggio verso la Terrasanta e, percorrendo la litoranea, dopo aver visitato il santuario di S. Nicola a Bari, raggiunse Brindisi.

 

I due santuari pugliesi, insieme ad altri dell’Italia meridionale, furono visitati da Brigida di Svezia (1303-1373), l’instancabile santa, più volte pellegrina in Oriente, che porta sul suo cappello, insieme ai simboli dei santuari di Compostella (conchiglia) e Colonia (chiesa con guglie), anche le tre sfere, attributo iconografico di S. Nicola.

 

Come sul Gargano, anche a Bari i pellegrini potevano contare su strutture di assistenza sin dalla fine dell’XI secolo, quando fu fondato l’Ospitalium Sancti Nicolai de civitate Bari.

 

I due santuari furono tappa o meta di numerosi pellegrinaggi durante il basso medioevo e figurano in diversi racconti di pellegrini e rogiti notarili.

 

Accanto a questi due santuari, negli ultimi decenni, è venuto assumendo sempre maggiore importanza quello di Santa Maria delle Grazie (San Giovanni Rotondo), perché legato alla vita e alla santità di Padre Pio: sono tre dei circa centottanta santuari sorti in Puglia tra V e XX secolo, dei quali circa centoquaranta dedicati a Maria e quaranta a martiri e santi locali o di provenienza esterna, quasi tutti ancora attivi, anche se talvolta con intitolazioni diverse da quelle originarie.

 

Tra questi due estremi (V-XX secolo), si è dipanata una storia religiosa ricca e complessa che, alimentata anche dalla vicinanza con l’Oriente e col mondo bizantino, ha lasciato notevoli testimonianze letterarie, archeologiche, agiografiche, storico-artistiche, demologiche e documentarie: una storia che ha interessato non solo alcune forme organizzative e cultuali, tipiche del cristianesimo, quali il pellegrinaggio e il monachesimo, ma anche aspetti importanti della vita sociale e quotidiana, dall’economia alla rete viaria, dal commercio alle forme insediative, dai rapporti intercomunitari a quelli tra santuari e dinastie regnanti.

 

Si pensi all’influenza esercitata da Bizantini, Longobardi, Normanni, Svevi e Angioini nella nascita e/o nella diffusione di alcuni culti, tra i quali, in prima istanza, quelli micaelico e nicolaiano. Pur stante la universalità del culto dell’Angelo, di S. Nicola e di Padre Pio, tra i santuari pugliesi loro dedicati si può cogliere una differenza quanto meno in rapporto alla proiezione della Puglia: col santuario garganico la Regione ha guardato soprattutto all’Europa centrosettentrionale e alle popolazioni di matrice germanica; con quello nicolaiano al mondo bizantino, alla Russia e ai Paesi dell’Est europeo; col santuario e con l’esperienza mistica di Padre Pio, il coinvolgimento è stato più generale e a livello popolare, come evidenziano le migliaia di ‘gruppi di preghiera’ sorti in modo spontaneo in tutto il mondo.

 

La rete dei santuari pugliesi comprende anche altre significative realtà, legate al culto mariano (Santa Maria de finibus terrae a Leuca; Santa Maria dei Martiri a Otranto e Molfetta, Santa Maria dello Sterpeto a Barletta, la Madonna del Pozzo a Capurso, ecc.), al ricordo di santi locali (S. Giuseppe da Copertino, S. Francesco Antonio Fasani a Lucera, S. Francesco De Geronimo a Grottaglie) o ai tanti santi il cui culto è stato importato soprattutto dall’Oriente e dal mondo bizantino, in prima istanza S. Matteo (San Marco in Lamis) e i santi Medici Cosma e Damiano (Alberobello, Bitonto, Ostuni).

 

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La fitta rete di santuari pugliesi ha prodotto, nel corso dei secoli, un ricco patrimonio di fede, arte e cultura, grazie anche al fenomeno del pellegrinaggio, il quale, al di là delle motivazioni religiose di base, è sempre stato un’occasione di incontro tra popoli e culture diverse: con i pellegrini viaggiano idee, concezioni, usi, costumi, atteggiamenti mentali diversi, che contribuiscono a creare contatti e rapporti nuovi in ogni settore della vita associata. “La coscienza dell’Europa – sosteneva Goethe – è nata peregrinando tra i poli latini, germanici, celti, anglosassoni e slavi”.

