Storia civile di Messina colle relazioni della storia generale di Sicilia

Placido Arena-Primo

 

LIBRO QUINTO. EPOCA ROMANO-GRECA

 

— CAPO I. Impero del gran Costantino  1

— II. Impero de’ tre figli di Costantino  3

— III. Impero di Giuliano apostata  7

— IV. Impero di Gioviano  9

— V. Impero di Valentiniano, di Valente, e di Graziano  11

— VI. Impero di Graziano, di Valentiniano Juniore, e di Teodosio  14

— VII. Impero di Teodosio, di Valentiniano II e di Arcadio  17

— VIII. Impero di Arcadio, e di Onorio —Vittoria dei Messinesi in Tessalonica  22

— IX. Stilicone ministro in Occidente—Alarico re goto in Italia—Fine di Arcadio e di Onorio  31

— X. Regno di Teodosio il giovine e di Valentiniano III  34

— XI. Impero di Leone, Maiorano e Severo  40

— XII. Regno dei Goti  42

— XIII. Impero di Giustiniano—Prima incursione dei Saracini in Sicilia  44

— XIV. Impero di Giustino, e di Tiberio Costantino  51

— XV. Impero di Maurizio, di Foca, e di Eraclio  53

— XVI. Impero d’Eraclio e di Costantino IV  55

— XVII. Impero di Costante — Seconda incursione dei Saracini in Sicilia  57

— XVIII. Impero di Costantino Pagonato  60

— XIX. Impero di Giustiniano II, di Leonzio e di Absimero  62

— XX. Impero di Filippico, di Anastasio, di Teodosio, e di Leone Isaurico  66

— XXI. Impero di Costantino Copronico, di Leone IV, d’Irene, e di Costantino VI  68

— XXII. Impero di Niceforo, e di Michele Curopolato  72

— XXIII. Cittadinanza romana—Leggi—Costumi  76

— XXIV. Magistrati in quest’epoca  78

— XXV. Agricoltura—Commercio—Zecche  79

— XXVI. Arti—Scienze—Uomini illustri  81

— XXVII. Lingue che si parlarono nell’epoca romano-greca  85

— XXVIII. Religione  87

— XXIX. Ordine monastico e regolare  91

— XXX. Martiri messinesi in quest’epoca  94

— XXXI. Intorno la storia e privilegio di Arcadio  97

— XXXII. Intorno l’origine e storia del duomo di Messina  103

 

 CAPO I. Impero del gran Costantino.

 

Seguita appena la morte di Cloro cesare, le romane milizie vestivano della porpora, ed acclamavano Augusto il figlio Costantino, pria che si fossero celebrati i funerali del padre. I vizi e le crudeltà dell’imperadore Galerio gli aprivano il campo a nuovi acquisti, e finalmente alla monarchia universale cosi dell’Oriente, che dell’Occidente.

 

            310 — Superate le insidie dell’iniquo suocero Massimiano, di cui giustamente si disfece, da lui rimaser vinti in battaglia i Germani, che si eran disposti ad invadere le Gallie. Quindi chiamato a caldi prieghi da’Romani gementi sotto il tirannico impero dello usurpator Massenzio, forte marciò con agguerrito esercito, avviandosi verso Roma per abbattere si potente nemico. Noi non lo seguiremo nel cammino, in cui superando le Alpi, prese Torino, Susa, Verona, Modena, Aquileia, ed altri, luoghi dove suonò il grido di sue vittorie. Solo dobbiamo ricordare che egli, come alcuni scrivono, sulle prime mosse dell’armata,

 

 

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o come con più verisimiglianza altri credono (1), trovandosi vicino a Roma, vide in cielo apparire nel più alto meriggio sopra il sole una croce di luce, e presso ad ella le parole: In hoc signo vinces—Tu vincerai con questo segno. Inalberato quel glorioso vessillo, Costantino giunse a Roma più nella divina promessa, che nelle sue armi fidando. Massenzio dall’altra veggendosi superiore di eserciti, non tarda a fargli fronte. Sanguinosa battaglia sostenne: ma finalmente rotta la di lui cavalleria, e messo in iscompiglio il suo esercito, s’invola dal campo avviandosi verso Roma sul ponte. Il quale allimmenso peso de’ fuggitivi, sciolti e piegati i pilastri, precipita in fondo, onde tutti perirono, e ristesso tiranno Massenzio restava preda delle acque del Tevere (2).

 

Il giorno seguente entrava Costantino in Roma fra il giubilo de popoli, che non si stancavano di celebrare la virtù e la clemenza del loro liberatore. Divenne allora padrone di tutta l’Italia, ed indi della Affrica ancora. Finalmente dopo lunghe azioni di guerra, avendo superato l’ altro Imperadore, restò solo a governar l’Occidente e l’Oriente, in somma la dominazione si ebbe di tutto limpero romano. Segnò il regno di questo Imperadore l’epoca fortunata, in cui apparve il primo lume di pace alla chiesa. Dopo di aver esaltata la religione, e disfatti i persecutori del cristianesimo, s’impegnò egli a riparare nelle vessate province e città i danni, che gli altri suoi predecessori recarono, le più provvide leggi emanando. Fu questo gran monarca che onorò Messina, dando il nome di Stradigò al capo del suo governo, quell’ampia potestà conferendogli,

 

 

(1) Eusebio nella vita di Costant. lib. I, cap. 17.

(2) Eusebio luog. cit. c. 68.

 

 

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che da quei tempi sino a’ giorni de’ nostri padri i successori sostennero (1).

 

Concepì Costantino il gran disegno di edificare un’altra città imperiale col nome di nuova Roma; scelse Bisanzio sul Bosforo di Tracia, dove trasportò la sede dell’Impero, e impegnossi di abbellirla a segno da’superare la prima Roma; la quale fra non più dallo spazio di un secolo cadde dal suo pristino splendore. La novella città venne poi chiamata Costantinopoli, e tale suonò famosa nei mondo.

 

            336 — Ma le continue applicazioni a reggere le grandi cose di un governo così vasto, le fatighe delle guerre che dovette sostenere infievolirono la sua natura; ed egli si accorse che giunto era già al fine dei suoi giorni. Dispose il suo testamento, dove istituiva eredi i tre suoi figli, a’ quali ripartiva limperio. Costantino il più grande di età ebbe l’Occidente al di là delle Alpi; Costanzo la Francia, e l’Oriente; e Costante Roma coll’Italia, e l’Affrica o tenne. La nostra Sicilia rapportano gli storici essere stata assegnata a quest’ ultimo come un’ isola all’Italia adiacente sin dall’età remotissime.

 

Così finì di vivere il gran Costantino, nell’ età di anni sessantatre, quellinsigne impera dorè, che lasciò alla posterità un nome immortale, e che fu il primo di cui potrà mai sempre la nostra religione vantarsi.

 

 

 CAPO II. Impero de’ tre figli di Costantino.

 

Sebbene i figli di Costantino poco restassero contenti della ripartizione fatta dal padre, pure per lo bene della pace, da Cesari dichiarati Augusti,

 

 

(1) Vedi in fine la nota lett. A.

 

 

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ognuno andosene a governare quella parte d’imperio, che gli era, stata assegnata. Ma qual baleno l’ apparente concordia dei fratelli durò. Il primogenito Costantino, a cui altro non erasi dato, chele Gallie, le Spagne, e la Brettagna, mal soffriva che l’ultimo fratello Costante possedesse l’Illirico, l’Italia, l’Affrica, la Macedonia. Si determinò egli dunque di ottenere colle armi ciò che sembravagli pertenere per dritto. Scese infatti in Italia sotto il pretesto di dover passare in Oriente per difendere l’altro fratello Costanzo, che veniva attaccato dal re di Persia, e col suo esercito in Aquileia ferma vasi. Costante, prevenendo la di lui ambizione, a tutta fretta spedì i suoi comandanti, che ivi lo raggiunsero, nel mentre avea di già abbandonato i soldati al saccheggio ed alla licenza.

 

            340 — Venuti ad azioni di guerra, Costantino si trovò in mezzo a due fuochi, aspramente attaccato di fronte e alle spalle; i suoi quasi tutti perirono, ed egli sbalzato da cavallo a terra morì trafitto dalle spade nemiche. Costante rimase allora padrone delle Spagne, delle Gailie, e della Brettagna; e domato avendo colla forza i Galli ed i Britanni, che non volevano riconoscerlo, signoreggiò tutto l’Occidente.

 

            350 — Non però potè Costante godere lungo tempo del vasto suo impero. Trovandosi egli nella città di Autun nelle Gallie incontrò il tradimento di un certo Magno Magnenzio capitano di una compagnia delle sue guardie. Il quale da favorito che gli era, disegno di disfarsene; ed usurpandogli la porpora si fece riconoscere per Augusto. Costante fuggiva nelle Spagne, dove cercava salvarsi, ma essendo stato raggiunto, ucciso in Elenopoli finì alla vita, e all’imperio.

 

Gli scrittori gentili dipingono questo principe come un uomo avido, libidinoso, e pieno di difetti.

 

 

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Gli autori cattolici all’ incontro fanno una pittura ben differente spacciandolo per un principe attivo, sobrio, generoso. Forse come spesso accade, le colpe e gli abusi de’ ministri, a’quali affidava gli affari dell’impero d’Occidente, si attribuirono a questo Augusto sopra quello che ei non mai fece nè pensò,

 

La morte e l’assassinio di Costante recò all’impero di Occidente le più funeste rivoluzioni. Magnenzio fattosi signore della Francia, occupò le Spagne, la Brettagna, e poi Roma. Un certo Vetranione nell’Illirico vestiva ancora la porpora imperiale. Quindi sebbene Roma soggiacque a Massenzio, pure Nepoziano figlio di Eutropia sorella di Costantino il grande, vantando un maggior dritto, pensò scacciar l’usurpatore ; prendeva il nome di Augusto, e s’impossessava di Roma facendo scempio di tutti gli aderenti del nemico: breve però fu l impero di costui; poichè venuto in Italia Marcellino con forte esercito mandato da Magnenzio, lo disfece, e lo tolse dai vivi.

