Medioevo italiano. Rassegna storica online

 

La contea di Cajazzo in età normanna

 

Michele Russo

 

Rassegna Storica online, 1, 2000

© Proprietà intellettuale dell’autore. Pubblicato il 31.05.2000. “L’uso del testo per saggi, articoli, tesi di laurea è vincolato dalla citazione completa:

M. Russo, La contea di Cajazzo in età normanna < http://www.medioevoitaliano.org/russo.cajazzo.pdf >

 

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- Popolazione e territorio all’arrivo dei normanni  2
- Rainolfo comes (1066-1087) 
5
- Roberto “Caiatiensis comes” (1087-1111) 
12
- Le vicende del monastero di Santa Croce in età normanna 
13
- Ospiti illustri in età normanna  15
- La translatio di San Menna 
18
- Rainolfo “caiatianorum atque aliorum multorum comes” (1108-1139) 
20
- Episodi locali nella guerra tra Rainolfo e Ruggero 
23
- Il territorio caiatino dipendente dalla contea di Caserta 
27
- I vescovi cajazzani dell’età normanna 
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    - Bibliographia 
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Cajazzo è una cittadina con poco meno di 6.000 abitanti sita in provincia di Caserta, da cui dista 17 km, al centro della grande ansa del fiume Volturno nella parte mediana del suo corso. Il menzionato territorio è delimitato dal fiume a sud, est e nord mentre ad ovest è chiuso dalla catena pre-appenninica del Monte Maggiore così da sembrare una penisola distaccata sia dalla Campania che dal Sannio; l’aspetto orografico ha influenzato da epoche remote la storia dei centri ubicati all’interno del territorio e principalmente quella di Cajazzo che dall’età medievale ne è il capoluogo universalmente riconosciuto.

 

Questo territorio in età pre-romana fu colonizzato dai sanniti i quali, oltre a costruirvi numerosi recinti fortificati, che rappresentavano l’avamposto del Sannio, edificarono o svilupparono tre città che, malgrado le ridotte dimensioni, sono ben note alla storiografia antica: Caiatia [1], Trebula [2] e Kupelternum (o Compulteria). [3]

 

Non è oggetto del presente studio la descrizione delle vicende di tali città durante le guerre sannitiche e successivamente in età romana, si vuole porre l’attenzione sul fatto che, a invasioni barbariche avvenute, delle tre solo Caiatia rimase in piedi ed assurse a capoluogo del comprensorio attraverso l’ottenimento della sede vescovile, [4] da cui dipendeva l’intero territorio indicato, e attraverso l’elevazione prima a gastaldato e poi a contea del principato longobardo di Capua.

 

I dinasti longobardi della contea cajazzana appartennero sempre alla famiglia regnante capuana; pare si fregiassero di tale titolo i figli minori del principe, e ciò a partire dal nono e per tutto il decimo secolo. [5] Ovviamente la vicinanza della sede del principato e la posizione strategica del territorio -

 

 

1. Cfr. B. DI DARIO, Notizie storiche della città e diocesi di Cajazzo, s.l. [ma Lanciano], s.d. [ma 1941]

2. Cfr. M. FUSCO, Trebula Baliniense, Caserta, 1954.

3. Cfr. P. DE IORII, Dissertazione sul sito della distrutta città di Combulteria, Napoli, Dell’Aquila, 1834.

4. Si fa riferimento al testo riportato in D. MARROCCO, Documentazione storico-liturgica su S. Stefano di Caiazzo, in Annuario 1981 ASMV, Edizioni ASMV, Piedimonte Matese, 1982., pp. 102-104.

5. Cfr. B. DI DARIO, op. cit., pp. 83-98.

 

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e soprattutto del castello cajazzano, oltre che dei manieri di Pontelatone, Dragoni, Alvignano e Baia che dominavano i confini nord e ovest della contea - ne rendevano necessario il controllo diretto del principe di Capua attraverso esponenti diretti della sua famiglia.

 

Dovettero appartenere alla dinastia capuana anche gli ultimi conti longobardi di Cajazzo Landenulfo “qui dicebatur Francus” e Giovanni “qui clamabatur Citellus”. [6] Questi furono tra gli ultimi a capitolare alla conquista normanna [7] quando già da oltre un trentennio questi ultimi avevano costruito la città di Aversa e da un quinquiennio, ormai, dominavano su Capua. [8]

 

Nel 1066 la conquista di Cajazzo era già avvenuta. Il 28 giugno di quell’anno, infatti, Riccardo e il figlio Giordano, già associato dal padre al dominio, donavano a Montecassino il monastero di San Salvatore sul monte Cucuruzzo, nella contea di Teano, pervenuto al fisco a causa della ribellione dei conti longobardi di Cajazzo. [9]

 

 

 Popolazione e territorio all’arrivo dei normanni

 

Al loro insediamento nella contea, i normanni trovarono un territorio caratterizzato dalla presenza di numerosi villaggi fortificati di modeste dimensioni, ubicati su alture preferibilmente lontano dalle principali vie di comunicazioni e dalle antiche città romane di Caiatia, Trebola e Compulteria. [10] Queste due ultime non erano state ancora del tutto abbandonate ma avevano da tempo perso il loro splendore, e i pochi abitanti rimasti si erano spostati all’interno dell’arce le cui mura costituivano ormai l’unico baluardo difensivo. [11]

 

 

6. Ivi, p. 97.

7. G. TESCIONE, Roberto conte normanno di Alife, Caiazzo e S. Agata dei Goti, in "Archivio Storico di Terra di Lavoro”, vol. IV, anni 1965-1975, Caserta, 1975, p. 9.

8. G. TESCIONE, op. cit., p. 9.

9. E. GATTOLA, Historia Abbatiae Cassinensis, I, Venetiis, 1733, p. 312.

10. Cfr. M. RUSSO, Aspetti della civiltà contadina nel caiatino, I, Insediamenti umani ed economia rurale, Napoli, 1997, pp. 27-33.

11. Per un’analisi approfondita sull’ambiente naturale e paesaggio agrario nel mezzogiorno all’arrivo dei normanni cfr. S. TRAMONTANA, La monarchia normanna e sveva, Torino, 1986, pp. 15-25.

 

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Il modello insediativo, definitosi probabilmente in età longobarda [12] e rimasto sostanzialmente inalterato fino a tempi recenti, fu condizionato da due fattori fondamentali comuni all’intero meridione d’Italia: la necessità di sfuggire alle frequenti incursioni nemiche e, dato altrettanto rilevante ma non ancora indagato a fondo, la progressiva mutazione dell’ambiente.

 

I due fattori non sono scollegati tra loro, perché se è vero che con l’abbandono a se stesse delle opere colonizzatrici messe in campo nei secoli dai romani il territorio diventava selvatico, è altrettanto vero che la scarsa popolazione veniva sospinta sempre più dalla natura sui picchi delle colline che, oltretutto, offrivano robuste difese naturali e riducevano al minimo la necessità di quelle artificiali. [13] Così, analogamente a molti altri luoghi del Mezzogiorno, qui troviamo una forte presenza di paludi, determinata dalle inondazioni dei corsi d’acqua i cui argini non furono più oggetto di manutenzioni e rifacimenti, come pure troviamo la progressiva estensione dei boschi nei territori collinari in cui un tempo vegetavano colture arboree come la vite, l’olivo e i frutteti, e persino nelle feraci pianure della valle fluviale dove i contadini del periodo romano avevano piantato il frumento e le altre colture erbacee vanto della Terra di Lavoro. [14]

 

I documenti coevi, riferiti essenzialmente a permute, definizioni di liti o cessioni di terreni, evidenziano la forte presenza sul territorio della gente di origine longobarda che si era nel tempo integrata con la popolazione autoctona

 

 

12. Nella citata Bolla di santo Stefano vengono elencati i villaggi di “Balinianu” (Barignano), “Vivatu, ad Sorba, ad Pile e ad Palma” (inubicabili ma presumibilmente nel tenimento di Casa Marcella), “Malianu” (Maliano in Casa Marcella), “Ceparanu” (monte Ceperano in Piana di Monte Verna), “Palude” (probabilmente la paludes ai confini del territorio di Caiazzo), Marcianisu (chiesa di S. Maria a Marciano), “Persoli” (vicino Marciano), “Crispanisi” (a Piana vicino Mesorinola), “Peti” (Pietri in Casa Marcella vicino Pontelatone), “ad Sassa” (Castel di Sasso), Mairanu (vicino Formicola), “Treple” (Treglia), “Puzanu” (S. Maria di Bucciano), “Ceseranu” (Cesarano), “Vulanu” (inubicabile), “Liczanu” (Polizzano in territorio di Piana), “Campanianu” (Campagnano), “Rainanu” (Raiano oggi Ruviano), “Predi Caiaciae” (Caiazzo), “Campora longa” (Cameralunga di Caiazzo), “Alvinianu” (Alvignano), “Bage” (Baia), “Traguni” (Dragoni), “Cuultere” (Cubulteria), “Atina” (Latina), ed infine “Squille” e “Raianu” (fuori dalla sequenza applicata finora), “ad Baniolo” e “Poscari” (inubicabili). Cfr. M. RUSSO, Ruviano olim Raiano tra storia e tradizioni, Napoli, 1996, pp. 145-146.

 

13. S. TRAMONTANA, op. cit., pp. 15-16.

14. ivi, p. 17.

 

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dando origine a quel ceto medio, tra classe dirigente e servi della gleba, composto da uomini liberi, possessori di ridotti patrimoni fondiari.

 

A questi, per completare il quadro dello status della popolazione locale, bisogna aggiungere il clero, composto in maggior misura da elementi autoctoni rispetto agli esponenti della gente longobarda, il quale difende con forza, anche contro la classe dirigente, gli interessi materiali della chiesa cajazzana. Infatti vediamo come Stefano, destinato alla gloria degli altari, agli inizi dell’XI secolo riesce ad ottenere dall’arcivescovo capuano Pandolfo, alla presenza dei vescovi suffraganei, una dichiarazione di legittimità nel possesso di beni usurpati alla sua cattedra vescovile da Landone figlio del conte Sigonolfo e da Adenolfo [15], e qualche anno dopo, il presbitero Cennamo, custode della chiesa di Santa Maria, in rappresentanza dello stesso vescovo, definisce una lite con Sabatino su una pezza di terra sita in loco Cuboltere. [16]

 

Ritornando alla gente longobarda, un documento databile all’anno 1054, vicino all’epoca della conquista normanna di Cajazzo, dimostra come la città fosse comunque rimasta viva ed abitata proprio da esponenti di questa razza; si tratta di una permuta di due pezze di terra poste in città, nel luogo detto casa pubblica, da parte dei longobardi Maielpoto, giudice, figlio del fu Cennanamo e Pietro, detto Caputo, che in cambio ricevono dal venerabile abate Saducto quattro pezze di terra, due vacive e due vinee, poste nella città stessa “in loco prope ipso murtito”, sul piccolo monte sopra il quale stava edificata la chiesa di San Felice. [17]

 

L’ultimo documento locale antecedente alla conquista normanna, datato novembre 1060, ci informa, infine, sulla presenza in città di una famiglia, se non addirittura una colonia, di ebrei. In esso, infatti, compare Landone, già ebreo e poi cristiano, figlio del fu Samuele, ebreo, “abitator de cibitate bestusta Caiatie [pro]pe ecclesia episcopii Sancte Dei genitrix Marie”,

 

 

15. AA.VV., Le pergamene dell’archivio vescovile di Caiazzo (1007-1265), Caserta, 1983, pp. 25-27. La cosiddetta “charta reclamationis sancti Stefani” si fa risalire universalmente all’anno 1007.