 

Grazie ai santuari di S. Michele a Monte Sant’Angelo e di S. Nicola a Bari, la Puglia medievale ha conosciuto un intenso flusso di pellegrini, che spesso proseguivano il loro viaggio verso la Terrasanta, percorrendo la via Appia, la via Traiana e le loro ramificazioni, lungo le quali erano disseminati santuari, monasteri, chiese, cappelle, grotte, oratori, ospizi e ospedali per i pellegrini: tutti luoghi carichi di storia, talvolta anche ‘minuta’, che spesso rivive in un diario di viaggio, in un rudere, in un’epigrafe, in un frammento di tradizione orale. Tra le tante strade, i sentieri e i tratturi che facevano corona all’Appia e alla Traiana, assunse particolare importanza la cosiddetta via Sacra Langobardorum, denominazione che non ha riscontro in epoca medievale, ma viene abitualmente usata da molti studiosi moderni per indicare la via che penetrava nel Gargano da sudovest e che era percorsa principalmente dai Longobardi di Benevento per raggiungere il santuario: per questo fu definita sacra. Essa partiva dall’antica Ergitium nelle vicinanze di San Severo, attraversava la valle di Stignano, raggiungendo l’attuale convento di S. Matteo a San Marco in Lamis, per poi proseguire verso San Giovanni Rotondo, da dove, attraverso la valle di Carbonara, convogliava i pellegrini, che confluivano dai tanti diverticula laterali, verso la grotta-santuario. Con tale percorso, si riallacciava sia alla via Traiana, e quindi a Benevento, che alla litoranea. Oltre a tale percorso, ce n’erano tanti altri, costituiti da sentieri, tratturi, e viottoli, che, dalle rive dell’Adriatico, s’inerpicavano lungo i fianchi della montagna sia dall’attuale centro di Mattinata che da Manfredonia, erede dell’antica Siponto. Da qui, a partire dal XIII secolo, sono attestati diversi percorsi, che, lungo i valloni, conducevano alla sacra grotta: Scannamugliera, Stampurlante, Jumitite, Malipassi, Valle Portella.

 

Allo stato attuale, come è successo in alcune regioni della Spagna, della Francia e dell’Italia centrosettentrionale, si pone anche per la Puglia l’esigenza di ricostruire la fitta rete degli itinerari e dei cammini che collegavano i santuari pugliesi tra di loro e con le grandi vie di comunicazione di epoca romana e medievale, da quelle consolari alle vie Francigena, Francesca, Francisca, denominazioni che designano talvolta lo stesso percorso, talaltra percorsi diversi dell’Italia meridionale, anche se si tende a far terminare la via Francigena a Roma e a definire Francigena del sud solo la via Appia-Traiana. Credo che per nessuna altra realtà stradale, come per la Francigena, siano valide le osservazione di Giuseppe Sergi, che, riprendendo alcuni spunti di Marc Bloch, ha convincentemente dimostrato che nessuna grande strada medievale può concepirsi come un percorso unico e definito, ma piuttosto in senso dinamico come un “asse viario” che si arricchisce di volta in volta di sentieri, tratturi, vie secondarie, raccordi, percorsi alternativi o paralleli: in definitiva come “area di strada” o “fascio di strade”, che possono avere un percorso prevalente e convogliano verso un determinato luogo.

 

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Così intesa, per l’Italia meridionale, la via Francigena finisce col coincidere con quella complessa rete viaria, che, fondendo le tradizioni dei due Santi, si potrebbe anche chiamare il Cammino dell’Angelo e di San Nicola, nel nome dei quali, durante il Medioevo, si è venuta creando una sorta di koiné culturale e religiosa tra Europa centrosettentrionale, Italia, Mediterraneo bizantino e Terrasanta. I loro culti, infatti, anche in conseguenza delle esperienze maturate sul Gargano e a Bari, sono entrati nella memoria collettiva delle popolazioni europee, da quelle di matrice germanica a quelle più direttamente legate al mondo bizantino e all’Occidente latino: da tale angolazione, il ricco patrimonio di arte, fede, cultura e storia indotto dai due culti conferisce al Cammino dell’Angelo e di San Nicola una valenza altamente simbolica e significativa nel processo di costruzione dell’Europa.

 

Giorgio Otranto

Dipartimento di Studi classici e cristiani

Università degli Studi di Bari.

 

 

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