Gli Slavi nella Calabria bizantina

 

Cristina Torre

 

 

In: La Calabria nel Mediterraneo. Flussi di persone, idee e risorse, a cura di G. De Sensi Sestito, Rubbettino, 2013, p. 203-221

 

 

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- Bibliografia e abbreviazioni

 

Quantunque le notizie relative a presenze slave nella Calabria bizantina siano abbastanza esigue, non è ipotesi priva di fondamento, e che cercheremo in questa sede di illuminare, quella che vede la regione – in virtù della sua posizione geografica centrale nel contesto mediterraneo – interessata da flussi di persone e idee provenienti da o diretti verso aree della penisola balcanica abitate da popolazioni riconducibili per l’appunto ad etnie slave.

 

Dal momento che queste costituiscono una realtà abbastanza complessa, sarà utile proporre preliminarmente delle precisazioni – essenziali – in relazione sia ai termini slavo, sclavo, sclaveno, schiavo, schiavone, sia alle articolazioni delle genti slave.

 

Per ciò che concerne il primo aspetto, sappiamo che «La più antica attestazione certa del nome degli Slavi, databile forse già al V secolo, si riferisce a quelli del basso Danubio (essa si legge nello Pseudo-Cesario, dove gli Slavi sono detti Skláuēnoi)…» [1]. Mentre nel V/VI secolo Giordane, sulla base di Cassiodoro, afferma che [2]

 

«Dalla sorgente del fiume Visla [Vistola] e su distese incommensurabili si è installata la gente dei Venedi. Benché i loro nomi cambino secondo le tribù e le località, tutti insieme si chiamano Sclaveni e Anti».

 

Anche Procopio di Cesarea, nel VI secolo, utilizza la denominazione Σκλαβῆνοι, «Sclaveni», la quale figura ancora, nel X secolo, in Suidas (σ 634): Σκλαβηνόν· ἔθνος τὸ πέραθεν τοῦ Ἴστρου, «Sclaveno: popolo stanziato oltre l’Istro». Sappiamo poi dalla Cronaca dei tempi passati, opera del monaco russo Nestore (inizi XII sec.), che furono gli Slavi stessi a chiamarsi “Slavi” (slovĕni) e a definire “slava” la loro lingua ed etnia [3].

 

 

1. G. Holzer 2006, p. 30.

2. F. Conte 1991, pp. 12 s.

3. G. Holzer 2006, p. 33.

 

 

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Dal greco bizantino sklavenoi sarebbe derivata una forma sklavos, quindi sklavus/slavus, acquisita nella forma sclavus nel latino medievale del XIII secolo: «Assai rapidamente e in tutti i paesi europei un etnonimo si mutò in sinonimo di popolo asservito, tanto più che l’accoglimento del termine sclavus nelle lingue medievali venne facilitato dall’universale considerazione degli Slavi, ritenuti all’epoca gli schiavi per eccellenza. Passato allora a indicare uno stato giuridico in sostituzione di mancipius e di servus, da sclavus sono discesi lo spagnolo esclavo, il portoghese escravo, il catalano scrau, il francese esclave, l’italiano schiavo, il tedesco Sklave, l’olandese slaaf…» [4]. Così, schiavo è chiaramente riconducibile a slavus/sklavos, schiavone a slavone. Trattasi comunque di denominazioni più recenti rispetto a sklavenoi [5].

 

Per quanto riguarda la composizione etnica, con il termine “Slavi” si suole indicare quella che in effetti è una realtà estremamente composita e che include, tra gli altri, Croati, Sloveni, Serbi, Russi, Bulgari. Gli Anti, menzionati nel passo di Giordane sopra riportato, erano un’etnia a maggioranza slava, ma non completamente slavi, dal momento che sembra fossero mescolati con una popolazione di ceppo iranico. Alla fine tuttavia pare che la componente slava fosse risultata prevalente, analogamente a quanto accaduto ai Protobulgari, «guerrieri nomadi di origine turca destinati a fondersi, a Est dei Balcani, nella massa slava» [6]. Non appartengono invece alla etnia slava gli Avari, formazione turco-mongolica cui gli Slavi, stando alle fonti, resteranno asserviti sino all’annientamento di quelli da parte dei Franchi nel IX secolo [7].

 

A seguito dell’invasione slava della penisola balcanica del VI secolo, conobbero un processo di slavizzazione anche popolazioni preesistenti quali i Traci e gli Illiri. Appare ai nostri fini importante chiarire lo stadio di avanzamento di tale processo tra il 538 – allorché sbarcarono ad Otranto ottocento cavalieri traci guidati da Giovanni [8], nipote di Vitaliano [9] – e il 548/549, periodo in cui risultano presenti a Rossano soldati traci e illiri al comando di Gudilas il Tracio [10]. Le due notizie, riportate da Procopio di Cesarea, vengono in genere riferite a riprova della presenza di Slavi in Italia meridionale nel contesto della guerra greco-gotica [11]. Per illuminare questo aspetto occorre innanzitutto tenere presente la terminologia utilizzata dallo storico bizantino, il quale sembra distinguere abbastanza chiaramente tra Sclaveni, Anti, Traci e Illiri.

 

 

4. F. Conte 1991, pp. 59 s. (parole citate da p. 60).

5. Cfr. M. Capaldo 1983, pp. 9 s.

6. F. Conte 1991, p. 129.

7. Ibid., pp. 19 ss.

8. PLRE, III, s.v. ; PIB, s.v. Iohannes 76, pp. 143-150.

9. BG VI 5.

10. BG p. 427, 6,14; PIB, s.v. Gudilas 4, p. 87.

11. I. Dujčev 1971b [= I. Dujčev 1969], pp. 508 s. e nn.

 

 

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In secondo luogo risulta difficile, almeno a mio avviso, immaginare che la slavizzazione di Traci ed Illiri si sia compiuta già agli inizi del VI secolo, in concomitanza con le prime fasi dell’invasione [12]. Sarei pertanto propensa ad affermare che, nel momento in cui parla di Traci ed Illiri, Procopio non faccia riferimento a genti di etnia slava.

