Centro italiano di studi sull’alto medioevo, Spoleto

 

 

Movimento signorile e affermazione ecclesiastica nel contesto distrettuale di Pombia e Novara fra X e XI secolo

 

Giuseppe Sergi

 

 

Studi medievali 3a Serie 16 (1975), S. 153-206

 

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1. La zona e i suoi problemi : l’aristocrazia franca, i distretti pubblici e l’espansione degli organismi ecclesiastici  153

2. Anscarici, Arduinici e «Manfredingi» a Mosezzo nel X secolo  169

3. Le presenze signorili a Mosezzo nell’XI secolo  178

4. L’acquisizione vescovile dei distretti pubblici  186

- Appendice: Note sul territorio agrario di Mosezzo  202

 

 

1. (La zona e i suoi problemi : l’aristocrazia franca, i distretti pubblici e l’espansione degli organismi ecclesiastici.)

 

L’analisi territoriale, amministrativa e prosopografica della regione corrispondente all’attuale Piemonte settentrionale nei secoli X e XI è pressoché ferma da molti anni. Questioni distrettuali e genealogiche che hanno impegnato studiosi locali della fine del secolo scorso e dei primi decenni di questo secolo, dopo aver trovato soluzioni anche troppo complete per non essere largamente congetturali (1), non solo sono rimaste sostanzialmente insolute, ma sono state anche per lungo tempo evitate da una storiografia che accettava di inquadrare meccanicamente le proprie ricerche negli ipotetici contesti suggeriti dagli studi precedenti (2).

 

 

(1) Mi limito a ricordare, in quanto sono stati costante punto di riferimento per i contributi successivi, F. Gabotto Per la storia del Novarese nell’alto medio evo, in Bollettino storico per la provincia di Novara, XI (1917), pp. 5-37, 143-152, e XII (1918), pp. 53-67, e i volumi Eporediensia e Studi eporediesi, Pinerolo, 1900 (Biblioteca della Società storica subalpina, 4 e 7), all’interno dei quali particolare rilievo hanno le Indagini di F. Gabotto e di B. Baudi di Vesme. L’opera «classica» di erudizione locale che abbraccia tutta la zona in cui si inseriscono i temi del presente studio è quella di I. Durandi, Della marca d’Ivrea tra le Alpi, Il Ticino, l’Amalone, il Po, per servire alla notizia dell’antico Piemonte transpadano, Torino, 1804. Meno utilizzata dalla storiografia successiva, ma esemplare di una erudizione ricca di informazione, densa di dati, troppo tentata dalle connessioni ipotetiche, e in larga parte aproblematica è l’opera di A. Rusconi, I conti di Pombia e di Biandrate secondo le carte novaresi, Milano, 1885.

 

(2) Valga un solo esempio: P. Brayda de Soleto, Corsa genealogica fra le grandi famiglie dell’alto medioevo italiano: i Robaldini e gli Anscarici, Bene Vagienna, 1938, opera quasi anacronistica per impostazione e strettamente legata alle conclusioni dei genealogisti dell’inizio del secolo. Cfr. anche più avanti, n. 10.

 

 

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È significativo in tal senso il fatto che alcune recenti sintesi divulgative riescano, per zone come l’Eporediese e il Novarese, fortemente dubitative (3). Soltanto per una zona come la «Bulgaria», la cui collocazione territoriale lungo il Ticino inferiore è di precisazione difficile,

 

 

(3) Mi riferisco a F. Carandini, Vecchia Ivrea, Ivrea, 1963, volume dall’impostazione diacronica particolarmente divulgativa e soprattutto, per il maggior Impegno critico, a F. Cognasso, Novara netta sua storia, in Novara e il suo territorio, Novara, 1952.

 

 

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sono state condotte ricerche molto serie, con qualche tentativo di suggerimento per zone più occidentali (4).

 

La causa di questa carenza complessiva di chiarezza non è da ricercare nella povertà quantitativa della documentazione, ben-, sì in alcuni suoi aspetti di reticenza e di contraddittorietà: aspetti a cui corrisponde evidentemente una realtà complessa, un problema storico da non eludere. L’ombra che dopo la. metà del X secolo - in seguito alla comparsa del marchese Anscario II (5) - si va facendo più fitta sulla struttura e sulla gestione della più grande realtà distrettuale dell’Italia nord-occidentale, la marca di Ivrea (6), deve essere affrontata tenendo conto di fattori politici locali che hanno evidentemente accelerato processi disgregativi dell’ordinamento pubblico, creando nel contempo le condizioni per fermenti politici e sociali anomali o, almeno rispetto al restante Piemonte, precoci, di cui la discussa esperienza di Arduino re italico e il potenziamento vescovile sono gli esempi più significativi (7).

 

 

(4) Esempio di ricerca specifica sulla Bulgaria metodologicamente accettabile, con cui anche la medievistica attuale si può confrontare, è lo studio di F. Pezza, Profilo della Bulgaria Italiana e vicenda comitale di Novara nell’alto medioevo, in Bollettino storico per la provincia di Novara, XXIX (1935), pp. 39-91. Il problema è stato ripreso con analisi attentissima e prudente da A. Cavanna, Para sala arimannia nella storta di un vico longobardo, Milano, 1967, in particolare alle pp. 22-45 e note relative, che, dimostrata la presenza di una parte del comitato di Bulgaria a destra del Ticino, ne rileva il carattere sostanzialmente «enigmatico». Affrontando questi temi il Cavanna prende in considerazione, soprattutto in alcune note, il problema distrettuale di Novara su cui qui torneremo (cfr. oltre, n. 136 sgg.). Segnaliamo ancora che del Novarese ha avuto recentemente occasione di occuparsi Hagen Keller, in una  conferenza sul vassalli dei vescovi di Novara nella seconda metà del secolo X, le cui conclusioni dovrebbero essere raccolte in un volume di prossima pubblicazione. È lo stesso autore a informarne: H. Keller, La marca di Tuscia fino all’anno mille, in Lucca e la Tuscia nell’alto medioevo (Atti del 5° Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo, Lucca, 3-7 ottobre 1971), Spoleto, 1973, p. 131, n. 158.

 

(5) M. O. Bertolini, Anscario, in Dizionario biografico degli Italiani, III, Roma, 1961, p. 375 sgg. e O. Sergi, Una grande circoscrizione del regno italico : la marca arduinica di Torino, in Studi medievali, s. 3a, XII (1971), p. 651.

(6) Sergi, La marca arduinica cit., p. 647 sgg.

 

(7) Il riferimento all’esperienza di Arduino è soprattutto relativo alla sua base sociale di servi, di chierici In posizione antivescovile, di un vasto «ceto medio» militare su cui informano alcuni diplomi di Ottone III e di Enrico II (M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II, 2, pp. 748-751, doc. 323, 7 maggio 999; III, 1, pp. 404, 408, doc. 322, s. d. e p. 426 sg., doc. 336, 4 ottobre 1015), fonti preziose «in attesa di ricerche esaurienti che definiscano la struttura sociale del mondo in cui si verificarono questi conflitti» (O. Arnaldi, Arduino re d’Italia, in Dizionario biografico degli Italiani, IV, Roma, 1962, p. 54). Quanto al potenziamento vescovile, in questa zona del Piemonte esso si avvia con circa un secolo di anticipo rispetto al Piemonte centro-meridionale, dove ia saldezza di un’aristocrazia laica e di un distretto marchionale hanno ritardato il processo: cfr. Sergi, La marca arduinica cit., p. 653 sgg. In questo settore più settentrionale il potenziamento vescovile, inserito in una maggiore labilità del potere laico, prende le mosse nella seconda metà del X secolo, secondo tempi che sono i più normali per altre regioni d’Italia: cfr. V. Fumagalli, Vescovi e conti nell’Emilia occidentale da Berengario I a Ottone I, in Studi medievali, s. 3a, XIV (1973), p. 137 sgg.

 

 

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Una ricostruzione dell’assetto territoriale di queste zone e dei legami, parentali e politici, fra gli esponenti dell’aristocrazia militare franca in esse operante non è dunque agevole come per qualche altro settore della regione subalpina (8). Ma un’indagine sistematica in questo senso, che necessiterà di un certo numero di contributi specifici, risponde alle esigenze dei dibattiti attualmente più vivi sulle trasformazioni dell’Italia centro-settentiionale nel medioevo. In questa prospettiva si colloca il presente studio, che si propone di verificare il significato delle presenze di diversi gruppi parentali nella corte incastellata di Mosezzo, particolarmente documentata e inserita in una zona di tradizionale presenza anscarica come il Novarese (9), e di presentare suggerimenti interessanti la storia delle istituzioni.

 

Il problema di fondo è individuabile nei destini della famiglia anscarica e nel collegamento fra marchesi e conti appartenenti ad essa sicuramente nel X secolo e i non pochi personaggi dei due secoli successivi, assegnati dagli eruditi al ceppo anscarico, di gran lunga il prediletto in alberi genealogici per lo più costruiti su semplici corrispondenze onomastiche, senza tener conto neppure delle dichiarazioni di legge (10).

 

 

(8) La marca arduinica di Torino risponde, dalla metà del secolo X alla fine dell’XI, ad una situazione in cui continuità del potere marchionale, egemonia di una famiglia, rallentamento dell’emergere di nuovi nuclei di potere laico ed ecclesiastico (collegato con la vastità delle presenze patrimoniali degli Arduinici) si presentano come elementi caratteristici. Questo territorio rimane cioè per motti anni estraneo ad alcune delle spinte innovatrici tipiche dell’Italia settentrionale. Sul caso specifico qui ricordato e sul problema generale del rinnovamento delle famiglie egemoni dell’Italia settentrionale cfr. Sergi, La marca arduinica cit., e V. Fumagalli, Le origini di una grande dinastia feudale. Adalberto-Atto di Canossa, Tübingen, 1971 (Bibliothek des deutschen historischen. Instituts in Rom, XXXV). Sulle forti differenze fra diverse zone dell’Italia centro-settentrionale per quanto concerne l’assetto distrettuale carolingio cfr. E. Taurino, L’organizzazione territoriale della contea di Fermo nei secoli VIII-X, in Studi medievali, s. 3a, XI (1970), pp. 659-663, a cui rinvio anche per l’informazione sulle più significative tesi avanzate in sede storiografica.

 

(9) Già nel marzo 902 una permuta fra un privato e il vescovo novarese Garibaldo, relativa a beni posti nella zona di Novara, avviene con la «licencia» dell’anscarico Adalberto «inluster mar[c]hio et comes»: C. Colombo, Cartario di Vigevano e del suo comitato, Torino, 1933 (Biblioteca della Società storica subalpina, 128), p. 10, doc. 4; già pubblicato in F. Gabotto, A. Lizier, A. Leone, G. B. Morandi, O. Scarzello, Le carte dell’Archivio capitolare di S. Maria di Novara, I, Pinerolo, 1913 (Biblioteca della Società storica subalpina, 78), p. 31, doc. 22.

(10) Oltre alla nota genealogia pubblicata nella tavola I dell’Appendice di T. Rossi, F. Gabotto, Storia di Torino, I, Torino, 1914 (Biblioteca della Società storica subalpina, 82) segnaliamo in particolare, per la ricchezza di connessioni genealogiche largamente discutibili, il contributo di A. Riccio, La casa anscarica e le sue diverse diramazioni in Piemonte, in Rivista del collegio araldico, XIII (1915), p. 449 sgg., da cui dipende in parte Brayda de Soleto, op. cit. (sopra, n. 2).

 

 

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Dopo Anscario II d’Ivrea, due marchesi sicuramente anscarici, Guido e Corrado Conone, si succedettero nella seconda metà del X secolo nel governo di una marca d’Ivrea drasticamente ridotta rispetto alla vasta circoscrizione controllata dai loro predecessori: tutto il Piemonte centro-meridionale e la Liguria sfuggirono alla loro amministrazione e nuovi marchiones, Arduino il Glabro, Oberto, Aleramo, preposti ad ambiti territoriali di non sempre facile definizione ma con ogni probabilità ritagliati all’interno della vecchia marca d’Ivrea, davano avvio ad una politica ormai tendenzialmente dinastica a cui la connessione con il regno conferiva un impulso particolare (11). Sia Guido, sia Corrado, entrambi figli di Berengario II e di Villa (12), sono pochissimo documentati e il loro stesso collegamento con la nuova e minore marca d’Ivrea, per quanto possa difficilmente essere messo in dubbio, non è attestato in modo preciso. Guido compare come «marchio» in un diploma del 25 ottobre 960 (13) ed è già detto «quondam marchio» il 12 settembre 963 (14). Se si deve prestar fede ad alcune cronache, Guido fu ucciso in combattimento contro le milizie ottomane guidate da Burcardo nel 965 (15) : il «quondam» sarebbe dunque da riferire ad un decadimento dalle funzioni di marchese, precedente la sua stessa scomparsa. Erano anni difficili e tragici per Berengario II e per i suoi figli. Sono eventi noti, ma ricordiamo l’efficace narrazione di Arnolfo:

 

«Otto (...) venit Italiam, primus ex Teutonibus imperator dictus Italicus; cumque illi subiecta fierent omnia, Berengarium ipsum arce quadam robusta munitum diuturna vallens obsidione subegit, filiis circumquaque dispersis Widone, Adalberto et Conone. Illum vero cum filiabus et coniuge captum reum devexit in Sueviam, ubi non multo post in amaritudine animae diem clausit extremum» (16).

 

 

(11) Sergi, La marca arduinica cit., p. 657.

(12) Ciò i chiaramente attestato per entrambi da un diploma di Ottone I dei 12 settembre 963: M.G.H. Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, p. 371, doc. 260.

(13) L. Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario li e di Adalberto, Roma, 1924 (Fonti per la storia d’Italia, 38), p. 333, doc. 14: è una donazione di Berengario II e di Adalberto alla regina Villa, effettuata «interventu ac petitione Vuidonis marchionis».

(14) Cfr. sopra, n. 12.

(15) Annales Einsidlensens, a cura di Q.H. Pertz, in M.G.H., Scriptores, 3, Hannover, 1839, p. 142 sg.: «Purchardus dux Italiam hostiliter ingressus, bellum cum Adalberto iniit, eoque fugato eiusque fratre Widone interfecto, ad imperatorem victor rediit». Su altri cronisti che riferiscono lo stesso episodio cfr. F. Gabotto, Un millennio di storia eporediese, in Eporediensia cit., p. 18, n. 2.

(16) Arnulphi Gesta archiepiscoporum Mediolanensium, a cura di L. C. Bethmann e W. Wattenbach, in M.G.H., Scriptores, 8, Hannover, 1848, p. 8, lib. I, cap. 7.

 

 

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Non stupisce quindi che in una tale situazione a Guido fosse stata sottratta la giurisdizione marchionale.

 

Le sorti di Corrado Conone tuttavia non si deteriorarono completamente. È ancora Arnolfo a informarcene: «Widone interfecto, Conone pactione quieto», solo Adalberto nel 974 ormai «in diversa profugus» manteneva la sua ostilità ad Ottone (17). Corrado con la sua condiscendenza si candidava al mantenimento di un ruolo nella ristrutturazione dei gruppi dirigenti che faceva seguito al nuovo assetto del regno. Una donazione alla chiesa vercellese del 30 settembre 987 testimonia a un tempo l’assunzione del titolo marchionale da parte di «Curado qui et Cona (...) filius bone memorie Berengarii» e il legame con i più forti esponenti subalpini della nuova aristocrazia militale in ascesa, gli Arduinici di Torino: la sua sposa è infatti Richilda, figlia di Arduino il Glabro (18). Una confusa e tarda notizia di Galvano Fiamma (19), per gli anni compresi fra il 957 e il 961, da un lato consentirebbe di supporre che Corrado non fosse nuovo alla carica di marchese - anche se esercitata, secondo il Fiamma, semplicemente «in comitatu Mediolani» -, dall’altro aprirebbe alcuni problemi di attribuzione distrettuale. Guido e Corrado erano dunque ufficiali pubblici negli stessi anni e in circoscrizioni diverse ? La risposta parrebbe positiva affiancando - con un procedimento combinatorio in verità da usare con estrema cautela - la testimonianza documentaria del 960 per Guido con quella del Fiamma per il fratello: verrebbe così ad essere avvalorata l’assegnazione di Guido al più occidentale degli ambiti di potere anscarico, cioè la marca d’Ivrea. Mutata completamente la situazione politica, quasi trent’anni dopo, Corrado attribuiva a se stesso il titolo marchionale in una carta privata per una consuetudine di prestigio oppure per un effettivo esercizio dell’ufficio ?

 

 

(17) Op. cit., p. 9, lib. I, cap. 8.

(18) D. Arnoldi, G. C. Faccio, F. Gabotto, G. Rocchi, Le carte dell’Archivio capitolare di Vercelli, Pinerolo, 1912 (Biblioteca della Società storica subalpina, 70), p. 18, doc. 18. L’ipotesi, completamente priva di fondamento, secondo cui l’Arduino padre di Richilda sarebbe Arduino d’Ivrea, il futuro re d’Italia, fu avanzata da L. O. Provana, Studi critici sovra la storia d’Italia a’ tempi del re Ardoino, Torino, 1844, p. 70.

(19) Galvanei Flammae Chronicon maius, a cura di A. Ceruti, in Miscellanea di storia italiana, VII (1809), p. 586: «tunc Berengarius Litulfum veneno estinxit, et totam Ytaliam optinuit. Conradum filium suum marchionem in comitatu Mediolani instituit, cuius uxor dicta est Richelda; et donavit ecclexie Mediolanensi curiam de Trechate». Cfr. anche Schiaparelli, I diplomi di Ugo e di Lotario cit., p. 380, doc. 7. Una donazione di Corrado e Richilda, relativa a beni in Trecate e destinata alla chiesa milanese è ricordata anche da Tristano Calco, Mediolanensis historiae patriae libri viginti, Milano, 1627, p. 119 (a. 989).