16. Ivi, pp.27-34. La pergamena è stata datata all’anno 1012 in base agli anni del principato di Pandolfo. Di Compulteria, piccola ma conosciuta città, prima sannita e poi romana, a quest’epoca resta solo il nome corrotto.

17. Ivi, pp. 37-41.

 

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il quale offre alla chiesa medesima, retta dal vescovo Giaquinto, alcune terre e case. [18]

 

I conquistatori, quindi, si trovarono di fronte ad una situazione difficile da gestire, sia per quanto riguarda l’ubicazione dei nuclei abitati che per la composizione etnica degli abitanti. Un ulteriore riflessione va fatta sul numero dei conquistatori. I longobardi erano arrivati a suo tempo numerosi; avevano portato con loro le famiglie, ed in più il loro lungo dominio e la tendenza ad integrarsi, come detto, avevano fatto sì che essi si radicassero e ramificassero sul territorio. I normanni, invece, erano giunti nel meridione a piccoli gruppi e da poco tempo; la loro forza fisica e l’attitudine al combattimento se erano vincenti per sconfiggere un esercito non bastavano per gestire in modo accentrato territori così disaggregati dal punto di vista degli insediamenti. Questo aspetto non va trascurato nella ricerca delle motivazioni allo sviluppo del feudalesimo che, come avremo modo di vedere, proprio a partire dal periodo normanno si configura come scala gerarchica complessa.

 

 

 Rainolfo comes (1066 - 1087)

 

Riccardo, infatti, non appena entrato in possesso delle contee già longobarde che dominavano la valle del Volturno e la valle Caudina, le concede in feudo al fratello Rainolfo, che dovette contribuire alla loro sottomissione; questi, dopo il giugno 1066, è già in possesso di Alife, Telese ed Airola. [19] Alcuni storici dell’età normanna, tra i quali figurano il Kehr, la Jamison e la Mathieu, [20] ma anche autori locali come Iadone [21] e il

 

 

18. Ivi, pp. 41-44.            19. G. TESCIONE, op. cit., p. 9.            20. Ivi, p. 10 e note 3-5.

21. P. IADONE, Storia di Cajazzo, op. ms. conservata presso la biblioteca comunale di Cajazzo, parte II, cap. VI, attribuisce l’affidamento della contea di Cajazzo a Rainolfo nell’anno 1070 richiamandosi agli Annales di Lupo Protospatarii: “dopo gli accennati Pandulfo il Franco, e Giovanni Citello fu da Riccardo creato Conte di Cajazzo Rajnulfo il Normanno nel 1070, quale Lupo Protospata nel suo Cronico, come appresso, lo chiama Rodolfo Pipino”; è opportuno notare che l’avvenimento narrato dal Protospatarii, riferito in particolare all’assedio di Benevento da parte del Guiscardo, viene datato al 1078.

 

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Di Dario, [22] attribuiscono a Rainolfo anche la contea di Cajazzo; il Tescione fa però opportunamente notare che in nessuna documentazione e in nessuna fonte viene menzionata questa investitura, mentre il titolo risulta poi attribuito al figlio Roberto. [23]

 

Al momento, sulla questione dell’investitura, è possibile solo evidenziare come Riccardo di Capua nel 1060 fosse già in possesso di territori montani inglobati nella diocesi e probabilmente nella contea cajazzana - rileviamo dal Pendolino come egli in quell’anno “do et concedo decimam porcionis mee quam teneo super Volturnum, in castello Sclavium[24] - e come ancora nel 1073 è lui stesso a concedere il castello di Latina (con tutti i suoi beni, i vassalli e i villani), posto nella medesima diocesi, alla chiesa di San Paolo di Aversa. [25]

 

Numerosi autori locali, antichi e contemporanei, attribuiscono a Rainolfo la partecipazione alla prima crociata, a seguito di Boemondo di Taranto e del nipote Tancredi. [26] Tra questi il più dettagliato nel fornire notizie circa tale evento fu Ambrogio Castellaneta che, nel 1639, trattò delle famiglie illustri della città di Cajazzo, ampliando con tale supplemento i “Discorsi o ragguagli dell’antiquissima città di Cajazzo

 

 

22. B. DI DARIO, op. cit., p. 99, non cita la fonte ma, come in altre occasioni si è notato, pare dipendere fedelmente da Iadone.

23. G. TESCIONE, op. cit., p. 10.

24. G. PENDOLINO, Il feudo Coluni e la badia benedettina di Villa S. Croce, s.l., s.d., p. 10. Egli indica come fonte i R.N.A.M., vol. V, CCCCII, p. 23.

25. Ibidem. L’autore indica come fonte una platea dell’archivio vescovile di Aversa fatta nel 1699 dal magnifico Aniello de Conciliis per incarico del vescovo Innico Caracciolo, in cui al foglio 2 è contenuto il regesto del diploma.

 

26. P. IADONE, ms. cit., nel riportare l’evento, fa riferimento a N. DE SIMONE, Super Statutis Municipalibus civitatis Calatiae observationes, Napoli, 1741, p. 31 (il quale cita come fonte la Cronica Cassinese) e a O. MELCHIORI, Descrittione dell’antichissima città di Caiazzo, Napoli, 1619 (ma probabilmente si riferisce ad una seconda stesura del testo effettuata dal Melchiori, mai pubblicata, ed andata perduta, molto più copiosa di quella edita, in quanto in questa non si fa accenno all’avvenimento). B. DI DARIO, riporta l’evento provandolo con il rimando a Melchiori, senza precisare altro (ma anche qui si teme che questi abbia riportato fedelmente Iadone) e anche C. SALVATI, nell’introduzione alle pergamene caiatine (AA.VV., Le pergamene, op. cit., p. 8) fa asserire al Melchiori l’evento (anch’egli senza fornire indicazioni bibliografiche); particolare da evidenziare è che il manoscritto del Melchiori è andato disperso da tempo.

 

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scritti da Angelo Tonsi. [27] Il Castellaneta, nel trattare l’argomento, fa esplicito riferimento ad una più antica Cronica manoscritta di Filippo de Sisto Alifano da cui aveva attinto tutte le notizie riportate. [28]

 

Il Tescione è il primo ad accorgersi che ove fosse corretta l’individuazione dell’anno della morte di Rainolfo, fissata con qualche interrogativo al 1087, [29] questi non aveva potuto partecipare alla crociata che, come è noto, vide i cristiani riunirsi a Costantinopoli, pronti per agire, tra il natale 1096 e la pasqua del 1097 e si concluse con la presa di Gerusalemme, avvenuta il 15 luglio del 1099. Egli, sulla scorta degli studi della Hill e della Chibnall, nonché della Cronica di Lenone Marsicano e Pietro Diacono, attribuisce a Riccardo, figlio di Rainolfo, la partecipazione alla prima crociata. [30] Dello stesso avviso è il Gambella [31] che riporta fedelmente dalla Chronica Monasterii Casinensis la partecipazione alla crociata di “Richardus filius comitis Rainulfi". Probabilmente si interrogò sull’argomento anche Iadone che per conciliare le cose fissò la morte di Rainolfo all’anno 1097. [32] È probabile che il De Sisto, oppure il Castellaneta che a lui si riferisce, avesse preso un abbaglio sul nome del partecipante alla crociata; resta fermo, comunque, che se vi andò un appartenente alla dinastia normanna capuana, portò con sé di sicuro degli uomini e quindi la partecipazione dei cajazzani trova ulteriore conferma.

 

 

27. i due documenti furono pubblicati da A. M. CAIAZZANO sotto il titolo di “Discorsi o ragguagli dell ’antiquissima città di Caiazzo del Signor Angelo Tonsi di Fano Competista del Signor Matteo di Capoa, Principe di Conca, et anco del Sig. Ambrogio Castellaneta, Decano del Vescovato di Santa Agata delli Goti”, Napoli, 1649.

28. A. M. CAIAZZANO, op. cit., p. 6. Sul Xistinum Chronicum cfr. A. GAMBELLA, La documentazione esistente sulla Historia Allifana di Alessandro di Telese, in “annuario ASMV 1998”, Piedimonte matese, 1999, p. 112 e nota 25.

29. G. TESCIONE, op. cit., p. 14.

30. G. TESCIONE, op. cit., p. 34.

31. A GAMBELLA, Le origini latine della famiglia bizantina Petralifa, in < http://www.medioevoitaliano.org/gambella.petralifa.pdf > Rassegna Storica online (1, 2000) p. 3, nota 12.

32. P. IADONE, ms. cit., “Rainulfo morì in Aversa, come s’osserva nell’Ostiense (lib. 2 cap. 29), e lasciò il suo figliuolo Padrone di molte Signorie. Era questo Roberto, come si è detto figlio di Rainulfo e nipote di Riccardo Primo Conte di Aversa, e poi Principe di Capua, e perciò cugino di Giordano I° anche Principe di detta Città. Dovè ottenere il contado nel 1097”.

 

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Volendo solo rendere noto il racconto del Castellaneta, [33] ne viene qui riportata integralmente la parte di interesse:

 

Per dar principio alla descrittione delle Famiglie nobili della Città di Caiazzo. Io incominciarò à narrare quelle cose, che lasciò scritto Felippo de Sisto Alifano nella sua Cronica manuscritta, il quale narra, che nell’anno 1095. alcuni valorosi di Caiazzo, della fameglia Egittia, de Melchiori, alias detto dello Piezzo, Planano, Prischo, Gentili, Sparani, & Alberti passarono sotto Rainulfo Normando Conte di Caiazzo alla Guerra di Terra Santa, ove andarono molti Prencipi Christiani, nel qual tempo alcuni delli detti soldati riportarono poi alla Patria superbe insegne tolte alli nimici occisi, come tra gl’altri vi furono gl’Egittij, una testa d’un famoso Egittio, dal qule presero poi il cognome, & i Melchiorij detti all’hora Virginij, se recarono l’insegna d’un Leone, ch’aveva un fave di mele in bocca, che perciò furono detti poi Melchiori, & così tutti l’altri se ne riportarono à Casa l’armi dell’inimico ucciso, quali presero per impresa, portandolo sopra il Cimiero, usando anco di fare le Croci per arme conforme havevano portate in quella guerra Santa.

 

La partecipazione dei cajazzani alla crociata è ricordata anche nello stemma della città in cui è raffigurata una croce rossa in campo azzurro con ai lati della croce quattro gigli d’oro. Il Di Dario riporta dal Melchiori che il conte Rainolfo [Riccardo] tornato dalla Terrasanta, donò “per arme alla città il segno della trionfante Croce rossa conforme lui haveva portato a quell’impresa”. [34]

 

Dai documenti noti si apprende che nelle sue contee Rainolfo aveva dei suffeudatari; si conoscono i nomi di Arnaldo de Buscione che aveva beni nella contea di Teano [35] e Balduino che ne aveva nella contea di Telese. [36]

 

 

33. A. M. CAIAZZANO, op. cit., pp. 6-7.

34. B DI DARIO, op. cit., pp. 132-133.

35. G. TESCIONE, op. cit., p. 13 e nota 17, scrive che “nell’ottobre 1098 il normanno Arnaldo de Buscione, nel donare una terra alla chiesa di S. Giovanni in Teano, dichiara di avere, per dono del conte Rainulfo “et concessione domini mei comitis Robberti", molte cose "silicei castella cum pertinentiis suis, et alias res” citando E. GATTOLA, op. cit., p. 44.