 

            351 — Morto già Nepoziano rimasero tre, i quali eran nominati Augusti ; Costanzo che solo aveva il dritto di esserlo, come erede del gran Costantino, e i duo usurpatori Magnenzio, e Vetranione. Indi quest’ultimo spogliatosi della porpora riconobbe Costanzo per suo signore, che lo mandò a viver commodamente da privato nella Bitinia.

 

Costanzo colle nuove forze fattosi superiore, parvegli essere nello stato di vendicare la morte del fratello, e di vincere Magnenzio. Scelse egli per compagno Gallo suo cugino uomo di somma pietà, e lo destinò agli a Rari di Oriente, nel mentre egli occupavasi a quelli di Occidente. E venuto a fiere battaglie con Magnenzio, lo sconfisse per tre volte; quando quest’ultimo veggendosi abbandonato da’ suoi che acclamavano Coslanzo, divenne come un frenetico, uccise la madre, il fratello, e tutti i cortigiani che gli si presentarono;

 

 

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finalmente postasi la punta della spada al suo petto, correndo incontro al muro si trafisse t e grondante di sangue spirò, restando in quel sangue vendicata la morte dell’augusto Costante.

 

Coll’eccidio di costui divenne Costanzo il solo signore dell’impero d’Occidente, come lo era dell’Oriente. Le sue vittorie però furon seguite dalle più nere crudeltà usate verso i suoi sudditi; la maggior delle quali fu quella che usò verso il virtuoso Gallo suo cugino, cui per gelosia del potere tolse la dignità di cesare, ed ancora la vita.

 

            355 — Quindi si vide sulle spalle i Franchi, gli Alemanni, e i Sassoni, che infestavano le Gallie, i Guari ed i Sarmati la Pannonia, ed i Persiani la Mesopotamia: timido, com’egli era, conobbe non poter solo sostenere il comando, e che bisognava scegliere un compagno abile a far fronte a tanti nemici. Volse le mire sopra Giuliano fratello di Gallo che ritrovavasi allora agli studi in Atene: fattolo venire in Italia, alla presenza delle truppe in Milano lo vestiva della porpora, e dichi aravalo cesare. Giuliano preso avendo un tal potere, seppe tosto quietare, e indurre il re de’Franchi a chieder pace. Dopo tante e varie intraprese trovandosi egli in Parigi le milizie lo acclamavano imperadore, e l’obbligavano colle minacce ad accettare il diadema.

 

La notizia di questa esaltazione rattristò acerbamente l’Augusto Costanzo: quantunque Giuliano gli facesse conoscere, che non fu quello un suo disegno, ma tutta volontà delle milizie che l’obbligarono, non ostante quegli altamente risentitosi lo minacciò a deporre la porpora imperiale, e a ritenere quella di cesare. Si ruppe cosi l’amicizia fra due cugini, l’odio andava crescendo a dismisura, finchè vennero alla più terribile guerra. Giuliano giunse sollecitamente in Smirne capitale della Pannonia,

 

 

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dove senza porre mano alle armi fu con allegrezza accolto da quel popolo: si rese in breve tempo signore di tutto l’Illirico; indi ebbe anche in potere la Macedonia e la Grecia,

 

Costanzo a tali nuove partivasi dalla città di Antiochia per andare incontro a Giuliano. Arrivato in Tarso nella Cilicia fu preso da piccola febbre; ciò non ostante proseguì il viaggio; finalmente giunto in Monsuestene aggravandosi il male dovette soccombere; e così fini di vivere nell’età di anni 45, restando Giuliano assoluto signore di tutto l’Impero.

 

Sebbene i panegiristi coetanei di Costanzo, cui piaceva la lode, e tanto premiava gli adulatori, ne presentassero un ritratto il più favorevole, pure le di lui gesta ci fan chiaro abbastanza, che egli fu un principe superbo, non men che codardo e crudele, nemicotremendo del cristianesimo, e protettore acerrimo della setta di Arriano.

 

 

 CAPO III. Impero di Giuliano.

 

Rimasto Giuliano sul trono imperiale di Occidente si recò in Costantinopoli di lui patria. Dicesi essere prima costui penetrato in Sicilia, e ciò alcune leggi datate dal medesimo in Siracusa confermano (1).

 

Si applicò egli principalmente a riformare la sua corte, ed a prepararsi per combattere contro i Persiani, che per lo spazio di sessant’ anni aveano turbato l’impero. Dopo dieci mesi si portò in Antiochia per fare degli altri apparecchi ; quindi essendo ammanito il tutto disponevasi a partire per la guerra. Sapore avendo esplorato i disegni e le grandi forze di quest’Augusto, gli fece varie proposizioni di pace, ch’egli non volle accettare.

 

 

(1) Can. di Giovanni, Cod. Diplom. tom. 1, diplom. II, p. 10.

 

 

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            363 — Partissi dunque Giuliano colla formidabile armata da Antiochia : passò con delle barche per lo Eufrate, poi per lo fiume Abora; indi per la parte di Assiria entrava nel paese del re di Persia, e s’impossessò di alcune città e castella, dove non ebbe resistenza. Giunto presso il fiume Tigri non lungi la città di Cresifonte, meditava di assediarla, ma come ell’era la capitale, ed ivi dimorava il re in casa propria, trovandola ben fortificata, sen ritornava allontanandosi dal fiume.

 

Frattanto Sapore comparve colla sua armata. Senza venire ad un’azione campale attaccando i Romani ora alle spalle ora di fronte era intento a contrastargli di luogo in luogo il passaggio, finchè li riduceva alla fame. Finalmente nel mentre Giuliano correva di fretta per incoraggiare i soldati, venne gravemente ferito da un cavalier persiano, che lo fece sbalzare da cavallo. Per la qual cosa accanite le sue milizie fecero de’ Persiani orrevolissima, strage.

 

            363 — Trasportato l’Augusto Giuliano cosi intriso di sangue, riusciti inutili i rimedi apprestati da’ medici, fini di vivere nell’età di soli 32 anni lasciando vuoto l’impero. Del poderoso suo esercito, rimasto senza comando ed in quella situazione, tornerà tra poco a far parola.

 

Riesce difficile fare il quadro di questo Augusto, che secondo il Fleurì, era in lui una tale mescolanza di buone e di cattive qualità, eh’ era facile il lodarlo, e biasimarlo senza alterare la verità. Egli si finse per qualche tempo cristiano, richiamando dall’esilio tutti i vescovi, che erano stati proscritti da Costanzo. Indi levossi la benda, professò l’idolatria, aprì i tempi de’ falsi numi, il cattolicismo perseguitò tremendamente.

 

Nondimeno a fronte di tante enormità, di una apostasia così manifesta, di una immensa avidità di ricchezze,

 

 

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e di certe simulate virtù il sig. Voltaire, ed altri scrittori seguenti ce lo hanno figurato per un principe degno di memoria e di lode. Egli è forza confessare che tale sia stato ne’ primi suoi anni; ma che poi dipartendosi dal virtuoso sentiero, divenne il tiranno più perfido, che stato mai fosse nell’ impero di Roma.

 

 

 CAPO IV. Impero di Gioviano.

 

            363 — Era l’esercito sparso di confusione e di spavento si per la morte di Giuliano, che per la mancanza de’ viveri. I generali in quella situazione stimarono primo consiglio scegliere un capo, a cui fosse data la sovrana autorità. Fu di comun consenso eletto Gioviano, che trovavasi allora capitano delle guardie pretoriane, riputato come il più adatto a torre l’armata dal pericolo che forte minacciava.

 

Era Gioviano in molta lama presso le milizie per avere in guerra dimostrato il suo valore: giovine robusto in età di anni 32i e la religione cattolica coltivava. Veggendosi adunque eletto imperadore non voleva accettare la corona, dichiarando eh’ essendo egli cristiano non poteva comandare un esercito che seguendo le orme dell’estinto Giuliano, era all’Idolatria consacrato. Allora i soldati tutti con ugual voce gridarono di essere cristiani, e che quelli che non lo erano avrebbero da quel momento abbracciato la religione del loro imperante. Con tali assicurazioni addivenne, ed accettava l’impero. Primieramente bramando di salvare i suoi, risolse di ritornare indietro verso il fiume Tigri, per osservare se vi fosse modo di valicarlo. Ciò riuscendo impossibile per aver prima Giuliano fatto bruciare tutte le barche di trasporto, si trovò il nuovo imperadore nel massimo cimento,

 

 

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restando l’armata romana incagliata tra il fiume, che non potea passare, ed il nemico che l’era alle spalle. Frattanto in questo terribile stato giunsero al campo di Gioviano gl’inviati di Sapore, presentando proposte di pace. L’Augusto accettò volentieri l’occasione di salvare il suo esercito, e rispose eh’ era pronto accettarle. Finalmente fu stabilito, che Gioviano avrebbe restituito al re di Persia cinque province, che e va va sopra i Persiani conquistate lImperadore Diocleziano, ed inoltre le due cittâ di Nisibi e di Zingara. Si conosce che una tal pace non si conveniva alla potenza romana, che non solea mai ceder nulla di ciò che aveva acquistato; ma checché ne dicano i nemici di questo Augusto, un tal trattato debbesi riputar necessario per salvare l’armata dell’imminente securo pericolo.

 

Gioviano dunque tragittò il fiume colle truppe, e dopo un penoso viaggio, giungeva al castello di Ur, dove cominciossi a respirare, avendo trovato i mezzi di ristorarsi. Fedele alla sua parola esegui i patti della capitolazione col re di Persia. Eutropio lo condanna per questa sua esattezza, volendo che tostochè trovavasi egli in salvo coll’armata, avrebbe dovuto rompere la pace. È questo un principio di falsa e detestabile politica, poichè dall’uomo onesto debbonsi i patti fedelmente anche coi nemici adempire.

 

La scelta di Gioviano all’impero venne approvata dal senato, e dal consenso generale dei popoli. Dal castello di Ur prosegui il suo viaggio, e nel mese di ottobre dello stesso anno giunse in Antiochia, fra le votive acclamazioni di quel popolo, che tante persecuzioni avea sofferto dall’ingiusto antecessore di lui. Gioviano cominciò da qui a regolare l’impero. Rese la pace alla chiesa cattolica facendo chiudere i templi eretti agli idoli, ed aprire quelli de’cristiani, che durante l’impero di Giuliano furon chiusi.

