Thrill d’altri tempi

 

Palmerino Savoia

 

 

Raccolta «Rassegna Storica dei comuni». Periodico di studi e di ricerche storiche locali

Anno IV, Gennaio - Febbraio 1972

 

 

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La città di Benevento è nota soprattutto per le due celebri battaglie che vi ebbero luogo e per un albero di noce che sorgeva in un punto imprecisato fuori la cerchia delle sue mura.

 

La prima delle due battaglie fu quella combattuta nel 275 a. C. tra l’esercito romano e le eterogenee schiere di Pirro.

 

L’altra battaglia avvenne nel 1266 tra Carlo I d’Angiò e Manfredi, figlio naturale di Federico II di Svevia, in lotta per il possesso del Reame di Napoli. Questa battaglia, più che dal farraginoso romanzo ottocentesco di F. D. Guerrazzi, è stata immortalata dai versi nei quali Dante, ghibellino, raccolse il lamento dello sconfitto, l’eretico e scomunicato Manfredi [1].

 

Terzo fattore di notorietà per Benevento è il noce o, per essere più esatti, quella leggenda medioevale delle streghe che nel famoso noce trova il suo elemento emblematico. Un noce che certe streghe, durante il processo al quale furono sottoposte, come ci riferisce Pietro Piperno senior, giuravano d’aver visto nei sabba e lo descrivevano come arborem amplam et frondosam [2]. Sotto questo noce dall’ampio fogliame, recita la leggenda, si riunivano diavoli e streghe per il rituale sabba o tregenda. Ciò non costituiva una novità poiché nella vecchia Europa vi erano anche altre località dove, secondo gli storici della magia, si svolgevano raduni del genere; ma, a cominciare dal secolo XVI, il noce di Benevento oscurò la fama di ogni altra località e divenne il centro, una specie di O.N.U., il Palazzo di Vetro della stregoneria internazionale. Basti pensare che quando si parlava o si scriveva di streghe, o comunque di stregoneria, l’accenno a Benevento e al suo noce era quasi di obbligo.

 

La leggenda racconta che ogni venerdì, al calare delle prime ombre della sera, il richiamo del noce di Benevento diventava irresistibile nel mondo delle streghe. Queste, dopo essersi unte con misteriosi unguenti e aver ingerito magici filtri che permettevano loro ogni metamorfosi e quasi le smaterializzavano, cavalcando domestiche scope o barbuti caproni, volavano verso il magico noce dove le attendevano le orge della notturna tregenda. Il vento, la pioggia, le tempeste, gli uragani non solo non costituivano ostacolo al volo ma esaltavano maggiormente le streghe, almeno stando alla cantilena che si vuole intonassero come canto d’avvio:

 

sotto acqua e sotto vento

sotto il noce di Benevento.

 

Questa leggenda, che oltre a non avere nulla di gentile è paurosa e sconvolgente come un incubo, nacque in seno al popolino credulo e superstizioso, innestandosi però su alcuni elementi di un’antica leggenda agiografica beneventana. Essa, dal secolo XVI in poi, piacque a poeti ed a musicisti i quali, senza ovviamente prestar fede alle streghe ed ai sabba, la ripresero nelle loro opere come condensato delle credenze magiche popolari e la diffusero in tutto il mondo, legando indissolubilmente il nome di Benevento a quello delle streghe.

 

Ecco, ad esempio, come la descrive il poeta e pittore fiorentino Lorenzo Lippi (1606-1665) nel 3° canto del suo poema burlesco Il Malmantile riacquistato:

 

«Costei è quella strega maliarda / che manda i cavallucci a Tentennino. / Ed egli un punto a comparir non tarda / quand’ella fa lo staccio o il pentolino / come quando ella s’unge e s’insavarda /

 

 

1. Purgatorio, 111, 124-129.

2. Pietro Piperno senior, De Maga Nuce beneventana, pag. 50.

 

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tutta ignuda nel canto del camino / per andar sul barbuto sotto il mento / colla granata accesa a Benevento. / Ove la notte al noce eran concorse / tutte le streghe anch’esse sul caprone / i diavoli e col Bau le Biliorse / a ballare, a cantar a far tempone».