 

 

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In questo secondo caso, su quali zone esercitava il potere marchionale ? Certo l’uso del titolo di marchio è meno significativo in una carta privata che in un diploma regio: tuttavia il titolo nelle carte di questi anni non appare di largo uso, né adottato con semplice valore formale da tutti i membri delle famiglie marchionali, come avverrà invece nell’XI secolo (20). È quindi legittimo ritenere che il titolo documentato nel 987 corrispondesse ad un ufficio effettivamente esercitato da Corrado Conone. Circa la seconda questione, è molto improbabile che Corrado avesse funzioni pubbliche nel Milanese, mentre gli interessi nel Vercellese e la materiale sua presenza «in civitate Eporeia» (21) suggeriscono che fosse stato preposto come funzionario al territorio tradizionalmente facente capo a Ivrea. In esso Corrado, unico membro sopravvissuto politicamente della famiglia marchionale anscarica, poteva forse contare su una base di rapporti personali e di presenze patrimoniali che il re non trascurava di considerare nello scegliere funzionari che garantissero una reale capacità d’intervento. Lo stesso apparentamento con gli Arduinici si inserisce nella logica dell’assunzione di queste nuove responsabilità politico-militari nell’Italia nord-occidentale.

 

Questo ‘ritorno‘ di un Anscarico dovette avvenire in condizioni di forza ben diverse da un tempo. Soprattutto la base patrimoniale doveva essere uscita gravemente impoverita dallo scontro con Ottone I, che certamente aveva fatto ricorso a confische. Nel 963 è documentata una confisca riguardante appunto Guido e Corrado: furono donati al vescovo di Modena tutti i beni che i due fratelli avevano posseduto nel Modenese e nel Bolognese (22). Sorte non migliore dovettero avere molti altri possedimenti anscarici.

 

 

(20) Si veda ad esempio la generalizzazione dell’uso dei titolo marchionale nelle carte private e in una bolla papale a membri diversi della famiglia arduinica nell’XI secolo, mentre si sottraggono a questa confusione i diplomi regi: Sergi, La marca arduinica cit., p. 662, e nota 106 ex.

(21) Arnoldi... Rocchi, op. cit., p. 20, doc. 16. Le donazioni alla chiesa milanese di cui abbiamo solo tarde testimonianze possono essere assunte come prova di un permanente legame con ambienti milanesi, ma i significativo che per esse si attinga a beni posti al di qua del Ticino.

(22) Passano al vescovo Guido di Modena (su cui cfr. Fumagalli, Vescovi e conti cit., sopra, n. 7, p. 175 sgg.) «omnes proprietates vel res que per qualiacumque instrumenta cartarum obvenerunt Vuidoni quondam marchioni seu Conrado qui et Cono dicitur, filii Berengarii et Vuille ipsius Berengarii uxoris eorumque matris, tam in comitatu Motinense seu Boloniense»: M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, p. 371, doc. 260. Per altre confische dirette contro Berengario II e Villa cfr. op. cit., I, p. 346, doc. 243 (29 ugiio 962) e p. 387, doc. 272 (s.d.).

 

 

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L’assenza di documenti impedisce di approfondire il tipo di gestione del potere di Corrado, nell’appoggiarsi al quale il potere regio era in una condizione particolarmente vantaggiosa: Corrado era sufficientemente inserito nel territorio, ma anche in ‘posizione abbastanza precaria e tale da garantire contro ogni avventura autonomistica (23).

 

A questo punto cessa una documentazione atta ad accertare la presenza anscarica ad alto livello politico. La storia della Langobardia nel passaggio dal X all’XI secolo è ormai condizionata da Arduino, marchese d’Ivrea - succeduto, è logico pensarlo, appunto a Corrado (24) - e futuro re. Accennavo, all’inizio di questo excursus sui titolari della marca eporediese, alla problematica connessione tra gli Anscarici del X secolo e i loro presunti discendenti del secolo successivo. La difficile collocazione genealogica di Arduino d’Ivrea è il punto, nodale di quella connessione. Arduino è stato considerato anscarico da una solida tradizione, a cui non era estranea la visione statica che gli eruditi del Settecento e dell’Ottocento ebbero dell’età post-carolingia:

 

 

(23) È possibile che col nostro marchese sia identificabile il Conone che è citato come già scomparso in una carta del 15 gennaio 998: il Aglio Otto «dux» vi appare orientato verso la stessa zona ticinese. «Otto dux filius bone memorie Cononi» compera beni e castelli da Liutfredo vescovo di Tortona: Historiae patriae monumenta, XIII, Codex diplomaticus Langobardiae, col. 1852, doc. 940. Accettando la notizia di una donazione alla chiesa milanese riferita da Tristano Calco (cfr. sopra, n. 19) al 989, la morte di Corrado dovrebbe essere collocata tra il 989 e il 998. La considerazione di un placito del 19 aprile 996, ora edito in C. Manaresi, I placiti del Regnum Italiae, II, I, Roma, 1957 (Fonti per la storia d’Italia, 96), pp. 328-334, doc. 226, da cui risulta che nel novembre 995 Adelaide aveva donato ai canonici di Vercelli la stessa corte di Caresana che era stata donata da Corrado e Richilda, aveva indotto il Dionisotti a ritenere che se ciò era avvenuto, era perché Corrado era nel frattempo morto (C. Dionisotti, I reali d’Italia d’origine nazionale antichi e nuovi, Torino-Roma, 1893, p. 30). La questione delle successive donazioni e conferme di Caresana ai canonici vercellesi è in realtà molto più complessa di quanto II Dionisotti non credesse: si veda su questo H. Oroneuer, Caresana. Eine oberitalienische Grundherrschaft tm Mittelalter (987-1261), Stuttgart, 1970 (Forschungen zur Sozial- und Wirtschaftsgeschichte, 15), ppi 1-11. Comunque il silenzio del placito su Corrado (che non i quindi citato, come antico proprietario ormai defunto) non consente affatto di arguirne l’avvenuta scomparsa.

 

(24) «Tunc Ardoinus quidam nobilis Ypporegiae marchio a Langobardis Papiae eligitur, et vocatus Caesar ab omnibus regnum perambulat universum»: Arnulphi Gesta cit. (sopra, n. 16), p. 10, lib. I, cap. 14 (febbraio 1002). «Interea Ardoinus nobilis et marchio altus (...) quasi furtim in regem surrexerat»: Landulphi Senioris Mediolanensis Historiae libri quatuor, a cura di A. Cutolo, in Rerum Italicarum Scriptores, 2aed., IV, 2, Bologna 1942, p. 54, lib. II, cap. 19; altra ed. a cura di L. C. Bethmann e W. Wattenbach, in M.G.H., Scriptores, 8, Hannover, 1848, p. 57. Sono questi i soli due passi delle fonti narrative da cui risulti la precedente carica marchionale di Arduino: in particolare Arnolfo consente di collegare con Ivrea l’esercizio della carica. Un diploma di Ottone III in favore di Leone di Vercelli del 7 maggio 999 (M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II, 2, p. 752, doc. 324) concede i comitati di Vercelli e di Santhià, con immunità da tutti, «nec etiam Yporiensis marchio». Arduino è anche definito «marchio» (senza specificazione di località) in un diploma di Ottone III dell’anno successivo: op. cit., p. 811, doc. 383 (1o novembre 1000).

 

 

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in essa individuarono una rigida e precoce dinastizzazione delle cariche pubbliche e l’impossibilità di accelerati fenomeni di ricambio politico (25). Sono stati talora avanzati dubbi, ma quella tesi ha continuato a prevalere - in modo tacito e quindi acritico - fino ai nostri giorni (26). Certo è una soluzione ‘comoda’: non vi sarebbero state soluzioni di continuità dinastica nella gestione della marca d’Ivrea, lo stesso successo del marchese era collegabile con l’appartenenza ad un affermato gruppo parentale. I genealogisti poi si sbizzarrirono nel collegare con Arduino un gran numero di famiglie signorili dell’Eporediese, del Canavese e di altre regioni, attribuendo a tutte origini anscariche (27).

 

 

(25) La dichiarazione più esplicita in questo senso è di D. Carutti, Il conte Umberto I e il re Arduino, Roma, 1884, p. 255, il quale ammette che la sua convinzione che Arduino non potesse essere un homo novus o appartenente ad una famiglia di recente affermazione aristocratica è «la ragione precipua» per cui è indotto ad annetterlo con la «casa» marchionale di Ivrea.

 

(26) Se pur con formula dubitativa, la tesi dell’anscaricità di Arduino è stata recentemente ripresa da Arnaldi, op. cit. (sopra, n. 7), p. 53, da Bertolini, op. cit. (sopra, n. 5), p. 375, e da Sergi, La marca arduinica cit., p. 666. Sarebbe troppo lungo fare una rassegna completa delle varie posizioni espresse sul problema. Mi limito a ricordare alcuni degli assertori principali delle diverse soluzioni, di cui in particolare appunto quella anscarica è stata sostenuta con passaggi genealogici fra loro molto diversi. L. Della Chiesa, Dell’istoria di Piemonte libri tre, Torino, 1608, p. 37 ritenne Dadone un quarto figlio di Berengario II, oltre a Corrado, Adalberto e Guido. C. Tenivelli, Biografia piemontese, I, Torino, 1784, p. 175, identificò Dadone con Corrado Conone. In favore di una discendenza di Arduino da Berengario II si espresse anche H. Pabst, Arduins Geschlecht und Familienverbindungen, in S. Hirsch, Jahrbücher des deutschen Reichs unter Heinrich II., Berlin, 1864, p. 460. Il Carutti, op. cit., p. 280 sgg. ritenne che Dadone fosse figlio (li Anscario II, dopo aver in una prima edizione della sua opera avanzato l’ipotesi che Corrado Conone (= Corradone) e Dadone fossero la stessa persona, e Arduino rientrasse quindi nel ramo di Berengario II. Qualcuno si schierò in favore della parentela «acquisita» da Arduino attraverso un matrimonio: C. Dionisotti, Le famiglie celebri medievali dell’Italia superiore, Torino, 1887, p. 14 ritenne che Arduino avesse preso in moglie una figlia di Corrado Conone; lo stesso Dionisotti, in un’altra opera, I reali d’Italia cit., p. 33, scrisse che «Ardoino, che apparteneva a famiglia illustre (...) personaggio influente per posizione propria (...) favorito (...) dalie relazioni di parentela col membri della famiglia marchionale d’Ivrea che non eransi compromessi, sollecitò ed ottenne il governo della marca». B. Baudi di Vesme, Il re Ardoino e la riscossa italica contro Ottone III e Arrigo I, in Studi eporediesi, Pineroio, 1900 (Biblioteca della Società storica subalpina, 7), pi 2 sgg., sostenne invece che Dadone era figlio di un Amedeo fratello di Berengario II. La soluzione del Baudi è rimasta fra le più accettate, al pari di quella del Carutti (Dadone figlio di Anscario II) giudicata ad esemplo «attendibile» da S. Pivano, Stato e chiesa da Berengario I ad Arduino (888-1015), Torino, 1908, p. 130. - Meno fortunata, ma degna di nota, è stata la tendenza a collegare il marchese d’Ivreà con la famiglia Arduinica di Torino. L. A. Muratori, Delle antichità estensi e italiane, I, Modena, 1717, p. 104 sgg. e Id., Annali d’Italia, VI, Lucca, 1763, p. 33, fu piuttosto orientato in questo senso, e comunque si impegnò a negare la discendenza da Berengario II. Favorevole alla soluzione «arduinica» fu O. T. Terraneo, La principessa Adelaide contessa di Torino con nuovi documenti illustrata, I, Torino, 1759, p. 187 sgg. In tempi più recenti sostenne un prossimo grado di parentela tra Arduino d’Ivrea e gli Arduinici di Torino Provana, op. cit. (sopra, n. 18), passim. Posizione completamente dubitativa fu quella di Durandi, Della marca cit. (sopra, n. 1), p. 52: «non si sa né qual fosse la famiglia del conte Dadone né qual la contea retta da lui».

 

 

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Una presentazione veramente sistematica di tutte le questioni e di tutti i documenti relativi alla storia di Arduino si risolverebbe invece in un. lungo elenco di dubbi e di incertezze.

 

Mi limito alla presentazione di alcuni aspetti del problema di Arduino, che meriterà uno studio apposito, allo scopo di invitare gli studiosi a considerare soltanto come possibile, ma assolutamente non sicura, l’appartenenza di Arduino alla famiglia anscarica. Non escludo che tale parentela possa riuscire confermata da indagini ulteriori, ma sarà lecito proporla come veramente probabile solo quando sarà possibile una nuova e serrata dimostrazione, con l’ausilio di nuovi dati. L’esperienza di Arduino, quando siano considerate attentamente le indagini condotte in passato, può per ora essere interpretata in un modo del tutto diverso da quello solito; può essere l’ascesa di un funzionario di distretto minore - il comitato di Pombia (28) - divenuto titolare di marca (29) e poi re: in tale ascesa eventuale sarebbero elementi concorrenti l’appoggio iniziale del potere regio, il vuoto politico locale determinato dalla fragilità anscarica, l’appoggio di forze sociali fin allora non direttamente coinvolte nelle maggiori responsabilità politiche (30).

 

Non è necessaria in questa sede un’esposizione delle varie teorie genealogiche, spesso diverse fra loro anche quando concordi in una generica origine anscarica (31). Basti per ora rilevare che dei due soli documenti che potrebbero fornire elementi per collegare Arduino con la famiglia marchionale eporediese, uno è già stato giudicato apocrifo nel Settecento e tale giudizio non è più mutato nella storiografia successiva (32), l’altro, più discusso,

 

 

(27) Oltre alle opere del Brayda de Soleto, op. cit., (sopra, n. 2) e del Riccio, op. cit. (sopra, n. 10) sono significative due opere manoscritte conservate presso la Biblioteca Reale di Torino. In una di F. A. Della Chiesa, Dell’historia genealogica delle famiglie derivate dalli marchesi d’Ivrea et ultimi regi d’Italia, sono raccolte varie genealogie dei conti del Canavese, di S. Martino, di Valperga, di Masino, di Castelnuovo, di Cocconato. Nell’altra, anonima, Memoria sulla discendenza d’Arduino marchese d’Ivrea, è ripresa una genealogia notarile fatta curare dai conti di Valperga. Legata a queste ricerche ì la particolare generosità di F. Guasco di Bisio, Dizionario feudale degli antichi stati sardi e della Lombardia, Pinerolo, 1911 (Biblioteca della Società storica subalpina, 54), nel riconoscere a molte famiglie subalpine ascendenze anscariche.

(28) Si pensi all’ascesa di Arduino il Glabro da conte di Auriate a marchese di Torino: Sergi, La marca arduinica cit., pp. 654-658. Su Pombia cfr. oltre, n. 38.

(29) Cfr. sopra, n. 24.

(30) Cfr. sopra, n. 7.

(31) Per un orientamento sul dibattito può essere sufficiente quanto riferito nella n. 26.

(32) Si tratta di una donazione per S. Ambrogio di Milano che sarebbe stata stesa a Pavia il 15 febbraio 1002 («in hoc coronationis nostre festoso die») su cui si espresse negativamente già il Muratori in una lettera indirizzata al Terraneo: sulla storia della questione cfr. R. Holtzmann, Die Urkunden König Arduins, in Neues Archiv der Gesellschaft far altere deutsche Geschichtskunde, XXV (1900), p. 474. La più ampia e specifica trattazione del problemi inerenti a questo documento si trova in E. Giolio-Tos, Di un diploma apocrifo del re Arduino e della sua incoronazione, Torino, 1907. Dall’edizione ivi contenuta riportiamo i passi più significativi: si accenna al «marchionatu (sic) nostro Eporediae», al «rex Desiderius antiquus avus noster» (di Arduino) e la donazione è compiuta per l’anima di «beate memorie Imperatoris Berengarii abavi, item Berengarii avi et Adaibertl regum patrui nostri».

 

 

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ha attirato su di sé numerosi e autorevoli pareri negativi, e non è stato accolto nell’edizione dei diplomi arduinici dei Monumenta Germaniae historica (33). La discussione su quest’ultimo diploma - una donazione per S. Siro di Pavia trasmessaci dal Guichenon e di cui non conosciamo né l’originale né copie medievali (34) - si potrà riaprire in modo approfondito: ma in ogni caso, anche accettando il testo del documento, esso non è necessariamente da interpretare come i fautori di Arduino anscarico hanno fatto. In particolare il «patruus» Adalberto ivi ricordato non è necessariamente il figlio di Berengario II, e potrebbe essere invece il «comes comitatu uius Plumbiensis» che presenzia ad un placito del 962 (35). Ulteriore elemento di dubbio è il completo silenzio in proposito dei cronisti che, pur dedicando ampio spazio alle vicende di Arduino, nulla dicono di quello che sarebbe stato un legame di sangue degno di nota, mentre uno solo di essi menziona il padre Dadone, senza dichiararlo un Anscarico (36).

 

 

(33) Sul documento, una donazione per S. Siro di Pavia del 1011, espresse perplessità il Muratori, Annali cit., VI, p. 33. Il diploma fu registrato da K. F. Stumpf Brentano, Die Relchskanzler, I, Innsbruck, 1865, p. 150, n. 1851, ma trovò altri decisi detrattori: Provana, op. cit., p. 100 e, soprattutto, Holtzmann, op. cit., p. 472 sgg. All’edizione dei diplomi di Arduino lavorarono H. Bresslau, R. Holtzmann, H. Bloch, e nell’introduzione (M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, III, p. 698) dichiararono di respingere alcuni diplomi, tra cui quello del 1011, accettando espressamente le tesi dell’articolo dello Holtzmann.

(34) S. Guichenon, Bibliotheca Sebusiana, ed. con «dissertatio» di O. Hoffmann, Torino, 1780, p. 72, doc. 10. Arduino compie la donazione «pro anima patris nostri Doddonis et pro anima patrui nostri domini Adalberti (...) rogante Wilelmo, carissimo consobrino germano nostro». Su un sondaggio compiuto nel secolo scorso dal Porro a Pavia e sul ritrovamento di tre copie dei diploma, tutte settecentesche, «copie di copie colle stesse lacune del Guichenon», cfr. Carutti, op. cit. (sopra, n. 25), p. 261. Ho compiuto personalmente indagini presso l’Archivio di Stato e l’Archivio Arcivescovile di Pavia e presso l’Archivio di Stato di Milano, senza risultati.