 

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Questo particolare, se non interessa direttamente la contea di Cajazzo, evidenzia come in quegli anni, nel principato capuano, il feudalesimo si fosse ramificato in tre gradini: da Riccardo di Capua dipendeva Rainolfo e da quest’ultimo i suffeudatari Arnaldo e Balduino. L’affermazione, che può sembrare banale, aiuta a comprendere come da subito i normanni avessero intuito la necessità di moltiplicare i centri di potere per governare un territorio probabilmente ostile da tutti i punti di vista. La loro politica, comunque fu anche basata sulla sudditanza dei membri dell’aristocrazia locale; attraverso piccole concessioni essi legarono loro quelle famiglie che, comunque, ancora fungevano da riferimento per la popolazione. Questa asserzione trova conferma in un altro passo del racconto del Castellaneta: [37]

 

l’imperatore Federico 2. havendo scacciato l’essercito del Papa dalla Città di Caiazzo, diedi il castigo ad alcune fameglie illustre della detta Città, quale havevano tenute le parti del Papa, & della Chiesa, & queste fameglie furono tra l’altre, i Liprandi, i Raimi, i Melchiori detti Verginij, & anco detti dello Piezzo, i Prischi, i Plancani, gli Egittij, i Paldi, gl’Adoalti, & altri onde quelli Gentilhuomini di dette fameglie, quali si poterono salvare, se ne fuggirono à Roma, & altre Città d’Italia, quale dopo la morte del detto Imperatore; ritornarono alla patria sotto Carlo primo, che venne all’acquisto del Regno, il quale restituì loro alcuni feudi, quali fino al tempo de Normandi havevano posseduti i loro maggiori, come tra gl’altri à i Plancani restituì il Casale de Plancani, à i Melchiori il villaggio di San Giovanni delli Pezzi nella Baronia di Formicula, à gl’Egittij il Feudo di Paterno, à i Prischi quello di Carpanito, à gl’altri, altri luoghi”.

 

 

36. Ivi, nota 19. Si tratta di una concessione data a Balduino di di dotare di beni e di coloni la chiesa di S. Dionisio in Ponte di S. Anastasia nel comitato Telesino.

37. A. M. CAIAZZANO, op. cit., p. 7.

 

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Assistiamo, quindi, alla concessione in feudo di piccoli casali e siamo portati a ipotizzare, ancorché le fonti tacciono, ad un’ulteriore gradino nella scala feudale, sottostante a quello in cui si dovettero posizionare anche a nella contea di Cajazzo i diretti dipendenti del conte. D’altra parte questo modo di agire dei normanni trova riscontro in tutto il Mezzogiorno d’Italia; quella aristocrazia fondiaria e quella borghesia cittadina che si erano andate costituendo nei secoli addietro e che nell’Italia centrosettentrionale promuoveranno la nascita e lo sviluppo delle autonomie comunali, qui viene di fatto soffocata. I fattori vincenti messi in campo in altri luoghi, quali le attività manifatturiere e il commercio, vengono relegati a persone di rango non nobiliare, mentre l’aristocrazia propende verso un modello di vita di tipo diverso volto alla conservazione e all’affermazione delle loro “libertates” attraverso il facile conseguimento delle maggiori funzioni gerarchiche sia amministrative che, come si rileva dai documenti locali citati, ecclesiastiche. [38]

 

Le uniche due testimonianze note relative a personaggi normanni, appartenenti comunque alla famiglia comitale, che dovettero avere ruoli preminenti in Cajazzo sono quelle relative a un Riccardo, definito “comes calaciense civitatis” e a un “comitis” Pietro. [39] Il primo è citato in un documento del 1070 in cui il normanno Giliberto, donando il monastero di San Giovanni di Teano a quello di Santa Maria in Cingla, riferisce di averlo avuto insieme ad altri beni come dote della moglie Aduisa dallo zio Riccardo. [40] Pietro, invece, si trova nominato in un’iscrizione conservata nel Museo Campano posta sulla vasca battesimale del monastero di Santa Maria delle monache di Capua; in essa si legge che la vasca fu fatta costruire nel 1097 dall’abbadessa Gemma che si appella “Caiatie comitis Petri soboles”. [41] Il Tescione, in mancanza di indicazioni precise non da per certa l’attribuzione di questi due personaggi nella serie dei conti di Cajazzo pur propendendo per quest’ipotesi. [42] Non avendo elementi aggiuntivi, lasciando in piedi l’interrogativo,

 

 

38. In materia cfr. G. GALASSO, Mezzogiorno medievale e moderno, Torino, 1965, (reprints Einaudi 1975), pp. 132-135.

39. G. TESCIONE, op. cit., pp. 10-11.

40. E. GATTOLA, op. cit., p. 42.

41. G. TESCIONE, op. cit., p. 11.

42. Ibidem.

 

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ci limitiamo qui a evidenziare come i normanni cercassero di mantenersi “puri” rispetto all’integrazione raziale (è quello di Giliberto solo uno dei casi in cui si assiste a matrimoni di gente della stessa schiatta) e come essi cercassero di occupare, comunque, come nel caso di Gemma, i posti di rilievo nell’ambito delle citate funzioni gerarchiche amministrative ed ecclesiastiche. [43]

 

Di Rainolfo, non potendo dare ulteriori notizie a carattere locale, riferiamo la considerazione che ebbe in ambiente ecclesiastico, alla stessa stregua del fratello Riccardo e del nipote Giordano, principi di Capua, soprattutto da parte di Desiderio, abate di Montecassino e successivamente papa con nome di Vittore III. Tutti e tre i nominati normanni parteciparono il 1° ottobre 1071 alla consacrazione della nuova abbazia di Montecassino opera di Desiderio. Qualche anno dopo, nel 1078, Giordano e Rainolfo si recarono a Roma dove ottennero da Gregorio VII il proscioglimento dall’interdetto che il papa aveva comminato nel sinodo di quell’anno al Guiscaldo e a tutti i suoi sostenitori. Viene così avviato un rapporto privilegiato tra i normanni di Capua e la Santa Sede destinato a durare a lungo; da questo momento i dinasti capuani, che in precedenti battaglie si erano schierati al fianco dei connazionali pugliesi, [44] destinati in seguito alla corona meridionale, assecondano la politica papale di freno al crescente potere della schiatta del Guiscardo. Così, immediatamente dopo l’incontro con il papa, essi fomentano la rivolta in Puglia, Calabria e Campania e solo l’intervento mediatore di Desiderio verso papa Gregorio VII, volta a favorire una nuova politica del papato nei riguardi dei normanni, consente nel 1079 la firma della pace tra i contendenti a Sarno. Il medesimo Desiderio, nel 1085, in occasione della sua elezione al soglio pontificio, chiama Giordano e Rainolfo in aiuto e al servizio della Chiesa romana. [45]

 

 

43. L’argomento è stato affrontato in maniera puntuale, relativamente all’intero Mezzogiorno, da G. GALASSO, op. cit., p. 132.

44. Si evidenziano per tutti gli aiuti forniti dai capuani al Guiscardo durante l’assedio di Salerno. Cfr. G. TESCIONE, op. cit., p. 12

45. Ivi, p. 13.

 

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 Roberto “Caiatiensis comes” (1087 - 1111)

 

Non sono noti documenti o fonti che vedono attore Rainolfo successivi al 1085. Ciò ha portato il Tescione a supporre una sua morte nel 1087 e, quindi, il subentro nei suoi possessi da parte del primogenito Roberto, [46] determinando la datazione in relazione agli anni di comitato di quest’ultimo indicati nei suoi documenti opportunamente corretti in base alle indizioni. [47] Il Gambella fa opportunamente notare che in un documento dell’agosto 1089 il barone Balduino ricorda Rainolfo “bone memorie” e che quindi a quella data era già morto. [48]

 

Va fatto notare che i documenti noti relativi a Roberto, a partire da quello aversano del 1092, che lo vede testimone di una donazione effettuata dal cugino Riccardo - subentrato due anni prima nel governo al padre Giordano (morto il 20 novembre 1090) - fino ad una donazione del 20 ottobre 1097 (datata da Tescione al 1096) effettuata da questi alla chiesa di San Paolo di Aversa, non evidenziamo il fregiarsi da parte sua dell’appellativo di conte dei beni aviti; nel 1092 si intitola “magister et consobrinus”, nel 1093 “comitis magistri” e nel 1095 “Rainulfi comitis filio”. Solo nel citato documento del 1097 (1096) troviamo l’intitolazione “Sancte Agathensis plurimarumque civitatum comes” (probabilmente proprio questo atto spinse Iadone a indicare la morte di Rainolfo e la successione di Roberto in quell’anno).

 

Per ritornare agli avvenimenti strettamente locali, rimandando all’opera del Tescione per quanto riguarda l’inquadramento di Roberto nel suo tempo e la sua attività nell’intero principato capuano, rileviamo come, finalmente, in un documento di giugno 1101 (corretto da Tescione in 1102) egli si appella “Caiatiensis ac plurimis et diversis civitatibus excellentissimus comes” e lo fa non in un atto redatto in Cajazzo ma in Telese. [49]

 

 

46. Ivi, p. 13-14.

47. Ivi, p. 41.

48. A. GAMBELLA, Potere e popolo nello stato normanno di Alife, s.l., 2000, p. 48.

49. Viene evidenziato questo particolare in quanto, normalmente, i conti normanni feudatari di più contee si fregiavano del titolo dell’una o dell’altra, aggiungendo la dizione “multorum aliorum Comes” a seconda del luogo in cui si trovavano o di quello di appartenenza del beneficiario dello stesso.

 

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In base al fatto che questi preferisse fregiarsi di tale titolo e anche dei numerosi soggiorni in tale città, di cui appresso faremo menzione, siamo portati a credere che Roberto avesse scelto la città di Cajazzo come sua sede privilegiata. Stando in essa, infatti, egli trattò della donazione e vendita di Pontecorvo all’abate di Montecassino Oderisio. Aveva ricevuto questo feudo da Riccardo II che lo aveva tolto a Marotta, sorella di Roberto e vedova di Gualgano, figlio del duca di Gaeta, la quale si era macchiata del delitto di fellonia contro il medesimo principe Riccardo. L’accordo con l’abate cassinese fu raggiunto il 13 gennaio 1105 a Cajazzo con l’intervento di Giovanni abate del monastero di San Gabriele di Airola e di altri baroni. [50]

 

Il Tescione rileva che Roberto l’anno seguente acconsentì alla conferma da parte del vescovo cajazzano Pietro del monastero di Santa Croce in Cajazzo a quello di San Lorenzo in Aversa. [51] Questa ratifica è l’atto definitivo che pone fine a una disputa sorta tra il vescovado di Cajazzo e l’abate aversano per il possesso del citato monastero. Trattandosi di cronaca coeva che interessa il territorio studiato ne diamo brevemente notizia.