 

Ma chi concorse maggiormente alla diffusione di questo mito, oltre i locali ambienti popolari, fu una famiglia di scrittori beneventani del secolo XVI; essi, legati da vincoli di strettissima consanguineità oltre che da un appassionato interesse per la leggenda delle streghe della loro città, ne fecero oggetto di varie loro composizioni. Si tratta dei Piperno, padre, figlio e nipote.

 

Cominciò Pietro Piperno senior con la sua monografia «De Nuce Maga Beneventana», stampata a Napoli nel 1647. Nicola Piperno, figlio di Pietro, scrisse un dramma in 5 atti intitolato La Noce Maga di Benevento estirpata da S. Barbato, stampato a Napoli nel 1682. Pietro Piperno iunior, infine, figlio di Nicola, diede alle stampe nel 1703 un poema dal titolo «L’Idolatria abbattuta».

 

Sui Piperno, Benedetto Croce espresse questo giudizio:

 

«In Benevento ci fu allora una progenie di scrittori che presero particolarmente a cura la trattazione storica e poetica «della noce che era non saprei se decoro o disdoro della loro patria» [3].

 

Uno storico beneventano dei nostri giorni, G. Cangiano, ha, scritto:

 

«I Beneventani hanno fornito il maggiore coefficiente allo sviluppo della leggenda delle streghe» [4].

 

Bisogna convenire pienamente col Cangiano; specialmente se si ricordano certi particolari riferiti dal Piperno senior nella sua «De Nuce Maga»; questo, ad esempio: alcuni Beneventani, osservando il gran parlare che si faceva del noce e delle streghe, pensarono di sfruttare la credulità del popolino su basi commerciali e speculative e cominciarono a battere le piazze e i mercati di tutta la Campania vendendo delle noci che dicevano abbacchiate dall’albero delle streghe [5].

 

* * *

 

Nelle leggende si verifica spesso un fenomeno di osmosi nel senso che alcuni elementi di una passano facilmente in un’altra, senza barriere cronologiche o culturali.

 

Nella leggenda delle streghe vi sono elementi mutuati dalle credenze popolari romane, a cominciare dal nome delle sue protagoniste principali: le streghe. Si sa che gli antichi romani chiamavano strigi (striges) gli uccelli rapaci notturni, come civette, gufi, allocchi e barbagianni, tutti volatili che anche oggi nella sistematica dei trattati di ornitologia costituiscono le famiglie degli ordini degli strigidi o strigiformi. Gli strigidi non sono certo gli uccelli più belli per aspetto, piumaggio e attitudini canore. I due grandi occhi frontali di colore rossastro, il grigio delle loro piume, gli striduli gridi e le loro abitudini di predatori notturni fecero sì che queste bestiole fin dalla più remota antichità, entrassero nelle trasfigurazioni fantastiche dei miti, delle leggende e delle fiabe, per prestare alcune loro caratteristiche ad esseri orridi e malefici. Le credenze popolari romane, ad esempio, li facevano avidi di sangue infantile oltre che preannunziatori di sventure. Troviamo un’eco di queste credenze in Ovidio che scrisse degli strigi:

 

«Sunt avidae Volucres - grande caput, stantes oculi, rostra apta rapinae... Nocte volant, puerosque petunt nutricis egentes» [6].

 

Da questi sinistri uccelli derivò alle streghe, oltre al nome, anche l’attribuzione di alcune peculiari caratteristiche, quali l’attitudine al volo notturno per recarsi alle tregende e la tendenza ad apportare maleficio soprattutto ai bambini.

 

Sotto la denominazione di streghe bisogna comprendere non solo quegli orribili esseri che la fantasia popolare o l’estro dei poeti creava per personificare l’orrido o il potere malefico

 

 

3. Cfr. Notarelle e appunti di storia civile e letteraria napoletana del seicento in «Archivio storico per le Province napoletane» (fasc. 14).

4. Sulla leggenda della vipera longobarda e delle streghe in Benevento, pag. 69.

5. Pietro Pieperno, op. cit., pag. 47.

6. Fastorum, VI, 131.

 

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(per lo più donne scarmigliate e sdentate e col naso adunco), ma anche le donne, non necessariamente brutte, dedite alle pratiche della magia nera o stregoneria malefica.