(35) Questo Adalberto conte presiede un placito il 4 settembre 962, relativo ad una vendita di beni in Mosezzo compiuta il giorno precedente da Egelrico in favore di Amedeo e di Guntilda. Il testo del documento non consente assolutamente di sostenere che Adalberto fosse figlio di Berengario II: Manaresi, I placiti cit., II, 1, p. 12, doc. 147. Altro elemento del documento dei 1011 utilizzato talora per completare il quadro della parentela di Arduino è il cugino Guglielmo (cfr. n. prec.): ma gli stessi assertori dell’autenticità del documento non hanno mancato in qualche caso di avanzare dubbi circa l’identificabilltà di questo Guglielmo con l’Ottone Guglielmo figlio dell’anscarico Adalberto (Carutti, op. cit., p. 280).

(36) «Commitis Dadonis filius» i detto Arduino da Giovanni Diacono, Chronicon Venetum, in Cronache veneziane antichissime, a cura di G. Monticolo, Roma, 1890 (Fonti per la storia d’Italia, 9), p. 165.

 

 

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Il nome del padre non è per altro oggetto di discussione: compare anche in un diploma di Ottone III del 1° novembre 1000 (37).

 

La strada per dare alla questione nel suo complesso un tentativo di risposta dev’essere un’indagine filologicamente accurata della documentazione e un confronto fra le presenze patrimoniali dei primi Anscarici, di Arduino, dei suoi discendenti. Allo stato attuale, per assumere un’ipotesi di lavoro che completi il quadro in cui il presente studio si inserisce, si devono prospettare due diverse possibilità: che Dadone e Arduino siano anscarici per legami di parentela non chiari, e la marca d’Ivrea abbia avuto come titolare fra X e XI secolo il figlio di un Anscarico cadetto, preposto per qualche tempo al comitato di Pombia (38), distretto interno alla marca; oppure che Adalberto (39), Dadone e Arduino siano esponenti di una famiglia di conti di Pombia ascesa al potere nella marca cui il loro comitato apparteneva per il proposito regio di evitare la successione di un altro Anscarico a Corrado Conone. Questa seconda, seria possibilità induce da un lato a rinunciare alla via consueta nella verifica delle possibili sopravvivenze anscariche nella regione subalpina in pieno XI secolo, dall’altro a considerare la realtà del potere e l’articolazione territoriale del Piemonte nord-orientale più fluide di quanto la secolare gestione dinastica di una marca parrebbe suggerire.

 

 

(37) Ottone III confisca e dona alla chiesa di Vercelli «omnia predia maledicti Ardoini filli Dadonis»: M.G.H., Diplomata regum et Imperatorum Germaniae, II, 2, p. 811, doc. 383. C’è stato chi ha avanzato dubbi circa l’identificazione di questo Dadone con l’omonimo conte di Pombia, attestato negli stessi anni; dubbi che non sembrano giustificati. Si veda la revisione operata dal Carutti, op. cit., p. 280, della tesi della non identità da lui stesso sostenuta In una prima edizione del suo studio. I dubbi erano legati al fatto che «Dado» nelle fonti documentarle ha’il titolo di «comes» non quando i attestato come padre di Arduino, ma quando è citato come possessore (aprile 973, Gabotto, Lizier..., op. cit., sopra, n. 9, p. 119, doc. 73) o come padre di Viberto, fratello, accettando la soluzione ormai prevalente, di Arduino (14 ottobre 1001, Manaresi, I placiti cit., sopra, n. 23, II, 1, p. 470, doc. 266). Desidero qui aggiungere un contributo, rilevare cioè che In un documento di difficile datazione di Enrico II a favore della chiesa di Vercelli (M.G.H., Diplomata regum et Imperatorum Germaniae, III, p. 407 sg., doc. 322) risultano confiscati «predia Viberti filii Dadonis»: testimonianza di un’alleanza di Viberto con Arduino che poteva nascere appunto dalla parentela ma, soprattutto, attestazione del fatto che indicare il titolo comitale non era uso costante neppure quando si trattava del padre di Viberto.

 

(38) Su Pombia, località ancor oggi esistente tra Novara e il lago Maggiore, distinta nelle due parti «Villa» e «Castello», dovremo tornare In sede di analisi distrettuale. Mi limito qui a sottolineare come l’analisi archeologica e toponomastica sulla zona di Pombia sla rimasta una delle più vive nella storiografia locale novarese: O. Donna D’Oldenico, Pombia. Appunti storici e archeologici su ritrovamenti di età romana ed alto medioevale, Torino, 1968 e G. Balosso, L. Galli, Sala longobarda, curtis e substrato romano nella toponomastica pombiese, in Bollettino storico per la provincia di Novara, LXIV (1973), fase. 2, pp. 22-54, con utile cartina in appendice.

(39) Cfr. sopra, n. 35.

 

 

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Il problema degli Anscarici si complica inoltre con quello dei legami fra Arduinici e Anscarici, a cui abbiamo accennato a proposito del matrimonio di Corrado Conone con Richilda (40). Questo matrimonio non accontentò gli eruditi, che non vi annessero troppa importanza. Cercarono di individuare rapporti fra le due famiglie nei loro rappresentanti di maggior spicco: così ancora una volta Arduino d’Ivrea fu coinvolto in una delle non rare ‘leggende‘ storiografiche. Si suppose cioè che Dadone, padre di Arduino, avesse preso in moglie una ipotetica figlia di Arduino il Glabro marchese di Torino. Nessun documento ha mai consentito di attribuire, neppure attraverso accentuazioni interpretative, questa figlia in più al marchio torinese, tant’è vero che ad essa non si è mai neppure tentato di dare un nome (41). Tale ipotesi, strettamente connessa con le congetture genealogiche prima ricordate, nacque dall’esigenza di spiegare la comparsa dell’antroponimo Arduino, ignoto prima di allora alla schiatta anscarica. Il dubbio circa la discendenza da Anscario del re d’Italia, la discreta diffusione del nome Arduino, l’assoluta indocumentabilità del nome della madre di Arduino d’Ivrea e di una terza figlia di Arduino il Glabro devono indurre a superare del tutto questa ipotesi, che non sarà mai dimostrabile seriamente (42).

 

Del resto non vi è alcuna necessità di ricorrere a simili congetture per individuare stretti rapporti fra gli esponenti dell’aristocrazia eporediese e la famiglia marchionale di Torino. Innanzitutto un altro apparentamento molto probabile è documentato il 3 settembre 962: Amedeo «filius quondam Anscarii marchio» è sposo di Guntilda «filia quondam Rotgerii comiti» (43). Dunque Anscario II, il più sfortunato degli Anscarici, ebbe un figlio privo di cariche anche se in una posizione di qualche prestigio - in un placito del giorno successivo Amedeo è detto

 

 

(40) Cfr. sopra n. 18.

(41) Tale ipotesi è stata raccolta come dato sicuro da S. Pivano, voci Arduinici e Arduino, in Enciclopedia italiana, IV, Roma, 1929, p. 142 sg. e da Arnaldi, op. cit. (sopra, n. 7), p. 53. Si veda l’Appendice di Rossi-Gabotto, op. cit. (sopra, n. 10), tav. IIa e IVb.

(42) Per quanto riguarda specificamente i rapporti di Arduino d’Ivrea con la famiglia marchionale torinese, ricordiamo che Olderico Manfredi, dopo essere stato ostile al re Arduino finché egli fu in vita, si alleò con i suoi figli in funzione antimperiale e con lo scopo di ampliare forse neil’Eporediese la sua sfera d’influenza: Sergi, La marca arduinica cit., p. 666.

(43) Gabotto, Lizier..., op. cit. (sopra, n. 9), p. 81, doc. 55. La citazione riportata nel testo i stata tratta dalla lettura dell’originale, in Archivio Capitolare di Novara, «Documentario delle donazioni fatte alla chiesa e al capitolo novarese e giurisdizione temporale su diverse ville dal 958 al 1188», F, doc. 2.

 

 

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«vassus domni imperatoris» (44) - e questo aveva preso in moglie la figlia di un conte Rogerio, con ogni probabilità fratello di Arduino il Glabro e figura di secondo piano che, forse, intorno al 935 si era fatto monaco a Breme (45). Ma su questo matrimonio fra Guntilda e Amedeo torneremo, occupandoci specificamente della corte di Mosezzo.

 

Alcune contiguità patrimoniali consentono poi di stabilire rapporti, anche se solo a partire dall’XI secolo, fra i conti di Pombia — fossero o non Anscarici secondo l’alternativa in precedenza presentata - e i marchesi di Torino. In una famosa permuta del 1034 con l’abbazia di Nonantola i conti di Biandrate - il cui collegamento con i conti di Pombia si può ritenere in larga parte dimostrabile (46) - risultano essere presenti in luoghi in cui anche l’arduinica Adelaide sarà in seguito documentata come signora di allodi: Carmagnola (47), Racconigi (48), il «castrum Canallis» nell’Astigiano (49). In particolare per le ultime due località l’indicazione dei beni è così precisa da eliminare ogni dubbio circa la derivazione di queste presenze allodiali da una comune base patrimoniale iniziale. A questa testimonianza si può aggiungere, per i secoli XII e XIII, la contiguità di numerosi possedimenti in Valsesia dei conti di Biandrate e dei marchesi di Romagnano (50), la cui parentela con gli Arduinici non è stata a tutt’oggi messa in discussione.

 

Questa complicata rete di rapporti fra famiglie franche, presenti con sorti alterne nei gruppi dirigenti dell’Italia settentrionale nei secoli X e XI, coinvolge in modo singolare la curtis cum castro di Mosezzo.

 

 

(44) Cfr. sopra, n. 35.

(45) Sergi, La marca arduinica cit., p. 655, n. 71.

(46) Pur nella forte oscillazione delle ipotesi avanzate dal vari eruditi, rimane costante li collegamento fra i personaggi documentati come conti di Pombia all’inizio dell’XI secolo e i conti di Biandrate: cfr. A. Raggi, I conti di Biandrate, Novara, 1933, pp. 12-22. Sulla possibilità che questo collegamento sia confortato anche da alcune prove patrimoniali si veda A.A. Settia, La canonica di S. Maria di Vezzolano come fondazione signorile, in Bollettino storico bibliografico subalpino, LXXl I (1974), pp. 75-79, dove si mettono in rilievo anche i rapporti con la famiglia arduinica di Torino.

(47) B. Baudi di Vesme, E. Durando, F. Gabotto, Cartario dell’abbazia di Cavour, Pinerolo, 1900 (Biblioteca della Società storica subalpina, 3, I), pp. 20-22, doc. 8 (28 maggio 1044).

(48) «Mea porcione de illis rebus, que fuerunt iurls sancti Silvestri positis in eodem loco Riconisio»: C. Cipolla, Il gruppo dei diplomi adelaidini in favore dell’abbazia di Pinerolo, Pinerolo, 1899 (Biblioteca della Società storica subalpina, 2, II), p. 324, doc. 2 (8 settembre 1064).

(49) Beni «infra castro Canallis cum capella similiter una in edificata in onore sancte Silvester» sono da Adelaide donati alla chiesa d’Asti, dopo che li aveva acquistati da un certo Marino; F. Gabotto, Le più antiche carte dell’Archivio capitolare di Asti, Pinerolo, 1904 (Biblioteca della Società storica subalpina, 28), p. 344, doc. 177 (a. 1065).

(50) O. C. Faccio, Il libro dei «pacta et conventiones» del comune di Vercelli, Novara, 192S (Biblioteca della Società storica subalpina, 97), p. 366, doc. 379 (12 luglio 1224) e B. Baudi di Vesme, E. Durando, F. Gabotto, Carte inedite e sparse del signori e luoghi del Pinerolese fino al 1300, Pinerolo, 1900 (Biblioteca cit., 3, II), pp. 204-206, doc. 29 (a. 1163).

 

 

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In essa, nel corso di un secolo, compaiono come possessori i cosiddetti «Manfredingi» - famiglia a cui si attribuiscono presenze comitali, in anni diversi, a Verona e a Lomello (51) -, gli Anscarici, personaggi dell’XI secolo di cui discuteremo un possibile collegamento con la schiatta anscarica e, in Mosezzo anche se non nella corte, i conti di Biandrate. Risulta evidente, di fronte ai dubbi e alle contrastanti possibilità che abbiamo esposto sopra, quanto si faccia vivo allora l’interesse del ricercatore per i documenti relativi a Mosezzo e come una paziente analisi di essi si imponga.

 

L’analisi è anche sollecitata da un altro tipo di problemi, connessi del resto con quelli dell’aristocrazia dominante. Si tratta dell’assetto distrettuale del territorio, che nel Piemonte nordorientale presenta spunti di particolare interesse. Il Novarese e il Vercellese hanno caratteristiche tali da negare con ogni evidenza una sistematica corrispondenza fra diocesi e comitato (52), in quanto la distrettuazione civile appare molto più frazionata di quella ecclesiastica. In particolare per il Novarese i comitati di Pombia, dell’Ossola, di Bulgaria, di Stazzona, di Lomello, di Novara stessa (53) hanno fatto discutere gli studiosi e, se non le vicende della loro amministrazione, almeno molti aspetti della loro definizione territoriale sono destinati forse a rimanere enigmatici.

 

 

(51) Su questa discussa famiglia sono fondamentali due contributi: B. Baudi di Vesme, I conti di Verona, in Nuovo archivio veneto, XI (1896), fase. 2, pp. 243-300 e G. Biscaro, I conti di Lomello, in Archivio storico lombardo, ser. 4, XXXIII (1906), p. 353 sgg. Su certi arditi collegamenti compiuti dalla scuoia gabottiana nel ricostruire genealogie «manfredinghe» cfr. N. I Rico, Il problema della presenza signorile nei primordi del comune di Biella, in Bollettino storico bibliografico subalpino, LXIX (1971), p. 491 sgg. e Settia, La canonica cit. (sopra, n. 46), p. 22 sgg.

 

(52) Per una bibliografia sulla teoria della continuità distrettuale dall’età romana al medioevo e della coincidenza di circoscrizioni ecclesiastiche e civili cfr. O. Mengozzi, La città italiana nell’alto medio evo, Firenze, 1973 (anast. dell’ed. del 1931), p. 85 sgg. Su questo stesso problema cfr. il recente intervento di A.A. Settia, Judiciaria Torrensis e Monferrato: un problema di distrettuazione nell’Italia occidentale, in Studi medievali, ser. 3, XV (1974), pp. 997-1000. Per la fortuna della teoria della continuità nell’erudizione subalpina cfr. B. Baudi di Vesme, L’origine romana del comitato longobardo e franco, in Bollettino storico bibliografico subalpino, VIII (1903), pp. 321-375. Si veda la coincidenza fra sede comitale e sede diocesana verificata per alcuni dei comitati interni alla marca arduiniea di Torino e, una volta compiuta questa verifica, utilizzata come ipotesi di lavoro per completare i confini circoscrizionali di alcune zone in Sergi, La marca arduinica cit., p. 672 sgg. e, più specificamente, in Id., Comitati in età post-carolingia e precomunale, in Atlante storico della provincia di Cuneo, Cuneo, 1973, tav. 5.

 

(53) Su questi e altri luoghi e distretti la migliore sintesi informativa, se pur con tutti i difetti dell’erudizione locale, ì quella del Durandi, Della marca cit. (sopra, n. 1): I comitati menzionati nel testo sono stati ancora recentemente elencati come facenti parte della marca d’Ivrea in Arnaldi, op. cit., p. 53.

 

 

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È in ogni caso evidente che tutti questi comitati, quali per intero quali per parti minime della loro estensione, si trovarono in rapporto con la diocesi novarese e furono in diversa misura coinvolti dalla vigorosa trasformazione in senso politico dei poteri vescovili fra il X e l’XI secolo.

 

Si presenta inoltre il problema della coordinazione dei comitati entro la grande marca d’Ivrea, poi frazionata a metà del X secolo. La partizione a cui la marca maggiore fu sottoposta e il ridimensionamento a cui andò soggetto l’ambito specifico di potere anscarico non valsero a procurare una concentrazione e quindi un rinsaldamento del potere (54). Deteriorati i rapporti con il potere centrale, indebolita da sconfitte e confische la famiglia marchionale nei suoi più prestigiosi esponenti, la più piccola marca d’Ivrea - che è difficile definire documentariamente nella sua estensione - non dovette più essere un quadro rigido di coordinamento politico. Altre famiglie di ‘funzionari‘ andavano probabilmente emergendo al suo interno e nel processo disgregativo i comitati, entità territoriali meno estese, si prestavano come ambiti adatti all’espansione di nuovi poteri, laici o ecclesiastici, e potevano riaggregarsi in forme nuove. Anche rapportata a questi problemi la corte di Mosezzo presenta aspetti di particolare interesse: vicinissima a Novara eppure documentata come appartenente al comitato di Pombia, sede di rilevanti interessi patrimoniali dei detentori del comitato di Lomello, Mosezzo è un elemento centrale del dibattito sull’esistenza del comitato novarese del X secolo, dibattito in cui si sono anche inserite tesi tendenti ad attribuire tutta la zona al discusso ed enigmatico comitato di Bulgaria (55).

 

Aggiungiamo che la documentazione su Mosezzo per i secoli X e XI è di una ricchezza descrittiva non comune: prezzi, misure, natura dei beni oggetto dei negozi giuridici sono pressoché sempre indicati. Su questa base sono proficui i confronti fra i possessi di famiglie e di enti, le verifiche dei passaggi di proprietà.

 

 

(54) Sergi, La marca arduinica cit., p. 658 e n. 85.

(55) Sostenitore di questa tesi fu il Gabotto, Per la storia del Novarese cit. (sopra, n. 1), I: Ducati e comitati, in Bollettino storico per la provincia di Novara, XI (1917), p. 11 sg. La tesi del Gabotto è stata contestata dal Pezza, op. cit. (sopra, n. 4), p. 74 sgg. e dal Cognasso, op. cit. (sopra n. 3), p. 55 sgg. Si è riaccostato alla tesi del Gabotto, se pur attraverso una più diffusa argomentazione, il Cavanna, op. cit. (sopra, n. 4), p. 40 sgg.