 

 

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Richiamò poi tutti i vescovi che erano stati esiliati per i maneggi degli Arriani, e principalmente il vecchio e santo Atanasio vescovo di Alessandria, col quale si trattenne in familiari ragionamenti, e venne dal medesimo pienamente avvertito, onde non farsi insidiare dagli Arriani, dai Macedoniani, e dagli Eretici, che la chiesa di Dio intorbidavano.

 

            364 — Dopo queste sagge disposizioni per apportare la felicità alla chiesa, ed a’ suoi popoli, si mosse per venire in Oriente. Frattanto in camminandosi per Costantinopoli arrivò in Dadastana ne’confini della Galazia, e della Bitinia, dove fu salutato da Temistio, e da altri senatori spediti da Bizzanzio. Ma la notte del 16 di febbraro nel mentr’ era già pronto a portarsi seco loro alla nuova Roma fu colpito, non si sa da quale accidente, onde la mattina che seguì fu trovato morto nel letto. Chi ne attribuisce la causa alla stanza, ch’era calcinata di fresco; chi al puzzore del carbone che era acceso nella medesima; chi al veleno di fungo. Checché ne sia della cagione, morì egli in età di anni 33, dopo aver regnato sette mesi e più giorni, troncando la speranza de’ popoli che bramavano già di vedere la felicità e quiete del mondo. Fu il di lui corpo trasportato in Costantinopoli, e sepolto cogli altri Augusti per comando di questo principe, che come un astro volante appena comparso sparì.

 

 

 CAPO V. Impero di Valentiniano, di Valente e di Graziano.

 

            364 — Trovandosi colla morte di Gioviano altra volta l’armata senza capo, si meditava sulla scelta del nuovo Augusto. Radunatisi i principali generali dell’esercito, elessero imperadore Flavio Valentiniano, che era stato in tanta stima presso Gioviano, la cui virtù fu anche prima rispettata da Giuliano.

 

 

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Questi ebbe per moglie Giustina donna messinese (1). Acclamato Augusto, ed ornatosi della porpora e del diadema, tostochè arrivò in Costantinopoli, facendo prevalere i dritti del sangue elesse per Augusto il di lui fratello Valente, al quale «commise il comando di Oriente, riserbandosi egli l’Occidente.»

 

Messina dunque, e la intera Sicilia che fe’ sempre parte dell’Italia, restò allora sotto il solo Valentiniano. Nulla però sappiamo di ciò che accadde durante il governo di lui. Imperciocchè nella estensione di tanto impero la nostra Isola non formava che una picciolissima parte, cui poco o nulla potevan badare gli imperadori occupati a regolare tanti domini, ed e sostenere tante guerre. Raccontasi che verso questo tempo per un fiero tremuoto che san Girolamo (2) vuole, che fosse accaduto per tutto il mondo, molte città di nostra Isola soffrirono immense rovine. Sappiamo altresì che in allora formava la nostra Sicilia una provincia consolare, ciò traendo nel codice Teodosiano da un ordine de’ due imperadori a Donno Consolare della Sicilia diretto.

 

Frattanto l’impero di Occidente non che quello di Oriente in molte provincie veniva infestato da’Barbari. Valentiniano adunque per respingerli, si portò in Milano, dove fermossi qualche tempo, occorrendo ovunque il bisogno lo richiedeva.

 

            365 — Quindi passò nelle Gallie, e risedendo in Parigi frenò l’ardire degli Alemanni. Ivi dimorando intese la notizia della ribellione di Procopio in Oriente, che già avevasi fatto acclamare Augusto. Prevenendo che questi occupasse una parte dell’ Illirico, che gli apparteneva, e per soccorrere anche il fratello assalito da questo usurpatore,

 

 

(1) Reina Not. Ist. ann. 365.

(2) In Cron.

 

 

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spedi contro il medesimo delle truppe sotto il comando di Eguizio. Finalmente Procopio dopo varie inutili imprese, tradito da’suoi fu consegnato alle mani di Valente, che facendogli troncare il capo, d innanzi sei tolse.

 

Valentiniano continuò a fermarsi nelle Gallie, e dopo di varie battaglie con gli Alemanni, or favorevoli, or contrarie, conchiuse la pace co’medesimi. Trovandosi egli in Amiens fece schierare le truppe fuori del paese, e presentando loro Graziano suo figliuolo, che non avea che soli otto anni, palesò il desiderio di sceglierlo per compagno nell’impero di Occidente. La quale scelta venne confermata dal consenso e dagli applausi di tutti. Quindi impiegò molto tempo in continue battaglie co’barbari, che seguivano ad infestare l’Occidente; e si trattenne non poco nella città di Treviri, da dove diede delle leggi utilissime per Roma, e per tutta l’Italia (1).

 

            375 — L’Illirico e l’Italia non andarono io questo tempo esenti da simili incursioni. I Guari ed i Sarmati non lasciarono d’infestare queste province. Finalmente Valentiniano alle rive del Reno conchiuse la pace col Re alemanno, e lasciato il governo delle Gallie a suo figlio Graziano, passò il Danubio, pose a sacco il paese de’ Guadi, riprese il viaggio verso Sabaria, e mentre riposava in Bregizione, piccolo castello della Pannonia, gli si presentò una deputazione de’Guadi per chieder la pace, palesando le ragioni, per altro giuste, per le quali si erano sollevati. Da qui accadde che Valentiniano così acerbamente si alterò, che cominciando a vomitare gran copia di sangue, fra poco all’età di anni 55, dopo 12 di regno, finì di vivere.

 

 

(1) Rapportate nel Codice Teodosiano.

 

 

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Questo principe, che nell’assunzione al trono si mostrò buon cristiano, e fece molte leggi contro il paganesimo, nel decorso del suo impero fece prevalere la politica alla religione ; protesse gli Arriani, perseguitò i Cattolici, ammise la libertà del culto, ordinando che nessuno fosse inquietato per conto religioso. Sulle prime del pari alleviò i popoli dagli eccessivi tributi, ma poi di intollerabili imposizioni gravolli. Predominato sempre dalla collera usò pure delle crudeltà, ciecamente mietendo i rei egl’innocenti ; onde di questo Augusto non si può distinguere il carattere esattamente.

 

Dopo la morte di costui gli eserciti senza il parere di Valente e di Graziano, elessero Augusto Valentiniano, secondo figlio dell’ estinto imperadore nel primo lustro di sua età. Veniva confermata la scelta dallo zio, e dal fratello. Ma non trovandosi questi nello stato di poter governare, per tale ragione tutto l’Occidente, ed in conseguenza la Sicilia e Messina restarono sotto Graziano, su di cui torneremo in discorso.

 

            378 — Dobbiamo or solamente accennare, che Valente, il di cui regno non appartiene alla nostra storia, venuto ad un combattimento contro i Goti, il romano esercito rimase sconfitto, ed egli ferito non potendosi reggere a cavallo, andò a rifuggiarsi nella casetta di un contadino; dove arrivando quei barbari appicarono il fuoco, e così dovette perire nelle fiamme. Di questo Augusto chi ne parlò bene, e chi male; varie furono le dipinture degli storici di quei tempi.

 

 

 CAPO VI. Impero di Graziano, di Valentiniano Iuniore, e di Teodosio.

 

I Goti vieppiù insuperbiti per aver vinto larmata di Valente, e per aver tratto a morte quel principe, liberamente vagavano saggheggiando tutte le province dell’impero di Oriente.

 

 

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I Romani all’ incontro presi da timore al solo nome de’ Goti fuggivano. Graziano sospeso avea la sua marcia, e ritirato erasi a Sirmio, meditando che se volea portarsi in Oriente per resistere a’progressi de’Goti, correva rischio che gli Alemanni occupassero le Gallie. In tale stato chiamò dalla Spagna alla sua corte Teodosio il giovane, e commettendo al di lui comando una parte de’ suoi eserciti, lo spediva contro i Sarmati. Questo prode generale appena si pose in marcia, venuto a battaglia co’ nemici parte li uccise, parte per salvarsi li obbligò a passare il Danubio.

 

            379 — A questa sollecita prova di militare virtù, Graziano si risolse sceglierlo per compagno; e tosto ornando della porpora imperiale il modesto Teodosio, in Sirmio fra gli applausi comuni dichiaravalo Augusto (1). L’impero fu allora nuovamente diviso; Graziano ritenne per se l’Italia colle sue aggiacenti, l’Affrica, le Spagne, le Gallie. Assegnò a Valentiniano le due province dell’Illirico, le quali stante la di lui minore età seguì come tutore a comandare. Teodosio poi ricevè Costantinopoli, la Francia, le province dell’Oriente, e l’Egitto. Così disposti gli affari, Graziano intese a frenare l’ardire degli Alemanni nelle Gallie ; indi si trattenne in Italia, dove le più utili leggi per lo stato, e favorevoli al cristianesimo emanò.

 

            383 — Trovavasi egli appunto in Italia, allorché nelle province della Brettagna sorse un nuovo usurpatore di nome Massimo, di nazione spagnuolo, il quale seppe indurre le truppe ad una rivolta, ed a farsi dichiarare Augusto. Questi dopo aver invaso la Brettagna, alzando più oltre le mire, alla testa di un numeroso esercito passava nelle Gallie, dove qualche provincia gli riuscì sollevare.

 

 

(1) Socrat. nell’Istoria.

 

 

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Appena ne pervenne notizia a Graziano, egli corse tosto nelle Gallie per impedire gli audaci progressi di Massimo, dove trovò di essere stato dallo stesso prevenuto. Raccolte le milizie che gli erano state fedeli, e dato il comando a Mirobaude suo Generale, andò egli medesimo ad attaccare l’usurpatore; ma finalmente avendo il di lui esercito sofferto una gran rotta, con soli 300 soldati fuggiva verso Leone, sperando di poter tosto passare io Italia. Appunto in questo tragitto da Parigi a Leone, egli è certo, che Graziano venne tradito dagli stessi suoi uffiziali, ed ucciso, quantunque non se ne sappia chi fosse stato il traditore, ed il modo di sua morte (1).