 

Dallo storico di Cesarea apprendiamo invece che soldati Σκλαβῆνοι, «Sclaveni » erano impegnati nell’ambito della guerra greco-gotica. Già durante la prima fase della guerra infatti, e in particolare nel corso dell’assedio di Roma (537/8), l’esercito bizantino venne rafforzato tramite l’invio di un contingente di milleseicento cavalieri costituito prevalentemente da Unni, Sclaveni e Anti [13]. Gli Sclaveni appaiono tra l’altro utili, sotto il profilo militare, allorché si manifesta la necessità di catturare qualche nemico per carpirgli delle informazioni, come accadde in occasione dell’assedio di Ravenna [14]:

 

«[…] Belisario fu punto dalla curiosità di catturare vivo almeno uno degli uomini più autorevoli tra i nemici, per poter sapere come mai i barbari continuassero a resistere in quelle difficili condizioni. Valeriano promise che avrebbe sollecitamente compiuto per lui questa operazione. C’erano nel suo reparto, egli disse, alcuni Sclaveni molto abili a catturare nemici, nascondendosi dietro un piccolo masso o un cespuglio che si trovasse nelle vicinanze, cosa che erano già soliti fare spesso nel loro paese natio, presso il fiume Ister, con Romani o altri barbari ».

 

Lo sclaveno prescelto in tale occasione portò a termine con successo il proprio compito, catturando un goto condotto poi all’accampamento bizantino.

 

Successivamente (546/7) il generale Giovanni si insedia ad Otranto insieme a trecento soldati della stirpe degli Anti, popolo, come si è detto, a composizione prevalentemente slava [15].

 

Non sappiamo se l’utilizzo di tali elementi abbia successivamente dato luogo alla costituzione di insediamenti stabili o comunque al trasferimento di gruppi più o meno consistenti di individui. Appare invece plausibile che in siffatte circostanze gruppi di origine balcanica abbiano acquisito pratica di itinerari nonché di zone della penisola italiana verso le quali, in seguito, si sarebbero indirizzati, verosimilmente al tempo dell’invasione àvara dei Balcani nel VII secolo, seguendo del resto percorsi analoghi a quelli delle popolazioni bizantine.

 

A tal proposito costituisce un’importante fonte di informazioni la cosiddetta Cronaca di Monemvasia, opera assegnata al X secolo ma contenente dati relativi ad epoche precedenti [16].

 

 

12. Cfr. F. Conte 1991, p. 296.

13. BG I 27.

14. BG II 26 (trad. M. Craveri).

15. BG III 23.

 

 

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Da essa apprendiamo che, a seguito dell’invasione avaro-slava dei Balcani avvenuta al tempo dell’imperatore Maurizio (582-602) gli abitanti di Lacedemone trovarono rifugio in Sicilia, nella Val Demone, quelli di Patrasso nel territorio di Reggio Calabria. Qui essi conservarono la propria fisionomia, dal momento che costituivano una comunità ben distinta dal resto della popolazione locale ancora nel IX secolo, allorché ebbero modo di rientrare nella città d’origine [17]. Un percorso analogo si ipotizza possa essere stato seguito anche dagli abitanti della città di Evria, in Epiro: è probabile che, almeno in parte, essi, già esuli sull’isola di Cefalonia, si siano trasferiti ad un certo punto in Calabria, dove avrebbero lasciato traccia della loro presenza nel toponimo calabrese Evriatikon/Umbriatico, nonché nel culto di san Donato di Evria [18].

 

È possibile dunque, sebbene manchino dati espliciti al riguardo, che, sulla scia dell’esodo di popolazioni bizantine, anche alcuni Slavi abbiano preferito lasciare la penisola balcanica indirizzandosi verso l’Italia, ma anche direi la Sicilia, bizantine.

 

Comunque sia, le informazioni che possediamo per il periodo relativo ai secoli VII/VIII riguardano, a rigore, solo aree limitrofe alla Calabria, in primo luogo la Puglia, ma anche la Sicilia.

 

In relazione alla Puglia troviamo esplicita menzione in Paolo Diacono di un accampamento slavo nella zona di Siponto nel 642: questi Slavi, dopo avere assassinato il duca di Benevento Aione I, figlio di Arechi I, furono quasi del tutto sterminati da Radoaldo mentre i pochi superstiti dovettero abbandonare la regione [19]. Il dato importante che emerge da questa notizia è la probabile esistenza, nel VII secolo, «d’une route maritime d’immigration avaro-sklavène d’un côté de l’Adriatique à l’autre, avec une tête de pont au sud du Gargano» [20].

 

Per quanto riguarda la Sicilia, informazioni interessanti provengono da un testo agiografico, la Vita – inedita – di san Pancrazio, protovescovo di Taormina (BHG 1410), trasmessa in differenti redazioni ma risalente nella forma originaria ad un periodo compreso tra il 787 e l’815 [21]. In questo testo si fa ad un certo punto riferimento ad un «quartiere degli Slavi» situato nei pressi di Siracusa [22]. Viene inoltre menzionata una operazione militare condotta da Bonifacio,

 

 

16. P. Lemerle 1963; I. Dujčev 1976.

17. Sull’argomento v., da ultimo, G. Strano 2011, p. 343.

18. Cfr. ibid., pp. 345 s.

19. Pauli Diaconi Historia Langobardorum, IV 44; A. Guillou 1973, p. 13; F.J. Thomson 1985, p. 223; Martin 1993, p. 165, n. 25.

20. A. Guillou 1973, p. 13. Riguardo la presenza di Slavi in Puglia v. J.-M. Martin 1993, pp. 504-509.

 

21. A. Acconcia Longo 2001.

Del testo pare esista una versione antico-bulgara (M. Capaldo 1983, p. 7), che non escludo possa avere avuto a monte un modello costantinopolitano, o comunque di altra provenienza, visto che esso è noto a s. Teodoro Studita: cfr. A. Acconcia Longo cit.