 

 

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Ricerche recenti hanno dimostrato come l’indagine approfondita su un nucleo patrimoniale e sui diritti di natura pubblica in esso esercitati rechino un contributo nuovo allo studio delle famiglie e del loro rapporto con la terra e con il potere (56). La corte di Mosezzo rappresenta infine un caso quasi esemplare dell’espansione economico-politica delle chiese nei secoli XI e XII, sia perché inserita in una zona dove il vescovo di Novara va raccogliendo la quota più cospicua di funzioni pubbliche, sia perché in essa si afferma progressivamente la signoria fondiaria dei canonici novaresi di S. Maria e di S. Gaudenzio.

 

 

            2. (Anscarici, Arduinici e «Manfredingi» a Mosezzo nel X secolo)

 

Verso la metà del X secolo, negli anni in cui si sta realizzando la più importante trasformazione distrettuale della regione subalpina, un Manfredo «de loco Moxicio» è particolarmente attivo sul piano patrimoniale. Due suoi acquisti, entrambi del 941, si segnalano non tanto per l’entità dei beni acquisiti, alquanto modesta, quanto perché altre indicazioni contenute nei documenti consentono di individuare in Manfredo un rilevante proprietario della zona. Con il primo atto, del maggio 941 (57), Manfredo acquista da un Garifredo figlio di Valperto di Mosezzo un appezzamento di vigna di 44 tavole e uno di terra aratoria di 5 pertiche e mezza per la somma di 6 soldi d’argento (58): il secondo appezzamento, ed è questo il dato più significativo, confina da due parti con terre già possedute da Manfredo (59). Il 9 giugno dello stesso anno (60) Manfredo compera da un «presbiter» Domenico un sedime con vigne, prati, campi e incolti dell’estensione globale di 6 iugeri e 2 pertiche, per la somma di 40 soldi d’argento: i beni, posti in «vico et fundo Moxicio» e in «vico et fundo Vuahingo» (61), erano pervenuti a Domenico attraverso una permuta con il vescovo milanese Erderico.

 

 

(56) Un utile esempio in questo senso è fornito dall’analisi che la presenza curtense di «Vilinianum» ha avuto nella ricostruzione della politica e del legami parentali dei Canossa nell’opera del Fumagalli, Le origini cit. (sopra, n. 8), pp. 30-52. Analoghi efficaci studi sono stati condotti su corti rurali controllate da enti religiosi: cfr. Groneuer, op. cit. (sopra, n. 23) e E. Balda, Una corte rurale nel territorio di Asti net medioevo : Quarto d’Asti e l’amministrazione del capitolo canonicale, in Bollettino storico bibliografico subalpino, LXX (1972), pp. 5-122.

(57) Gabotto, Lizier..., op. cit. (sopra, n. 9), p. 65, doc. 48. Ho utilizzato l’originale in Archivio Capitolare di Novara, «Documentarlo di persone estere con alcune carte riguardanti la città di Novara», Q, doc. 6. Su questo Manfredo cfr. E. Hlawitschka, Franken, Alemannen, Bayern und Burgunder in Oberitalien (774-962), Freiburg im Brelsgau, 1960 (Forschungen zur Oberrheinischen Landesgeschichte, 8), p. 233 sgg. Cfr. lo schema genealogico di questi «Manfredingi» di Mosezzo più avanti, n. 66.

(58) Su queste e su tutte le misure che sono menzionate nel testo cfr. oltre, n. 174.

(59) «Coerit eique uno capo et uno lato tenit in terra tua qui supra Maginfredi emtore : cfr. sopra, n. 57 in.

(60) Gabotto, Lizier..., op. cit., p. 67, doc. 47.

 

 

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L’atto è steso a Mosezzo, «infra castello». È questa la prima attestazione del castello di Mosezzo : la presenza in esso di Manfredo - presenza che possiamo supporre anche patrimoniale in quanto i suoi eredi, come vedremo, disporranno di tale castrum (62) -, confrontata con le coerenze indicate dal primo documento, assegna al personaggio un importanza non trascurabile, anche se non consente di acquisire una nozione quantitativa dei suoi possedimenti. Manfredo è dunque un proprietario fondiario, presumibilmente già cospicuo e connesso con un castrum, in quell’anno impegnato ad ampliare la presenza fondiaria nella sua zona d’influenza.

 

Trascorrono dodici anni prima che il nome di Manfredo ricorra di nuovo nella documentazione novarese, e la spinta alla espansione sembra essersi fermata. Nel febbraio del 953, in cambio di 40 soldi d’argento, vende ad un prete Alfredo «de Torningo» un manso comprendente un sedime, edifici, viti e alberi da frutto, dell’estensione complessiva di 7 pertiche e 2 tavole e, connessi con quel manso, campi e prati dell’estensione di 8 iugeri (63). Le coerenze permettono di escludere che si tratti degli stessi beni acquistati in precedenza: d’altro canto i beni ceduti confinano da due parti con terre di cui Manfredo si riserva la «potestas». Ma un certo disimpegno patrimoniale della famiglia deve essersi avviato: ne è ulteriore testimonianza un atto dell’aprile 959, in cui Manfredo risulta già morto, e con il quale la vedova Guntilda vende un «masaricium» in Mosezzo ad un Domenico, riservandosene solo l’usufrutto fino alla morte (64). Domenico era forse un fiduciario di Guntilda, intermediario di un’operazione che conduce alla loro prima presenza nel territorio di Mosezzo coloro che con gli anni sarebbero diventati i padroni assoluti di quella corte: i canonici di Novara ricevono infatti il «masaricium» dalle mani di Domenico.

 

 

(61) Il toponimo risulta cosi nell’originale (Archivio Capitolare di Novara, «Documentario di persone estere con alcune carte riguardanti la città di Novara», Q, doc. 7) mentre nell’edizione prima citata risulta «Vualingo »: come si vedrà, la lettura «Vuahingo» corrisponde alla forma del toponimo in documenti di anni successivi.

(62) Cfr. oltre, n. 79.

(63) C. Salsotto, Le più antiche carte dell’Archivio di S. Gaudenzio di Novara(sec. IX-XI), Torino, 1937 (Biblioteca della Società storica subalpina, 7, I), pp. 16-18, doc. 7.

(64) Gabotto, Lizier... op. cit., p. 78, doc. 53: Guntilda vi risulta «relicta bone memorie Maginfredi de Moxicio». L’originale è in Archivio Capitolare di Novara, «Documentario delle donazioni fatte alla chiesa ed al capitolo novarese e giurisdizione temporale su diverse ville dal 958 al 1188», F, doc. 1.

 

 

171

 

Chi era Manfredo? Di legge salica (65), nei documenti del 941 compare solo come figlio di un altro Manfredo «de loco Moxicio» (66), ma nel 953 è detto «comes Laumellensis et filius bone memorie item Maginfredi de loco Moxicio» (67). Questi due Manfredi, secondo le genealogie costruite dal Baudi di Vesme e adottate da tutta la scuola gabottiana, sarebbero il nono e il decimo di questo nome all’interno di un gruppo parentale di «Manfredingi» le cui origini furono fatte risalire al vi secolo (68). Manfredo IX - il supposto padre del Manfredo dei nostri documenti - sarebbe stato fatto abbacinare da Lamberto re d’Italia in seguito alla ribellione del padre Manfredo anche lui, 4 conte di Milano e marchese della Lombardia»: ormai cieco, si sarebbe trasferito a Mosezzo ove avrebbe preso dimora (69). Gerolamo Biscaro e Piero Parodi hanno già rilevato come queste connessioni siano forzate e prive di fondamenti che non siano la «legge dei nomi» (70).

 

 

(65) Entrambi gii atti del 941 sono redatti con il formulario salico, ma ciò potrebbe essere collegabile con il fatto che i venditori e autori dei documenti, Garifredo e Domenico, fanno appunto professione di legge salica. Nel 953 però autore è Manfredo stesso e il formularlo è ancora salico: «bergamina cum agramentario de terra elevavi» (Salsotto, op. cit., p. 18, doc. 7). Sul problemi del formulario e In particolare sulla levatio e sulla traditio ad scribendum cfr. R. Bordone, Un’attiva minoranza etnica nell’alto medio evo : gli Alamanni del comitato di Asti, in corso di pubblicazione in Quellen und Forschungen aus Italienischen Archiven und Bibliotheken, testo compreso fra le n. 53 e 64.

(66) «Maginfredo filio bone memorie item Maginfredi de suprascripto loco Moxicio» (Gabotto, Liziér..., op. cit., p. 65, doc. 46 e p. 67, doc. 47).

 

(67) Salsotto, op. cit., p. 16, doc. 7. È utile fornire subito un breve schema genealogico di questi «Manfredingi» che troviamo in rapporto con Mosezzo:

 

 

(68) Baudi di Vesme, I conti di Verona cit. (sopra, n. 51), pp. 267, 299. Si veda anche la tavola genealogica, particolarmente ricca e ricavata da ricerche del Baudi, pubblicata da L. C. Bollea, Manfredingi signori di Pianezza e Visconti di Baratonia, in Bollettino storico bibliografico subalpino, XXV (1923), dopo p. 42. Sulla critica a queste genealogie, cfr. sopra, n. 51.

(69) Tutte le soluzioni del Baudi sono state fatte proprie da M. Zucchi, Lomello (4761796), in Miscellanea di storia italiana, ser. 3, IX (1904), p. 305 sg.

(70) Biscaro, op. cit. (sopra, n. 51), p. 354 sg.; P. Parodi, I signori di Mosezzo e di S. Pietro, in Bollettino storico per la provincia di Novara, XX (1926), p. 143 sg. Dell’opera del Parodi esiste una seconda edizione rimaneggiata, pubblicata in libretto autonomo con II titolo Mosezzo e i suol signori, Abbiategrasso, 1932: per molti aspetti questa seconda edizione cede al gusto della ricostruzione congetturale, quindi per questa ragione e per la scarsa reperibilità della seconda edizione citeremo, ove non vi siano ragioni speciali per fare il contrarlo, l’articolo pubblicato nel Bollettino.

 

 

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È opportuno ribadire che è corretto rinunciare a identificare gli antenati dei due Manfredi documentati a Mosezzo a metà del X secolo. È anzi importante rilevare - in contrasto con un’erudizione che voleva sempre individuare ascendenze prestigiose per le famiglie comitali del X secolo - che in nessuno dei due documenti il defunto padre Manfredo è indicato come «comes» e che del resto lo stesso Manfredo vivente risulta insignito del titolo solo nella carta del 953: parrebbe cioè che la famiglia di Manfredo sia nuova, almeno in questa zona ticinese, alla gestione di una funzione pubblica. Ciò appare tanto più plausibile se si considera che, a differenza di quanto in questo caso accade, i figli inclinano, nel ricordare nelle carte private i genitori defunti, ad attribuire loro titoli marchionali o comitali da essi non usati mai in vita (71). Alle funzioni comitali in Lomellina Manfredo pervenne fra il 941 e il 953: non sussistono elementi per precisare ulteriormente tale data (72).

 

Un documento del io luglio 955 fornisce alcuni elementi Circa il gruppo parentale in cui il conte Manfredo si inserisce. È un testamento con cui «Milo marchio et filius bone recordacionis Mainfredi» lascia eredi di tutti i suoi possedimenti «in regno Italico» «Mainfredus comes germanus meus et Enricus item comes filio eius nepote meo»; in particolare sono elencati numerosi beni in Verona e nel Veronese (73). In altre parti dei documento il figlio di Manfredo è detto «Egelrich». Potrebbe essere sollevata una obiezione: solo una corrispondenza onomastica sembra suggerire la connessione fra il Manfredo nominato nel testamento e il conte lomellino. Ma qui soccorre il fatto che sette anni dopo appunto un Egelrico, che si dichiara «filius bone memorie Maginfredi comiti», risulta operante in Mosezzo (74).

 

 

(71) Chiarissimo è il caso dei discendenti del marchese Ranieri di Toscana. Suo figlio Ugo non si attribuisce mai il titolo marchionale - l’ufficio marchionale apparteneva allora in Toscana ai Canossa -, ma i discendenti di Ugo lo nominano come marchese: cfr. O. Tabacco, Arezzo, Siena, Chiusi nell’alto medioevo, in Lucca e la Tuscia cit. (sopra, n. 4), p. 179, n. 60. Il testamento del «manfredingo» Milone (cfr. nota 73) appare invece molto attento nei distinguere membri della famiglia dotati di ufficio pubblico da quelli che ne sono privi.

(72) Ritenne, senza elementi, di poter precisare nel 950 la nomina comitale di Manfredo lo Zucchi, op. cit., p. 306.

(73) V. Fainelli, Codice diplomatico veronese, II, Venezia, 1963 (Monumenti storici pubblicati dalia Deputazione di storia patriaper le Venezie, nuova serie, 17), p. 393 sgg., doc. 256.

(74) Gabotto, Lizier... op. cit., p. 81, doc. 55 (3 settembre 962): Egelrico è altresì detto «ex genere Francorum» a conferma di quanto si è prima detto sulla nazionalità di Manfredo (sopra, n. 65). Per l’originale cfr. sopra, n. 43. li testo del documento è riportato in un placito del giorno successivo: Manaresi, I placiti cit. (sopra, n. 23), II, 1, pp. 1219, doc. 147. Su Egelrico si veda l’esauriente scheda del Hlawitschka, op. cit. (sopra, n. 57), p. 172 sg.

 

 

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Dal primo Manfredo «di Mosezzo» a noi noto erano dunque nati almeno due figli: uno, Manfredo, pervenuto alla carica comitale nel distretto di Lomello e presente patrimonialmente a Mosezzo, l’altro, Milone, «marchio» nel Veronese. Quest’ultimo non aveva probabilmente figli maschi, se nominava proprio erede il figlio di suo fratello Manfredo, quell’Egelrico anch’egli «comes» (75).

 

Ai buoni rapporti della famiglia con Berengario II e con Adalberto è senz’altro da attribuire il conseguimento da parte di Manfredo e di Milone di cariche pubbliche in zone diverse dell’Italia settentrionale: e ciò interessa uno degli aspetti più importanti del problema del regno e del suo funzionamento politico attraverso schemi residui di ordinamento pubblico, strumentalizzati dall’aristocrazia militare. Come vedremo, Egelrico mantenne stretti legami con Adalberto, che lo considerò suo «fidelis» (76). Il presumibile permanente potere degli Anscarici nel Novarese può spiegare il particolare radicamento che la famiglia «manfredinga» realizzò nella zona di Mosezzo nei decenni centrali del X secolo; d’altra parte la travagliata storia della famiglia anscarica e le vicende sfortunate dei suoi membri pervenuti al potere regio possono spiegare l’orientamento dei loro alleati «Manfredingi» verso una regione diversa, il Veronese, in cui la spregiudicata politica di Milone stava preparando il terreno per un’alleanza con Ottone I (77). In Mosezzo e nel Novarese il legame con gli Anscarici non era più garanzia di un solido potenziamento: la vecchia famiglia marchionale riusciva a stento, ritirandosi dalle maggiori competizioni politiche, a mantenere una presenza fondiaria nei propri tradizionali ambiti d’influenza (78).

 

Nei negozi giuridici che abbiamo finora esaminato, precedenti il 960, sono stati coinvolti soltanto beni isolati della zona di Mosezzo e non la curtis e il castrum di tale località: dopo il 960 si apre invece un periodo decisivo per le sorti patrimoniali e signorili della corte di Mosezzo. Un’importante transazione del 3 settembre 962 riguarda appunto la corte e il castello.

 

 

(75) Cfr. sopra, n. 72 e testo corrispondente.

(76) Cfr. oltre, n. 91. Milone, nel suo testamento, computa gli anni sul regno di Berengario li e di Adalberto (Fainelli, op. cit., p. 393, doc. 255). Sulla situazione politica incerta di quegli anni e sulle lotte per il regno cfr. O. Fasoli, I re d’Italia (S88-962), p. 172 sgg.

(77) Fasoli, op. cit., pp. 179, 188. Sulla situazione politica a Verona nel sec. X cfr. V. Cavallari, Raterio e Verona, Verona, 1967, passim.

(78) Cfr. sopra, testo corrispondente alla n. 22.

 

 

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Egelrico, figlio del defunto conte Manfredo, cede ad una Guntilda «congnus Amedei filius quondam Anscarii marchio (...) duas porciones de medietatem ex corte una domui coltile iuris mei quam habere viso sum in loco et fundo Musicio cum duas porciones de medietatem ex castro et de casis» (79) con vigne, arativi, sedimi e boschi annessi. Egelrico dichiara esplicitamente di mantenere per sé l’altra metà della corte - «preter de eadem medietas quod in mea ut supra reservo potestate» (80) - e di aver già in precedenza, con la moglie Officia, ceduto a Guntilda la terza parte della metà cui l’atto del 962 si riferisce (81). Il giorno successivo, 4 settembre, Guntilda ricorre ad un placito perché la sua acquisizione riceva una sanzione formalmente inoppugnabile e perché Egelrico ribadisca la validità della carta da lui sottoscritta il giorno precedente (82).

 

Gli studi di storia locale hanno dato risposte approssimative e non analitiche ai problemi posti da questi due documenti. La questione principale è relativa all’identità di Guntilda: è la vedova di Manfredo, risposatasi con l’anscarico Amedeo (83) ?

 

 

(79) Gabotto, Lizier... op. cit., p. 81, doc. 55. Passano anche a Guntilda «duas porciones de medietatem ex casis et omnibus rebus illis similique iuris mei quas habere viso sum in loco et fundo ubi Vicoiongo dicitur» (p. 82). Il testo edito corrisponde, con poche lievi modifiche, a quello dell’originale, su cui cfr. sopra, n. 43. Persona diversa dal Manfredo qui documentato come defunto è il Manfredo «comes» che compare come confinante «in loco et fundo Cerredano» in una permuta vescovile del giugno 976: G. B. Morandi, Le córte del Museo civico di Novara (881-1346), Pinerolo, 1913 (Biblioteca della Società storica subalpina, 77, II), p. 10, doc. 7.

(80) Op. cit., p. 83, doc. 55.

(81) «Terciam porcionem ex ipsa medietas de iamdictis omnibus rebus seu familiis tibi Guntilde ante os dies simul cum Oficia congnus mea per cartulam dedimus» (op. cit., p. 82, doc. 55).

(82) Manaresi, I placiti cit., II, 1, pp. 12-19, doc. 147.