 

Fini di vivere questo Augusto in età di anni 25 per le rare sue qualità da tutti i buoni conpianto. Non ostante che molti parlarono male di questo principe, Sant’ Ambrogio che fu un suo confidente, ed uomo incapace di adulare o mentire, fa l’elogio delle sue azioni, e l’istesso Ammiano storico gentile e nemico de’ Cristiani, scrive, che se quest’ Augusto avesse più a lungo vissuto, e non gli fossero toccati de’ cattivi ministri, avrebbe potuto emulare le glorie de’più grandi Imperadori. Nella giovane età gli uomini della corte adulandolo, ed ingannandolo, e reggendo a lor talento l’impero, lo trassero a delle azioni che oscurarono il nome di lui. Posto però col tempo al lume della verità, corresse questo docile principe gli involontari suoi errori, e sul sentiero della virtù camminò finchè visse.

 

 

(1) Socrat. lib. 5. C. 21.

 

 

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 CAPO VII. Impero di Teodosio, di Valentiniano II, e di Arcadio.

 

 

            384 — La morte dell’Augusto Graziano apportò lo scompiglio in tutto l’Occidente. Massimo profittando della circostanza già avea ridotto alla sua dominazione le Gallie, ed ancora le Spagne. Valentiniano II che appena avea compito gli anni 16 non era ancor atto a combattere con un sì possente nemico. Arcadio figlio di Teodosio che nell’anno antecedente era stato dal padre dichiarato Augusto, dimorava in quella corte, e non avea che otto anni. La sola speranza dunque di tranquillar l’Occidente era sulla virtù e sul valore di Teodosio poggiata.

 

Valentiniano assistito dalla di lui madre Giustina avvisò tosto a Teodosio la disgrazia della morte del di lui fratello. Questo Augusto allora si dispose a prendere la vendetta dell’estinto Principe, ed a porre Valentiniano nell’impero di Occidente ; onde da quel momento cominciò a preparare un poderoso esercito capace di sconfiggere a miglior tempo quell’assassino tiranno. Massimo frattanto, che non ignorava i gran preparamenti che si facevano si nell’Oriente, che nell’Italia, prevenendo il vicino turbine, si mosse egli il primo a simulare, ed a chieder pace. Fatta la proposta a Valentiniano, questi temendo, che non arrivassero cosi presto le forze dell’Augusto Teodosio, volentieri l’accettò ; i due contendenti vennero a trattato, per lo quale accordava a Massimo, che riconosciuto per imperadore possedesse le Gallie, le Spagne, la Brettagna; e che tutta l’Italia, f Illirico, e l’Affrica sotto l’ubbidienza di Valentiniano restassero (1).

 

 

(1) S. Ambrogio nell’ Epist.

 

 

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Massimo per assodare vieppiù i suoi interessi, dopo la pace conchiusa spediva ambasciadori al supremo Augusto di Oriente per la conferma. Teodosio non solo per allora lo lasciava nel possesso degli usurpati domini, ma ben anco lo riconosceva per Augusto; forse aspettava da favori del tempo l’esecuzione de’ suoi alti disegni. La finta pace durò fino all’anno 387, durante la quale Teodosio dimorò a Costantinopoli, e Valentiniano si trattenne in Milano. Massimo non mai abbandonò il pensiero d’invadere gli stati di Valentiniano, e rendersi cosi signore di tutto l’Occidente. Sotto inventati motti vi egli cominciò a dolersi, e quindi per un stratagemma usato al credulo Donnino ambasciadore di quell’Augusto, egli fu in Italia con tutte le sue forze, prima che la di lui mossa dalle Gallie si sapesse.

 

Valentiniano all’ inaspettato avviso, atterrito e confuso, trovandosi senza truppe pensò involarsi all’ira di quel tiranno ; perchè imbarcatosi sopra una nave colla madre, e con Probo prefetto del Pretorio, veleggiando per l’Adriatico, giungeva in Tessalonica ; d’onde spedi tosto de’ corrieri a Teodosio per farlo inteso della di lui disgrazia. Massimo frattanto senza alcuna resistenza s’impossessò di tutta l’Italia, ed ancora dell’Affrica. Teodosio non tardava a recarsi in Tessalonica per visitare il fuggente cognato colla suocera. Egli lo assicurava della sua difesa promettendogli di abbattere il nemico, e restituirlo al suo trono.

 

            388 — Quindi nulla avendo potuto ottenere da Massimo nè colla pace, nè colle minacce, radunate quante truppe potè avere, scelse i migliori generali, e lasciando suo figlio Arcadio con un consiglio di savi a reggere l’Oriente, si dispose alla mossa. Massimo quantunque avesse un esercito più numeroso, e stasse in casa propria,

 

 

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troppo temendo il valore di un nemico cosi grande, cercava di chiudere le vie per le quali poteva Teodosio in Italia portarsi.

 

Teodosio adunque giunto nella città di Sciscia presso il fiume Savo, attaccò per la prima volta i nemici, i quali non potendo resistergli, si lasciarono sbaragliare ed uccidere. Quindi giunto a Petovione città che dominava sopra l’altro fiume Davo, trovandosi ivi le altre truppe comandate da Marcellino fratello del tiranno, venne a seconda battaglia, dove restò vincitore ; conciosiachè parte dell’esercito di Massimo abbassò le bandiere, e si arrese al clemente Augusto che l’aggregò alle sue truppe. Dopo queste due vittorie si recò Teodosio ad Emona, dov’era la terza armata di Massimo. Ivi senza muover le armi trovò i cittadini, che spalancate le porte uscendogli incontro, lo accolsero nella città, e alla gente di lui ristoro con vettovaglie offerivano.

 

Massimo frattanto sbalordito nel vedere i rapidi progressi del grande Imperadore, andò a serrarsi dentro Aquileia, dove lusingavasi di potersi difendere. Teodosio a marce sforzate lo raggiunse, e ponendo l’assedio a quella città entrava vittorioso, e rendeva prigione il tiranno.

 

            384 — Finalmente Massimo posto in ceppi, fu recato innanzi al grande Teodosio, che rimproverandogli i suoi delitti, lo fece spogliare della porpora, e senza fargli soffrire i tormenti che meritava, cosa non propria del generoso animo di questo Augusto, lo condannò a perder la testa, locchè tre miglia distante da Aquileia venne tosto eseguito. Da quanto fin qui si è detto, può abbastanza rilevarsi il ritratto di questo perfido usurpatore.

 

Or per venire a Valentiniano, il quale era il nostro Monarca, egli è certo, che in tutte queste imprese avesse accompagnato il cognato Teodosio, sebbene ancor giovanetto, e non in istato di poter, solo governar popoli.

 

 

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Infatti dopo la gran spedizione contro Massimo, egli insieme coli’Augusto di Oriente andò a trionfare in Roma. Quindi ambi questi due Imperadori si ritirarono in Milano, dove Teodosio quantunque bramasse di ritornare in Oriente, pur si trattenne qualche tempo per istruire il giovane cognato nella difficile arte di governare. Egli con animo grande e generoso, senza nulla pretendere per le grandi spese fette nella guerra che sostenne, nè per premio delle sue vittorie, restituì Valentiniano nel possesso di tutti i suoi dominî, tratto in vero degno di ogni commendazione. Finalmente avendolo già reso atto a poter reggere i suoi stati, lo lasciò nell’Italia; ed egli nell’anno 391 si restituiva in Oriente.

 

Il giovane Principe si portò nelle Gallie, dov’era necessaria la sua presenza. Era egli divenuto un zelante protettore del cattolicismo, e nemico de’pagani e degli eretici. Moderatissimo ne’ costumi menava una vita sobria e frugale, allontanandosi da’pericoli di cadere in quelle sregolatezze proprie della gioventù, e massime di un Principe, che trovasi indipendente. Da queste virtù non andarono disunite quelle che debbonsi coltivare da un sovrano. Odiava i rapporti, le adulazioni, le accuse, imperciocchè le diffidenze non tormentano, che i tiranni. Portato solo al bene de’ sudditi, si astenne d’imporre nuove imposizioni, moderando le antiche, per fino le proprie spese restrinse, perciocché conosceva, che cotali aggravi rovinano le famiglie. In somma tenne egli un governo, per cui i sudditi goderono i dolci effetti della pace, della giustizia, dell’abbondanza.

 

Ma questo Augusto degno per le sue virtù di miglior sorte incontrò presso di se un empio ministro di nome Arbagaste, che usurpandosi un eccessivo potere seppe trarlo alla morte. Cosi avviene quando si concede a’ministri una illimitata potestà.

 

 

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Recatosi Valentiniano nelle Gallie, e dimorando in Vienna, mal soffrendo che Arbagaste alla di lui presenza si ardisse a regger tutto a sua voglia, e financo a dar legge al proprio Signore, si accinse a spogliarlo della carica di generale, di cui abusava. Prevenendo ciò quel malvagio, si determinò di finir la contesa colla morte del Sovrano; mandò contro a lui de’sicarî, i quali lo trucidarono alle sponde del Rodano, appunto nel giorno 15 di maggio dell’ anno 393.

 

Dopo quest’atroce delitto l’indegno Arbagaste per allontanare i sospetti s’infinse addoloratissimo, e fece in apparenza vestire la porpora ad un suo confidente di nome Eugenio, ch’era segretario della corte, cosi ritenendo tutta l’autorità. Fatto riconoscere quest’uomo per imperadore, le Gallie e l’Italia furon costrette ad assoggettirsi. Allorchè giunse tal nuova in Oriente, indicibile fu il dolore dell’Augusto Teodosio; il quale aveva educato quel principe, e che valutava la gran perdita che avea fatto l’Occidente. Spinto vieppiù da’pianti di Galla sua consorte, che teneramente amava il perduto fratello, si accinse a prenderne la vendetta. Frattanto quei due tiranni alla difesa si preparavano.

 

            394 — Quest’ Imperadore avendo già pronte le forze, dopo di avere dichiarato Augusto l’altro di lui figlio Onorio, che non aveva che soli dieci anni, parti con (a sua oste da Costantinopoli, venne alle Alpi Giulie, dove Eugenio, oltre che dispose una guarnii gione per impedire il passaggio, avea collocato una statua di Giove co’fulmini in mano, lusingandosi che quel Dio avrebbe colpito Teodosio ed i suoi. Ma appena giunto questo Augusto sbaragliò le truppe nemiche, parte pose in fuga, e parte uccise : il loro Giove però non si mosse.