 

 

 Le vicende del monastero di Santa Croce in età normanna

 

Il cenobio benedettino, sito sul monte Santa Croce, a poca distanza dalla città di Cajazzo, fu edificato in età longobarda ed era già fiorente nel 982, anno in cui il conte Landolfo donava ad esso la chiesa di San Marco in Cesarano. [52] Ad un secolo dall’edificazione, esattamente nell’anno 1097, Riccardo II di Capua donò il monastero in perpetuo a Guarino, abate di San Lorenzo in Aversa suscitando le ire del locale vescovo Costantino che di contro se ne impossessò con violenza [53] (in effetti i documenti che andremo ad illustrare dimostrano come tale monastero

 

 

50. G. TESCIONE, op. cit., p. 17.

51. Ibidem. L’autore indica come fonte i R.N.A.M., V, pp. 306-7.

52. G. DE FRANCESCO, L ’antichissima badia benedettina di Santa Croce di Caiazzo, Santa Maria Capua Vetere, 1931, p. 5.

53. Ivi, p. 9. L’autore cita come fonte della donazione i R.N.A.M., V, p. 236.

 

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fosse nel tempo in qualche modo ricaduto sotto la giurisdizione del potere ecclesiastico cajazzano).

 

Guarino ricorse alla Santa Sede che, riconoscendo i dettati del decreto 5 luglio 595 (con cui papa Gregorio I stabiliva l’indipendenza dei monasteri dalla chiesa vescovile) obbligò il vescovo di Cajazzo a restituire immediatamente all’abate aversano il monastero. [54] L’atto di rinunzia, del 25 settembre 1100, merita menzione in quanto il vescovo Costantino fu costretto alla rinunzia alla presenza del papa, di vari cardinali e degli arcivescovi di Salerno e Benevento, oltre ad altri appartenenti alla curia pontificia. [55]

 

Qualche anno dopo, a seguito della morte di Costantino avvenuta nel 1105, l’abate aversano, preoccupato di sgradevoli sorprese da parte del nuovo vescovo Pietro, pretese da questi la conferma di quanto solennemente aveva giurato il predecessore davanti al papa. Pietro acconsentì e fu quindi stilato il già citato atto di conferma del 1106 col quale il vescovo si riservò un piccolo territorio posto nei confini del territorio di Cajazzo, nel luogo detto Camula con gli stessi diritti con cui appartenne al monastero di Santa Croce. In più impose all’abate aversano ed ai suoi successori di versare ogni anno nelle mani del vescovo pro tempore nel giorno dell’Assunta, un’oncia di oro puro “per un atto di giustizia, poiché il predetto monastero di Santa Croce appartenne (un tempo) alla nostra mensa vescovile”. [56]

 

Nell’anno 1109, Roberto, indicato dal De Francesco conte di Cajazzo e principe di Capua, nel riconoscere la donazione succitata, donava al monastero di Santa Croce il villaggio di Marciano Freddo con i suoi uomini e tutte le sue pertinenze e ciò per la eterna salvezza delle anime del principe Riccardo, di Giordano e del figlio Riccardo, indicati dal De Francesco come padre e fratello di Roberto. [57] Siamo portati a credere, anche in assenza di citazione da parte del Tescione di questo documento tra quelli del nostro, che il donante fosse Roberto principe di Capua e non il conte di Cajazzo.

 

 

54. Ivi, p. 10.            55. ibidem.            56. Ivi, p. 11.            57. Ivi, p. 12.

 

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 Ospiti illustri in età normanna

 

Nel periodo comitale di Roberto le cronache registrano il soggiorno in loco di due importanti personaggi dell’ambiente ecclesiastico. Seguendo la cronologia, il primo a soffermarsi nel territorio della contea e nella città stessa fu papa Urbano II, che recandosi a Cajazzo nel 1093 si sarebbe fermato più giorni con tutto il suo seguito presso la chiesa di Santa Maria a Marciano dipendenza dell’abbazia benedettina di Santa Croce. [58] Stando in Cajazzo, egli, il 3 ottobre di quell’anno spedì una bolla a Goffredo vescovo di Mileto. [59]

 

Qualche anno dopo, nel 1098, è rilevata nel territorio cajazzano, e precisamente a Villa Scalvia, la presenza di un’ospite ancor più illustre: Anselmo d’Aosta. [60] Nelle vicinanze del casale di Schiavi, l’abbazia benedettina di San Salvatore di Telese aveva dei possedimenti e una dipendenza. [61] Sappiamo che giunto in Italia, Anselmo si recò a far visita all’abate di San Salvatore, Giovanni, già monaco a Bec in Normandia. [62] Giunto nel monastero, a causa del caldo opprimente, egli fu accompagnato dall’abate a Sclavia dove, data l’altitudine, il clima era migliore. Qui il santo ritrovò la calma necessaria per completare la stesura del “Cur Deus Homo", uno scritto che da qualche anno lo impegnava notevolmente, e allietato dalla mitezza del luogo ebbe addirittura a dire “questa sarà la mia dimora per sempre, qui io abiterò”;

 

 

58. G. DE FRANCESCO, La chiesa di Santa Maria a Marciano in Piana di Caiazzo, sua importanza archeologica, storica ed artistica, in “Archivio Storico del Sannio Alitano” n. 3, settembre 1916, pp. 27-28.

59. G. FARAONE, Notizie storiche e biografiche della città e diocesi di Caiazzo, Napoli, 1899, p. 6. La notizia fu ripresa dal DE FRANCESCO, op. cit., pp. 27-28, che dichiara essergli stata riferita direttamente dal Faraone che l’aveva attinta da un antico manoscritto di Carlo Marocco, disperso.

60. Cfr. L. R. CIELO, L’abbaziale normanna di S. Salvatore de Telesia, Napoli, 1995, p. 12 e nota 62. A cui si rimanda per la relativa bibliografia.

61. Sull’abbazia telesina cfr. D. MARROCCO, L’abbazia di S. Salvatore di Telese; V. CANELLI, Badie e Grange benedettine nella Chiesa Telesina, Marigliano, 1979; E. BOVE, S. Salvatore Telesino: da Casale a Comune, Piedimonte Matese, 1990; L. R. CIELO, op. cit.

62. Ivi, pp. 9-10. Giovanni era stato inviato a San Salvatore proprio da Urbano II.

 

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sappiamo però che già alla fine di settembre del ’98 egli aveva ripreso il suo viaggio verso sud per partecipare al concilio di Bari. [63]

 

Durante il suo soggiorno in questo luogo Anselmo incontrò il duca di Puglia Ruggero che, trovandosi all’assedio di Capua e avendo saputo della presenza in loco dell’illustre personaggio si recò presso la grancia di Sclavia soggiornando più giorni in compagnia del santo. [64]

 

Altro importante ricordo del soggiorno di Anselmo a Sclavia è il pozzo fatto scavare dal santo, alle cui acque già al tempo del ritorno di Eadmero a Canterbury venivano attribuite virtù terapeutiche. [65]

 

In Sclavia, viene registrata nel 1191 la presenza dei Verginiani; [66] in un documento di quell’anno è citato “fra Servato, monaco e priore delle case di Montevergine in Capua e Schiavi”. [67] Già in un atto notarile del 1174, comunque, si rileva che il conte di Avellino Ruggero dell’Aquila, donava a Montevergine, tra gli altri, sette pezzi di terra nel casale detto “li Sklavi”, in tenimento di Capua. [68] Siamo, comunque, probabilmente nella fase primaria dell’insediamento che durante il periodo svevo acquisirà maggiore vigore. [69]

 

 

63. E. BOVE, op. cit., pp. 107-108.

64. G. PENDOLINO, op. cit., pp. 10-11. Che attinge da M. MONACO, Sanctuarium Capuanum, p. 362:

 

“His diebus Rogerius Dux Apuliae Civitatem Capuana obsidebat. Qui fama viri (Anselmi) permotus, mittens rogavit aum venire ad se: Ascendimus, ivimus et plures in obsidione dies exegimus, remoti in territorijs a frequentia, et tumultu perstrepentis exercitus. Erat autem ubi eramus, quaedam Ecclesiola penitus deserta. In qua (quaedam) Ecclesia velut in Camera, pro velle conversabamur quam operi in ea indulgentes ed Ducem ipsum cum suis nobiscum singulis diebus ut volebamus in promptu habentes”.

 

65. L. R. CIELO, op. cit., p. 12, nota 62.

 

66. Non è stato ancora definitivamente accertato se si tratta del nostro Schiavi o della Villa Sclavorum sita nella pianura di Capua tra Brezza e Cancello. Cfr. D. CAIAZZA, La grotta di S. Michele Arcangelo in monte Metanico. Riti preistorici e culto Michaelico nel nord di Terra di Lavoro, in “Archivio Storico del Caiatino”, Casagiove, 1994, p. 91.

 

67. Cfr. G. FUSCO, Il santuario di S. Maria del Castello e l’attività dei verginiani nel territorio di Formicola, in “Archivio storico di Terra di Lavoro”, VII, Caserta, 1981, p. 94. L’autore indica per fonte l’archivio di Montevergine Reg. 850.

68. Ivi, p. 95.

 

69. Nel 1195 si registra la donazione di una terra, sita nel luogo detto “a lu guardo”, a fra Matteo, monaco verginiano e priore della casa di Capua e di quelle che sono nel luogo degli Schiavi e nel 1214 fra Nicola, priore delle stesse case concede ad un privato, con espresso consenso dell’abate Donato di Montevergine, i diritti che aveva su un mulino sito in “aqua et saone Trifrisci” . Per questi documenti e per ulteriori notizie sulla casa verginiana di Schiavi in età sveva Cfr. G. FUSCO, op. cit., pp. 95-98.

 

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Un’ulteriore notizia che si rileva dall’archivio di Montevergine, relativa al territorio montano, è quella di una vendita effettuata nel 1154 in cui compare il casale di Sabignanum, sito nelle vicinanze di Sclavia. [70] Circa la presenza dei verginiani riportiamo per cronaca la notizia fornita da Di Dario, non documentata, relativa alla costruzione del piccolo eremo di Santa Maria del Castello nell’anno 1122. [71]

 

Discorrendo di Schiavi, si ritiene opportuno fornire qualche notizia relativa al periodo studiato sulla grotta di San Michele Arcangelo in Monte Melanico, poco discosta da quel luogo, in quanto si ritiene fosse tenuta in grande considerazione dai normanni, così come lo fu dai longobardi. Il culto Michaelico, come è noto, diffusosi nelle grotte meridionali a imitazione di quella del Gargano, attrasse notevolmente i primi pellegrini normanni che, stando alle cronache, di ritorno dalla Terrasanta, facevano tappa sul Gargano per venerare l’immagine del santo apparso in quella grotta. Nel territorio della contea Cajazzana già in epoca longobarda era molto rinomata la grotta di monte Melanico, detto poi monte Sant’Angelo tanto che, nell’anno 979, quando il metropolita capuano Gerberto investì Stefano della diocesi “at non dedimus vobis vestrisque successoribus Ecclesiam S. Angeli in Melanico, quam in nostra, nostrorumque successorum potestate reservamus”. L’arcivescovo si riservava la podestà sulla grotta la cui fama aveva varcato da tempo la diocesi e in cui pervenivano numerosi i pellegrini da tutto il territorio circostante. [72] Ed infatti l’anonimo cassinese riferisce di “aver inteso che sul monte Melanico si dice esservi virtù angelica, come in San Michele del Gargano,

 

 

70. Ivi, p. 96. La notizia è stata riportata al fine di non perderne l’indicazione; appare indispensabile un approfondimento, trattandosi di uno dei pochhi atti normanni che riguardano i territori nei confini della Contea.