 

22. Sulla questione v. M. Capaldo 1983.

 

 

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comandante imperiale in Sicilia, a Durazzo contro i «barbari», in occasione della quale furono condotti sull’isola prigionieri avari [23]. Questi, ignari della lingua greca, furono invitati dal medesimo Bonifacio ad apprendere il latino ed il greco e a convertirsi al cristianesimo [24].

 

Trattasi di dati che occorre evidentemente interpretare alla luce della cronologia e del punto di vista dell’agiografo. Il problema si intreccia però con quello dell’esistenza di due redazioni del testo in questione, una lunga e una breve – quest’ultima priva della notizia che a noi interessa – delle quali non è chiaro quale sia la più antica. In ogni caso, la stesura della sezione inerente il quartiere slavo di Siracusa può essere inquadrata in un arco di tempo compreso tra l’elaborazione originaria del testo, risalente, si è detto, al 787-815 e la realizzazione dei manoscritti più antichi che ci trasmettono la redazione amplior, ossia il Crypt. B.β.V, datato X/XI secolo e il Vat. gr. 1591, realizzato nel 964 [25].

 

Il riferimento ad una spedizione balcanica di un contingente militare siciliano, da intendersi verosimilmente come l’esercito del tema di Sicilia, può, dal canto suo, essere frutto di invenzione, ma potrebbe altresì conservare il ricordo di un intervento reale, da collocare necessariamente dopo la fine del VII secolo, quando probabilmente venne costituito il suddetto tema [26]. La cronologia è del resto coerente rispetto agli eventi che si stavano verificando negli stessi anni nella zona di Durazzo, interessata, come tutta l’area balcanica, dalle invasioni avaro-slave. Non escluderei che l’agiografo abbia riversato nella sua opera il ricordo di tali vicende, magari sulla scia dei racconti fatti da gruppi di esuli, come quei Lacedemoni stanziatisi in Val Demone di cui parla la già menzionata Cronaca di Monemvasia [27]. Al pari di questi, dunque, anche gli Slavi del racconto agiografico potrebbero essere stati degli esuli, oppure dei prigionieri di guerra, così come quegli Avari invitati ad apprendere le lingue greca e latina [28].

 

Cercando invece testimonianze più specificamente riferibili al territorio calabrese, soltanto per i secoli IX/XI secolo sembra sussistere qualche dato in più.

 

Nella seconda metà del IX secolo la regione fu interessata da una serie di operazioni militari che, dopo alterne vicende, portarono i Bizantini a riprenderne il controllo.

 

 

23. A. Acconcia Longo 2001, p. 41.

24. A. Guillou 1972, p. 304.

 

25. Sul manoscritto v. C. Giannelli 1961, Codices Vaticani 1485-1683, pp. 216-219. Mario Capaldo (M. Capaldo 1983, p. 12) propone come terminus ante quem per la cronologia dell’insediamento slavo siracusano la datazione «del manoscritto più antico della Vita che è il IX (o X) sec.» o «un periodo immediatamente precedente». Non specifica tuttavia a quale manoscritto faccia riferimento, ma credo si tratti del Crypt. B.β.V, datato appunto IX/X secolo.

 

26. F. Burgarella 2004; M. Nichanian - V. Prigent 2003, p. 98.

27. Cfr. supra, p. 205 s.

 

28. Da intendersi come riferimento “antiquario” piuttosto che come testimonianza di una persistenza dell’insegnamento del latino a Taormina nell’VIII/IX secolo.

 

 

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Risolutiva fu in particolare la spedizione condotta da Niceforo Foca il Vecchio (885/886). Questa portò, da una parte, all’eliminazione delle colonie saracene insediatesi, intorno alla metà del IX secolo, ad Amantea, Tropea e Santa Severina, dall’altra al recupero della sovranità su quelle aree della Calabria superior soggette ai Longobardi del principato di Benevento prima, quindi di Salerno [29]. Tale stato di guerra aveva probabilmente determinato, in Calabria come più in generale nel Mezzogiorno bizantino, un calo demografico al quale gli imperatori d’Oriente tentarono di porre rimedio attraverso una politica di ripopolamento. All’interno di questa si colloca la decisione di Basilio I (867-886) di trasferire in alcuni centri del Salento oriundi di Eraclea Pontica, mentre alla Calabria fu – pare – destinato un numero consistente di schiavi affrancati di origine peloponnesiaca e, forse, di etnia slava [30]. Non possediamo tuttavia informazioni precise né sulla loro esatta collocazione né sulle vicende successive che possono averli riguardati.

 

Procedendo oltre ci imbattiamo nel resoconto del cronista Tietmaro di Merseburgo (sec. X/XI) [31]. Questi narra che Ottone II, nel corso della spedizione condotta in Italia meridionale contro gli Arabi [32], incalzato da questi nei pressi di Taranto, sarebbe riuscito a fuggire su di una nave (salandria, ovvero chelandia) perché riconosciuto «ab Heinrico solum milite eius, qui Szlavonice Zolunta vocatur» [33]. La nave lo avrebbe poi condotto a Rossano, dove si trovava la sua consorte, la bizantina Teofano [34]. Dalle parole del cronista sembra dunque che sulla nave bizantina (che sia tale lo si evince dal prosieguo del racconto) fossero presenti dei soldati appartenenti al contingente tedesco, ma di origine non germanica. Tale informazione, pure elencata tra le possibili testimonianze di una presenza slava nella Calabria del X secolo [35], non appare tuttavia probante. Il soldato in questione, come si è detto, sembra un componente del contingente militare giunto al seguito di Ottone piuttosto che un abitante del posto o comunque una figura riconducibile ad un qualche insediamento slavo situato in territorio calabrese. Allo stesso modo non sappiamo donde in effetti provenissero gli Slavi sterminati nel corso dello scontro tra Ottone II e i Saraceni «in civitate Columnae » – Capo Colonne o Stilo [36] – notizia riportata da Lupo Protospatario sotto l’anno 981:

 

 

29. V. von Falkenhausen 1978, pp. 20 ss.; F. Burgarella 1989, pp. 450 ss.

30. V. von Falkenhausen 1978, pp. 25 s.; F. Burgarella 1989, p. 458 e n. 44 (alle pp. 506 s.); Id. 2000. p. 49.

31. Thietmari Merseburgensis episcopi Chronicon, pp. 122-126.

32. F. Burgarella 1989, pp. 464-467.

33. Thietmari Merseburgensis episcopi Chronicon, p. 124.

34. Ibid., pp. 124-126.

35. M. Capaldo 1983, p. 11.

36. A. Guillou 1973, p. 15.

 

 

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«fecit proelium Otto rex cum Sarracenis in Calabria in civitate Columnae, et mortui sunt ibi 40 milia paganorum cum rege eorum Bullicassinus» [37].

 

André Guillou ha chiarito l’identità di questi «Pagani»: «Les Pagani, en grec Παγανοί, sont des Narentans, Slaves qui habitaient le long de la rivière Neretva en Dalmatie. Ceux-ci (la chiffre de 40000 est bien sûr fantaisiste) on passé l’Adriatique pour la même raison [scilic. l’occupazione di nuove terre], je pense, que leurs voisins Zachloumjans; ils pouvaient être des Serbes, quoiqu’on ait prétendu le contraire, le nom de leur chef, Vůlkašin (Bullicassinus), est en tout cas typiquement serbe» [38]. I Zaclumiani cui lo studioso fa riferimento sono degli Slavi che nel 926, sotto la guida del loro re Michele Vyšević, occuparono Siponto, aprendo «l’ère d’une forte expansion slave dans toute la région du Gargano» [39].

 

I Pagani sconfitti da Ottone erano con ogni probabilità al servizio dei Saraceni, al pari di Sabir, l’eunuco slavo che tra il 928 e il 930 aveva guidato una spedizione araba in Calabria, in occasione della quale era stato preso il kastron di Tiriolo [40]. Non sappiamo comunque, neppure in questo caso, se si trattasse di genti stanziate o meno sul territorio calabrese.

 

Merita però attenzione l’etnico Pagani, che potrebbe suggerire una diversa interpretazione per taluni antroponimi e toponimi rispetto a quella, tradizionale, che lo riconduce direttamente e semplicemente al latino paganus.

 

Esso risulta attestato nel De administrando imperio, opera che per comodità riferiremo qui a Costantino VII Porfirogenito (913-959) [41]. Il testo tratta di questa popolazione in una sezione specifica (c. 35), ma si trovano dei riferimenti anche altrove:

 

… πᾶσα ἡ Δελματία καὶ τὰ περὶ αὐτὴν ἔθνη, οἷον Χρωβάτοι, Σέρβλοι, Ζαχλοῦμοι, Τερβουνιῶται, Καναλῖται, Διοκλητινοὶ καὶ Ἀρεντανοί, οἱ καὶ Παγανοὶ προσαγορευόμενοι… (c. 29,59);

Οἱ δὲ Παγανοί, οἱ καὶ τῇ Ῥωμαίων διαλέκτῳ Ἀρεντανοὶ καλούμενοι, εἰς δυσβάτους τόπους καὶ κρημνώδεις κατελείφθησαν ἀβάπτιστοι. Καὶ γὰρ Παγανοὶ κατὰ τὴν τῶν Σκλάβων γλῶσσαν ‘ἀβάπτιστοι’ ἑρμηνεύεται (c. 29,81).

 

Il De Administrando Imperio ci informa dunque del fatto che i Pagani sono chiamati nella lingua dei Romei Arentani, mentre il termine in lingua slava – con evidente derivazione dal latino – significa «non battezzati».

 

Ora, nel Lessico greco della Sicilia e dell’Italia meridionale, Girolamo Caracausi registra le voci (toponimi e antroponimi) Παγάνα/Παγᾶνος/Παγάνος, Παγανός, Παγανόττας, rinviando per tutte al latino paganus [42].

 

 

37. Lupi Protospatarii Chronicon, p. 55.

38. A. Guillou 1973, pp. 15 s.

39. A. Guillou - K. Tchérémissinoff 1976, p. 678.

40. Gh. Noyé 2000, p. 270.

41. Un tempo ascritta a Costantino VII, oggi la stesura dell’opera viene assegnata alla cerchia erudita gravitante attorno al sovrano: I. Ševčenko 1992.

42. G. Caracausi 1990, s. vv. Παγάνα, Παγανός, Παγανόττας.

 

 

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Tuttavia, come accennato, esse potrebbero forse essere ricondotte piuttosto all’etnico Pagani. Tra i documenti registrati da Caracausi figura in particolare il Brebion della metropolia di Reggio Calabria, dove troviamo menzione di un χωράφιον εἰς τὸν Παγανόν [43] un «podere a Pagano», appartenente al monastero di Sant’Eustrazio. Non è possibile localizzare con precisione tale podere, ma il toponimo è suscettibile di suggerire, sulla base delle considerazioni fatte sinora, un collegamento con una presenza slava per la quale il 1050 (indicativamente il periodo cui è riferita la stesura del documento reggino) verrebbe a costituire il terminus ante quem. L’antroponimo ha invece solo, pare, due attestazioni più tarde, le quali rinviano alla Sicilia, dove un κῶνστας πρεσβυτερος παγανου sottoscrive un documento del 1122 [44] e un γέρων παγάνος τῆς λούνας sottoscrive in qualità di testimone un documento del 1217 [45].