 

(83) Il fatto che Egelrico, rivolgendosi a Guntilda e riferendosi alla somma per la quale egli vende i beni, dichiari che questa è tratta «ex proprio precio faderfii tui», non vale purtroppo a dare suggerimenti per una risposta definitiva. Gabotto, Lizier... op. cit., p. 81, doc. 55. Sui faderfio, che in ogni caso nei nostro documento ha un significato equivalente a dote, cfr. F. Schupfer, Il diritto privato dei popoli germanici con particolare riguardo alla Italia, II, 2a ed. ampliata, Città di Castello, 1914, pp. 113-117. L’indicazione non t utile perché in relazione a quel faderfium vi sono due possibilità: che si tratti della dote assegnata a Guntilda per le sue nozze com Amedeo, o invece che si tratti della dote che a Guntilda era rimasta come quota personale di patrimonio dopo la morte di Manfredo. Solo questa seconda possibilità varrebbe a provare l’identificazione della vedova di Manfredo con la moglie di Amedeo. La convinzione che il placito del 4 settembre 962 concernesse una vertenza dotale condusse il Biscaro, op. cit., p. 357, a una serie di considerazioni che difficilmente possono trovare riscontro nel testo delle due carte dei 962. Secondo il Biscaro non vi era dubbio che si trattasse di dare una soluzione alla tertia sui beni mobili e immobili del marito dovuta alle vedove di legge franca, ed egli intese che il secondo documento si concludesse sostanzialmente con una remissione della dote, con la rinuncia cioi da parte di Guntilda ad un credito dotale. Punto di partenza di tali osservazioni era evidentemente un passo del placito del 4 settembre che il Biscaro conosceva nell’edizione errata del Carutti, Il conte Umberto I cit. (sopra, n. 25), pp. 288-290: in esso si accennava ad una «dotali liticia» là dove la lettura esatta è «data licencia» (cfr. l’emendamento in Gabotto, Lizier... op. cit., p. 87, n. 3; l’edizione del Carutti non è Invece stata presa In considerazione dal Manaresi, I placiti cit., II, l,p. 12, doc. 147 che si limita a riportare la lettura corretta del passo). Il Parodi, I signori cit. (sopra, n. 69), p. 152, che rilevò l’errata interpretazione del documento, non pensò evidentemente che tale emendamento giustificasse dubbi circa l’identità di Guntilda: egli diede per scontato che Guntilda fosse la vedova del conte lomellino Manfredo.

 

 

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Questa ipotesi è suggerita dai dati cronologici e dal fatto che i documenti in cui Guntilda è menzionata sono relativi a Mosezzo sia nel 959 sia nel 962. È vero che nasce in tal caso la necessità di spiegare come Egelrico, figlio di Manfredo, non indichi Guntilda, che sarebbe moglie del medesimo Manfredo, come propria madre. Ma Guntilda può essere stata la seconda moglie di Manfredo, mentre Egelrico sarebbe figlio di primo letto del padre: e ciò è tanto più plausibile se si considera che Guntilda sopravvive al suo primo marito e si risposa e che, quindi, Manfredo doveva essere avanti con gli anni. Mi pare dunque che l’identificazione abbia un alto grado di possibilità, anche se non può essere accolta con quella assoluta certezza che il Parodi mostra nelle sue pagine (84). Stabilire, con un margine sufficiente di probabilità, che la Guntilda del 959 e quella del 962 sono la stessa persona è importante per poter seguire le vicende patrimoniali della corte di Mosezzo.

 

In due fasi successive (85) la metà della corte e del castello di Mosezzo pervenne a Guntilda, un’Arduinica (86) che con il suo matrimonio faceva sì che quella presenza patrimoniale andasse ad aggiungersi de facto al complesso delle presenze anscariche: possediamo informazioni precise sulla consistenza di tali beni solo per due terzi della «medietas»: 80 tavole di quota di castrum e di corte domocoltile, 6 iugeri e 8 pertiche di sedimi e di viti, 14 iugeri di arativi e di prati, io iugeri di selve, «stallarea» e gerbidi: in cambio Guntilda versò 30 lire d’argento (87).

 

Dei tre gruppi parentali connessi in diversa misura con la corte di Mosezzo, quello arduinico era per lo più (88) estraneo al Novarese, quello anscarico era impegnato a mantenere o a recuperare una base fondiaria che fosse supporto alla propria sopravvivenza politica, quello «manfredingo» aveva sempre più chiaramente altrove i propri punti di radicamento.

 

 

(84) Cfr. nota prec. ex.

(85) Si noti che un terzo della corte e del castello erano pervenuti a Guntilda prima del 962: cfr. sopra, n. 80.

(86) Cfr. sopra, n. 45.

(87) Gabotto, Lizier... op. cit., p. 81, doc. 55.

(88) Si può fare, ma solo per il secolo successivo, l’eccezione dei cosiddetti marchesi di Romagnano, ramo collaterale dello stesso gruppo parentale arduinico.

 

 

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Egelrico, negli anni della vendita prima esaminata, probabilmente non risiedeva più nella zona di Mosezzo e i suoi interessi si erano conformati a quelli, orientati verso il Veronese, della sua famiglia (89). Appunto con Verona potrebbe essere connesso il titolo comitale di Egelrico, attestato sia dal testamento di Milone (90), sia, più autorevolmente, da un diploma regio relativo al Veronese: nell’agosto del 960 o del 961 re Adalberto concesse ad Egelrico, «comitem nostrum dilectissimum fidelem», «rem quandam nostri publici iuris, qui terra mortuorum nuncupatur, in comitatu Veronensi coniacentem» (91). La riconosciuta fidelitas verso Adalberto non consentì poi ad Egelrico di mantenere la carica comitale quando i re anscarici scomparvero - ulteriore prova del fortissimo peso che l’autorità regia conserva nelle vicende del potere signorile -, ma ciò non lo indusse evidentemente ad abbandonare il Veronese, se in una carta dell’8 ottobre 970, relativa a beni posti nel comitato di Pombia, pur non attribuendosi più il titolo comitale, si definì abitante del comitato di Verona: «Egelricus filius bone memorie Maginfredus comes ex genere Francorum abitator in comitato Veroniensi» (92).

 

Questo documento, altro importante atto di allontanamento patrimoniale dal Novarese, potrebbe anche essere l’attestazione del completo abbandono della corte di Mosezzo: purtroppo il testo è di dubbia interpretazione e una risposta sicura non appare possibile. Egelrico vende, per 30 lire d’argento, «meam porcionem de castrum uno iuris meo quo est medietas idem castrum qui esse viderur in comitato Plombiensis locus que dicitur Meecia cum area sua seu casis rebus domus cultilis...» (93). Tre elementi di contenuto potrebbero essere a favore dell’identificazione di questa metà del castello con la metà della curtis cum castro di Mosezzo di cui Egelrico si era riservato la proprietà nel 962. Le misure, che si avvicinano a quelle dei due terzi ceduti a Guntilda otto anni prima: 72 tavole di castello con le aree e le case annesse,

 

 

(89) Cfr. sopra, n. 73 e 77.

(90) Cfr. sopra, n. 73.

(91) Schiaparelli, Diplomi di Ugo e di Lotario, di Berengario II e di Adalberto cit. (sopra, n. 13), p. 346, doc. 3.

(92) Gabotto, Lizier..., op. cit., p. 112, doc. 70. Il testo è eguale (con la sola variante di «comitato» al posto del «comitatu» dell’edizione) nell’originale In Archivio Capitolare di Novara, «Documentario di persone estere con alcune carte riguardanti la cittì di Novara «, Q, doc. 11.

(93) Gabotto, Lizier..., op. cit., p. 114, doc. 70. Della parola letta «Meecia» dagli editori vi sono altre due possibilità di lettura sull’originale - «Mercia» o «Meccia» - in quanto l’originale stesso è molto sbiadito e di pessima leggibilità (cfr. nota prec.): nessuna delle due rende tuttavia il toponimo più accostabile a «Mosicium».

 

 

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60 iugeri di terre arabili, di sedimi e di prati, 100 iugeri di gerbidi (94). Il prezzo, in entrambi i casi di 30 lire d’argento. Infine la collocazione sia di Mosezzo sia di «Meecia» nel comitato di Pombia (95). In contrasto con l’identificazione è essenzialmente la differenza fra i due toponimi. Vi sono altri due elementi di dubbio, che appaiono tuttavia superabili. Nella vendita del 3 settembre 962, sicuramente relativa a Mosezzo, ha un posto di primo piano la corte domocoltile, due terzi della metà della quale sono ceduti con eguale quota del castello e delle terre, mentre nel 970 la vendita riguarda essenzialmente il castrum, e solo fra i beni connessi risulta una «domus cultilis». Ma constateremo, una volta considerati tutti gli atti, che l’oscillazione fra la menzione del castrum e la menzione della curtis come centri del complesso fondiario è una costante della documentazione relativa a Mosezzo (96). Un secondo dubbio potrebbe nascere dalla constatazione che tutti i documenti sicuramente relativi a Mosezzo collocano i beni «in loco et fundo» o «in vico et fundo Musicio», mentre nel 970 si usa l’espressione «locus que dicitur Meecia»: ma a queste differenze di designazione sarebbe imprudente annettere un’eccessiva importanza sul piano delle strutture insediative (97).

 

Non è dunque giustificata la sicurezza con cui il Parodi non prende neppure in esame la possibilità che «Meecia» sia Mosezzo (98), anche se ad una risposta certa in senso opposto non si può pervenire. Il difficile reperimento di un toponimo riconducibile a «Meecia» nella zona corrispondente al comitato di Pombia e il fatto che questo documento - unico fra quelli qui esaminati - sia stato steso in Toscana da un notaio estraneo al Novarese, potrebbero far attribuire la differenza fra i due toponimi ad un errore materiale e indurre a concludere che l’ipotesi dell’identificazione delle due località abbia qualche probabilità in più di essere vicina al vero (99).

 

In ogni caso da questo atto si può desumere il disimpegno patrimoniale dal comitato di Pombia di una famiglia che era stata tra le più rilevanti della regione,

 

 

(94) L. cit.

(95) Manaresi, I placiti, II, 1, p. 12, due. 147: Adalberto, che presiede a Mosezzo il placito del 4 settembre 962, è detto «comes comitatu uius Plumblensis».

(96) Cfr. oltre n. 171.

(97) Occorre innanzitutto rilevare che locus qui dicitur è formula diversa da locus ubi dicitur che si ritiene stia normalmente ad indicare una località prediale. Sulla possibilità poi che la stessa formula locus ubi dicitur stia ad indicare veri e propri villaggi, cfr. R. Comba, La dinamica dell’insediamento umano nel Cuneese (sec. X-XIII), in Bollettino storico bibliografico subalpino, LXXI (1973), p. 554, n. 128.

(98) Parodi, I signori cit., p. 152 sg.

(99) Cfr. il testo corrispondente alla n. 100.

 

 

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e i buoni rapporti di Egelrico con Ottone e con il suo entourage, con l’ambiente avverso a quei re a cui i «Manfredingi» si erano appoggiati, Berengario II e Adalberto: l’atto è infatti steso «in loco que dicitur Era iusta fluvio Arno ubi domnus Otto imperator erat» e l’acquirente è il vescovo Uberto di Parma, personaggio particolarmente legato all’imperatore (100).

 

Della presenza di Uberto nel Novarese e specificamente nel comitato di Pombia non abbiamo altre notizie. Nella seconda parte del secolo X metà della corte incastellata di Mosezzo, con un passaggio che attesta l’efficacia concreta dei legami fra le principali famiglie dell’aristocrazia franca, è pervenuta sotto il controllo dell’arduinica Guntilda e, per suo tramite, all’anscarico Amedeo: è il dato di partenza da cui occorrerà muovere nel verificare la permanenza di presenze signorili nella corte nel secolo successivo, quando sarà possibile avere una visione anche quantitativamente globale del complesso economico-militare di Mosezzo.

 

 

            3. (Le presenze signorili a Mosezzo nell’XI secolo)

 

Un placito del 19 ottobre 1022 è il primo documento dell’XI secolo a informare della nuova situazione patrimoniale e signorile della corte di Mosezzo. Una Cristina di legge romana, «veste vellamen sancte relionis (sic) inducta et relicta bone memorie Berengarii et filia quondam Amalberti» (101), dichiara in giudizio di aver donato ai canonici di S. Maria e di S. Gaudenzio di Novara metà del castello di Mosezzo «cum area sua, cum tonimen et fosatum circumdatum» e metà dell’annessa cappella di S. Stefano, per un’estensione totale di 100 tavole; alla quota di castello e di cappella aveva aggiunto, nella donazione, la parte a lei spettante dei sedimi, delle vigne, degli arativi, delle selve e dei gerbidi posti nei luoghi di Mosezzo, «Carpaneto», «Vuachingo», che raggiungevano l’estensione di 100 iugeri (102). Tutti i beni sono confermati ai canonici «una cum omni toloneo et districtum in integrum» e oltre a Cristina dichiara di riconoscere la donazione anche Guntilda «filia bone memorie Berengarii».

 

 

(100) Su questo vescovo cfr. R. Schumann, Authority and the Commune. Parma 833-1133, Parma, 1973 (Fonti e studi della Regia deputazione di storia patria per le province parmensi, ser. 2», VIII), pp. 94, 96, 143, e Fumagalli, Vescovi e conti cit. (sopra, n. 7), p. 184. Dopo essere stato cancelliere e arcicancelliere sotto Berengario II e Adalberto, fu poi cancelliere e arcicapellano sotto Ottone I.

(101) Manaresi, I placiti cit., II, 2, p. 651, doc. 317.

(102) L. cit. Sui canonici del capitoli di S. Maria e di S. Gaudenzio e sui loro rapporti talora tesi cfr. O. Ghezzi, I canonici della cattedrale di S. Maria di Novara fino al sec. XII, in Bollettino storico per la provincia di Novara, LII (1961), parte 2a, p. 25 sgg.

 

 

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Chi è questo Berengario e come era pervenuta metà del castello di Mosezzo a Cristina ? I due problemi sono connessi. Nel settembre del 985 un Adalberto di legge longobarda aveva venduto a Berengario «filius bone memorie Amedei de loco Musiciò» (103) un appezzamento di campo e di bosco nella zona appunto di Mosezzo «ad locus ubi dicitur Carpanedo»: l’appezzamento si estende per 3 iugeri e 4 pertiche iugiali e confina da tre lati con possedimenti già di Berengario. Questa carta, redatta nel castello di Mosezzo, consente di ricostruire i collegamenti che occorrono per rispondere ai quesiti ora posti. Berengario, che non fa professione di legge, è figlio di un Amedeo di Mosezzo e risulta già ben inserito nella zona: non c’è ragione di pensare che non sia figlio dell’Amedeo marito di Guntilda, documentato nel 962 (104), tanto più che è fuor di dubbio che Berengario sia un tipico nome anscarico. Rimane da constatare se il Berengario del 985 sia identificabile con quello di cui Cristina dichiara di esser vedova. Si consideri che sia il documento del 985 sia quello del 1022 fanno riferimento ad una particolare località prediale della zona di Mosezzo, «Carpaneto». Questo elemento, unito all’omonimia e alla coerenza dei dati cronologici, induce ad una risposta positiva.

 

Berengario, figlio dell’anscarico Amedeo e presumibilmente dell’arduinica Guntilda, avrebbe dunque ereditato - dalla madre metà del castello e del complesso fondiario di Mosezzo e, alla sua scomparsa, tali beni sarebbero rimasti alla moglie Cristina e alla figlia Guntilda, il cui nome riprendeva quello della nonna paterna. Non deve suscitare dubbi il fatto che Cristina professi legge romana, mentre gli Anscarici erano franchi: era normale che le vedove riacquistassero la legge dei loro agnati, abbandonando quella del marito (105).

 

Una difficoltà nell’identificare i beni acquisiti da Amedeo e Guntilda nel X secolo con quelli ceduti dalla loro nuora nel secolo successivo nasce dalla rilevante differenza di estensione fra gli uni e gli altri. Ma questa difficoltà appare agevolmente superabile. Nel 962 Guntilda e Amedeo acquisivano 80 tavole di castello e di corte domocoltile e 30 iugeri e 8 pertiche iugiali di beni annessi; nel 1022 la nuora Cristina dona tutto ciò di cui dispone,

 

 

(103) Gabotto, Lizier..., op. cit., p. 157 sg., doc. 94. Il testo è stato controllato nell’originale, in Archivio Capitolare di Novara, «Documentario di persone estere con alcune carte riguardanti la città di Novara», Q, doc. 16.

(104) Cfr. sopra, n. 79.

(105) Schupfer, op. cit. (sopra, n. 83), II, pp. 107, 250 e 259.

 

 

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esattamente 100 tavole di castrum con le aree annesse e ben 600 iugeri di beni variamente dislocati. La differenza può avere plausibili spiegazioni: nel 962 l’acquisto si riferisce a soli due terzi della metà del castrum e del complesso curtense; Cristina nel 1022 dichiara di aver ceduto ai canonici beni distribuiti in più località e non necessariamente in stretta connessione con il centro domocoltile; negli anni intermedi la famiglia può aver proseguito una politica di acquisti, che ha fatto assumere proporzioni più consistenti soprattutto al territorio agrario circostante la corte. Che la famiglia avesse approfondito la propria presenza nella zona, accentuandone la qualificazione in senso signorile, è altresì dimostrato dal fatto che Cristina risulta detentrice del teloneo e del districtus su tutti i beni (106).

 

Metà di un importante complesso fondiario era dunque per molti anni rimasto in mano anscarica: la morte di Berengario e la decisione di Cristina di dedicarsi alla vita religiosa determinano la rinuncia a tali cospicui beni non in forma di vendita ad una famiglia ‘concorrente‘, come era avvenuto mezzo secolo prima nel caso dei «Manfredingi», bensì a favore dell’ente religioso che più si mostrava interessato alla zona. È opportuno ricordare che la stessa carta del 1022 documenta un discendente maschio - che si direbbe già morto al tempo del placito - di questo ramo anscarico, quel Berengario che prima del 1022 aveva già disposto di beni in Mosezzo (107) : discuteremo più avanti di altre possibilità di permanenza anscarica nella zona di Mosezzo (108).