 

Nel Medioevo questa forma di superstizione era ritenuta grave oltre che illecita, poiché in essa si ravvisava, più che nelle altre, un sottofondo diabolico appunto perché malefica. Per dare, infatti, una spiegazione ai nefandi poteri, veri o vociferati, comunemente attribuiti a maghi ed a streghe si ricorreva troppo facilmente a quella semplicistica e assai comoda del patto, espresso o tacito, col demonio. Un patto bilaterale con precise clausole, qualche volta addirittura scritte: l’uomo o la donna si votavano anima e corpo, per la vita e per la morte a Satana, il quale, a sua volta, conferiva ai suoi adepti poteri che, appunto perché provenienti da lui angelo del male e principe delle tenebre, erano malefici oltre che superiori ad ogni forza naturale e ad ogni capacità umana.

 

Per tali motivi le autorità religiose e quelle civili erano severissime con le donne sospette di praticare le dannate arti della stregoneria. La cosiddetta «caccia alle streghe», tanto frequente nel Medioevo, ed il sinistro bagliore dei roghi, a cui essa dette origine, sono fenomeni che vanno inquadrati e spiegati, anche se non giustificati, nel clima storico dominato dalla generale persuasione del pactum expressum vel tacitum cum demone. Contrariamente però a quanto si potrebbe pensare, a Benevento i processi per stregoneria furono pochissimi e non si accese alcun rogo. Questo fatto sta a dimostrare che la fama che Benevento si fece di «città delle streghe» va intesa non nel senso che sia stata patria di streghe, ma in quello che avrebbe dato ospitalità sotto il suo leggendario noce a streghe forestiere.

 

Il patto cui abbiamo accennato a noi moderni appare assurdo e inconcepibile. Osserva giustamente Giovanni Papini:

 

«Io sono certo a dispetto delle testimonianze e delle leggende, che non furono mai fatti contratti di nessuna sorta tra gli uomini e Satana. Sarebbe una prova di più della pazzia dell’uomo e della imbecillità del diavolo. Se Mefistofele non è un idiota e il Dottor Faust non è un insensato non si vede né si comprende perché accettino quegli accordi. Quale può essere, prima di tutto il guadagno del Diavolo? Con le tentazioni più grossolane egli s’impadronisce d’innumerevoli anime; altre innumerevoli anime cadono nelle sue mani senza che egli faccia un sol gesto e un sol passo. Perché dovrebbe sostenere tanta spesa di favori e di servizi per acquistare qualche anima in soprannumero? Si dirà che si tratta di anime elette e magne che eccitano la sua particolare ingordigia. Ma egli deve pur riflettere che se tali anime son pronte a firmare l’impegno di accettare l’inferno per tutta la eternità, in cambio di qualche gioco di prestigio e di qualche voluttà della carne o dello spirito, è chiaro che in esse anime vi è già il seme e la concupiscenza del male. Non c’è dunque bisogno che il Diavolo diventi schiavo dei loro capricci e mezzano dei loro piaceri: presto o tardi quegli uomini così ben disposti a rinunciare a Dio e alla Salvezza, cadranno da sé nel peccato e nella perdizione.

 

Basterà aspettare, o tutt’al più, rinfocolare quei loro perversi spiriti con qualche tocco di appropriata tentazione. Conceder loro padronanza sugli spiriti del male è una spesa superflua e inutile. Nel caso che il Diavolo abbia il timore di un pentimento in extremis del peccatore che lo sottragga alle sue ugne, il Diavolo deve pensare che la misericordia e l’onnipotenza di Dio non conoscono ostacoli e che quell’anima sarà ad ogni patto salvata, anche se avesse firmato cento pergamene.

 

E qual’è d’altra parte, la convenienza di chi promette l’anima al Diavolo? Se costui crede a Satana e all’inferno, è quasi certo che crede, per logica necessità, anche a Dio e alla sua giustizia. Egli deve sapere, perciò, firmando quel patto, che esiste una Beatitudine e una dannazione eterna. Ma come è concepibile che un uomo, non stravolto dalla demenza, possa desiderare un patto secondo il quale egli promette di pagare pochi anni di soddisfazioni terrestri con una spaventosa tortura, fisica e spirituale, che non avrà mai fine?» [7].