 

Dalle montagne scese l’esercito Teodosiano nella pianura ;

 

 

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ed ivi incontrò larmata di Eugenio. Finalmente dopo due sanguinose battaglie, e varie stratagemme militari, Teodosio assistito soprattutto dai singolari aiuti del cielo, ne riportò una compita vittoria. I soldati di Eugenio abbassarono le insegne, chiedendo tutti perdono, che lor fu dall’Augusto accordato. Eugenio venne condotto a’piedi dell’Imperadore che lo rimproverò de’suoi delitti, e per clemenza gli avrebbe lasciato la vita; quando alla stessa di lui presenza i suoi medesimi soldati con una sciabla il capo dal busto gli troncarono. Arbagaste non sperando pietà fuggì per i monti, ed inseguito amò meglio darsi con propria mano la morte.

 

Cosi avendo debbellato i tiranni, e vendicato la morte de’Cesari, portossi l’Augusto Teodosio in Milano, dove diè saggi di singolare clemenza; quindi promosse vieppiù la religione cristiana, sgombrando da tutto il suo impero il paganesimo. Finalmente verso l’ anno 395, infievolita la di lui salute per le fatighe sofferte nella guerra, ed ammalatosi in Milano, divise l’impero a’suoi figli Arcadio ed Onorio : al primo assegnò in dominio l’Oriente, al secondo l’Occidente. E cosi nell’età ancor fresca di anni 30 fini di vivere Teodosio ; le di cui ossa si trasportarono in Costantinopoli negli avelli degli Imperadori. Di questo Principe, di cui tutti gli storici danno il più nobile ritratto, ci dispensiamo far l’elogio, mentre per le sue virtù ed azioni seppe meritarsi il nome di Grande.

 

 

 CAPO VIII. Impero di Arcadio, e di Onorio — Vittoria de’Messinesi in Tessalonica.

 

 

            407 — Essendo alla morte del gran Teodosio rimasti eredi all’ impero i due figli Arcadio ed Onorio,

 

 

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i Greci Traci, Macedoni, Dalmatini, Cretesi, e le genti di altre province giurarono fedeltà ad Arcadio; solamente i Bulgari (1), e gli Arcadi con manifesta ribellione gli negarono ubbidienza. E prese le armi contro il proprio signore, i primi sotto la condotta di Assiricle, e gli altri di Catillo la città di Tessalonica assediarono (2).

 

Arcadio per comprimere quella nascente Idra, radunato l’esercito si partiva da Costantinopoli. Fermava il campo per pochi giorni a Palidia nobil colonia di Costantino il grande, e drizzato il cammino verso Tessalonica marciava per la via de’ colli, che si aggiungono al monte Amone; ed entrò nella città per la porta Australe, ch’era munita da un’antichissima fortezza. Catillo ed Assiricle, chiamati gli altri capitani, ricordarono, che contro loro veniva il proprio signore sdegnato ed offeso, e che la propria vita e libertà nel valore, e generoso proponimento di vincere o di morire poggiava. E fatte disarmare le navi, ed abbassare i padiglioni, acciò tolta la speranza della fuga si pareggiasse il valore col pericolo, posero l’esercito in ordinanza.

 

Dall’altro lato l’Imperadore co’suoi distinti squadroni ordinò ad Anastasio ed Andronico illustri baroni, che si spingessero innanzi con la vanguarda. Attaccatasi fieramente la pugna, cade ucciso da Catillo Niceforo duca di Corinto e di Thenedo, capitano della cavalleria imperiale, e resta abbattuto da Assiricle l’illustre Anastasio, che seguito da’suoi si salvava colla fuga. L’Imperadore vedendo contro la sua aspettazione messa in rotta la sua vanguarda,

 

 

(1) Popoli della Misia inferiore, che abitavano nelle vicine bocche del Danubio.

(2) Tessalonica oggi Salonich città dell impero di Oriente.

 

 

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e disordinata la cavalleria, che perse il valore con la vita del capitano, persistendo ancora lo squadrone della battaglia, dava contro a’nemici, e per lo spazio di otto ore fece onoratissima resistenza nel mantenersi il luogo e la campagna; finchèè fu obbligato a toccar la ritirata, e mantenendo sempre salva l’ordinanza si ritirò con tutti i suoi in Tessalonica.

 

Cinsero i Bulgari la città di assedio per sei mesi, e l’imperadore con le reliquie dell’esercito, e con quei cittadini, scorgendo che in tanta confusa moltitudine per lo mancamento de’ sussidi sovrastava già il pericolo della fame, e de’morbi che suol cagionare la carestia, fece uscire degli oratori per chiedere da’ capitani nemici almeno un mese di triegua; ma Catillo veggendo la città già vicina allo rendersi, non volle piegare. L’Augusto in tanta sventura restringendosi sempre a consiglio co’suoi baroni, si doleva del nipote Costanzo da lui lasciato vicario dello impero; il quale manifestamente avea aderito a’ nemici, ed aspettava la morte e la rovina dello zio per usurparsi un assoluto potere. Tanto può la sfrenata avidità di regnare che rompe financo i forti vincoli della natura ! Dolevasi egli altresì della freddezza delle città e delle province, che richieste, punto non s’interessavano dei pericolo della dignità e della vita del proprio signore, Laonde Basilio governado re di Tessalonica molto caro ad Arcadio per la sua notabile costanza, rappresentò all’Augusto, che in quel lagrimevole stato altro non restava, che o comandare che il popolo uscisse a combattere per prevenire con morte onorevole l’imminente rovina; o che dovesse venire a patteggiar col nemico, non come vincitore, ma come vinto.

 

Arcadio conoscendo la sincerità del sano consiglio di Basilio, lo diresse con Giorgio Tebano ai capitani nemici,

 

 

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onde ottenere le più tollerabili condizioni della triegua. Venuti questi ad abboccamento co’ generali opposti, fecero lor concepire, che tanto non dovessero fidar della sorte, che Dio è potentissimo per sollevare gli oppressi; ed esser la più nera ingratitudine sprezzare la sacra persona dell’ Augusto, che non domandava, che pochi mesi di triegua, acciò in questo tempo, accommodate le differenze, si troncassero le cagioni di una guerra lunga e dubbiosa. Fu loro risposto da Catillo, che i Bulgari e gli Arcadi non fecero mai mossa di armi per offendere l’Imperadore, ma per ripulsare la violenza a loro fatta nei propri confini; ch’essendo ormai vicini ad una certa vittoria, non erano per sottoporsi ad una pace vergognosa, dalla quale non potevano riportare che una dura servitù; e che solamente per non meritarsi egli l’odioso nome di austero, e avido di guerra, era per fare una sospensione di armi: per la quale venne a proporre le richieste più insolenti. Ciò riferito all’Imperadore, questi costretto dalla necessità dovette nella miglior maniera aderire.

 

Promulgata che fu la triegua con i patti stabiliti, giunsero fra giorni tre navi da’ Cretesi cariche di vettovaglie, delle quali l’una donarono all’ Imperadore, e delle altre ricevettero il giusto prezzo. Arcadio mandò una di quelle navi in Costantinopoli, ed altre due per la Grecia per affrettare il soccorso ad arte da Costanzo ritardato. Questi frattanto tenendo segrete pratiche con Catillo, e tutto regolando a suo modo, cambiava gli antichi capitani e governatori delle fortezze e delle città, con sostituirvi uomini propensi a favorire la di lui ambizione. I messi mandati dall’Augusto Arcadio a Costanzo con la nave cretese, avendo ben spiato il tutto, e temendo di essere ritenuti, lasciarono il capitano in terra, e fuggendo col favor della notte, ritornarono in Tessalonica,

 

 

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e riferirono all’ Imperatore l’aperto tradimento del nipote.

 

Arcadio uscito dalle prime speranze si volse alle seconde: mandò nuovi messi in Brindisi, Taranto, ed altre città della Puglia, e Calabria, a’ Veneti, e parimenti alle isole del mare Egeo. Sebbene il fratello Onorio non si fosse prestato alla difesa, non crediamo perciò, che fosse partecipe del tradimento del figlio Costanzo. Siccome Buffino e Caiano aveano sollevato i Bulgari e gli Arcadi contro Arcadio, cosi trovavasi anch’egli implicato in terribile guerra con Stilicone; il quale vinto Radogaffo capitano dei Goti, si era collegato co’Vandali per cacciarlo di imperio.

 

Ma le città pugliesi, la brevità del tempo e la loro impotenza misurando, rimandarono i messi imperiali a Messina, forte allora per l’apparato marittimo, che avea nel suo grande arsenale, perchè continua guerra facea cogli Algerini. I Messinesi con prontezza di animo e di forze accettavano la nobile impresa; le più grandi città dellImpéro non si destano, solo Messina, che ferve di fedeltà e di giustizia, della causa del giovanetto principe s’interessa. Metrodoro, che per la morte di Teodosio era stato eletto Stradigò da’ cittadini, avvisa tutte le città di Sicilia, e della vicina Calabria, dalle quali altro non ottenne, che una nave dalla città di Reggio, una carica di vettovaglia da Trapani, e tre ben armate da Siracusa. Aristide messinese governadore del valle di Demini armava a proprie spese due galee, altre quattro ne approntava il generoso Metrodoro, e sette a spese del pubblico luniversità messinese.

 

Così armata e messa in pronto una squadra di diciotto galee, costituitosi capitano Metrodoro giunse con quella in Taranto; dove osservando che si operava con lentezza, e che non v’era speranza di altro soccorso, sciolse subitamente verso Tessalonica.

 

 

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Per sorte mentre navigava s’incontrò con cinque navi messinesi, due delle quali cariche di provisioni, ed una di vino; alle quali fatta dar la volta, le menò seco all’ impresa.

 

In questo mentre Romolo figliuolo di Catillo con dieci galee volteggiava per la Grecia, onde impedire il passo ad alcun navale soccorso, che potea giungere allImperadore, poichè i rubelli erano affatto lontani dal credere gli aiuti di Messina, e della Sicilia, sendo occupata in quel tempo a difendersi dalle invasioni de’ barbari. Appunto il nono giorno da che Romolo era partito da Tessalonica, fu da’Bulgari veduta in mare larmata mamertina da loro affatto sconosciuta; per lo che Catillo spedi un veloce legno alla discoperta, ed armò le galee di lucidissima fanteria per ritrovarsi pronte ad ogni caso di battaglia. Ritornava la galea con ravviso, riferendo di aver da lontano riconosciuto lo stendardo imperiale; il che udito Catillo, con venticinque galee e due navi subito in alto mare allargavasi per mostrarsi in ordinanza ed incontrarsi col nemico.