71. B. DI DARIO, op. cit., p. 224.

72. Sulla grotta cfr.

·       D. CAIAZZA, La grotta di S. Michele Arcangelo, op. cit.;

·       D. CAIAZZA, Archeologia e storia antica del mandamento di Pietramelara e del Montemaggiore, I, preistoria ed età sannitica, 1986, pp. 20-24;

·       D MARROCCO, Le grotte sacre del Medio Volturno, in “Annuario ASMV 1993, pp. 215-218;

·       M. FABRIZIO, La grotta di S. Michele Arcangelo, descrizione, storia e tradizioni, in “Annuario ASMV 1983, pp. 122-138;

·       M. FABRIZIO, Dragoni: il territorio - la storia - le tradizioni, I, Piedimonte Matese, 1985, pp. 53-59;

·       G. PENDOLINO, Decio Coletti e Castel di Sasso, Napoli, 1989, p. 135;

·       G. PENDOLINO, Sclavia, etc. , op. cit., p. 22-23.

 

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che vi distilli acqua ed esservi scavata una grotta, ed in questa una basilica e che vi siano operati continui miracoli [73]. Il racconto del cassinese continua con la notizia che Ilario, vescovo di Teano, ad insinuazione del vescovo di Capua Landolfo, vi dedicò gli altari dei santi e da allora ivi “avvengono molte guarigioni e miracoli a lode e gloria di Gesù Cristo”. [74] La giurisdizione capuana venne riconfermata nel marzo del 1173 da papa Alessandro III con una bolla spedita da Anagni all’arcivescovo capuano Alfano [75] e da un privilegio di Innocenzo III nel 1208. [76]

 

 

 La translatio di San Menna

 

Tornando al conte Roberto e alla sua permanenza in Cajazzo, rileviamo come nel 1094 si trovasse in città a guidare l’opera di scalpellini e muratori intenti alla “costruzione” della chiesa di S. Maria Madre di Dio. Il Tescione fa correttamente notare che la chiesa, cattedrale del vescovado cajazzano, era già stata edificata, stando ai soli documenti, già da circa un secolo e mezzo (967) e che quindi l’opera commissionata da Roberto era volta a ricostruire o apportare modifiche alla vecchia chiesa. [77]

 

È nota l’opera di costruttori di chiese dei normanni come è pure noto che essi, per renderle importanti, le dotassero di reliquie; così, per la cattedrale di Cajazzo, stando al racconto di Leone Marsicano, Roberto ambiva alle spoglie mortali di un santo “importante”. L’occasione gli si presentò durante un colloquio con Madelmo, abate del monsatero di Santa Sofia di Benevento e

 

 

73. Dall’istoriola 29 si rileva che: “Inter Capuam, Teanum, necnon Alifam, auditor esse mons quidam in quo dicitur adesse angelica virtus, ad instar beati Michaelis Arcangeli in monte Gargano, ubi distillari aquam et jugiter effossam cryptam, et jacere basilicam atque ibidem nunc crebro fieri prodigia”. Cfr. M. FABRIZIO, Dragoni, op. cit., p. 57.

 

74. Ibidem. “exhortatu autem Landolfis praesulis, Ilarius Teanensis ecclesiae e piscopus dedicavit illuc Sancturum altaria, et peramplius ex tunc fiunt multarum sanitatum signa et prodigia ad gloriam et laudem nominis Jesu Christi”.

75. M. FABRIZIO, Dragoni, op. cit., p. 58.

76. D. CAIAZZA, La grotta di San Michele, op. cit., p. 91.

77. L. R. CIELO, op. cit., p. 22, nota 50.

 

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con Guiso, abate di San Lupo, che si erano recati in città ad incontrare il conte per sbrigare affari relativi alle loro comunità. Madelmo, in cambio di protezione nei possessi del suo monastero contro le molestie anche degli ufficiali del conte, promise a Roberto di procurargli l’intero corpo di un santo custodito proprio nei territori di pertinenza di quest’ultimo. All’assicurazione datagli di assecondare le sue richieste, quest’ultimo riferì le notizie su San Menna scritte da San Gregorio Magno ed asserì trovarsi il corpo del santo in una chiesetta diruta, che da lui prendeva il nome, sita su un monte nei pressi di Vitulano.

 

Senza entrare nel merito del ritrovamento, magistralmente indagato dal Tescione sulla scorta dell’opera di Leone Marsicano, rileviamo solo che il sacro corpo, ritrovato dal conte, fu trasportato in processione nella chiesa di San Vincenzo a Tocco e da questa, dopo la celebrazione di una messa, le reliquie vennero portate a Squille. Da qui esse furono trasportate nella non meglio identificata chiesa di Santo Stefano de Monticello non lontano da Cajazzo, ove rimasero una notte, e poi, attraverso la via Carraia, furono portate dal conte alla porta di Cajazzo. Qui il vescovo cajazzano le prese in consegna e accompagnato dal popolo osannante le portò nella chiesa dell’episcopio dove furono esposte alla venerazione dei fedeli accorrenti da ogni luogo. Successivamente Roberto trasferì il corpo “ad cappellam curie sue” e ordinò al vescovo che fossero continuamente eseguiti degni uffici religiosi in onore del santo.

 

In seguito, nel periodo che va dal 1102 al 1107, il conte trasferì le spoglie del santo a Sant’Agata dei Goti. [78] Le motivazioni espresse dal Tescione sono riferite sia a istanze prodotte dall’arcivescovo di Benevento e dal vescovo di Sant’Agata, volte a riavere le reliquie in un luogo della metropolia Beneventana e, inoltre, al mancato mantenimento delle promesse fatte da parte del vescovo di Cajazzo. [79] Comunque, dopo il trasferimento del corpo, in questa diocesi il conte lasciò alcune reliquie. Melchiori afferma che sotto la chiesa sita nel castello vi era un tempietto nel quale si conservavano, all’epoca in cui scriveva, delle reliquie del santo

 

 

78. Ivi, p. 31.            79. Ivi, p. 25.

 

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ove in ogni tempo concorrono i convicini popoli per ottenere grafie d’Iddio per intercessione di questo Santo, e in particolare le donne inferme nelle poppe, o senza latte”. [80] Lo stesso autore, nella seconda edizione manoscritta della storia di Cajazzo, afferma che Roberto “havendo edificato anco la chiesa dell’assunta Vergine nostra Sig.ra e quella di Santo Menna confessore ove portò una reliquia del detto Santo quale vedesi nel vescovado"; [81] ancora nel 1883 la reliquia di un braccio di San Menna si conservava nel tesoro della cattedrale ma successivamente a tale data essa non viene più registrata. [82]

 

 

 Rainolfo “caiatianorum atque aliorum multorum comes” (1108 - 1139)

 

Roberto sposò Gaitelglima, dalla quale ebbe tre figli: Rainolfo, Riccardo di Rupecanina e Gaitelgrima, data in moglie a Guglielmo duca di Puglia antecedentemente al 1114. [83] Alla sua morte, avvenuta probabilmente nel 1115, [84] la contea passò al figlio Rainolfo.

 

Questi già dal 1108 era stato associato dal padre al governo delle contee. Sulle sue gesta sono stati versati fiumi d’inchiostro; [85] antagonista per antonomasia di Ruggero d’Altavilla, di cui aveva sposato la sorella Matilde, gli tenne testa per circa un ventennio, al fine di conservare l’egemonia sulle nostre contrade. Solo alla sua morte, avvenuta nel 1139, l’Altavilla potè riunire sotto di sé l’intero regno.

 

Ma andiamo con ordine. Negli anni immediatamente successivi all’investitura della contea cajazzana, nei documenti locali troviamo Rainolfo, poco più che ventenne, [86] ad elargire concessioni alla chiesa locale, su esortazione della madre Gaitelgrima.

 

 

80. O. MELCHIORI, op. cit., p. 33.

81. G. TESCIONE, op. cit., p. 25, nota 54.

82. Ibidem.

83. G. TESCIONE, op. cit., p. 35.

84. A tale anno si riferiscono le ultime notizie note sul personaggio. Cfr. G. TESCIONE, op. cit., p. 36. Nel 1117 egli era comunque già morto. Cfr. AA. VV., le pergamene, op. cit., p. 46.

85. Cfr. D. MARROCCO, Ruggero II e Rainulfo D’Alife, Piedimonte d’Alife, 1951, p. 36.

86. A. GAMBELLA, Potere e popolo, op. cit., p. 60, propone la nascita di Rainolfo intorno al 1093.

 

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Così nell’aprile del 1117 offre alla chiesa di Santa Maria, per mani del vescovo Orso, due mulini siti lungo il fiume Volturno [87] e nell’agosto 1119, offre alla medesima chiesa tredici moggia di terra di sua proprietà posta in loco Marciano. [88] Qualche anno dopo, sempre in Cajazzo, il 13 maggio 1124, Rainolfo per intervento del vice conte Pietro concede al suo cappellano Probo, presbitero, una presa di terra di sua proprietà. [89] Il 23 aprile 1129, il conte concede a Giovanni figlio del fu Paldo e a Giovanni de Colonis, zio e nipote, sei moggia di terra site nei confini della città di Caiazzo ai piedi del monte Ceparano, in luogo detto Cavitinule. [90]

 

Il Gambella fa notare che già in quegli anni il conte aveva assunto un posto primario nel quadro politico meridionale e che, così come ipotizzato per il padre Roberto, non fosse vassallo dei dinasti capuani, ma titolare di uno stato a se stante. [91] Egli ebbe rapporti privilegiati con vari pontefici e soprattutto con gli abati cassinesi. [92]

 

Entrando nel merito dei fatti locali, i documenti citati dimostrano chiaramente come in Cajazzo Rainolfo avesse un vice conte e come da lui, quindi partisse la scala gerarchica feudale.

 

Un suo vassallo era di sicuro il milite Balcolino, possessore di un feudo con beni all’interno e all’esterno della città di Cajazzo. Alla morte di questi Rainolfo promette di donare alla chiesa cajazzana in persona del vescovo Stanzione, alla presenza del principe capuano Roberto, l’intero feudo di Balcolino ad eccezione di una casa all’interno del castello e una terra che Malgerio Pustella aveva venduto a Ruggiero, figlio di Altardo di Alvignano e di un’altra terra in Carpineto. [93] Stando ai documenti, alla promessa farà poi seguito, il 16 aprile 1134 la concessione al vescovo Stanzione,

 

 

87. AA.VV., Le pergamene, op. cit., p. 46. Cfr. pure C. SALVATI, La scrittura beneventana nel territorio di Caiazzo, in “Samnium”, anno LVII, 1984.