 

Frattanto un’altra famiglia dell’aristocrazia franca, non estranea a Mosezzo già nel secolo precedente, era giunta a controllare l’altra metà della corte e del castello. Il 20 ottobre 1062 Adelaide «filia bone memorie Maginfredi marchionis et relieta quondam Odonis» dona alle chiese di S. Maria e di S. Gaudenzio di Novara «medi[e]tas de corte una domus coltilis et meam porcionem que est ite[m] medietas de castro uno et capella una ibi edificata in onore Sancti Stefani» (109).

 

 

(106) Cfr. sopra, testo successivo alla n. 102.

(107) «Preter antepono rebus illis in ipsas locas reiacentibus, quod sunt luges viginti, unde quondam Berengarius filius meus in Inilda qui fuit conlus sua, cartulam donacionls emlxit : Manaresi, I placiti cit., 11, 2, p. 653, doc. 317. Rimane il dubbio se questa parte di beni fosse già stata da Berengario donata agli stessi canonici novaresi o avesse avuto altro esito.

(108) Cfr. oltre, n. 124.

(109) F. Gabotto, O. Basso, A. Leone, G. B. Morandi, O. Scarzello, Le carte dell’Archivio capitolare di S. Maria di Novara, II, Pinerolo, 1915 (Biblioteca della Società storica subalpina, 79), p. 58, doc. 215. L’originale, particolarmente chiaro in questo caso, è in Archivio Capitolare di Novara, «Documentario delle donazioni fatte alla chiesa ed al capitolo novarese e giurisdizione temporale su diverse ville dal 958 al 1188», F, doc. 23.

 

 

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Anche in questo caso i beni connessi con la corte sono distribuiti nelle tre località presumibilmente contigue di Mosezzo, di «Carpaneto» e di «Vuachingo»: castello, parte centrale della corte e coltivi misurano 200 iugeri, gerbidi e selve 100 iugeri (110). Con questo atto la corte incastellata di Mosezzo entra dunque totalmente sotto il controllo dei canonici novaresi (111).

 

È la prima volta che nella documentazione in nostro possesso compare questa metà della corte ? E come è pervenuta agli Arduinici ? L’eventuale identificazione con Mosezzo della «Meecia» ceduta per metà nel 970 da Egelrico al vescovo di Parma Uberto (112) potrebbe consentire un collegamento tra i beni del 970 e quelli del 1062 e tra il vescovo Uberto e la famiglia Arduinica. Ma là dove abbiamo affrontato specificamente il problema, ci siamo limitati a formulare un’ipotesi concludendo che una risposta definitiva non era possibile: purtroppo il dubbio non può essere sciolto neppure attraverso un confronto fra l’estensione della quota di corte che perviene a Uberto nel 970 con quella della «medietas» donata oltre novant’anni dopo da Adelaide ai canonici novaresi. Infatti una delle misure più significative, cioè l’estensione della quota di castrum e di corte domocoltile, non risulta nel documento del 1062, in cui sono riportate solo misure cumulative (113).

 

Rimangono pertanto aperte tre possibilità: che il detentore della seconda metà di Mosezzo negli ultimi decenni del X secolo fosse ancora Egelrico, che se ne era riservata la proprietà nel 962 (114); che dopo il 970 tale detentore fosse Uberto vescovo di Parma e uomo di corte; che vi sia stato infine uno sconosciuto proprietario dopo Egelrico e prima degli Arduinici.

 

 

(110) Anche in questo documento, come in quello del 1022, si accenna a diritti di natura pubblica in questo caso ceduti da Adelaide: «omnem meum districtum et toloneum quod mihi pertinere videtur», op. cit., p. 59, doc. 215.

(111) Occorrerà tornare su questo aspetto dei documenti, ma è opportuno rilevare fin d’ora che a eguali quote di castrum non sempre corrispondevano eguali estensioni di beni annessi. La medietas ceduta da Cristina nel 1022 appare complessivamente molto più estesa di quella ceduta da Adelaide quarant’anni dopo: infatti la prima è composta di 600 iugeri di beni (oltre alle 100 tavole delle quote di castrum e di cappella), la seconda di 300 iugeri, comprensivi anche della parte centrale della corte e del castrum. Su una proposta di soluzione a questo problema, cfr. oltre, n. 188.

(112) Cfr. sopra, n. 100.

(113) Il fatto che il complesso fondiario del 1062 sia notevolmente più esteso della metà di «Meecia» acquisita da Uberto nel 970 non deve essere considerato un elemento probante contro l’identificazione di quest’ultimo toponimo con Mosezzo: infatti, pur facendo capo alla stessa quota di centro curtense, i beni connessi in novantadue anni potevano aver subito una notevole espansione.

(114) «Preter de eadem medietas quod in mea ut supra reservo potestate »: Gabotto, Lizier,... op. cit., p. 82, doc. 55.

 

 

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Il Parodi, con congetture alquanto avventurose, ritiene che il passaggio sia avvenuto dalla famiglia manfredinga dei conti di Lomello ad Arduino il Glabro marchese di Torino, attraverso un matrimonio di questo con ima figlia di Manfredo di Lomello o attraverso un acquisto di Manfredo figlio di Arduino: ma nessun serio ragionamento consente di avvalorare una delle due possibilità (115). Credo che nell’assenza di dati più probanti sia sbagliato trascurare la presenza di un’Arduinica, Guntilda, come proprietaria fondiaria’nella stessa località di Mosezzo. La metà di cui abbiamo visto disporre Cristina, vedova di un Anscarico, era quella acquisita nel 962 da Guntilda e da lei evidentemente lasciata al figlio Berengario, nato dal suo matrimonio con l’anscarico Amedeo. Direttamente o indirettamente, Guntilda potrebbe aver operato perché anche i suoi parenti acquisissero una presenza in quella corte: fu dunque Guntilda stessa - o un altro Arduinico che avesse sfruttato i legami garantiti da quella precedente consolidata presenza - ad acquistare la seconda metà della corte, da Egelrico o da un successivo detentore, fosse o non Uberto.

 

È di indubbio interesse il fatto che a metà dell’XI secolo quella presenza fondiaria risulti acquisita dal ramo principale e marchionale della famiglia, che esercita un ruolo egemone all’interno del gruppo parentale per quanto riguarda non solo la gestione di funzioni pubbliche ma anche il controllo e l’amministrazione del patrimonio (116). Il disimpegno adelaidino del 1062 è poi in perfetta coerenza con una politica che condusse Olderico Manfredi e Adelaide a concentrare i possedimenti nelle zone di loro presenza pubblica, per garantire una solida base al loro potere ufficiale, trascurando la possibilità di costruire consistenti nuclei patrimoniali fuori della marca (117).

 

 

(115)

«Arduino fu marchese e conte di Pavia, Oddone fu pure marchese; Richelda sposò il marchese Corrado Conone figlio di re Berengario e Anselda fu consorte di Gisilberto conte palatino e di Bergamo. Maginfredo ebbe un figlio chiamato Olderico Manfredo che fu pure marchese; sposò Berta figlia del marchese Oberto e mori nel 1034 lasciando Adelaide, Irnella e Berta. Furono fratelli di Olderico, Oddone, Attone, Guidone, Ugone ed Alrico vescovo d’Asti. Sembrerebbe dunque» (!) «che la metà del luogo e del castello di Mosezzo sia pervenuta al marchese Olderico Manfredo o per un matrimonio dell’avo Arduino II Glabro con una figlia di Maginfredo, primo conte di Lomello, o per vendita fatta da esso conte Lomellino al marchese Manfredo, padre di Olderico»:

 Parodi, I signori cit., p. 154.

 

(116) Sulla tendenza, dimostrabile nella famiglia arduinica, di privilegiare il detentore della carica marchionale nella riacquisizione di parti disperse del patrimonio familiare cfr. Sergi, La marca arduinica cit., p. 664.

(117) Op. cit., p. 712. La donazione può altresì inserirsi in quella «esuberante» attività di potenziamento e di protezione degli enti religiosi già Intrapresa da Olderico Manfredi e proseguita da Adelaide, per lo più con lo scopo di legare a sé comunità religiose potenti a livello locale (l. cit., e p. 669).

 

 

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Il gruppo parentale anscarico e quello arduinico funzionarono in Mosezzo in stretta connessione dal tempo del matrimonio di Amedeo con Gultilda, e per molti anni entrambi furono presenti patrimonialmente, in misura per lo più eguale, nella stessa corte. Alcuni personaggi documentati nella seconda metà dell’XI secolo testimoniano ulteriormente quella connessione. Il 15 luglio 1065 «Berenglerius filius Litonis de Munmorino et Berta iugalis», su suggerimento e con il consenso del padre di Berengario Litone dichiarano di non contrastare ai canonici di Novara il possesso di una metà della corte e del castello di Mosezzo (118). Non si tratta, come credette erroneamente il Baudi di Vesme (119), della metà ceduta ai canonici da Cristina nel 1022, bensì della stessa metà donata da Adelaide tre anni prima: vi è infatti una perfetta corrispondenza nella descrizione dei beni e nei dati relativi alla loro estensione (120). L’errata deduzione del Baudi è da connettere con la presenza, nel placito del 1022, di personaggi che appaiono collegabili con gli autori della carta del 1065: Guntilda, figlia di Cristina e di Berengario, era assistita da un tutore Cuniberto, da un altro Cuniberto e dal padre di questo, «Liudo», che dichiaravano di non contrastare la donazione ai canonici (121).

 

Lito e «Liudo» dovrebbero essere la stessa persona, considerata la presenza di entrambi in Mosezzo con interessi precisi.

 

 

(118) Gabotto, Basso. .., op. cit., p. 66 sg., doc. 220. L’originale i in Archivio Capitolare di Novara, «Documentario delle donazioni alla chiesa ed ài capitolo novarese e giurisdizione temporale su diverse ville dal 958 ai 1188», F, doc. 25.

(119) B. Baudi di Vesme, Le origini della feudalità nel Pinerolese, in Studi pinerolesi, Pinerolo, 1899 (Biblioteca della Società storica subalpina, 1), p. 9.

(120) I beni riconosciuti ai canonici nel 1065 sono esattamente gli stessi donati da Adelaide tre anni prima: metà dei castrum, della corte domocoltile e della cappella di S. Stefano con sedimi, viti, aree, arativi, prati per l’estensione di 200 iugeri, oltre a 100 lugeri di gerbidi e di zone boschive.

(121) «Guntilda filia bone memorie Berengarii una cum Cunibertus tutorem suum seu Liudo atque idem Cunibertus filio ipsius Lludoni qui ic adpresens sunt» dichiarano «non contradicimus»: Manaresi, I placiti cit., II, 2, p. 654, doc. 317. Ritengo che l’«idem Cunibertus» sia da intendere per «item Cunibertus  e sia persona diversa dal Cuniberto tutore. È qui opportuno riassumere con uno schema genealogico i vari legami che vanno emergendo:

 

 

 

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Lito e Berengario risultano di legge salica nel 1065; «Liudo» e Cuniberto nel 1022 non fanno professione di legge ma sono certamente di legge salica, in quanto la riacquisizione della legge romana da parte di Cristina non muta lo stato giuridico della figlia che ella aveva avuto dal franco Berengario, e che quindi doveva avere tutori di legge salica (122). Normalmente la tutela spettava agli agnati (123) ed è pertanto probabile, accettando l’identificazione della famiglia del 1022 con quella del 1065, che si tratti di un ramo anscarico: Cuniberto, Lito - che da altra fonte sappiamo essere suo cugino (124) -, i figli di Lito, Cuniberto e Berengario, sarebbero cioè legati da parentela ad Amedeo marito di Guntilda, al figlio di lui Berengario marito di Cristina, e quindi al Berengario nato da quest’ultimo matrimonio.

 

La conclusione, congetturale ma sostenuta da validi elementi, circa la comprensione in un solo gruppo familiare di questi personaggi minori del Novarese e circa il loro collegamento con la schiatta anscarica non esaurisce tuttavia completamente il problema: a che cosa è dovuto l’intervento di Lito e di Berengario nel 1065 ? Come si è prima constatato, tale intervento non è una tardiva dichiarazione di non contrastare ai canonici di Novara il possesso dei beni ceduti da Cristina e dalla loro tutelata Guntilda. Occorre anzi rilevare che nella carta del 1065 essi non fanno alcun riferimento a legami familiari per rilasciare la loro dichiarazione: parrebbe cioè che non in quanto tutori, ma come gruppo familiare presente nella zona, affermino la propria non ingerenza nella donazione adelaidina ai canonici. Lito e i suoi parenti dovevano essere possessori nella regione, é questa loro posizione potrebbe essere tra le ragioni dell’atto del 1065. Ma a questa sono da aggiungere altre considerazioni. Ili primo luogo, se Lito e i suoi figli erano anscarici, era motivato anche sotto questo profilo il loro farsi garanti della non ingerenza anscarica su quella quota di Mosezzo che era sì pervenuta agli Arduinici, ma per un tramite a cui non era estranea la stretta connessione, determinatasi sin dalla seconda metà del secolo X, con gli interessi anscarici.

 

 

(122) Schupfer, op. cit., II, p. 250.

(123) L. cit.: è normale il ricorso a parenti paterni nel caso di tutela di donna ancora nubile.

(124) Un Lito «vicecomes» compare come cugino di Cuniberto in una carta del vescovo astigiano Alrico, fratello del marchese arduinico di Torino Olderico Manfredi, il 4 maggio 1034: Gabotto, Le più antiche carte... di Asti cit. (sopra n. 49), p. 324, doc. 145. Cfr. nota successiva per il Lito (è legittimo ritenere che sia lo stesso) che appare attivo nell’entourage di Adelaide.

 

 

185

 

Ma non è tutto: significative coincidenze cronologiche e onomastiche suggeriscono un’identificazione di Lito con quel «Liudo» o Lito che con il cugino Cuniberto assiste Adelaide in una donazione a S. Donato di Pinerolo il 14 marzo 1044 e che è testimone in un’altra carta adelaidina, relativa all’Astigiano, del 14 maggio 1065 (125). Non solo come Anscarici, non solo come proprietari locali, potenziali concorrenti dei canonici, ma anche come seguaci e forse fideles di Adelaide - la donatrice del 1062 - Lito e i suoi familiari riconoscono legittima la presenza patrimoniale canonicale in Mosezzo.

 

Un bell’esempio dunque degli stretti legami intercorrenti, a tutti i livelli, fra famiglie franche, i cui singoli esponenti, precisando il loro’ orientamento più verso costruzioni dinastiche che non verso una normale gestione di poteri marchionali e comitali, si radicano in più situazioni e stabiliscono rapporti privilegiati con quelli fra loro la cui posizione politica si è mantenuta particolarmente solida.

 

Questa la conclusione sul funzionamento di certi meccanismi familiari. È opportuno qui aggiungere una considerazione utile sul piano genealogico: l’assoluto silenzio delle fonti circa un’eventuale presenza patrimoniale di Arduino d’Ivrea in Mosezzo - nonostante l’ampiezza dei documenti di confisca relativi a lui, ai suoi parenti e ai suoi seguaci - può contribuire, nella misura che un argomento ex silentio in certi casi consente, ad avvalorare l’ipotesi dell’appartenenza di Arduino ad una famiglia non anscarica. È possibile in verità anche un’altra spiegazione di quel silenzio, che cioè esso dipenda da una netta distinzione patrimoniale dei due rami degli Anscarici, quello dei discendenti di Anscario II, il personaggio privato delle funzioni marchionali in Ivrea da re Ugo - il ramo attestato appunto in Mosezzo - e quello dei discendenti di re Berengario II, a cui si potrebbe supporre appartenesse re Arduino: poiché intendo qui lasciare la questione di un suo possibile collegamento con il ramo principale della famiglia anscarica nei termini prima problematicamente esposti (126).

 

 

(125) «Signum manibus (...) Cuniberti seu Liudoni (...) testes»: Cipolla, Il gruppo dei diplomi adelaidini cit. (sopra n. 48), p. 317, doc. 1. «Liudo et Amedeo pater et filio» assistono ad una donazione di Adelaide alla chiesa d’Asti: Gabotto, Le più antiche carte... di Asti cit.,p. 345, doc. 177. Su un’altra menzione di Lito e di Cuniberto, cfr. la nota precedente. A questi rapporti di fedeltà con Adelaide dunque, più che non alla presenza di Anscario II nel Castelvecchio d’Asti, si potrebbero collegare quelle presenze anscarlche nell’Astigiano che non ci proponiamo qui di esaminare ma che sono state più volte illustrate in sede erudita (cfr. sopra, n. 10).

(126) Cfr. sopra, n. 36 e 39.

 

 

186

 

Interessante è infine una presenza dei conti di Biandrate nel territorio di Mosezzo, documentata il 4 luglio 1070. Il conte Guido acquista da un certo Ardizzone di legge longobarda tutti i possedimenti in varie località, e tra gli altri acquista beni non meglio descritti in «Musicio» (127). Ma è da escludere che questa presenza concernesse in qualche modo il centro curtense, ormai completamente acquisito dai canonici novaresi, che continueranno anzi anche nel secolo successivo ad annettersi beni minori nella stessa zona (128).

 

 

            4. (L’acquisizione vescovile dei distretti pubblici)

 

- Con gli atti del 1062 e del 1065 sembra realizzarsi il definitivo ritiro dal complesso curtense di Mosezzo delle famiglie signorili che per oltre un secolo, dopo il disimpegno manfredingo, ne avevano fatto una base della loro presenza nel Novarese. Mosezzo diventerà uno dei più importanti nuclei patrimoniali delle chiese di S. Maria e di S. Gaudenzio di Novara (129).

 

Parallela all’espansione fondiaria degli enti ecclesiastici cittadini è la crescente presenza egemone del vescovo non solo nella città ma in larga parte del territorio circostante. Già un diploma di Ottone I databile tra il 969 e il 972 aveva concesso al vescovo di Novara la giurisdizione sulla città e sul territorio circostante per un raggio di 24 stadi (130).