 

Metrodoro dalla sua linea scoprendo l’armata dei Bulgari, chiamò a se i capitani e condottieri delle galee in questi sensi parlando. — Ecco uomini valorosi giunto al segno il nostro desiderio; abbiamo varcati tanti mari, visitati tanti lidi ardenti di mostrare la nostra fede, il nostro valore; e già l’occasione ne abbiam pronta. Come i nostri antenati liberarono la Sicilia dalla servitù de’ Cartaginesi, cosi noi dobbiamo aver coraggio d’investire i Bulgari nemici della corona. Chè se mai combattuto abbiamo per la gloria. oggi maggior ci si rende nel vincere, abbattere i rubelli, onde trarre da una infame oppressione il nostro principe, Arcadio innocente.

 

 

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— Ciò detto distinse in ordinanza la squadrai a lenta voga verso il nemico appressandosi, dato il segno infuriò la battaglia. Per lo spazio di nove ore si sostenne il combattimento da ambe le parti con vicendevole strage; quando investita una galea coll’altra, gettansi gl’intrepidi Messinesi sulle nemiche galee, ed al primo muover di braccio uccidono Catillo. Allora i Bulgari perdono l’ardire con la vita del capitano, restano le lor galee parte prese, parte fugate e in terra investite. E cosi quel divino poterebbe difende la giustizia delle armi, decise la vittoria per i Messinesi. I quali usando più oltre dei lieto accidente spinsero presso il lido, dove appena approdando, diedero addosso ad Assiricle che aspettava, e colle folte schiere degli Arcadi in precipitosa fuga lo posero.

 

Frattanto gli abitanti di Tessalonica scorgendolo inaspettato favore, sortirono dalla città, e insieme co’ Messinesi abbattendo alle spalle i fuggitivi, infinita strage ne fecero. Riportata da Metrodoro una si notabile vittoria, entrò trionfatore in Tessalonica, dove presentò i fatti prigionieri ad Arcadio già libero, ed in seggio. Il quale sorpreso dal generoso valore e quasi vinto dalla gioia della inattesa vittoria, dicesi, che per tre giorni non abbia potuto più favella disciorre. Quindi chiamando a se Metrodoro e gli altri Messinesi, esternava i sensi della più viva gratitudine, prometteva che nel suo ritorno in Costantinopoli darebbe il premio dovuto a tante loro fatighe. Conoscer dovette che i più vicini popoli non ebbero armi e coraggio per liberare il proprio signore, e che Messina più lontana appronta in un subito e navi, ed armi, ed armati, accorre; incalza e supera i Bulgari per la parte di mare; abbatte e fuga gli Arcadi per la parte di terra; cosicché può dirsi : venne, vide, vinse il nemico. Arcadio partiva dopo dieci giorni da Tessalonica ringraziando quei cittadini della costanza e della fede ;

 

 

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e dall’ armata messinese scortato, nella città imperiale di Bizanzio recavasi.

 

Costantinopoli, poc’anzi vacillante e resa del partito de’cospiratori, accoglie con trionfo e con allegrezza il legittimo signore. I cittadini, onde risarcire l’acquistata infamia, corsero per combattere Costanzo, il quale attonito e povero di consiglio riunitosi con i suoi aderenti, si era fatto forte nel Megapalazzo. Ma volendo l’imperadore che l’onore dell’assalto fosse de’ Messinesi, comandò che solamente dai medesimi si eseguisse l’impresa. Ed ecco già quei valorosi che con intrepido ardire appoggiano le scale, urtano, spezzano le porte, in modo che al terzo incontro la fortezza cede intieramente espugnata, e Costanzo, Ruffino, Caiano, e tutti gli autori stessi della scellerata congiura son già stretti da ferri in lor potere. Condotti innanzi l’imperadore, egli li scaccia dal suo cospetto, generoso gli lascia la vita, ma come traditori in perpetua prigione li condanna.

 

Arcadio nel nono giorno del suo arrivo sul trono imperiale sedente, in alti sensi lodò Metrodoro ed i Messinesi, chiamandoli sua salvezza, c sua gloria. Egli esaltò Messina, come quella che senza essere richiesta liberò il proprio signore infamemente oppresso da’ rubelli, in procinto di perdere la corona e la vita. Protometropoli, cioè capo delle città metropolitane di tutta Sicilia, e della Magna Grecia la costituì ; per ogni tempo avvenire da qualunque dazio, contribuzione o gravezza, appunto come avevano fatto i Romani, l’esentò, le diede il perpetuò governo della Sicilia ; volle che nessun messinese contra la propria volontà fosse astretto alla milizia; e finalmente di qual ricchissimo dono la ricompensa? Eccolo, o cittadini, vedetelo tuttora nelle vostre armi, ne’ vostri scudi, nelle vostre mura, ne’ vostri tempi, nel vostro petto. Egli è l’istessa insegna imperiale, è il vessillo della Croce;

 

 

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fastosi mostrerete sino all’estensione de secoli il nobile diploma di Arcadio, e la Croce di oro in campo rosso (1).

 

Ritornando alle narrazioni, Arcadio con grande liberalità remunerava ciascuno secondo il grado ed il merito, ed in ricompensa delle spese di quell’armamento assegnò al municipio di Messina la città di Reggio, e la Imerese. Già era in punto Metrodoro di sciorre per ritornare glorioso alla patria ; quando Perimandro, uno de’primi baroni e consiglieri dell’Impero, dall’invidia sospinto tentava Metrodoro a renunciare l’arme concessa, e ricambiarla a prezzo di grand’oro; ma tanto non potendo ottenere da lui, che aveva animo assai generoso per amare le glorie della patria, andò a prostrarsi a’ piedi di’Arcadio fervidamente esponendo, che l’ insegna Imperiale non si dovesse concedere a’sudditi per non scemarsi la grandezza e la maestà di un monarca. Ma il prudente Imperadore rifiutandolo, gli rispondeva che quel zelo, e quella si viva affezione, avrebbe dovuto dimostrar prima colle armi contro Costanzo, e contro i rubelli in Tessalonica; imperciocchè non solo l’arme, ma l’istessa corona, spiegava, non era bastevole ricompensa per Messina, che di propria volontà, e non richiesta, allorché tutti gli altri sudditi del vasto suo impero o per timore,

 

 

(1) Vedi l’esemplare del privilegio di Arcadio per come leggevasi nel greco manoscritto Praxis Ton Basileon del monistero del SS. Salvadore di Messina nel la nota infine lett. B. — Inoltre ci riserbiamo di trattare sulla verità di questa istoria nel capo XVI del libro presente, e confutare le asserzioni ed i sofismi dei nostri nuovi contradittori, non che rapportare le autorità degli storici e le antiche scritture che lo confermano, che sino ai dì nostri rinvenute ce ne danno sempreppiù maggior certezza.

 

 

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o per tradimento non destavansi, ella con approntare uomini ed armi, e navi, e con spargere cittadino sangue lo restituì nella sede imperiale. Frattanto i Messinesi arricchiti di cotante grazie e di segnalati favori, ritornavano trionfanti alla patria, dove alfin giunti tosto abbassano l’antico vessillo delle tre torri nere in campo verde, e la croce d’oro in campo rosso con la corona imperiale drizzarono, onorarono (1).

 

 

 CAPO IX. Stilicone ministro in Occidente—Alarico re goto in Italia—Fine di Arcadio e di Onorio.

 

Onorio fratello di Arcadio, ch’ era Imperador d’Occidente, principe imbecille senza virtù ugualmente che senza vizi lasciava governare sotto il suo nome Stilicone ministro della sua corte, e generale delle sue armate. Questi per vieppiù stabilirsi nel potere avea fatto che Onorio la propria figlia di nome Maria per sposa prendesse. Egli combattè e vinse più volte i Goti, i Vandali, gii Alani, gli Svevi, ed altri barbari popoli, che presero allora ad invader l’Italia e le altre province. Però questo ministro intento solo ad ingrandirsi, e guidando Onorio a suo modo, fece nascere delle discordie fra questo Augusto ed il fratello Arcadio ; e mentre i domini del primo erano vessati da’barbari, meditava egli spogliare il secondo dall’Illirico, chiamando anche a questa impresa il re de’ Goti Alarico, che tanti danni avea per lo innanzi recato all’impero.

 

 

(1) Intorno le antiche e moderne arme della città di Messina, vedi in fine la nota lett. C.

 

 

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            407 — L’imminente rivolta della Brettagna distolse Stilicone da’ disegni d’invadere l’Oriente ad Arcadio. I Brittanni proclamavano Imperadore Marco, che fu ucciso, indi Graziano, che l’ugual sorte incontrava, finalmente Costantino di si gran nome. Il quale fattosi potente nelle Gallie, occupò Bologna, e costrinse Onorio a partir da Ravenna verso Roma, dove Stilicone trovavasi.

 

            408 — L’Augusto Arcadio frattanto finiva di vivere; erede all’impero lasciava il di lui figlio pupillo Teodosio che già sette anni prima avea dichiarato Augusto. E per esser questi difeso nella tenera età da qualche ingiusto aggressore, saviamente ne affidò la tutela ad Isdegarde re di Persia, che volentieri accettolla. Costui, che di animo grande era, ne imprese gl’interessi, chiamando anche a parte Onorio dell’incombenza avuta dal fratello, e in Costantinopoli mandava Antioco uomo prudente per educare il nuovo Cesare, e renderlo tra non guari atto al governo.

 

Frattanto la fortuna del potente ministro Stilicone, la cui condotta dispiace quasi a tutto l’impero, declina. L’invidia che suol regnare da pertutto, assai più funesta ella si rende nelle corti. Olimpio di lui nemico, ed altro cortigiano di Onorio, nel viaggio, che facevasi a Pavia per far fronte a Costantino, seppe co’suoi discorsi turbare l’animo dell’Augusto, e far cadere Stilicone dalla di lui grazia. Giunto lo Imperadore a quella città, preso da sospetto che il suo Ministro volesse usurpargli il diadema per darlo ad Eucherio suo figlio, comandò subito all’esercito, che trovavasi in Ravenna, di assicurarsi della persona di costui. Il quale ordinamento eseguito, al padre ed al figlio, rei o non rei che fossero, d’imminente facea togliere la vita.