88. N. GIORGIO, Notizie istoriche della vita, martirio e sepoltura del glorioso San Sisto I Papa e Martire, Napoli, 1721, pp. 68-71.

89. Ivi, pp. 72-74.

90. AA. VV., Le pergamene, op. cit., pp. 57-59.

91. A. GAMBELLA, op. cit., pp. 60-61.

92. Quest’aspetto è stato approfondito da G. A. LOUD, The Norman counts of Caiazzo and the Abbey of Montecassino, in “Monastica”, I, Montecassino, 1981, pp. 199-217.

93. B. DI DARIO, op. cit., pp. 100-101, data la donazione al 1120, mentre C. SALVATI, in “AA.VV., Le Pergamene, op. cit., p. 62, la ipotizza avvenuta nel 1134.

 

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e per mezzo di esso alla chiesa episcopale di Santa Maria, di tutte le terre, i mulini e gli uomini ivi residenti già di proprietà di Balcolino milite. [94]

 

Altro vassallo era “Albertum, dominum castri Feminarum” che compare, secondo il Di Dario, in una pergamena del dicembre 1119. [95] Di questo feudo, di cui si hanno notizie fino a metà del XIV secolo, si sa che era sito presso la fontana di Magranello, “la cui acqua vogliono c’habbia virtù di sanare l’infermità dell’Eticia”, come ci informa il Melchiori. [96] Nella tradizione popolare il nome deriva dal fatto che ivi “fossero rinchiuse delle giovanette per diletto dei conti di Cajazzo”, [97] ma questa notizia non trova riscontro documentale.

 

Si può ipotizzare, infine, che già fosse sorta la rocca di Bellomonte, sita in territorio cajazzano, che probabilmente prese il nome da Enrico di Bellomonte ricordato insieme al figlio Riccardo, milite, in un documento del maggio 1122, redatto in Sant’Agata dei Goti. In esso si legge che Guglielmo figlio del fu Stefano “ex genere Normannorum” e Maria sua moglie figlia del fu Alfano conte di Telese dichiarano di possedere una pezza di terra per concessione della Chiesa telesina che era pervenuta ad essa “per chartam offertionis a Riccardo milite filio quon(dam) Henrici del Bellomonte ex predicta civitate Kaiatie”. [98]

 

Del periodo comitale di Rainolfo antecedente alla guerra con l’Altavilla, ci restano vari documenti locali che descrivono un certo fervore di vita sia all’interno della città di Cajazzo che nel territorio della contea.

 

 

94. N. GIORGIO, op. cit., p. 77-79. Il Salvati, riporta questa pergamena in appendice al volume AA.VV., Le pergamene, p. cit., pp. 466-468, insieme a quelle citate del 1119 e 1124, dichiarando che le stesse furono inserite così come le aveva trascritte il Giorgio non essendo stati rinvenuti gli originali. Si fa qui notare solo che la pergamena riportata a p. 62 (n. 16) del citato volume, per la quale viene ipotizzata la datazione al 1034 e quella riportata dal Giorgio al 16 aprile 1134, trattano hanno lo stesso argomento. Non siamo in grado di stabilire con certezza se la prima (A) è diversa dall’altra (B) o se essa è una copia in sunto della stessa. Si fa notare solo che in (A) viene riportato il solo nome di Malgerio mentre in (B) c’è l’aggiunta del cognome Pustella e che in (A) viene citato un “Rogerio filio Attardi de Albiniano” mentre in (B) è citato un “Roggerio filio quondam Riccardi de Albiniano”.

 

95. B. DI DARIO, op. cit., p. 125.

96. O. MELCHIORI, op. cit., p. 30.

97. B. DI DARIO, op. cit., p. 125.

98. AA. VV., Le pergamene, op. cit., pp. 52-54.

 

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Nel febbraio 1108, primo anno in cui Rainolfo è associato dal padre Roberto al comitato, ad esempio, il chierico Giovanni e suo fratello Maio, figli del fu Landone offrono alla chiesa di Santa Maria, dove ha sede il vescovo Pietro, una pezza di terra di loro proprietà. Alcuni anni dopo, siamo nel settembre del 1121, Pietro figlio del fu Gizzio e Giovanni figlio del fu Landone Alferio, cognati, Marotta e Sichelgaita, sorelle, figlie del fu Giovanni Falcone, donano a Giovanni presbitero figlio di Giovanni Lillo una presa di terra sita in Cajazzo, presso la chiesa di Sant’Antonino e l’anno dopo, nel marzo del 1122, il chierico Giaquinto e suo fratello Pietro, figli del fu Pietro e Alchizio figlio del fu Giovanni Albo vendono a Orso vescovo di Cajazzo una pezza di terra per 30 tari d’oro. Nello stesso anno, in maggio, il presbitero Giovanni, citato nel documento del 1121, dona a suo figlio Aminadab la presa di terra ricevuta in donazione, su cui era nel frattempo stata fabbricata una casa. Nel luglio 1127 assistiamo ad una vendita effettuata da Maio Capugallu di Cajazzo a Pietro Malgayte, della stessa città, di un pezzo di terra sito nei confini della medesima città nel luogo detto “Sancti Petri de Campora” per 14 tari d’oro. Nel gennaio del 1131, Pietro figlio del fu Guarino e la moglie Stadia figlia del fu Gusticocio donano a Urso vescovo di Cajazzo una pezza di terra sita in località Coppula. Nel gennaio del 1132, infine, Guglielmo figlio del fu Giovanni, in presenza dei giudici Riccardo e Adenulfo, dona a Roberto diacono figlio del fu Magenaldo tutte le terre colte e incolte di sua proprietà. [99]

 

 

 Episodi locali nella guerra tra Rainolfo e Ruggero

 

Tornando alle vicende di Rainolfo, sappiamo che già a partire dal 1127, alla morte senza successori del duca di Puglia Guglielmo, iniziarono i dissapori tra i normanni campani e il conte di Sicilia Ruggero II, principale pretendente al ducato di Puglia. [100] Tre anni dopo con l’avvento al soglio pontificio di Anacleto II, antagonista dell’altro eletto Innocenzo II,

 

 

99. Ivi, pp. 44-62.

100. Sulle vicende di quel periodo cfr. FALCONE DI BENEVENTO, Chronicon Beneventanum, a cura di Edoardo D’Angelo, Firenze, 1998 , pp. 85-103.

 

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avvenne per mano del primo la costituzione del regno di Sicilia. Ruggero, oltre che delle terre sicule, calabre e pugliesi fu investito anche della signoria Capuana, dell’honor di Napoli e della difesa di Benevento, [101] territori di cui non aveva il possesso materiale. Ovviamente questa investitura limitava di diritto, anche se non di fatto, il potere locale e così il periodo seguente, tra il 1132 e il 1134, vide i contendenti azzuffarsi d’estate e riposare d’inverno alternando sconfitte a vittorie fino a quando, in quell’anno, Rainolfo chiese al cognato la pace e ne riottenne in cambio il rilascio di sua moglie e suo figlio che l’Altavilla aveva fatto condurre a Palermo già nel ’32. [102] Una notizia giunta l’anno seguente, che dava Ruggero per morto, ravvivò la rivolta e Rainolfo si fece convincere a farne parte. Ma, nella primavera del 1035, il re tornò alla carica; Alessandro di Telese così narra gli avvenimenti che interessano il nostro territorio: [103]

 

Mentre accadevano tali cose, il re, preso consiglio, mandò avanti il suo cancelliere Guarino con un forte contingente militare, perché le città che il conte Rainolfo aveva tenuto sotto il proprio dominio gli si sottoponessero spontaneamente, o altrimenti se egli stesso avesse dovuto irrompere su di loro senza alcuna pietà, sarebbero state bruciate e distrutte completamente.

 

E così, il cancelliere giungeva nella città chiamata Alife, e nello stesso giorno tutta la popolazione di questa si sottomise senza alcuna esitazione al re, e avvenuto ciò, il giorno appresso egli si diresse alla presa del castello di Sant’Angelo detto Raviscanina, che apparteneva a Riccardo fratello dello stesso conte, il quale, atterrito dall’arrivo del re, come già è stato detto, lasciato questo castello, si era rifugiato in Campania.

 

Il cancelliere quindi si ritira a Caiazzo, e ne resta però lontano tre miglia, presso il corso del Volturno. Si manda di là agli abitanti di Caiazzo, e soprattutto a quelli che avevano il comando del castello, affinché anch’essi si sottomettano al più presto al re.

 

 

101. Cfr. A GAMBELLA, op. cit., pp. 65-66.

102. Ivi, p. 68.

103. Nella traduzione di L. DE NAVA, Alexandri Telesini Abbatis, Ystoria Rogerii Regis Sicilie, Calabrie atque Apulie, Roma, 1991, pp. 145-146.

 

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Ma quelli, ritenendo di essere difesi da una fortificazione inespugnabile, rifiutano con maggiore audacia che sia fatto ciò, anzi, annunciano che se ve ne sarà la necessità, risponderanno alla sua guerra. Perciò il cancelliere, mossosi da lì, sposta gli accampamenti a Sant ’Agata, esortando i cittadini a consegnarsi spontaneamente al re. Ma questi, come già quelli di Caiazzo, rifiutandosi di farlo, si preparano piuttosto a resistere.

 

Tali notizie vengono riferite al re, che allora indugiava ad Aversa; e poiché ambedue le città erano molto ben fortificate, occorreva che il re stesso andasse ad espugnarle.

 

Allora il re, sentendo della loro tracotanza, la ritenne grave offesa; perciò, dopo aver mandato gran parte del suo esercito a sorvegliare Capua e gli altri castelli di Terra di Lavoro, adirato si affrettò ad assediare le già menzionate città Giunto a Sant’Agata la circondò di strettissimo assedio, e comandò che venissero fabbricate delle macchine con cui la si potesse prendere in più breve tempo. Accortisi di ciò, gli abitanti della città, cadono in preda al terrore, e molti di loro, uscendo, cercano di prevenire il re, e gettatisi ai suoi piedi insistono con preghiere affinché si degli di accettare il loro atto di sottomissione, e perché essi stessi con le mogli e i figli loro, e i loro averi, non divengano preda e vergogna per tutti quelli che lo vengano a sapere. E il re, piegato a stento dalle loro preghiere, prende la loro città, senza che essi corrano rischi, e dopo tre giorni si affretta ad impossessarsi di Caiazzo; così si accorge che la posizione della città è tale che dal lato ad oriente v’è in essa non solo una fortificazione grande, costruita dall’uomo, ma che essa è molto riparata per natura per essere posta su un alto monte; e questa fortificazione è tanto distante dalla città, che anche gli stessi cittadini in nessun modo possono aver ragione di essa; perciò a maggior ragione sembra che non temano un assedio che possa venire da quella parte. Sicché, se non fosse mancato il vettovagliamento, grazie al quale i difensori della città potevano sostenersi, mai avrebbe potuto essere presa.