 

Tornando all’esame delle possibili testimonianze delle relazioni tra Calabria bizantina e mondo slavo, alcuni studi hanno annoverato tra di esse un passo della Vita di s. Nilo di Rossano (910ca.–1004) nel quale il monaco viene fatto oggetto di scherno da parte di taluni ragazzini di strada [46]. Questi, nell’insultare il santo monaco, utilizzano in senso dispregiativo il termine “bulgaro” [47]. Ora, il dato è, a mio avviso, riconducibile piuttosto alla sfera della circolazione delle idee: l’accezione ingiuriosa del termine può difatti essere entrata nel linguaggio comune dei Greci di Calabria per il tramite di contatti con altri individui e/o territori dell’impero, quindi anche a prescindere da una pratica diretta di soggetti di origine bulgara [48].

 

Invece, proprio sullo scorcio della dominazione bizantina in Calabria apprendiamo da Goffredo Malaterra che nel 1054 Roberto il Guiscardo, nel contesto delle sue prime scorrerie sul territorio oggetto del nostro interesse, venne aiutato, presso il castrum di San Marco [49], da sessanta Slavi esperti dei luoghi [50]:

 

Robertus vero Guiscardus, cum apud Scriblam moraretur, Calabros fortiter impugnans, cum videret suos propter infirmitatem loci et aeris diversitatem languescere, seniore locum expetens, non quidem ut timidus hostes devitandum retrorsum vadens, longius recepit. Sed potius, quasi in hostem iens, in viciniorem se conferens castrum, quod Sancti Marci dicitur, firmavit […]. Guiscardus usque ad sexaginta quos Sclavos appellant, totius Calabriae gnaros, secum habens, quos quasi fratres fidelissimos sibi et maioribus promissis effecerat, sciscitatus est ab eis utrum locum adibilem scirent, quo praedam posset capi.

 

 

43. Brébion, l. 323.

44. F. Trinchera 1865, XCII, p. 121.

45. S. Cusa 1868, p. 442.

46. I. Dujčev 1971b [= I. Dujčev 1969], pp. 510-512; A. Guillou - K. Tchérémissinoff 1976, p. 679.

47. Βίος καὶ πολιτεία τοῦ ὁσίου πατρὸς ἡμῶν Νείλου τοῦ Νέου, c. 41, p. 86.

48. Cfr. V. von Falkenhausen 1989, pp. 285 s.

49. Odierna San Marco Argentano.

50. De rebus gestis Rogerii, I, 16, p. 16.

 

 

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Quibus respondentibus se ultra altissimos montes, via praeruptissima, in profundis vallibus praedam permaximam scire, sed sine magno discrimine extrahi non posse, Robertus tale fertur dedisse responsum […] Sicque, lecto parato, cum iam collocatus esset, de nocte, ullo sciente, consurgens, vili veste et scarpis, quibus pro calceariis utuntur, ad similitudinem abeuntium sese aptans illis medius iungitur.

 

Gli Slavi del brano appaiono come un gruppo abbastanza distinto dal resto della popolazione locale. La loro presenza in Calabria non doveva però essere troppo recente, se essi sono «esperti dell’intero territorio». Tuttavia anche in questo caso non possediamo elementi sufficienti per ricostruirne meglio la fisionomia. Ancora Malaterra menziona, poco più avanti, degli Slavi che, a differenza dei precedenti, intervengono in Sicilia contro i Normanni [51]:

 

[…] comes, Tauromenium obsidens, viginti duo bus castellis vallavit […]. At, dum quadam die de castro ad castrum per praecipitia scopulosi montis comes visum transiret cum paucis, pars quaedam Sclavorum inter myrtetica virgulta latitans, in quodam artioris transitus loco prorumpens, irruit. Et nisi Eviscardus quidam, natione Brito, audito strepitu armorum, sese comiti et hostibus interposuisset, de ipso comite, ut aiunt hostibus triumphus cessisset.

 

Le successive testimonianze letterarie inerenti la presenza di Slavi nel Mezzogiorno riguardano di nuovo la Puglia: non sorprende che nella prima metà del XII secolo il cronista Lupo Protospatario appaia informato, forse per il tramite di profughi bulgari [52], a proposito di alcune vicende relative al regno di Bulgaria [53]. La Puglia infatti è una regione dove, come si è detto precedentemente [54], fin dal X secolo gruppi di Slavi ebbero modo di radicarsi stabilmente, tanto che nell’XI secolo «i notabili dei piccoli centri costieri di Devia, Vieste e Varano saranno tutti serbi, portando molti di essi il titolo di župan, “signore” in lingua serba» [55]. Alla luce di ciò è stata ipotizzata una attribuzione ad ambito pugliese, precisamente alla regione del Gargano, del salterio Athen. 149 (sec. XI), frutto della collaborazione tra un copista greco e un pittore slavo. Alcune illustrazioni del manoscritto recano difatti delle iscrizioni, oltre che in greco, anche in una lingua slava che per le sue caratteristiche rinvierebbe al serbo, motivo per il quale si è pensato alla zona del Gargano appunto, dove comunità serbe, si è detto, sono attestate proprio nella prima metà dell’XI secolo [56].

 

 

51. Ibid., III, 15, p. 66.

52. I. Dujčev 1971b [= I. Dujčev 1969], p. 514.

53. Lupi Protospatarii Chronicon, p. 57; cfr. I. Dujčev 1971b [= I. Dujčev 1969], pp. 513 s.

54. V. supra, p. 206.

55. F. Conte 1991, p. 68.

 

 

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Tuttavia Jean-Marie Martin ha rigettato tale ipotesi evidenziando come «le grec a toujours été une langue étrangère dans cette zone», per cui «le manuscrit n’a pu être utilisé que dans une zone hellénophone où vivait une minorité slave» [57]. Si potrebbe allora pensare, in alternativa, al Salento in quanto zona ellenofona prossima al Gargano e quindi in contatto con le comunità slave del posto, ma si tratta, anche in questo caso, di una semplice ipotesi. Per chiarire la questione sarebbe necessario in primo luogo un riesame – codicologico e paleografico – del codice, al fine di appurare, innanzitutto, l’origine italogreca, ma anche i caratteri della grafia slava ivi attestata.