 

 

(127) C. O. Mor, Carte valsesiane fino al secolo XV, Torino, 1933 (Bibliot. d. Soc. storica subalpina, 124), p. 13, doc. 7. Qualche rapporto più preciso del conti di Biandrate avrebbe avuto implicazioni non trascurabili, data la collocazione genealogica che questi vengono ad avere come discendenti dei conti di Pombia (cfr. sopra, n. 46). Circa ingiustificate posizioni presenti nella storiografia piemontese, secondo le quali una parte della corte stessa di Mosezo sarebbe passata dai canonici novaresi ai conti di Pombia e poi al conti di Biandrate, cfr. Parodi, I signori cit., p. 161, che non assume In proposito una posizione sufficientemente chiara.

 

(128) Gabotto, Basso. . ., op. cit. (sopra, n. 109), p. 205, doc. 314; i canonici di S. Maria ricevono in dono da privati un sedime in Mosezzo con ogni diritto annesso (23 settembre 1129). Sempre i canonici di S. Maria acquistano vari beni in Mosezzo 11 22 ottobre 1150: op. cit., p. 267 sg., doc. 365. Innocenzo II il 25 giugno 1132 concede un’ampia bolla di conferma ai canonici «ecclesie Novariensis» (quelli di S. Maria) e in essa sono elencate «duas partes castri Mositil cum cappella sancti Stephani et districto et teleoneo et honore et duodecim mansis»: è possibile che il pontefice si riferisca a soli due terzi del castello perché la conferma non riguarda I canonici di S. Gaudenzio (sui possedimenti di S. Maria cfr. nota successiva): op. cit., p. 210, doc. 319. Cfr. Ghezzi, op. cit. (sopra, n. 102), parte 1a, p. 43 sgg.

 

(129) Si vedano, per il xm secolo, quattro lunghi e particolareggiati elenchi di beni della chiesa di S. Maria di Novara in Mosezzo: O. Scarzello, G. B.. Morandi, A. Leone, Le carte dell’Archivio capitolare di S. Maria di Novara, III, Torino, 1924 (Biblioteca della Società storica subalpina, 80), pp. 246-257, docc. 678-681.

 

(130) Già dal 7 giugno 854 la chiesa di Novara era immune per quanto concerneva te sue presenze patrimoniali: un diploma di Ludovico II dichiarava che «nullus iudex publicus vel quilibet ex iudiciaria potestate» avrebbe potuto entrare «in ecclesias aut loca vel agros seu reliquas possessiones (...) ad causas iudiciario more audiendas». Gabotto, Lizier..., op. cit., p. 10, doc. 8. Per il diploma di cui si parla nel testo cfr. M.G.H. Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, p. 565, doc. 414, dove la datazione è lasciata incerta. La datazione approssimativa qui adottata è quella suggerita da Stumpf Brentano, op. cit. (sopra, n. 33), I, p. 48, reg. 543 (969-972). Genuino, anche se ottenuto mediante la presentazione di documenti falsi, è giudicato questo diploma da C. Manaresi, Alle origini del potere dei véscovi sul territorio esterno delle città, in Bullettino dell’Istituto storico italiano per il medioevo e Archivio muratoriano, 58 (1944), pp. 263-265. - Sulle misure dello stadio (m. 184, 6875) e del miglio (m. 1477, 5) cfr. A. Martini, Manuale di metrologia, Torino, 1883, p. 866.

 

 

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Le fasi ulteriori dell’espansione politica vescovile sono legate alle sorti di re Arduino, e alla sua sconfitta di cui Pietro, vescovo di Novara e costante nemico di Arduino, seppe approfittare in modo consistente. Il primo documento significativo è quello del 1014 con cui Enrico II, oltre a confermare il districtus e l’immunità già concessi dai suoi predecessori, attribuisce al vescovo Pietro il comitato dell’Ossola (131). Il 10 giugno 1025 poi Corrado II concede, sempre a Pietro, il «comitatum de Plumbia et alium de Oxula cum sua integritate, cum teloneis et publicis omnibus functionibus regiae potestatis» (132).

 

 

(131) M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, III, p. 401 sg., doc. 320. Enrico II concede «quemdam comitatulum in valle Oxilla infra ipsius episcopatus parrochiam adlacere dignoscitur (...) cum omnibus functionibus que de ipso comltatuio publice parti pertinent». È probabile che l’espressione «quendam comitatulum» sia suggerita dallo scarso rilievo demografico di una zona la cui fisionomia comitale non era forse sufficientemente nota. Si tenga del resto presente che in parti ulteriori il documento si riferisce al «dictum comitatum». Il comitato dell’Ossola è già documentato nel 910 («comitatu Oxilense») in un diploma che consente di attribuire al distretto un’estensione non limitata alla zona più strettamente valliva: in esso sono menzionate tre corti, Caddo, Premosello e «Longomiso», di cui la prima è vicina all’attuale Domodossola, la seconda è presso il Lago Maggiore, circa a 15 chilometri a sud-est di Domodossola. L. Schiaparelli, I diplomi di Berengario I, Roma, 1903 (Fonti per la stòria d’Italia, 35), p. 193, doc. 71.

 

(132) M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, IV, p. 42, doc. 38. Questa concessione è in singolare contrasto con un’attestazione del 4 luglio 1034 — la seconda stesura di una famosa permuta fra i conti di Pombia e l’abbazia di Nonantola - In cui è menzionato un «Widoni item [comes] huius comitatu Plumbiense »: F. Gabotto, Appendice al Libro Rosso del comune di Chieri, Pinerolo-orino, 1913-1924 (Biblioteca della Società storica subalpina, 76), p. VIII, doc. 7. Il problema è di ardua soluzione, perché non si può spiegare la comparsa di un conte laico in quello stesso comitato che era stato concesso al vescovo con formula ampia e precisa. Non si può assolutamente avanzare la spiegazione di una concessione al vescovo solo della zona del comitato di Pombia vicina alla città di Novara, con mantenimento di una giurisdizione laica sulla parte rurale dei contado, perché il diploma dei 1025 menziona esplicitamente, fra le giurisdizioni concesse al vescovo, sia il districtus su Novara e dintorni, sia il comitato di Pombia «cum sua integritate». Si deve perciò ritenere o che il titolo di «comes» (frutto tra l’altro di un’Integrazione, anche se senza dubbio accettabile, dell’editore) nella carta privata del 1034 sia attribuito a un membro della famiglia di tradizioni comitali locali in quanto essa abbia recuperato un suo peso sui piano signorile, forse anche subordinatamente al vescovo (cfr. O. Tabacco, L’allodialità del potere nel medioevo, in Studi medievali, ser. 3a, XI, 1970, p. 603, per la nomina di conti da parte dei vescovi in Germania), o che la concessione di Corrado II ai vescovo sia rimasta sulla carta, e che il vescovo di Novara non sia di fatto riuscito a far riconoscere il proprio diritto sul comitato di Pombia. Pare più verosimile la prima ipotesi, e in ogni caso Induce ad annettere maggiore Importanza al diploma di Corrado II e all’attestazione del comitato di Pombia Ivi contenuta il fatto che Guido conte di Pombia non i menzionato nella prima stesura della permuta del 4 luglio 1034, la soia che ci è pervenuta in originale, ma soltanto nella seconda, di cui conosciamo una copia della fine del XIII secolo. Su una conferma del 1028 del diploma del 1025 cfr. oltre, n. 159. Si veda una rapida rassegna cronologica delle fasi del potenziamento vescovile in M. G. Virgili, Il dominio episcopale di Novara fino all’inizio del comune, in Bollettino della Sezione dì Novara della R. Deputazione di storia patria, XXXVI (1942), pp. 161-181 ; XXXVII (1943), pp. 1-14.

 

 

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Perché questi documenti non menzionano mai un comitato di Novara, bensì soltanto la città e la solita fascia extraurbana ?

 

Occorre affrontare il dibattuto problema del comitato di Novara: molti dubbi sono stati avanzati sulla sua consistenza e sulla sua stessa esistenza. Tuttavia si è spesso dato per certo che nei secoli IX e X Novara fosse sede di un comitato: si faceva rilevare che una donazione del vescovo di Verona Rataldo, risalente all’813, recava, fra le altre, la sottoscrizione di un Ricperto «comes civitatis Novariae» (133). Il comitato novarese ricompare nel 999 in un diploma dell’imperatrice Adelaide, in cui è menzionata una corte «Sancti Nazarii in comitatu Novarie prope fluvium Agogne, et in ipsa civitas Novarie» (134). Il problema che parte della storiografia si è posto è quindi quello di spiegare il silenzio delle fonti, durato per oltre un secolo e mezzo, sul comitato di Novara (135). Una svolta decisiva al dibattito è stata in tempi recenti data dal Cavanna (136). Egli, in armonia con il Hlawitschka, si è riferito all’ultima edizione emendata di quel documento, dove la sottoscrizione prima citata risulta essere di un «Ricperto comitis civitatis Novae» (137). Ricperto non era dunque conte di Novara ma di Cittanova presso Modena. Poiché questa era la sola menzione del comitato novarese precedente il 999, non si tratta più di spiegare un transitorio silenzio documentario, ma di constatare che nei secoli IX e X, quando cioè i comitati di Pombia e di Bulgaria sono ricordati dalle carte novaresi, nessuna attestazione può provare l’esistenza di un comitato di Novara (138).

 

Poiché dunque il potenziamento del vescovo di Novara non è avvenuto all’interno di un quadro distrettuale rigido, consolidato da una tradizione di corrispondenza fra limiti diocesani e comitali,

 

 

(133) Il testo risulta cosi nell’edizione della carta contenuta nel Codex diplomaticus Langobardiae cit. (sopra, n. 23), col. 168, doc. 89 ed è stato cosi accettato e introdotto nel loro ragionamenti, fra gli ultimi, dal Pezza, op. cit. (sopra, n. 4), p. 48 e dal Cognasso, op. cit., (sopra, n. 3), p. 55.

(134) A. Colombo, I diplomi ottoniani e adelaidini e la fondazione del monastero di S. Salvatore di Pavia, in Miscellanea pavese, Torino, 1932 (Biblioteca della Società storica subalpina, 130), p. 34, doc. IV: l’editore mette in rilievo (p. 36) che il passo in questione appare «riscritto su rasura» nella copia del xui secolo che ci ì pervenuta. Il diploma del 12 aprile 999 era già edito in Codex diplomaticus Langobardiae cit., col. 1754 sgg., doc. 997.

(135) n questo senso si impegnarono soprattutto il Pezza e li Cognasso (cfr. sopra, n. 133).

(136) Cavanna, op. cit. (sopra, n. 4), particolarmente alla n. 96, pp. 40-45.

(137) Fainelli, op. cit. (sopra, n. 73), p. 127, doc. 102; cfr. Hlawitschka, op. cit. (sopra, n. 57), p. 253.

(139) Cavanna, op. cit., p. 45, n. 96.

 

 

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è opportuno chiedersi quale fosse la situazione distrettuale del Novarese nei secoli IX e X e a che cosa siano da connettere le prime attestazioni di un comitato di Novara. A quest’ultimo proposito l’attestazione del 999 è notevolmente interessante: il fatto che la collocazione della corte nel comitato sia ulteriormente specificata con l’espressione «in ipsa civitas Novarie» (139), suggerisce che il distretto pensato come «novarese», un distretto di cui non sappiamo quanto chiara nozione si cominciasse ad avere in quegli anni, comprendesse la stessa città e si imperniasse su di essa (140). Si potrebbe avanzare l’ipotesi che il progressivo affermarsi dei poteri vescovili su Novara e sul territorio circostante induca a ‘pensare‘ la zona come un ambito distrettuale pubblico.

 

Da quale quadro circoscrizionale di origine carolingia il nuovo distretto risulterebbe ritagliato ? È necessario domandarsi quale fosse l’assetto distrettuale della zona di Novara tra la fine del ix e la fine del X secolo, quando cioè la zona era inserita nella marca anscarica. È utile esaminare alcune considerazioni del Cavanna, anche se l’attenzione dello studioso è stata più specificamente rivolta all’età longobarda. Il punto di partenza è l’associazione, con metodo combinatorio, di due problemi storiografici e di due silenzi documentari: «come la ricerca storica non riesce a trovare un centro alla Bulgaria, così essa incontra serie difficoltà a trovare un territorio a Novaria» (141). Muovendo poi dalla considerazione che «in seno e ai lembi del ducatus» - il ducato di S. Giulio d’Orta - «all’apparenza tutto intorno a Novara si erano formati i due distretti di castello di Pombia e Bulgaria», il Cavanna afferma che Novara «difficilmente potè rientrare nel territorio plumbiense, che gravitò, come chiaramente dice il nome, intorno al molto più settentrionale castrum Plumbie», e prosegue osservando che «la civitas dovette probabilmente comprendere allora il territorio bulgariense, quel distretto che pare senza capitale e che diverse similarità toponomastiche mostrano non solo ecclesiasticamente legato a Novara...

 

 

(139) Cfr. sopra, n. 134.

(140) Il Cavanna, op. cit., p. 45, n. 96, utilizza questo stesso passo del documento per Insistere sul valore puramente formale dell’attestazione del comitatus. Secondo lo studioso, Il fatto che l’accenno al distretto sia una «mera Indicazione formale, priva di ogni rispondenza concreta, Io fa credere non solo la considerazione che In quest’epoca il processo di avulsione della città dal comitatus doveva essere già molto avanti, ma anche il trovare che nello stesso documento è dichiarato come la corte donata sia ‘in ipsa civitas Novaria‘». È mia opinione che, se è vero che la nozione di comitato di Novara doveva essere tutt’altro che chiara In quegli anni, tuttavia il termine tendesse a riferirsi alla città e a tutta la zona d’influenza vescovile circostante la città, de iure o de facto che essa fosse.

(141) Op. cit., p. 89.

 

 

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Novara potrebbe così essere divenuta il centro di un gastaldato bulgariense dall’estensione comunque del tutto irregolare rispetto alla vecchia pianta municipale» (142). Nell’esaminare l’età ulteriore, lo studioso afferma che «non preoccupa... il mancato ricordo di un comes Novariae per i tempi franchi. Il crescente ambito della potestà vescovile può aver creato un precoce arretramento dei poteri comitali fuori della città ed un loro restringimento al solo territorio rurale bulgariense» (143). La conclusione sarebbe dunque orientata verso una primitiva appartenenza di Novara al gastaldato longobardo di Bulgaria, con il successivo arretramento di questo, che diventa «contado rurale a sé, acefalo e irregolare» (144). Un’isola giurisdizionale vescovile rimarrebbe compresa fra due comitati, quello plumbiense - in cui, secondo il Cavanna, la città di Novara non sarebbe mai stata compresa (145) - e quello bulgariense.

 

È un’ipotesi, presentata con molta prudenza dallo stesso autore. Ma la possibilità che Novara rientrasse nel distretto di Pombia deve essere valutata con maggiore attenzione, e non esclusa partendo dal presupposto che Novara non potesse non essere il centro del distretto carolingio in cui eventualmente rientrasse. Prima di procedere oltre nella verifica delle varie possibilità, è necessario precisare, più di quanto non si sia fatto finora (146), le fasi cronologiche. Credo che di una vera isola giurisdizionale vescovile si possa parlare solo nella seconda metà del X secolo, dal diploma del 969-972 in poi, mentre l’immunità sui possessi della chiesa novarese concessa nell’854 è all’inizio di una fase di attribuzione di significato politico alle disperse presenze patrimoniali vescovili, una fase non implicante l’esercizio di un’organica giurisdizione su un territorio compatto (147). Vi è quindi un periodo piuttosto lungo, che rimane da discutere, successivo alla trasformazione dell’ordinamento distrettuale longobardo e precedente la costruzione di un complesso distrettuale autonomo del vescovo di Novara.

 

 

(142) Ibid., p. 90 sg.            (143) Ibid., p. 96.            (144) Ibid., p. 45, n. 96.            (145) Ibid., e p. 50.

(146) Non era compito del Cavanna porsi in modo specifico e approfondito il problema, e questo spiega la difficoltà che il lettore ha a comprendere quale sia quell’«epoca feudale» in cui si realizza la «conquista degli ampi poteri sulla città da parte del vescovo novarese» (op. cit., p. 45, n. 90), e il dubbio, sulla base di quel riferimento ai «tempi franchi» riportato da da noi prima nel testo (cfr. n. 143) che troppo si voglia anticipare l’esercizio di poteri vescovili sul territorio esterno alla città, che nel caso di Novara è provato solo nella seconda metà del secolo X.

(147) Cfr. sopra, n. 130.

 

 

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Appunto alla fine di questo periodo, nel 962, uno dei documenti relativi a Mosezzo da noi qui in precedenza esaminati fornisce un elemento di estremo interesse: si tratta di un placito presieduto a Mosezzo da Adalberto «comes comitatu uius Plumbiensis» (148). Mosezzo era a circa otto chilometri a nord-ovest di Novara, quindi vicinissima alla città, e manca ogni analoga attestazione di conti di Bulgaria operanti nel X secolo in zone così prossime a Novara, anche se una località sicuramente bulgariense, Trecate, è sede di beni vescovili ed è a circa dieci chilometri a est di Novara (149). Quest’ultima attestazione parrebbe suggerire che la città vescovile si trovasse al confine tra i comitati di Pombia e di Bulgaria, il primo a nord-ovest e il secondo a est. Ma il territorio di Trecate doveva essere la punta più avanzata del comitato bulgariense verso Novara, come è provato dall’esistenza di alcune località che, pur essendo a est di Novara, sono chiaramente attestate come appartenenti al comitato di Pombia: Peniate, Terdobbiate, Cameri, Galliate, Nibbiola (150). Novara appare dunque nel X secolo completamente circondata dal territorio comitale plumbiense, anche se non è distante da un tratto di confine del comitato di Bulgaria.

 

Il fatto che località vicinissime a Novara - abbiamo visto che Mosezzo dista otto chilometri, aggiungiamo che Peniate ne dista quattro e Cameri circa sette - risultino afferenti al comitato di Pombia e che la punta più avanzata del comitato di Bulgaria giungesse con Trecate a dieci chilometri dalla città, non lascia materialmente spazio all’esistenza, nel x secolo, di un comitato novarese autonomo, e ciò si unisce al costante silenzio delle fonti come elemento fondamentale per negare l’esistenza, per la maggior parte di quel secolo, di un comitato di Novara.

 

 

(148) Manaresi, I placiti cit. (sopra, n. 23), II, 1, p. 12, doc. 147.