 

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Ma appena vi giunse il re Ruggero, dite e stupitevi, così tanto gli abitanti del castello furono atterriti nel primo assalto, che desiderarono di sottomettersi a lui al più presto, non pensando ad altro che alla pace. E in verità era stata così fitta la pioggia di dardi, che a malapena una sparuta schiera degli abitanti del castello avrebbe potuto muoversi per respingere i nemici che incalzavano. Infatti chiunque, inerme, tendesse un braccio a difesa, vi riceveva subito un colpo di dardo. Tale castello, una volta espugnato e vinto completamente, fu occupato dal re, che entrato ad ispezionarlo, dicono che ne abbia riconosciuto il valore soprattutto per la sua difficile e imponente fortificazione, e riconobbe che gli era molto utile per difendere la propria corona.

 

Dopo di ciò, privò della sua terra, giusta punizione, uno dei difensori della città, tale Nicolò, poiché, mettendosi d’accordo coi suoi nemici, s’era macchiato di spergiuro; e infine, desiderando consolidare una pace duratura, emanò un editto secondo il quale avrebbero dovuto essere rase al suolo tutte le fortificazioni del conte, eccetto i castelli più sicuri, che voleva restassero sotto il suo dominio a tutela della pace.”

 

Al suo arrivo, dunque, Ruggero rimane stupito per la solidità e la posizione strategica del castello di Cajazzo tanto da farlo rientrare nel demanio regio. La stessa cosa fece con altri manieri del territorio. Alessandro di Telese, infatti, continua: [104]

 

Il re, infine, trattenuti presso di sé i più intimi, permise a tutti gli altri di tornare alle proprie terre; poi, mossosi anche lui, ritornò a visitare un municipio che si chiama Guardia, e una rocca detta Dragoni, che era posta sulla sommità di un monte molto scosceso, per sapere la forza e il contingente militare di ciascuno dei due.

 

E più avanti: [105]

 

Il re dunque esaminati attentamente e molto minuziosamente Guardia e Dragoni,

 

 

104. Ivi, p. 152.            105. Ivi, pp. 153-154.

 

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e insieme avendo stabilito in quali punti e di quanto andassero rinforzati, ritorna a Caiazzo e, salendo al castello lo ispeziona più attentamente tutt’intorno, e decidendo quale luogo fosse ancor più da fortificare, ordina che venga rinforzato immediatamente; e dispone anche che tutti i baroni che stavano nelle vicinanze e che vivevano lì con i loro soldati, che erano terrazzani, costruite le loro case intorno al castello di Caiazzo, vi tengano lì stabile residenza, perché il castello stesso, che era evidentemente molto ben difeso per natura e per il lavoro dell’uomo, fosse reso più forte dal fatto che vi risiedesse anche un numeroso esercito.

 

 

 Il territorio caiatino dipendente dalla contea di Caserta

 

Con la morte di Rainolfo, avvenuta a Troia il 30 aprile 1139, il suo stato venne smembrato e frazionato in numerosi minuscoli feudi dipendenti da diverse contee. Il territorio cajazzano fu sottoposto in massima parte alla contea di Caserta, governata da Roberto. [106] Questi aveva feudi propri “in demanio e in capite”, e una schiera di feudatari e suffeudatari. [107]

 

 

106. Sul personaggio cfr. G. TESCIONE, Caserta medievale e i suoi conti e signori, Caserta, 1980, pp. 38 ss.

 

107. Catalogus Baronum, a cura di E. JAMISON, Roma, 1972, pp. 172-176.

 

Nel catalogus baronum sono riportati i seguenti feudi, siti nel territorio in esame, sottoposti al comes Robbertus de Caserta:

 

   965   Johannes Garardus Camerarius sicut dixit Nicolaus Frascanellus tenet de raiano feudum ij militum, et de Fringillo feudum duorum militum, et de Paterno feudum j militis, et medietatem Pullianelli feudum j militis et cum augmento obtulit milites x et servientes xl.

 

   966   Philippus de Avenabulo tenet in predicto Johannes Garardo Albuanellum quod est feudum j militis et cum augmento obtulit milites ij.

 

   967   Guillelmus de Montefusculo tenet demanium in Dracono feudi vij militum, et de Bala ijorum militum, et de Ponte Latrone et de Monte Migulo feudum v militum, et de Squilla feudum ij militum que sunt inter totum feudum militum xvj et augmentum eius milites xx et inter feudum et augmentum demanii sui milites xxxvj et servientes lx.

 

   968   Alexander frater eius tenet ab eo Saxum quod est feudum j militis et cum augmento obtulit milites ij.

 

   969   Manasseus tenet de eo Formicam que est feudum unius militis et cum augmento milites ij.

 

   970   Raymus de Caiatia sicut dixit filius eius tenet in Caiatia feudum j militis et cum augmento obtulit milites ij.

 

   971   Barentonis sicut dixit Johannes de Scaczano homo eius tenet in demanio Albignanum quod est feudum iij militum, et tenet in tenimento Caiatie Roccam de Bello Monte que est feudum iiijor militum et cum augmento obtulit milites xiiij.

 

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Cajazzo era stata inglobata, come detto, nel demanio regio; non aveva quindi un feudatario ma uomini che avevano in essa dei feudi. Così sappiamo che Raimo di Cajazza [108] aveva un feudo nella città (in capite de domino rege) e Barentonis, oltre al demanio di Alvignano, aveva in feudo la rocca di Belmonte in tenimento di Cajazzo. Il predetto Raimo, oltre ad avere beni in Cajazzo, ne aveva anche in Aversa. [109]

 

È stato possibile rilevare anche alcune notizie sulla sua famiglia. Si conoscono i nomi dei due figli Guglielmo e Marco. Il primo fin dal 1170 era vescovo di Cajazzo; [110] nell’ottobre di quell’anno, infatti, partecipò ad una contestazione giudiziale insieme al giudice Pietro di Almundo. [111] L’anno successivo fu risolta da Pietro, giudice di Cajazzo, una lite tra il nostro Guglielmo e Roffo, figlio di Donato, circa l’obbligo di quest’ultimo al servizio del pascolo delle pecore di proprietà della Chiesa. Nel novembre 1176, in Capua, Bartolomea figlia di Pietro di Mongibello concede a Pietro presbitero, per parte di Guglielmo, il diritto su tre uomini da lei posseduti e, infine, nel gennaio 1177, Benedetto del fu Giudice Beraldo e sua moglie Gemma figlia del fu Giovanni di Graziano vendono al vescovo la terza parte di un terreno nel luogo detto il ponte, presso la chiesa di Sant’Andrea, per 20 tari. [112] Guglielmo, morì il 9 o 12 gennaio 1179. [113] Del fratello Marco, milite, si rileva che nell’ottobre 1176 diede a Gualtiero figlio del fu Martino di Trotta, in presenza del giudice Giovanni Alderise, un appezzamento di terreno,

 

 

108. Cfr. Catalogus Baronum, Commentario, a cura di E. CUOZZO, Roma, 1984, p. 240.

109. Ivi, p. 155. Nel “Principatu de Aversa, Raymus de Cayacza (n° 856) tenet feudum j militis sicut ipsi dixit et cum augmento obtulit milites duos”.

110. B. DI DARIO, Notizie, op. cit., p. 158.

111. AA.VV., Le pergamene, op. cit., pp. 67-68.

112. Ivi, pp. 68-70, pp. 75-77 e pp.78-79.

113. B. DI DARIO, op. cit., p. 159.

 

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riservandosi l’usufrutto dei 17 alberi di ulivo ivi esistenti. Dal medesimo documento si evince che in quell’anno il padre era già morto. [114]

 

Tornando ai feudatari del territorio rileviamo che Raiano era infeudata a Giovanni Garardo, camerario del conte, che disponeva anche di Fringillo, Paterno e metà di Puglianello. Questi aveva in Alvignanello un suffeudatario, Filippo degli Avenavoli, già morto nel 1173, come risulta da una donazione del figlio Matteo al monastero di Montevergine, in cui è detto “unus ex baronibus civitate Averse”. [115]

 

Dragoni, anch’esso ricompreso nel demanio regio, era tenuto da Guglielmo di Montefuscolo che aveva anche Baia, Ponte Latrone, Monte Migulo e Squille. Il fratello di questi, Alessandro, teneva in suffeudo Sasso mentre Formicola era data in suffeudo a Manasseo che, per altri beni, era anche suffeudatario di Riccardo dell’Aquila, conte di Calvi e Riardo. [116] Problematica risulta l’attribuzione in feudo di Strangolagalli, infatti il catalogo, lo attribuisce una volta alla moglie di Filippo di Capua [117] e una volta a Landolfo Borrello. [118]

 

A questi vanno aggiunti i citati possessori dei feudi minori, presumibilmente rustici, e cioè i Plancano per il casale dei Plancani, i Melchiori per il villaggio di San Giovanni dei Pezzi, gli Egizi per il feudo di Paterno (infeudato al Garardo), i Prisco per il feudo di Carpineto, e gli Alberti per il Castello delle Femmine. Un’ulteriore presenza rilevata è quella di Andrea, padrone di Alvignanello, del quale si conoscono vari documenti. Sappiamo che era signore di questo luogo già 1167 e che risulta tale anche in un documento del 1171. [119]

 

 

114. AA.VV., Le pergamene, op. cit., pp. 74-75.

115. P. M. TROPEANO, Codice Diplomatico Verginiano, VI, Montevergine 1982, p. 251. Cfr. G. TESCIONE, op. cit., p. 39

116. Catalogus Baronum, ed. cit., p. 150. “Manasses (n° 822) tenet feudum j militis et cum augmento obtulit ij. Una de proprio feudo milites xviij et de addoamento xviij. Una inter feudum et augmentum milites triginta sex”.

117. Ivi, p. 176. N° 981 - Uxor Philippi de Capua sicut dixit Joczolinus tenet Strangulo gallum quod est feudum j militis et cum augmento obtulit milites ij.

118. Ivi, p. 153. N° 844 - Landulfus Burrellus dixit quod tenet Strangulam Gallum quod est feudum j militis et cum augmento obtulit milites ij.

119. B. DI DARIO, op. cit., p. 122, sulla scorta di documenti dell’Archivio Vescovile caiatino. Purtroppo questi documenti non sono più reperibili giacché non risultano tra quelli pubblicati in AA.VV, Le Pergamene, op. cit. Per il 1167 la collocazione è I. 29; per il 1171 è I. 19.

 

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Nell’agosto del 1187 ricevette da Luca figlio del fu Geronimo anche per conto di Maria moglie del fu Simone Pettinato un mutuo di 100 tarì. [120] Nel maggio del 1193, infine, essendo entrato in possesso di alcuni beni per la morte senza eredi del vassallo Guarniero figlio del fu Dionisio, Andrea decide di cedere quelle terre e quelle case ai fratelli Giacomo, Giaquinto e Adenulfo, figli del fu Giovanni de Giaquinto, e ad un loro nipote di nome Lorenzo, figlio del loro fratello defunto Giovanni, con l’obbligo di riconoscerli suoi vassalli, di corrispondere il canone annuo di tre tarì e di versare, per la presa di possesso di detti beni, la somma di 50 tarì in moneta amalfitana. [121]

 

Tra possessori di feudi in Cajazzo vanno annoverati anche i vescovi locali. Il Melchiori afferma che nel 1134 in vescovo Stanzione comprò da Riccardo, fratello di Rainolfo, e da sua moglie Maria, figlia del conte Gregorio appellato il grande, tra le altre cose, anche il mulino di Pietramala ed il feudo di Balignano e Carpineto. [122] Nel medesimo anno Rainolfo, come già detto, confermò la donazione ed infine, nel 1175, fu addirittura re Guglielmo a confermare ai vescovi cajazzani il mulino di Pietramala. [123]

 

 

 I vescovi cajazzani dell’età normanna

 

Nel periodo normanno la cattedra vescovile fu retta da undici vescovi. Di alcuni non conosciamo notizie, mentre di altri, dai citati documenti e dalla bibliografia locale si rilevano varie informazioni che vale la pena riportare.