 

Per quanto concerne invece la Calabria – oramai non più bizantina – qualche ulteriore elemento, in assenza di evidenze di altro genere, si può forse ricavare dai toponimi e dagli antroponimi che figurano nelle fonti documentarie [58].

 

Così, in alcuni documenti facenti parte del dossier di S. Giovanni Teriste [59] troviamo menzione di un notaio Ruggero figlio di Sclavopetro, il quale interviene, ad esempio, nel 1133 nella definizione dei confini tra le proprietà di Stefano Maleinos e del monastero di S. Stefano del Bosco [60]. Ancora, il 15 maggio 1179 Giovanni, figlio di Leone Sclavos sottoscrive l’atto di vendita di una vigna sita in agro Calabri [61]. Nel 1188 un certo νικόλαος σκλάυος viene chiamato in causa in un atto con cui Giovanni di Reggio, iudex Calabriae, dirime una controversia sorta tra Aschettino di Brui e i fratelli di Odierna signora di Oppido [62]. Un κώνστα σκλάβος figura, in un documento privo di datazione, tra gli uomini di proprietà di un monastero di S. Leonzio [63]. In un atto di vendita, datato 1268, di un terreno sito nel territorio di Aieta leggiamo poi un riferimento ad un χωράφιον παίδων σκλαπου, un «podere dei figli di Sclapos» [64], antroponimo forse da leggere Sclabos/Sclavos, così come potrebbe essere di origini slave l’Anna Sclapena (per Sclavena?) proprietaria, insieme ad altri soggetti, di due poderi ubicati nel territorio di Aieta venduti nel marzo del 1269 [65].

 

Questi pochi dati, nel complesso, restituiscono l’immagine di una presenza demograficamente non molto rilevante, ma in ogni caso, direi, significativa.

 

 

56. A. Guillou - K. Tchérémissinoff 1976, pp. 685-689.

57. J.-M. Martin 1993, p. 508, n. 126.

58. La denominazione Schiavonea della località sita nei pressi di Corigliano Calabro, in provincia di Cosenza risale ad età moderna ed è legata a fenomeni migratori del XV secolo, per cui non rientra nei limiti cronologici del presente contributo.

59. Riferimenti in G. Caracausi 1990, s. v. Σκλαβόπετρος.

60. F. Trinchera 1865, n. CXIV, pp. 152-153 = SJT, 280.

61. Ibid., n. CXCIII, pp. 254-255.

62. Ibid., n. CCXXV, pp. 294-301.

63. Ibid., App. n. XVI, pp. 557-559.

64. Ibid., n. CCCVII, p. 441.

65. Ibid., n. CCCXIII, p. 453.

 

 

213

 

Risulta difficile definire se e in che misura gli Slavi presenti sul territorio calabrese in epoca bizantina si siano integrati con la popolazione locale o se, piuttosto, non abbiano mantenuto la propria fisionomia, come, in particolare, lascerebbe intendere il passo, sopra riportato, di Goffredo Malaterra relativo agli Slavi assoldati dal Guiscardo [66].

 

Accanto agli elementi offerti dalle fonti, altri dati da tenere in considerazione nello studio dei flussi di individui e idee tra Calabria bizantina – e postbizantina – e mondo slavo possono emergere da una analisi sia delle relazioni fra religiosità italogreca e slava, sia dei rapporti tra alcune traduzioni slave di testi bizantini, principalmente agiografici ma non solo e i relativi, presunti, modelli di provenienza italogreca.

 

La questione degli influssi della religiosità calabro-greca sul mondo slavo è stata indagata da Ivan Dujčev. Questi ha evidenziato – attraverso in particolare l’esame delle figure di Pietro il Siculo (sec. IX), Giovanni Italo (sec. XI) e Barlaam Calabro (sec. XIV) – come tali influssi siano in effetti mediati da Costantinopoli, dal momento che i contatti diretti fra i due ambienti risultano assai scarsi o addirittura inesistenti [67]. Essi inoltre sembrano svilupparsi secondo un’unica direttrice, ovvero dagli ambienti italogreci verso quelli slavi [68].

 

Esistono tuttavia, in ambito liturgico, dei testi che, estranei alla tradizione costantinopolitana, figurano invece nei libri liturgici slavi e italogreci [69]. Piuttosto che ad un legame diretto, tali elementi possono essere ricondotti ad una fonte comune che avrebbe esercitato la propria influenza indipendentemente sui due ambienti. A tal riguardo, l’ipotesi di una mediazione da parte di un milieu orientale, nella fattispecie il monastero di Santa Caterina del Sinai, è stata rifiutata sulla base della «presenza, nei manoscritti russi, di particolari preghiere del rito greco, che seppur retrocesse in ambiti secondari del rito, sono tradite dalla medesima recensione testuale arcaica [italogreca]; questa osservazione induce a postulare l’utilizzo, nella liturgia slava, anche per i soli fini compilativi, di una o più fonti dell’Italia meridionale bizantina. Il formulario italo-greco, più precisamente campano, detto di s. Pietro, “autenticato” per così dire dal ricordo, nell’antico manoscritto Sinai sl. 5/N, del “signor Aligerno” abate di Montecassino nella seconda metà del X secolo, resta la testimonianza più diretta e inequivocabile della connection tra i due mondi e le due culture» [70]. E tuttavia tanto il testo, quanto la menzione di Aligerno, potrebbero essere stati trascritti a partire da un modello italogreco presente in ambito sinaitico o comunque orientale.

 

 

66. V. supra, pp. 210 s.

67. I. Dujčev 1973, p. 182.

68. Ibid.

69. E. Velkovska 2006, p. 434.

70. Ibid. Il codice Sinai sl. 5/N contiene, «insieme alla Liturgia italo-bizantina detta di s. Pietro, una raccolta cospicua di preghiere dell’ambone conservate in greco nei coevi eucologi italo-bizantini»: S. Parenti 2011, p. 168.