(149) Trecate, Insieme con Bornago - località più settentrionale -, è documentata come sicuramente bulgariense nel testamento dell’imperatrice Angilberga dell’877: Colombo, Cartario di Vigevano cit. (sopra, n. 9), p. 6, doc. 3. La pieve sita «in villa que nominatur Trecate  è restituita alla chiesa novarese, che l’aveva persa «malo ordine et iniusta racione», da Enrico II nel 1014: M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, III, p. 401, doc. 320. Può essere testimonianza delle oscillazioni distrettuali che caratterizzano questa regione - ma Intendo tornare su questo argomento - il fatto che un atto del 15 marzo 1013, in cui à menzionato un conte Vifredo «istius comitatus Sepriensis», risulti steso nel «porto qui dicitur Brunago» cioè a Bornago: Gabotto, Lizier..., op. cit., p. 223 sg., doc. 134.

(150) Le prime quattro località sono poste «finibus Plumbiensis comitatus» da un diploma di Berengario I del 911-915: Schiaparelli, I diplomi di Berengario I cit. (sopra, n. 131), p. 267, doc. 102. Sempre un diploma di Berengario I degli stessi anni informa che Nibbiola è posta nel comitato di Pombia: op. cit., p. 272, doc. 105.

 

 

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Un altro elemento significativo è da mettere in rilievo: un elenco di comitati contenuto in una carta del 18 aprile 969 menziona molti distretti del Piemonte settentrionale, ma non il comitato di Novara (151). Nel secolo successivo invece una conferma di beni alla abbazia di Fruttuaria del 1014 fa riferimento agli «episcopatibus atque comitatibus Ipporiensi, Taurinensi, Vercellensi, Novariensi...» (152). E se in questo caso si può obiettare che il riferimento potrebbe essere alla diocesi, non dovrebbero invece sussistere dubbi nella lettura di un diploma di Corrado II del 2 aprile 1027: sono confermati a S. Pietro in Ciel d’Oro di Pavia «omnia (...) que in comitatu Vercellensi et Yporegiensi et que in Novariensi ad eundem locum pertinent» (153).

 

Dopo aver così dimostrato che non vi è ragione di supporre un comitato di Novara fino agli ultimi decenni del X secolo e dopo aver constatato che esso comincia ad essere sporadicamente documentato dal 999, vediamo ora di chiarire la sovrapposizione crescente dei poteri vescovili all’anteriore tessuto dei distretti pubblici. Novara, si è visto, risultava nel X secolo inserita in territorio plumbiense, e non c’è ragione di negare che la città rientrasse ufficialmente nel comitato che traeva il nome dal castrum di Pombia. Forse di fatto vi rientrava ormai sempre più debolmente, perché è probabile che il vescovo stesse ponendo le basi di quel potere cittadino ed extracittadino che gli fu riconosciuto ufficialmente nella seconda metà del secolo. La zona sottoposta a giurisdizione vescovile, che risulta estendersi per un raggio di ventiquattro stadi intorno alla città nel 969-972 e di tre miglia in una conferma del 1001 (154), raggiungeva, delle località plumbiensi sopra menzionate, forse la sola Peniate.

 

 

(151) «In comitatibus videlicet Bulgariensi, Laumeilensi, Plumbiensi, Mediolanensi, Evoriensi, Papiensi, Piacentino, Parmensi»: M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, I, p. 509, doc. 371.

(152) Op. cit., III, p. 380, doc. 305. Si veda, con lo stesso passo, la conferma di Enrico III del 18 aprile 1055: op. cit., V, p. 451, doc. 338.

(153) Op. cit., IV, p. 97, doc. 75. Il testo è ripreso, uguale, in un diploma di conferma dello stesso Corrado II del 24 gennaio 1033: op. cit., IV, p. 246, doc. 186. Un’altra conferma di Enrico III, ha il passo lievemente modificato: «in comitatu Vercelensi et Yporegensi et Novariensi» (22 ottobre 1041, op. cit., V, p. 112, doc. 86).

(154) Cfr. sopra, n. 127. Per la conferma v. M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, II, doc. 374, p. 801. Sulle misure cfr. sopra, n. 130. Confrontando i dati in stadi con quelli In miglia, si può concludere che il raggio su cui si esercitava il districtus vescovile era di circa 4 chilometri: la località bulgariense attestata più vicina, Trecate, è a 10 chilometri.

 

 

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Non stupisce quindi che nel 962 Mosezzo risulti ancora inserita nel comitato di Pombia: anche qualora si supponesse un’espansione de facto dei poteri temporali del vescovo negli anni precedenti il diploma di Ottone I, essi evidentemente non raggiungevano Mosezzo. Si deve coerentemente concludere che l’area di giurisdizione vescovile molto probabilmente non raggiungeva neppure i confini del comitato di Bulgaria, ed era tutta ritagliata all’interno del comitato di Pombia.

 

Il comitato di Pombia, in precedenza largamente attestato (155), è ricordato tre volte nei primi decenni dell’XI secolo: in un caso, il 4 luglio 1034, nel passo non esente da dubbi di una carta privata (156), è ricordato in quanto zona di tradizionale presenza pubblica di una famiglia, quella appunto dei conti di Pombia-Biandrate (157), nel secondo, il ricordato diploma del io giugno 1025 di Corrado II, il comitato di Pombia è concesso al vescovo di Novara, e manca invece la menzione del comitato novarese: ai due comitati dell’Ossola e di Pombia è associato il districtus sulla città di Novara e sulla zona circostante (158). La terza attestazione è una conferma del 1028 di quest’ultimo diploma (159). Di fronte a ciò sta il fatto che in documenti in cui l’attenzione non è specificamente rivolta al Novarese - ad esempio in ampie conferme di beni ad enti religiosi - si va valorizzando, anche per uniformità con i contigui comitati Vercellensis e Yporiensis in essi menzionati, l’uso dell’aggettivo Novariensis per qualificare dal punto di vista circoscrizionale la zona nel suo complesso (160). La spiegazione più probabile potrebbe essere la seguente: in un primo tempo tende ad affermarsi l’uso del termine comitato applicato alle zone riservate alla fine del secolo X alla giurisdizione vescovile, e così si spiegherebbe l’attestazione del 999.

 

 

(155) Ampi elenchi di attestazioni dei comitato di Pombia si trovano in Rusconi, op. cit. (sopra, n. 1), p. 6 sgg. e in Cavanna, op. cit., p. 30 sgg.

(156) Cfr. sopra, n. 132.

(157) Sul collegamento fra queste due famiglie cfr. sopra, n. 46.

(158) Cfr. sopra, n. 132.

(159) M.G.H., Diplomata regum et imperatorum Germaniae, IV, p. 164, doc. 118.

(160) Cfr. sopra, n. 153. È un caso anomalo di tardo receplmento di designazione comitale da parte di un territorio, caso assimilabile a quanto avverrà per alcuni più ristretti ambiti di espansione di poteri più propriamente signorili. L’anomalia risulta più evidente se si considera che Novara era sede vescovile: il problema ì pertanto ben distinto da quello dell’oscillazione di designazione di distretti minori controllati dal conte cittadino su cui si cfr., anche per la bibliografia relativa, A. Castagnetti, Distretti fiscali autonomi o sottocircoscrizioni della contea cittadina ? La Gardesana veronese in epoca carolingia, in Rivista storica italiana, LXXXII (1970), pp. 736-743.

 

 

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Poi, con l’ampliarsi di tale giurisdizione, è probabile che «comitatus Novariensis» sia considerato l’insieme dei territori e dei distretti controllati dal vescovo di Novara, o almeno la città di Novara e il residuo comitato di Pombia circondante la città medesima. Così si spiegherebbe l’assenza di attestazioni significative di un distretto pubblico di Pombia nell’XI secolo, a parte i diplomi imperiali del 1025 e del 1028 che riprendono formule del X secolo, e si spiegherebbe perché il diploma del 1025, che sancisce l’ambito di giurisdizione temporale del vescovo, non menzioni il comitato di Novara: il comitatus Novariensis, nell’uso che si va affermando fuori della cancelleria imperiale, altro non è che la somma di tutte o quasi tutte le giurisdizioni in quel diploma ricordate, cioè il districtus sul territorio novarese in senso stretto e su uno o due comitati contigui.

 

La zona di Novara dunque, oggetto di dominazione anscarica nella grande marca d’Ivrea prima del 950 e in quella minore dopo quella data, era molto articolata dal punto di vista della distrettuazione comitale, e Novara rientrava nel comitato di Pombia: la crescita dei poteri vescovili da un lato tende ad operare una ricomposizione territoriale, dall’altro valorizza Novara come centro di una zona ormai pensata come territorio comitale.

 

La fluidità distrettuale che caratterizza questa parte del Piemonte, oltre a non consentire risposte sicure circa i confini dei distretti e circa i loro titolari, dava spazio alla formazione non solo di territori signorili ecclesiastici, come ora abbiamo ampiamente’ mostrato, ma anche di ambiti di signoria dell’aristocrazia militare. Sempre la documentazione relativa a Mosezzo offre un esempio significativo in questo senso. Se la presenza della famiglia arduinica nella corte non ne implicava precise ambizioni politiche nel comitato plumbiense a cui Mosezzo apparteneva, implicazioni più profonde deve aver avuto il rapporto della zona di Mosezzo con i conti di Lomello. Nel 953 abbiamo visto operare patrimonialmente nella zona di Mosezzo un Manfredo conte di Lomello, figlio di un altro Manfredo «de loco Moxicio» (161) : una famiglia emersa da Mosezzo o comunque in tale località radicata in modo profondo era pervenuta alla carica comitale in un distretto vicino, e ciò ebbe certamente qualche conseguenza, conferendo un prestigio particolare ad un gruppo parentale che poteva contare, in due distretti contigui, su diritti giurisdizionali e su presenze patrimoniali.

 

 

(161) Cfr. sopra, n. 67.

 

 

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I rapporti speciali con il comitato lomellino son confermati dal placito del 1022 relativo a Mosezzo (162). Il placito si svolge tre anni prima della concessione del comitato di Pombia al vescovo novarese, in una fase cioè di transizione in cui ogni pretesa dei conti di Pombia doveva essere stata travolta dalla sconfitta di un loro esponente, Arduino, e ili cui il potere vescovile si espandeva pur non avendo ancora ricevuto il riconoscimento ufficiale dell’egemonia sul comitato. La seduta giudiziaria è presieduta a Breme da Ottone «comes istius comitatus Lomelensis» (163). È ovviamente difficile dare spiegazioni dello svolgimento del placito in quella sede e sotto quell’ufficiale: tutto può essere legato a cause che la documentazione non ci consente di cogliere. Tuttavia un’ipotesi che non mi sembra di dover trascurare è che, in mancanza di un potere locale chiaramente identificabile come pubblico, si fosse scelta la sede pubblica più vicina e legata, per tradizione familiare dei suoi gestori, con quella corte di Mosezzo di cui il placito doveva trattare.

 

Perché questa flessibilità del quadro distrettuale, così diversa dalla rigida e conservativa realtà del Piemonte centro-meridionale di quegli stessi anni (164) ? Due fattori hanno un peso di prim’ordine: l’incidenza sul piano locale delle travagliate vicende del regnum e la differente capacità delle maggiori famiglie di dare continuità dinastica al loro potere. Gli ambiti distrettuali sembrano in grado di mantenere la loro fisionomia solo quando abbiano’ continuità di gestione.

 

Tre sono i fenomeni di disgregazione distrettuale più evidenti che coinvolgono la regione subalpina fra x e XI secolo: la scomposizione della maggiore marca d’Ivrea a metà del X secolo, la disgregazione della nuova e minore marca d’Ivrea nel secondo decennio dell’XI secolo, il completo sfaldamento della marca arduinica di Torino alla fine dell’XI secolo. Nel primo e nel secondo caso gli scontri politici relativi alla gestione del regnum, sia che si’tratti dell’esito delle lotte fra Ugo e Berengario II, sia che si tratti della sconfitta di Arduino contro Enrico II, hanno avuto un ruolo fondamentale (165).

 

 

(162) Cfr. sopra, n. 101.

(163) Manaresi, I placiti cit., II, 2, p. 651, doc. 317.

(164) Il Piemonte centro-meridionale era inquadrato, dalla metà del X secolo alla fine dell’XI nella marca di Torino gestita dalla famiglia arduinica (cfr. sopra, n. 8).

(165) Berengario II, dopo il ritorno in Italia nel 950, si appoggiò, nella riorganizzazione dell’Italia nord-occidentale, a quattro famiglie aristocratiche (Aleramici, Obertenghi, Arduinici e gli stessi Anscarici) a cui corrispondevano quattro più o meno definiti ambiti distrettuali nati dalla vecchia maggiore marca d’Ivrea: cfr. Sergi, La marca arduinica cit., p. 658. Sulla fine di Arduino d’Ivrea, che ovviamente coinvolse quell’ambito distrettuale che aveva fatto da base per l’ascesa del marchese, cfr. Arnaldi, op. cit. (sopra, n. 7), p. 60.

 

 

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Nel terzo caso la causa sta nella crisi di una dinastia che già, rispetto al contesto italiano complessivo, aveva costituito un caso di rara sopravvivenza ai maggiori livelli politici di una famiglia dell’aristocrazia franca (166).

 

Di fronte a questi vuoti della gestione politica locale, il potere centrale si comporta in modo diverso a seconda delle età. Berengario II a metà del X secolo interviene con una ristrutturazione che dà un nuovo assetto relativamente stabile alla regione, cercando l’appoggio delle famiglie arduinica, aleramica, obertenga e della sopravvissuta famiglia anscarica. Alla fine dell’XI secolo lo sfaldamento della marca arduinica non dà luogo a nessun serio tentativo regio di fornire un nuovo assetto alla zona. La situazione che fa seguito alla caduta di Arduino d’Ivrea si ricollega invece al discusso tema del tipo di intervento ottoniano nei livelli amministrativi e giurisdizionali locali. Tradizionalmente si attribuisce agli Ottoni una volontà di potenziamento dei vescovi per minare alle basi, soprattutto nelle città, il potére di dinastie troppo potenti. Ma non manca chi considera anche sotto un altro aspetto l’attività degli Ottoni, attribuendo ad essi l’intento di ridare un’organizzazione ai poteri locali, con frequente ricorso ad una rimessa in valore dei quadri comitali (167). Ora, nel caso del Novarese - voglio limitarmi al quadro istituzionale in cui si inserisce la presente ricerca, ma un discorso simile ai potrebbe fare per Vercelli e per Ivrea -, certo gli Ottoni mostrano una capacità di intervento che l’impero non mostrerà più alla fine del secolo XI, ma nell’intento di ristrutturare sono indotti a prendere atto di un potenziamento vescovile già in larga parte avviato, e non promuovono l’affermazione di nuove famiglie di ‘ funzionari ‘ come aveva fatto Berengario II. Il regno ritorna su questa ristrutturazione anche agli inizi dell’XI secolo, e nel farlo contempera due tendenze, tenendo conto al tempo stesso di confini tradizionali e di situazioni di fatto:

 

 

(166) La cosa è stata ancora recentemente rilevata da V. Fumagalli, Terra e società nell'Italia padana. I secoli IX e X, Bologna, 1974, p. 78.

(167) Un’affermazione, se pur molto generica, in questo senso si trova già in S. Pivano, Stato e chiesa da Berengario I ad Arduino (888-1015), Torino, 1908, p. 113, ripresa da E. Dupré Theseider, Ottone I e l’Italia, in Renovatio Imperii (Atti della giornata Internazionale di studi per il millenario, Ravenna 4-5 novembre 1961), Faenza, 1963, p. 120. Sono su questa linea gli spunti emergenti da una approfondita ricerca specifica condotta dal Fumagalli, Vescovi e conti cit. (sopra, n. 7), particolarmente p. 197 sg.

 

 

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così, nelle concessioni alla chiesa vescovile di Novara, si richiama al comitato di Pombia e lo considera come ambito d’espansione dei poteri vescovili, ma in questo modo riconosce un ruolo nuovo alla città di Novara, facendone il fulcro di una riorganizzazione ‘comitale‘ della zona, una riorganizzazione ufficialmente affidata al più vigoroso potere della regione, che ha sede appunto nella città.

 

L’esempio di questa zona lungo il Ticino, unito ai risultati di ricerche su altre zone del regno d’Italia, consente di concludere che la politica della dinastia sassone non sembra improntata ad un disegno uniforme. L’azione di questi re cambia da zona a zona, e appare influenzata dalle situazioni di fatto. Nell’Emilia, studiata dal Fumagalli, non vi è dubbio che gli Ottoni intervengono per rivalutare i quadri comitali, per cercare di legare a sé famiglie militari attraverso cui garantire una continuità di gestione dei poteri locali (168). Nella marca di Torino gli Ottoni ed Enrico II, così del resto come i loro successori, non puntano su nuove famiglie, né cercano di minare il potere degli Arduinici procurando un appoggio speciale al vescovo di Torino e agli altri vescovi del Piemonte centro-meridionale: la situazione è cioè parallela a quella della marca di Tuscia (169). Nel Piemonte settentrionale viceversa la volontà regia di fondarsi sui vescovi è un fatto evidente, ma i diplomi imperiali si inseriscono palesemente in una crisi della grande aristocrazia militare che aveva per un secolo e mezzo condizionato la storia della regione. Questi casi molto diversi inducono a negare 1’esistenza di un uniforme disegno regio e a rilevare come caratteristico l’orientamento ’constatativo‘ della politica tedesca in Italia fra il X e l’XI secolo.

 

Giuseppe Sergi

 

 

(168) Fumagalli, Vescovi e conti cit., passim.

(169) Si veda li recente contributo di H. Keller, La marca di Tuscia fino all’anno mille, in Lucca e la Tuscia cit. (sopra, n. 4), pp. 117-140 e il giudizio sul peso della politica del marchesi sull’assetto territoriale, espresso, nello stesso volume, da O. Tellenbach, Ricerche storiche sulla Tuscia fino al 1200. Scopi e metodi, p. 27.

 

 

 

198-201

 

 

 

 

 

 

202

 

    - Appendice: Note sul territorio agrario di Mosezzo  (in the .pdf file)

 

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