 

Seguendo l’ordine cronologico il primo è Arigisio, che tenne la cattedra tra il 1061 e il 1070, di probabile origine longobarda,

 

 

120. AA.VV., Le pergamene, op. cit., pp. 85-86.

121. Atto redatto in Alvignanello, in maggio 1193, XI indizione. Cfr. P. M. TROPEANO, op. cit., vol. X, 1193-1196, 1986, p. 16. Il fatto che atti locali si trovano nell’archivio di Montevergine si può giustificare con la presenza della citata casa verginiana di Schiavi collegata a quella di Capua.

122. O. MELCHIORI, op. cit., p. 60. Cfr. pure A. GAMBELLA, op. cit., p. 75-76.

123. Ibidem.

 

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di cui, al momento non si hanno altre notizie. [124] Gli successe un eremita, spagnolo di origine regale, che fu in seguito elevato alla gloria degli altari: San Ferdinando d’Aragona. Di lui sappiamo che nacque in Aragona nel 1030 dal re di Navarra Sancio III e da Elvisia contessa di Castiglia. [125] Datosi alla vita spirituale solitaria e contemplativa, venne in Italia e si fermò nei boschi del territorio Cajazzano. La fama di cui si era circondato spinse la popolazione locale, nel 1070, trovandosi vacante la sede vescovile, ad elevarlo a quella cattedra che resse fino al 1082 anno in cui, trovandosi in Alvignano fu colto da una fortissima febbre che dopo tre giorni, il 27 giugno, lo portò alla morte. [126]

 

A Ferrante subentrò Costantino, presente spesse volte nei documenti citati, attore della controversia con l’abate Guarino di Aversa per il possesso di Santa Croce. È citato la prima volta nella permuta del 1098 con Giovanni Longobardo e l’ultima volta in due documenti dell’anno 1101. Il primo è relativo ad una controversia tra il vescovo di Aversa Giovanni e il citato abate Guarino; la discussione si tenne a Benevento alla presenza del papa Pasquale II e vide il nostro intervenire alla discussione. Troviamo poi presente Costantino a Roma, in Laterano, alla compilazione di una bolla del medesimo papa circa l’accordo concluso tra il vescovo aversano e Guarino. [127] Il Di Dario afferma che egli morì nel 1105.

 

Come abbiamo già avuto modo di rilevare a Costantino successe Pietro, cui fu richiesta la conferma del possesso di Santa Croce all’abbazia aversana, che da quest’atto ottenne, come detto, notevoli benefici per la mensa vescovile. È attore pure del citato documento del 1108 con cui Giovanni e Maione donano alla cattedrale cajazzana un terreno presso il monte Mesorinola ed il Di Dario ne ipotizza la morte, basandosi sul necrologio della cattedrale, che porta il 20 febbraio senza anno, allo stesso 1108 o all’anno successivo. [128]

 

 

124. B. DI DARIO, op. cit., p. 153.

125. B. DI DARIO, Santo Stefano vescovo e protettore della città e diocesi di Caiazzo, Roma, 1928, p. 31.

126. Ivi, pp. 31-32. Sulla vita di San Ferdinando cfr. pure C. A. SPARANO, Santo Ferrante vescovo di Caiazzo, Napoli, 1992.

127. B. DI DARIO, op. cit., pp. 155-156.

128. Ivi, p. 156.

 

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Nell’elenco, dopo un Tommaso, eletto nel 1109 e di cui non si conoscono ulteriori notizie, ritroviamo Orso (o Ursone) che visse al tempo del secondo Rainolfo. Nelle sue mani, infatti, vennero depositate le citate concessioni comitali del 1117 e del 1119. È ricordato l’ultima volta nel documento del 1133 in cui i coniugi Pietro e Maria concedono alla cattedrale il terreno detto Coppola e la sua morte viene ipotizzata al 4 marzo forse del 1133 [129]. A Ursone successe Sanzione, il vescovo che ricevette da Rainolfo il feudo di Barignano e Carpineto. Il Di Dario afferma che nella bolla papale di Innocenzo II con qui questi nel 1133 fu investito del vescovado venivano descritti i confini della diocesi. [130]

 

Il suo successore, Voillelmo (o Guglielmo) fu eletto con bolla di Adriano IV nel 1155. Apparteneva secondo Ughelli, in base a documenti dell’archivio di Cava, all’aristocrazia cajazzana essendo figlio di Mansone e fratello del milite Landolfo. Fu incolpato di simonia ed espulso dalla sede nel 1166 e, sempre secondo l’Ughelli, gli successe Giovanni che nel 1175 avrebbe ricevuto la conferma dei beni della sua sede. Ma sappiamo che già dal 1170 era vescovo di Cajazzo il nominato Guglielmo, figlio di Raimo [131] di cui si è già parlato. Nel 1179, alla morte di questi, subentrò nel vescovado Doferio, citato nel documento del 1183 in cui fu concesso, da questi, a Formoso un orto all’interno delle mura della città; Di Dario cita una lettera inviata a questo vescovo dal papa Alessandro III nel 1179 e ci informa che egli nel 1188 passò alla sede arcivescovile di Bari. [132] L’ultimo presule del periodo normanno fu Giovanni, [133] nativo di Capua, che viene citato in un documento del 1195, ma a quella data siamo già entrati in periodo svevo.

 

Il breve excursus mette in evidenza come i vescovi cajazzani fossero preferibilmente scelti all’interno dell’aristocrazia locale. Due di essi, entrambi di nome Guglielmo, risultano essere nativi di questa città e solo San Ferdinando d’Aragona è straniero. Era quella del vescovo la più alta carica ecclesiastica che permetteva contatti, come abbiamo visto,

 

 

129. Ivi, p. 157.

130. Ibidem.            131. Ivi, p. 158.            132. Ivi, pp. 158-159.            133. Ibidem.

 

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con papi e alti dignitari sia religiosi che civili ed è ovvio che gli aristocratici locali facessero di tutto per accaparrarla a membri della loro famiglia.

 

Ci restano di quel periodo anche altri documenti locali che denotano la ripresa degli scambi di terreni. Nell’ottobre 1156, Guglielmo figlio del fu Guarino e la moglie Altruda figlia del fu Riccardo, in presenza del giudice Pietro Almundo, vendono a Landone Rufo figlio di Landone Perrella una pezza di terra per 90 tari. [134] Nell’ottobre 1172, Ageltruda, figlia del fu Giovanni Acerrensi vende a Malgerio, figlio del fu Giovanni per conto della Congregazione di Cajazzo, tre pezze di terra poste nelle pertinenze di Cajazzo in luogo “Sancti Victoris", per 150 tari [135]. Nel novembre del medesimo anno, Ruggero Murasale, figlio del fu Osaldo, in presenza del giudice Giovanni Alderise e di altri testimoni, vende a Capuano figlio di Domenico alcune pezze di terra in luogo detto "via irta” per 150 tari. [136] Negli anni ’70, Deodato presbitero, in presenza del giudice Giovanni Alderise, vende a Donato una pezza di terra in “loco Cesarani” per 20 tari. [137] Nel novembre 1180, Maria, figlia di Pietro Benedetto e vedova di Pietro di Stadiolei, vende a Stefano Sillicto presbitero e canonico dell’episcopato di Cajazzo, procuratore della Congregazione, un pezzo di terra sito in luogo detto “Pulciani” non molto lontano dalla chiesa di Sant’Andrea per 30 tari. [138] Nel settembre 1183 Doferio vescovo di Cajazzo concede a Formoso, figlio del fu Pietro Albiniano, una pezza e una presa di terra sita non molto lontana dalla chiesa di S. Pietro. [139] L’anno successivo, in marzo, lo stesso Doferio concede a Simone ed alla moglie di lui Altruda, un tenimento sito in Caiazzo, già appartenuto al fu maestro Azzo ultramontano. [140]

 

 

Le informazioni relative a quest’ultimo periodo ci mostrano, come detto, un territorio fortemente parcellizzato. Quasi ogni luogo aveva un “padrone” distinto che godeva dei diritti feudali sullo stesso.

 

 

134. AA.VV., Le pergamene, op. cit., pp. 63-65.

135. Ivi, pp. 70-72.            136. Ivi, pp. 72-73.            137. Ivi, pp. 65-67.

138. Ivi, pp. 79-81.            139. Ivi, pp. 81-83.            140. Ivi, pp. 83-85.

 

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Se è possibile, infatti, rilevare quattro feudatari maggiori in Giovanni Garardo, Raimo di Cajazza, Guglielmo di Montefuscolo e Barentonis, dobbiamo anche notare che il primo, in qualità di camerario del conte di Caserta, era un suo uomo di fiducia e gli altri tre gestivano principalmente territori sotto il demanio regio servendosi nei feudi minori di suffeudatari. Si fa sentire forte la politica del “dividi ed impera” volta ad evitare l’accentramento di grosse proprietà sotto un’unica famiglia; se questo garantì entro certi limiti la stabilità della monarchia normanna fornì le basi per la nascita e lo sviluppo di quel latifondismo tipico meridionale che si è mantenuto vivo fino al nostro secolo.

 

La città, a differenza dei centri minori, denota una ampia vitalità economica. La numerosità degli scambi fa pensare ad una ricchezza che si muove, a continue nuove possibilità economiche da parte del ceto medio, composto ancora massimamente da longobardi e autoctoni potentati, i quali acquistano, concedono donazioni e ne ricevono. Un ruolo preminente in questo è svolto dalla Chiesa. I vescovi, i presbiteri, i diaconi, compaiono in molti dei documenti consultati e molto spesso sono i beneficiari indicati all’interno degli stessi. Alle donazioni fatte dai conti normanni, si aggiungono quelle degli aristocratici - spesso volte a dotare ecclesiastici appartenenti alla loro stessa famiglia - ed anche quelle di personaggi di rango inferiore nella speranza della salvezza dell’anima. A partire da questo periodo, quindi, possiamo affermare che decollano le tre grandi classi sociali destinate a svolgere un ruolo primario nella storia del Mezzogiorno: l’aristocrazia, la borghesia e il clero. Dell’uomo comune c’è ancora poco da dire; assistiamo ad una crescita degli uomini liberi, ma sono ancora presenti i servi - ancorché i documenti non riportano più quelle descrizioni tipiche del periodo alto medievale in cui l’uomo è paragonato a qualsiasi altra pertinenza del fondo rustico - e, fattore altrettanto importante, non si ha ancora nessuna sensazione della coscienza civica dei cittadini. Ci vorrà ancora del tempo prima che si possa cominciare a parlare di universitas; in questo periodo l’uomo guarda ancora in modo preponderante a se stesso, curando la propria vita terrena e preparandosi un buon posto nell’aldilà.

 

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 BIBLIOGRAFIA

 

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