 

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Al sorgere ed al persistere della generale persuasione dell’intesa diabolica concorse, tra le altre cause, la impossibilità, dato lo stato delle scienze e specie di quelle psichiche, di fornire una spiegazione scientifica a certi fenomeni dell’occultismo e della magia nera. Oggi, invece, si sa che alcuni fatti della stregoneria medioevale, come la persuasione delle streghe di muoversi e di andare ai sabba e di avere rapporti con Satana, si spiegano come forti allucinazioni provocate in soggetti psicopatici dall’uso dei filtri e degli unguenti con cui si ungevano.

 

La mancanza di lumi scientifici condizionò a lungo anche la teologia, che era costretta a muoversi, secondo gli schemi tradizionali, tra due poli antitetici, ma ambedue trascendenti, che erano Dio e Satana, attribuendo a Dio il bene e a Satana il male, quando bene e male si verificavano con caratteri di evento superiore alle forze naturali.

 

* * *

 

In tutte le leggende c’è sempre un nocciolo storico su cui poi lavora la fertile fantasia popolare sino a costituirvi intorno un alone sfumato di elementi irreali e fantastici attraverso i quali anche gli originari fatti appaiono fortemente deformati.

 

Nella leggenda demoniaca delle streghe di Benevento questi due elementi hanno radici diverse. Il primo, il nocciolo, è di origine longobarda; il secondo, il ricamo della fantasia, si deve al popolo di Benevento e si sviluppò in un’epoca in cui una sfrenata propensione al magico e al meraviglioso popolava di fantasmi tutta l’Europa.

 

Nell’anno 568 d.C. nell’Italia già sconvolta e devastata da precedenti invasioni barbariche, e passata sotto il dominio bizantino in seguito alle vittorie di Belisario e Narsete sugli Ostrogoti, irrompevano in una scia di distruzioni, saccheggi ed eccidi, i Longobardi di Alboino. Conquistata buona parte dell’Italia settentrionale e stabilita a Pavia la capitale del loro regno, i Longobardi spinsero verso il sud della penisola un forte nucleo di loro guerrieri guidati dal valoroso generale Zotone. Sorgeva così quel Ducato longobardo di Benevento che doveva restare in vita per più di 500 anni e sopravvivere alla caduta del Regno di Pavia: esso nel periodo della sua massima espansione, comprendeva tutta l’Italia meridionale ad eccezione di limitate fasce costiere tirreniche e ioniche. Quando i Longobardi del sud si convertirono al Cattolicesimo romano e venne quindi ad accentuarsi quel naturale fenomeno di fusione e di amalgama tra conquistatori stranieri e popolazioni indigene sottomesse, il dominio longobardo segnò per il Mezzogiorno d’Italia un lungo periodo di benessere, di pace e di civiltà. I Duchi e poi i Principi longobardi di Benevento che, nei primi tempi, erano stati oltre che brutali oppressori delle popolazioni, anche sacrileghi devastatori di chiese e di cenobi cristiani, si mostrarono, dopo la conversione, quanto mai solleciti nel proteggere belle arti e cultura e nel favorire il sorgere, specie nella loro capitale, di nuovi monasteri e di vari altri edifici destinati al culto cattolico.

 

Durante il principato di Arechi II (758-787), come è noto, Benevento divenne uno dei più importanti centri di cultura dell’Italia del sud. Basti pensare a quel cenobio di Santa Sofia, famoso non solo per le suggestive architetture della sua chiesa e dell’annesso chiostro, ma anche perché costituì un vero e proprio foro di umano sapere: qui fiorirono quel Paolo Warnefrido detto Diacono, che a Benevento scrisse la sua Historia Longobardorum, e quel Desiderio che fu poi abate di Montecassino e quindi pontefice con il nome di Vittore III, ambedue di stirpe longobarda. Nel cenobio sofiano ebbe inoltre sede uno scriptorium che curò la redazione di quei mirabili codici miniati che si possono ammirare nelle biblioteche beneventane, scritti in quella littera longobarda beneventana dalle originali caratteristiche tanto apprezzate dai dotti.