 

 

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D’altra parte, altri testi trasmessi dal Sinai sl. 5/N inducono ad ipotizzare «una relazione diretta del milieu slavo con un ambiente familiare alle tradizioni hagiopolite» [71]. Sicché secondo Stefano Parenti «le preghiere non costantinopolitane comuni agli eucologi medio-orientali e italogreci e ai codici liturgici glagolitici, di antica e nuova scoperta, hanno buone possibilità di provenire da un eucologio melkita […]» [72].

 

I manoscritti in caratteri glagolitici in questione, oltre al Sinai sl. 5/N sono il salterio Sinai sl. 38 e l’eucologio Sinai sl. 37, entrambi datati all’XI secolo. Un tempo ritenuti realizzati, sulla base dell’ornamentazione, in Italia meridionale [73], essi devono forse essere ascritti piuttosto al Sinai [74]. Per quanto riguarda il secondo, in particolare, ancora Parenti ha osservato che «L’Euchologium Sinaiticum condivide con il Barberini gr. 336 e con altri eucologi italo-bizantini e medio-orientali un certo numero di testi liturgici melkiti, riconducibili, come ho suggerito di recente, ad un comune influsso della tradizione hagiopolita e/o del Sinai» [75].

 

Ancora una volta, dunque, non possiamo parlare di contatti diretti tra ambienti italogreci e slavi, ma piuttosto di influenza su entrambi di altre tradizioni, in questo caso hagiopolite o sinaitiche.

 

Di contatti indiretti, mediati in questo caso da Costantinopoli, si parla nuovamente a proposito di alcune traduzioni slave di testi italogreci [76], nella fattispecie le Vite di san Pancrazio di Taormina, di san Leone di Catania, di san Gregorio di Agrigento, di due testi attribuiti a Teofane Siceliota, la traduzione dell’omelia di Filagato Kerameus In Dormitionem sanctissimae Deiparae (XXXIII Rossi Taibbi), mentre deve essere escluso dal novero dei testi italogreci noti in traduzione slava il Commento all’Ecclesiaste che, un tempo attribuito a san Gregorio di Agrigento, è stato ascritto dalla critica più recente ad ambienti alessandrini di VI/VII secolo [77]. Ad una mediazione orientale si deve pensare altresì per ciò che concerne la presenza nei menologi slavi della menzione di santi italogreci tra i quali figura, unico calabrese, san Fantino il Giovane [78].

 

Ancora, l’esistenza di traduzioni slave di alcuni testi agiografici conservati, pare, solo in manoscritti italogreci [79] non può, da sola, dimostrare, almeno a mio avviso, che tali versioni abbiano a monte necessariamente modelli italogreci [80].

 

 

71. S. Parenti 2011, pp. 167 s.

72. Ibid., p. 168.

73. A. Guillou - K. Tchérémissinoff 1976, pp. 689 s.

74. S. Parenti 2011, p. 166 e n.

75. Ibid., p. 167.

76. I. Dujčev 1973, pp. 197-199.

77. Pseudo-Gregorii Agrigentini Commentarius in Ecclesiasten, pp. XXIV-XXV, LIII-LXI.

78. I. Dujčev 1973, pp. 199-201.

79. F. J. Thomson 1985, pp. 221 s.

 

 

215

 

Esse, difatti, possono essere state realizzate a partire da testi circolanti in ambito balcanico o comunque greco-orientale e che, ad un certo momento della trasmissione testuale, sono andati perduti, sopravvivendo esclusivamente nel ramo italogreco della tradizione.

 

Solo in lingua slava risultano trasmessi invece dei testi il cui originale italo(?)-greco, per quanto ne sappiamo, è andato perduto. Trattasi del Tipico del monastero di San Giovanni di Pantelleria [81] e di una redazione della cosiddetta Visio Danielis, un testo appartenente alla tradizione apocalittica bizantina [82].

 

In relazione al Tipico, è opportuno innanzitutto precisare che, nonostante in passato siano stati sollevati dei dubbi circa la corretta interpretazione del toponimo Πατελαραίας/Patellaria/Pantelarea, se cioè esso indichi l’isola al largo della Sicilia occidentale o piuttosto altra località [83], oggi la prima identificazione viene in genere accettata [84]. Incerta resta invece la data di fondazione del monastero di S. Giovanni, e così anche quella della redazione del Tipico. Per la prima si pensa comunque ad un periodo a cavallo tra l’VIII e il IX secolo, quando cioè vissero, presumibilmente, gli abati Giovanni, autore del testo, e Basilio [85]. Non si esclude tuttavia l’ipotesi che Giovanni fosse in realtà un monaco di origine egiziana trasferitosi «in Occidente nel VII secolo, insieme ad altri connazionali, in seguito alla conquista araba della sua patria» [86]. Di conseguenza la stesura del Tipico risale o al VII o a fine VIII/inizi IX secolo mentre, in base alla lingua, la traduzione slava viene assegnata al X secolo [87].

 

Per quanto riguarda circostanze e modi in cui essa è stata realizzata, possiamo solamente formulare delle ipotesi: pensiamo, ad esempio, alla presenza di monaci di origine balcanica in Sicilia, oppure alla eventualità che una copia del testo sia giunta in Oriente – nella penisola balcanica ma anche, se teniamo conto delle precedenti riflessioni [88], in ambito hagiopolita o sinaitico.

 

 

80. È, questa, l’opinione di Francis J. Thomson, che, a proposito della affermazione di Dujčev secondo cui i riflessi della religiosità italogreca presenti nel mondo slavo vanno intesi come mediati da Costantinopoli, ritiene che ciò sia vero solo per quei testi noti anche in una tradizione orientale, «but it hardly applies in cases where the manuscript tradition of a text does not go beyond the confines of the Italo-Greek region»: F. J. Thomson 1985, p. 223.