 

            410 — Da qui a breve tempo il re goto Alarico,

 

 

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che male udì la morte del generale suo amico, compariva con immenso esercito in Italia, e dietro di aver danneggiato tutte le terre romane, assedia Roma istessa, dove entra vincitore, e risparmiando i tempi soltanto, dà orribil saccheggio alla città vincitrice del Mondo, che preda di quei barbari, l’anno 1163 di sua fondazione, divenne.

 

            411 — Uscito Alarico da Roma, assalta i Campani, i Lucani, ed i Bruzî; si fa padrone dell’Italia, e da Reggio, ove si ferma coll’armata, volge il pensiero a conquistar la Sicilia. Disposte le truppe, s’accinge primieramente ad occupar Messina, come il luogo più vicino e più interessante. Ma scostatosi appena dal lido, una subitana tempesta scompigliò le navi dei Goti, di cui la gran parte andò in fondo; per lo che Alarico distolto dall’impresa, fu costretto ritirarsi nella Calabria, dove vinto dal dolore lasciava la vita, e la di lui morte garentisce la libertà a’ Messinesi, alla Sicilia, non che toglie ad Onorio il più grande de’ suoi nemici.

 

            423 — Ma ciò non ostante l’impero non ebbe pace, e parvero ritornare i tempi di Gallieno, quando da ogni parte sorgevano usurpatori del trono, e da ogni parte sbucavano barbari ad invadere le romane province. Finalmente mori a Ravenna l’Augusto Onorio in età di 39 anni dopo quasi sei lustri d’infelicissimo regno, che fu una catena di guerre, e continue sollevazioni. Onorio fu un principe timido, sospettoso, a segno che spesse volte cadde nella crudeltà. È degno di commendazione soltanto per la sua religione, e per le ottime leggi emanate.

 

 

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 CAPO X. Regno di Teodosio il Giovane, e di Valentiniano III.

 

Regnava nell’ Oriente Teodosio il giovane figlio di Arcadio, essendo già nell’età e nello stato di regger solo l’impero. Seguita la morte dell’imperadore suo zio, un certo Giovanni vestito già della porpora sorgeva a dominare in Occidente. La qual cosa egli appena udita, imprende le difese del piccolo Valentiniano figlio di Onorio, e con tutta la forza delle sue armi, per ogni parte dell’impero assale l’usurpatore, che si era fortificato in Ravenna. I prodi Ardabuzio, il di lui figlio Aspare, e Candidiano avevano il comando dell’impresa. Il primo, menando anche seco il piccolo Cesare Valentiniano, e l’Augusta Placidia di lui madre, velicava per Ravenna ; Aspare colla cavalleria si diresse per la Pannonia. Finalmente il tiranno raggiunto in quella città, e reso prigioniere, venne tosto tratto sopra un somaro in Aquileia, dove fra gli scherni del popolaccio subì nel circo la pena di morte.

 

            425 — Tolto di mezzo l’usurpatore, Valentiniano coll’ augusta Placidia da Ravenna si portano a Roma, dove Teodosio rallegrandosi per mezzo del patrizio Elione, gl’ invia la veste imperiale, e augusto sotto la tutela dell’Augusta sua madre lo dichiarava.

 

            438 — Domati già i Borgognoni, e i Goti nelle Gallie, e fatta la pace co’ Vandali, Valentiniano avendo sposato Eudossia figlia dell’Augusto d’Oriente Teodosio II, lieti giorni menava nella sua corte a Ravenna. Ma lungo però non gli sorrise un tal sereno. Nell’anno 439 Genserico re de’Vandali, violando i patti della pace si mosse primieramente contro Cartagine, ed occupava quella grande e ricca città,

 

 

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interessante per l’impero, perchè come un’altra Roma formava la sede de’magistrati, ed ivi le arti e le scienze fiorivano.

 

            440 — Quindi non contento di aver occupato quasi tutta l’Affrica, rivolse i disegni contro la Sicilia, che per la vicinanza e per le ricchezze gli avrebbe di molto giovato. Egli come un nembo distruggitore piomba rapidamente sulle contrade sicole (1). Aurelio Cassiodoro che trovavasi allora governadore dell’Isola, radunate quante più forze potè, imprese con molto coraggio a difenderla da quella invasione. L’altro Cassiodoro di lui nipote lo attesta (2). I Vandali si resero al primo disbarco padroni del Lelibeo e de’paesi confinanti ; indi posero l’assedio a Palermo, città che dopo le guerre puniche era divenuta di qualche importanza. Finalmente Genserico chiamato d’altri pressanti affari nell’Affrica, lasciava la Sicilia, restando però signore del Lelibeo, e delle città acquistate. Forse il nome e valor mamertino suonava da tanto, che non ebbe per allora pensiero accostarsi alla nostra Messina.

 

            442 — Nel versare di tali accidenti avea l’imperadore Teodosio spedito in Sicilia la sua formidabile flotta, composta, secondo Teofane, da mille e cento navi, onde far desistere il re vandalo dall’impresa. Ma Genserico nel veder tante forze riunite, a rimuovere sì minaccevole turbine stringeva alleanza col famoso Attila re degli Unni (3). Il quale unito a Seda suo fratello, entrò furiosamente nell’Illirico, e nella Tracia, spargendo le città tutte di saccheggi e di incendi.

 

 

(1) Inveges Pan. Sac. pag. 365. Morabito all’anno 499.

(2) Cassiodoro Variar. lib 1, Epist. 4.

(3) Popoli che abitavano la Scizia.

 

 

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Allor fu che Teodosio avendo già la guerra ne’suoi stati tutte le armi aggregava per resistere agli Unni; e in tale incontro richiamò benanco l’armata navale, che in Sicilia trovavasi (1).

 

In questa situazione l’Augusto Valentiniano, non potendo egli solo colle sue forze difendersi dall’impeto di Genserico, conchiuse col medesimo la pace, in forza della quale riacquistava varie province nell’Affrica.

 

Frattanto il formidabile Attila combattendo contro Teodosio, non lascia di atterrire Valentiniano; e lo stesso Aezio generale di tutti gli eserciti di questo Augusto, che per lo innanzi era stato amico degli Unni, dovette allora occuparsi a difender l’Occidente dalle loro invasioni.

 

            450 — L’Augusto di Oriente dopo aver sostenute non poche battaglie, era costretto a stabilire la pace con quel barbaro invasore, e nell’anno stesso segui la di lui morte, della quale la cagione s’ignora, Che chè alcun scrittore ne dica, Teodosio imperadore fu un principe illustre nella pietà, e nelle lettere.

 

Seguita la morte di Teodosio, per dritto di sangue successe nell’impero Pulcheria sua sorella, che qual madre piuttosto avea prudentemente guidato questo Cesare. Ella intanto non volendo sostener sola l’impero, sceglieva Marziano per suo marito, illustre per gesta e per illibati costumi; ma destinavalo soltanto compagno al trono, restando illesa la di lei verginità, che da gran tempo avea a Dio consacrata. Marziano accettava l’offerta generosa, il senato e le milizie approvavano la scelta, pur consentiva l’Augusto di Occidente Valentiniano, onde Marziano per voto universale imperadore acclama vasi (2).

 

 

(1) L’autore della Miscella hist. lib. 22.

(2) Teod. hist. Eccl.—Evagr. l. 1, hist. Eccl.

 

 

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Frattanto il terribile Attila non tarda a portar in Occidente la guerra, che da più tempo temeasi ; già si udiva il frastuono delle feroci armi; onde l’augusto Valentiniano per resistere a quel nembo di barbari accozzava le sue forze con quelle di Teodorico re dei Goti. Dicono, che l’armata di questo re, unita a quella di Aezio generale bizzantino, non era men formidabile dell’esercito di Attila, che giungeva a 700mila soldati. Ebbe luogo la prima battaglia nelle pianure di Catalaunie presso Reims con una strage di 30mila uomini; e sebbene fosse morto nell’attacco il re visigoto, pure il forte Attila vi restò perditore: talché sconfitto ed inseguito dal prode Aezio, lasciava il campo, e ripartì per Pannonia, nutrendo il pensiero di ritornare più forte a combattere contro le insegne romane.

 

            452 — Appunto nella primavera di questo anno con un oste non inferiore alla prima Attila ritorna, ed avido di vendetta entra furiosamente in Italia, espugna Acquileia, riduce Padova a ferro ed a fuoco un mucchio di pietre, occupa Verona, Milano, corre, penetra sino a Reggio, miseramente saccheggiando, e incendiando le migliori città, e le province. Ruminava già per la mente marciar verso Roma, la quale certamente sarebbe caduta sotto quella barbara mano; quando venutogli incontro il pontefice S. Leone spedito da Valentiniano e da’ Romani, si persuase a non passar oltre, ed a ritornarsi in Pannonia, però minacciando farsi vedere più tremendo in Italia, quante volte l’imperadore indugiasse a mandargli Onoria sua sorella per isposa.

 

Fu in questo tempo che molte preclare famiglie fuggiron da Roma per varie parti, e alcune si stabilirono in Messina, che Unto furon poi di lustro alla patria con una serie di uomini grandi per animo, per sapienza, per armi, le cui gesta andremo nel corso storico narrando.

 

 

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            453 — Finalmente la morte fermo i giorni del sanguinoso Attila, chiamato il flagello del cielo. Svanirono colla fine di lui le minacce di ruine e di stragi; lItalia restò liberadalle invasioni degli Unni i popoli tutti dell’impero tripudiarono.

 

            454 — Ma quel contento che recò la morte di Attila, venne nel tempo istesso turbato dalla morte infelice di Aezio, già chiaro per gesta e per valore. Massimo Petronio, uno de’ più ricchi ed apprezzati senatori di Roma, che aspirava alla signoria dell’impero, seppe per occulte vie, e per mezzo degli eunuchi del palazzo far concepire a Valentiniano, che Aezio era di lui nemico, che tentava rapirgli la corona. Lieve cosa fu insospettirsi l’animo debole dellimperadore, e uccider colla propria mano quel prode generale, che colle sue guerriere virtù avea saputo sostenergli lo scettro a fronte di tante invasioni di barbari, al cui furore vacillava.