 

 

7. G. Papini, Il Diavolo, pag. 210 e segg.

 

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Tutte queste loro benemerenze non devono, però, far dimenticare che, prima della conversione al cattolicesimo, i Longobardi di Benevento avevano conservato per lungo tempo riti e usanze della loro terra di origine, la Germania. Paese di cupe foreste e di paurose leggende.

 

Nella Biblioteca Capitolare di Benevento si conserva un codice del secolo XII contenente la «Leggenda di S. Barbato», Vescovo di Benevento, che si acquistò meriti particolari nell’opera di conversione dei Longobardi. In questo manoscritto leggiamo, tra l’altro, che il duca Romualdo I (641-667), contemporaneo di S. Barbato, solo superficialmente convertito al cristianesimo, usava adorare segretamente una vipera bicipite d’oro sistemata in luogo appartato nella reggia longobarda. Altra usanza praticata da Romualdo e dai suoi predecessori era quella di radunarsi con il fior fiore dei loro guerrieri fuori le porte della città, presso un frondoso albero di noce da essi consacrato a Wotan, il dio germanico della guerra. Ai rami dell’albero essi sospendevano delle pelli di animali e quindi, balzati in groppa ai propri cavalli lanciati al galoppo, le saettavano con lance e dardi e masticavano i frammenti di pelle che ne cadevano. Forse si trattava di una semplice esercitazione militare, ma le popolazioni cristiane di Benevento, e in primo luogo il monaco Barbato, videro in quelle assemblee di guerrieri una manifestazione di superstizione pagana.

 

Nell’anno 663, quando Benevento venne assediata dall’imperatore bizantino Costante II, il duca Romualdo cadde in una profonda costernazione perché disperava di poter resistere all’assedio. In un secondo momento poi decise di armare tutti i cittadini atti alle armi, di spalancare le porte della città e di andare incontro al nemico per sconfiggerlo o per morire tutti in difesa della patria. In tale occasione il monaco Barbato gli fu di grande aiuto e conforto: lo convinse che quella calamità era un castigo di Dio e gli promise l’intercessione delle proprie preghiere per salvare la città qualora i Longobardi si fossero sinceramente convertiti al cattolicesimo ed avessero fatto cessare le loro pratiche idolatriche. Romualdo accettò le condizioni proposte dal monaco Barbato e fu ben fortunato: alcuni giorni dopo il loro colloquio, l’imperatore Costante, preoccupato per l’avvicinarsi di un esercito longobardo dal nord, levò l’assedio e si diresse verso Napoli, favorendo involontariamente le pie intenzioni di Barbato. Infatti, Romualdo nell’inattesa levata dell’assedio vide un segno del Cielo, fece eleggere vescovo di Benevento il monaco Barbato e gli lasciò campo libero nell’azione intrapresa per distruggere ogni vestigia di idolatria. Il neo-vescovo iniziò dalla vipera d’oro che fece fondere, ricavandone oggetti di culto cattolico. Fu poi la volta del noce sacro a Wotan: per cancellarne ogni forma di adorazione, il santo Barbato pose molto zelo non disgiunto da una certa dose di teatralità. Parato in vesti pontificali e seguito da tutto il clero beneventano, si portò processionalmente nel luogo dove sorgeva l’albero maledetto e, impugnata un’accetta, lo recise con le proprie mani e ne divelse persino le radici. Su quel luogo, poi fece edificare una chiesa dedicata a S. Maria del Voto.