 

81. I. Dujčev 1971a; BMFD, pp. 59-66; V. von Falkenhausen 1986, pp. 154-157.

82. P. J. Alexander 1973; Id. 1985, pp. 62-72.

83. S.G. Mercati 1970, p. 379.

84. ODB, p. 1594; BMFD, pp. 59 s.; V. von Falkenhausen 1986, pp. 152-157.

85. Come suggerito da Augusta Acconcia Longo: V. von Falkenhausen 1986, p. 154.

86. Ibid., p. 157 e n.

87. F. J. Thomson 1985, p. 222. Essa è trasmessa da manoscritti di epoca successiva: ibid. p. 229, n. 35; BMFD, p. 59.

88. V. supra, pp. 213 s.

 

 

216

 

È opportuno, al riguardo, richiamare i già citati riferimenti ad un insediamento slavo a Siracusa contenuti nella Vita di san Pancrazio di Taormina, nonché la migrazione di esuli balcanici in Sicilia dinanzi alle invasioni avaro-slave del VII secolo [89]. In quasi due secoli di permanenza sull’isola i discendenti di questi gruppi possono avere conosciuto processi di integrazione più o meno significativi, con conseguenti acquisizione e assimilazione di tradizioni culturali e religiose locali. L’invasione araba può avere poi indotto tali comunità ad abbandonare la Sicilia, e magari a rientrare nei territori d’origine portando con sé, oltre che le suddette tradizioni, anche dei testi.

 

Maggiori problemi solleva, invece, la traduzione slava della cosiddetta Visio Danielis, il cui modello greco sarebbe stato realizzato, secondo Paul J. Alexander, in Sicilia tra l’827 e l’829 [90]. Tale datazione si basa su un particolare passaggio del testo, nel quale lo studioso ha letto un riferimento alla rivolta di Eufemio e all’invasione araba della Sicilia dell’827 [91]. Il medesimo passaggio conterrebbe inoltre dei toponimi che vengono identificati, in due casi, con le località di Enna e Acradina [92], mentre una certa Marianii viene, in via di ipotesi, collocata tra Segesta ed Enna e identificata con l’attuale Marianopoli, in provincia di Caltanissetta [93].

 

Ora, premesso che la questione andrebbe a mio avviso riconsiderata a partire da una nuova analisi del testo slavo – per il quale è stata proposta una datazione ante 1078-1081 [94] – volendo accogliere l’interpretazione di Alexander potremmo ipotizzare, per la Visio Danielis, un iter simile a quello del Tipico di Pantelleria, ovvero una traduzione effettuata in loco oppure una traslazione, e successiva traduzione, del testo greco in territorio, o comunque presso una comunità slava.

 

Da quanto detto emerge chiaramente la difficoltà di tracciare un quadro preciso della presenza slava nella Calabria bizantina. I dati disponibili tuttavia, per quanto frammentari, non consentono di escludere che la regione sia stata interessata, al pari delle vicine Puglia e Sicilia, da movimenti di individui di provenienza balcanica e di etnia slava, movimenti presumibilmente diretti in entrambi i sensi, quindi dal Mezzogiorno e dalla Sicilia bizantini in Oriente e viceversa. Le comunità slave, se effettivamente presenti nella regione, non dovettero avere in ogni caso una consistenza significativa, anche perché, all’indomani della conquista normanna, gli Slavi non figurano tra i meglio definiti gruppi etnici che costituivano la composita popolazione soggetta ai nuovi dominatori [95].

 

 

89. Si è detto che, sebbene la nostra fonte – la Cronaca di Monemvasia – faccia riferimento alle popolazioni bizantine di Lacedemone e di Patrasso, non escludiamo che itinerari analoghi siano stati seguiti da esuli di etnia slava: v. supra, p. 206.

 

90. P. J. Alexander 1985, p. 64 e n. 13.

91. P. J. Alexander 1973.

92. Ibid., pp. 12 s., 30.

93. Ibid., pp. 31 s.

94. F. J. Thomson 1985, p. 222.

95. Su questo aspetto v. V. von Falkenhausen 1979.

 

 

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            Ševčenko 1992

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            Shepard-Franklin 1992

J. Shepard-S. Franklin, Byzantine Diplomacy. Papers from the Twenty-fourth Spring Symposium of Byzantine Studies (Cambridge, March 1990), Aldershot 1992.

 

            Sicilia rupestre

La Sicilia rupestre nel contesto delle civiltà mediterranee, Atti del Sesto Convegno Internazionale di Studio sulla civiltà rupestre medioevale nel Mezzogiorno d’Italia (Catania-Pantalica- Ispica, 7-12 settembre 1981), a c. di C.D. Fonseca, Galatina 1986.

 

            SJT

Saint-Jean-Theristes (1054-1264), edd. S.G. Mercati - A. Guillou - C. Giannelli, Città del Vaticano 1980 (Corpus des Actes Grecs d’Italie du Sud et de Sicile, 5).

 

            Strano 2011

G. Strano, Corcyra in età bizantina: crocevia di culture e di popoli, in De Sensi Sestito - Intrieri 2011, pp. 341-358.

 

            Thietmari Merseburgensis episcopi Chronicon

Thietmari Merseburgensis episcopi Chronicon, ed. R. Holtzmann, in MGH, Scriptores Rerum Germanicarum, n.s., IX, Berlin 1935.

 

 

221

 

            Thomson 1985

F.J. Thomson, Early slavonic translations – An italo-greek connection?, “Slavica Gandensia Gendensia” 12 (1985), pp. 221-234.

 

            Trinchera 1865

F. Trinchera, Syllabus Graecarum Membranarum, Napoli 1865.

 

            Velkovska 2006

E. Velkovska, La liturgia presso gli Slavi ortodossi, in Capaldo 2006, pp. 405-437. 

 

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