 

Questa leggenda di S. Barbato contenuta, come si è detto, nel Codice XXII della Biblioteca Capitolare di Benevento, è detta la leggenda lunga. C’è poi la cosiddetta leggenda breve, forse di redazione anteriore, la quale non fa alcun cenno del culto della vipera e del noce da parte dei Longobardi; è più sobria per quanto riguarda la parte miracolistica attribuita a S. Barbato e parla solo genericamente di superstizioni che quel vescovo avrebbe fatto cessare. Il dotto G. Cangiano ha cercato di dimostrare, nella sua monografia da noi già citata, che la leggenda lunga non è storicamente attendibile, specie quando si riferisce al culto della vipera e dell’albero sacro, mentre quella breve è per lui la sola «legittima». Le sue argomentazioni non sono prive di validità; Paolo Diacono - egli dice - non parla affatto di culti superstiziosi da parte dei Longobardi aventi per oggetto la vipera e l’albero di noce; inoltre, non risulta da altre fonti che in altre parti d’Italia i Longobardi praticassero quei culti.

 

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Tuttavia, pur dando atto al Cangiano dell’acutezza delle sue osservazioni, bisogna dire che esse sono tardive; la leggenda lunga fu per secoli ritenuta vera, fu adottata come lezione nell’Officiatura diocesana di S. Barbato e venne assunta dai vescovi e dai sacri oratori beneventani come base sicura, per tessere gli elogi del santo presentato sempre come sradicatore del noce longobardo. Una stampa del 1600, riportata nel libro di Mons. Grassi sui Pastori della Cattedra Beneventana, ci mostra S. Barbato mentre si avventa contro il famoso albero intorno al quale si attorcigliano e stridono mostri e serpenti. Ce n’era quanto bastava perché si creasse la convinzione che a Benevento, nell’VIII secolo, si fossero svolti culti demoniaci e perché, quando verso il secolo XVI venne di moda il parlare di streghe e dei loro notturni conciliaboli, si pensasse a Benevento e al suo noce come al posto ideale per la tregenda delle streghe, la quale altro non era che un culto demoniaco.

 

Si dirà che l’albero era stato distrutto da S. Barbato; ma la fantasia popolare fece presto a farlo risorgere più rigoglioso di prima. Tutto questo se non vogliamo tener conto di quanto scrive Pietro Piperno senior e cioè

 

«neque est erroneum tenere, ut alii tenent, saepe nucem illam, ab illustrissimis Archipiscopis funditus abscissam, vi demonis esse regenitam et pullulatam» [8].

 

Sorgeva così la leggenda delle streghe di Benevento, come sviluppo e aggiornamento dell’antica leggenda longobarda che ne è il supporto e il fondamento. L’impianto delle due leggende è lo stesso. Attorno al noce fatato nella fantasia popolare continuarono le danze, non più di guerrieri longobardi spronanti alla corsa i cavalli, ma di streghe radunate per il rituale convegno; non più pelli di animali appese ai rami, ma lo stesso demonio che appariva alle presenti sotto forma di caprone o di vipera attorcigliata al tronco; non più i frammenti di pelli mangiate dai guerrieri di Wotan, ma il banchetto e l’orgia della notturna tregenda.

 

Alcuni anni addietro a Benevento si ventilò l’idea di erigere un monumento, per la precisione una fontana, alle streghe; l’opinione pubblica si divise in pro e contro. Alla fine prevalse la tesi degli oppositori e il progetto cadde. E giustamente, a noi pare.

 

 

8. N. Piperno, op. cit., pag. 51. 

 

BIBLIOGRAFIA

 

·       G. Cangiano - Origini della Chiesa Beneventana, Benevento, 1925. 

·       G. Cangiano - Sulla leggenda della vipera longobarda e delle streghe di Benevento, Benevento, 1930. 

·       De Blasio - Incantatori, maghi e streghe di Benevento, Napoli, 1900. 

·       S. De Lucia - Diavoli e streghe a convegno, Benevento, 1952. 

·       Martino Del Rio - Disquisitionum magicarum, Libri sex, 1601. 

·       Paolo Diacono - Historia Longobardorum

·       Dina - L’ultimo periodo del Principato longobardo, Benevento, 1899. 

·       F. Grassi - I Pastori della Cattedra Beneventana, Benevento, 1969. 

·       Iamalio - La Regina del Sannio, Napoli, 1918. 

·       G. Papini - Il Diavolo, Firenze, 1954. 

·       Pietro Piperno - De effectibus magicis, Libri sex, Napoli, 1647. 

·       Pietro Piperno - De Nuce Maga Beneventana, Napoli, 1647.

 

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