 

            455 — Non però questo augusto, che con nera azione macchiò il nome suo, tardava a soffrire la pena della sua crudeltà. Massimo che già si era disfatto del prode Aezio, si fa strada al trono con disfarsi ancora di Valentiniano. Egli suscitò gli aderenti di Aezio a imprendere la vendetta ; dal che avvenne, che mentre quel principe sen stava a sollazzarsi tra giuochi, alcuni lo assalirono, e lo distesero sul suolo. Così giunto al trentesimosesto anno di sua età, fini Valentiniano principe vizioso e indolente, che vide lo impero allorlo della rovina senza punto commuoversi.

 

Massimo frattanto, che per spianarsi la via del trono era stato occultamente Fautore della morte, e del generale, e dell’augusto, prese tosto il diadema imperiale. Eudossia vedova di Valentiniano, nulla sapendo che Massimo fosse stato il traditore del marito, accettò le di lui nozze; ma tosto ch’ella n’ebbe certa notizia per una di lui propria dichiarazione,

 

 

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montò in tal furore contro dell’omicida, che per vendicarsene chiamava dall’Affrica Genserico re de’Vandali; il quale con formidabile esercito veniva bentosto in Italia. Giunto nelle vicinanze di Berna, Massimo alla notizia veggendosi inabile a fargli fronte, tenta salvarsi colla fuga; ma nel mentre sta per uscir dalla reggia si eccita un tumulto popolare, e gli stessi soldati romani lo uccidono, dopo tre soli mesi di tirannide. Genserico si avanza ed entra furiosamente in Roma, dove non trovando veruna resistenza, là saccheggiò per 14  giorni, e sola a preghiere del pontefice S. Leone risparmiò la vita de’ cittadini, e il diroccamento degli edifizî. I Vandali dunque dopo di aver fatto bottino di quanto più ricco e pregevole potè cadere nelle loro mani, carichi di preda con un gran numero di prigionieri sen tornarono ih Affrica.

 

            455 — Avito generale delle truppe romane nelle Gallie, dopo la morte di Massimo, venia dallarmatà romana proclamato imperadore, e come tale riconosciuto dall’augusto di Oriente Marziano, portavasi a Roma. Sembrava che così prender dovesse respiro l’afflitta Italia ; ma la morte di Marziano avvelenato da’suoi generali in Costantinopoli ne troncò le speranze. Invece di Marziano fu detto imperador di Oriente Leone primo di questo nome. Frattanto Avito dopo un breve regno di poco oltre ad un anno incontrò il tradimento di Ricimero uomo altiero e superbo, il quale mandato da lui contro de’Vandali, tornatone vincitore, se gli rivolse contro, talché Avito costretto a fuggir da Roma, si ritirava a Piacenza, dove alla porpora preferiva gli ordini sacri, che il vescovo di quella città gli donava.

 

In questi tempi non cessarono i barbari di vessare con continue scorrerie le spiagge della Sicilia, recando innumerevoli danni.

 

 

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E qui dobbiamo fermarci sulla mal fondata asserzione dell’Inveges (1) che vuol stabilire nel’Isola il regno de’ Vandali, che abbiano eletto per loro reggia Palermo. Noi ignoriamo i fonti d’onde n’abbia potuto attingere questa notizia, e far Genserico re di Sicilia; nel mentre dalle tradizioni di tutti i cordati storici non altro abbiamo, che il re vandalo, invaso l’Illirico e la Grecia, tornò nell’Italia e nella Sicilia, da cui involò quel poco che potè rimanere da’ saccheggi della prima invasione (2). Genserico dunque non fu re di Sicilia; è un sogno la reggia stabilita in Palermo, quando non mai vi dimorò; ed al più è verisimile che si fosse potuto mantener padrone del Lelibeo, e de’luoghi vicini all’Affrica che prima avea acquistati. Riguardo poi alla nostra Messina egli è certo che Genserico non vi abbia posto piede, e che poco o nulla ella soffri in questi tempi dalle invasioni de’ Vandali, e degli altri barbari, che varie parti dell’Isola correvano a ruba ed a ferro (3).

 

 

 CAPO XI. Impero di Leone, Maiorano e Severo.

 

Dopo parecchi mesi dell’impero di Avito, che pure fini di vivere, venne innalzato al trono Maggiorano generale delle armate, uomo di cui tutti gli scrittori di quei tempi commendano sommamente il valore, la prudenza, e tutte le virtù degne di un monarca. Egli sollecito a difendere l’Italia da’Vandali, avea già messo in armi poderoso esercito per recarsi nell’Affrica ; ma l’ambizioso Ricimero veggendolo crescere in potere ed in rinomanza, nel 461,

 

 

(1) Inveges Pan. sacr. p. 2.

(2) Procopio de bel. Vand. p. m. 314.

(3) Morabito ad ann. 434. — Reina ad ann. 415.

 

 

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dopo poco oltre a tre anni d’impero, lo fece crudelmente uccidere presso Cartona.

 

            461 — Ricimero pose quindi sul trono un cotal Severo, di nazione lucano, uomo da nulla, il quale combattè con Berigo re degli Olani, e dopo aver regnato circa quattro anni, moriva. Rimase allora senza alcun reggitore l’impero per più di un anno, e fu occasione opportuna a’ barbari per estendere sempre più le loro conquiste. Finalmente i Romani pregarono Leone imperador di Oriente, che volesse destinare all’impero di Occidente Antemio uomo d’illustre famiglia in Costantinopoli, e guerriero valoroso; Leone acconsentiva, e dando a questi la corona l’anno 467 in Italia lo mandava.

 

Intanto Ricimero si rivolse contro di Antemio, dopo che lo avea fatto suo genero; lo assediò in Roma, la quale per la terza volta soggiocata da’barbari, vide ucciso l’infelice Imperadore. Intanto Olibrio, che da Leone era stato inviato in Italia per sostenere Antemio, essendovi giunto quando questo era già morto, fu innalzato al trono egli stesso per opera del medesimo Ricimero. Ma l’anno stesso, ed il perfido arriano Ricimero, ed il nuovo Imperadore entrambi esecrati alla vita cessavano.

 

Morto che fu l’Imperadore di Oriente Leone, prese Zenone l’imperial corona; e nell’Occidente innalzato al trono da’Romani Glicerio, trova un rivale in Giulio Nepote, dal quale fu costretto a deporre l’autorità, e venne ordinato vescovo di Solona in Dalmazia. Ma l’anno seguente Giulio Nepote anch’ egli è costretto da Oreste generale nelle Gallie a fuggire da Roma, ed a rifuggiarsi in Salona, ove poi fu ammazzato. Finalmente Oreste fece acclamar imperadore Romolo suo figliuolo, soprannominato Augusto, ed in questo spregevole principe finisce la serie degli imperadori romani in Occidente.

 

 

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Odoacre scelto da’ Goti per loro generale venne in Italia, ed assediato Oreste in Pavia, e presa e saccheggiata quella città, lo fa uccidere. Indi sen va a Roma, e vi si fa acclamare re dIitalia; e poi passato a Ravenna sbalza Augusto dal trono; ed assegnatogli di che vivere agiatamente, lo confina in un castello presso Napoli, in modo che l’Italia, e tutto l’impero occidentale cadde in potere de’ Goti, e di altri barbari. che da ogni parte se lo aveano forzosamente occupato.

 

 

 CAPO XII. Regno de’ Goti.

 

Già la Sicilia da ogni canto ingombrata da’Goti loro riconobbe a dominatori. Sappiamo però con mera viglia, che Messina potè resistere agli assalti, e si mantenne sottola signoria dellimperador di Oriente.

 

Odoacre, che fu il primo fondatore del regno dei Goti in Italia, ebbe mira sin dal principio di tenersi amico Zenone Imperador di Oriente, ed in tutti gli incontri gli si mostrò subordinato. Egli benchè arriano non molestò i cattolici; non fece alcuna novazione, o cangiamento nella forma del governo, ma ogni cosa lasciò nell’antico stato, le leggi e gli usi de’Romani rispettando.

 

            488 — Odoacre regnò tranquillo e con molta equità fino a quest’anno, che segnava il decimoterzo del suo governo. Quando Teodorico altro re goto venne ad assalirlo, invadendo l’Italia, e dopo quattro anni di accanita guerra, gli toglieva insieme il trono e la vita, rimanendo egli assoluto padrone dell’Italia.

 

Nel medesimo anno finiva di vivere Zenone imperador di Oriente, nel cui seggio venne posto Anastasio, fattosi sposo della vedova del morto Augusto, il quale riconobbe Teodorico per re d’Italia, seco collegandosi.

 

 

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Teodorico uguale a’ più grandi re professo la vera arte di governare; il suo regno fu lungamente glorioso e degno di laudi; e se due anni prima avesse finito, avrebbe egli lasciato di se il nome soltanto di un principe dolce, generoso, protettore delle lettere, che rialzò l’Italia alla maggior prosperità e grandezza.

 

            518 — Morto Tempio cesare Anastasio, che esaltando tutte leresie di quei tempi colla persecuzion de’Cattolici, sconvolto avea tutto l’ Oriente, veniva l’imperial trono conferito dal senato a Giustino, nato nella Francia, e come altri vogliono nell’ Illirico (1). Questo principe savio e buon cattolico, verso l’anno 523, cadde per troppo zelo di religione in azioni assai rigorose e lontane dalla prudenza, che deve regger sempre la mente di chi comanda. Egli impegnatosi a sgombrar l’ eresie da’ suoi stati, dopo di aver fatto strage de’Manichei, si rivolse anche contro i Goti arriani, eh’erano in Oriente, togliendo loro le chiese, e privando delle dignità tutti quei che professavano l’arrianismo. Queste disposizioni gravemente sdegnarono Teodorico re d’Italia, il quale quantunque arriano, si era per lo passato condotto con molta moderazione, con lasciare i popoli nella lor credenza, rispettando i vescovi Cattolici, e i loro tempi, e i loro riti. Chiamò egli a Ravenna il pontefice Giovanni, e Io pregò portarsi a Giustino in Costantinopoli per farlo desistere dall’intrapresa persecuzione ; minacciandolo che sul di lui esempio avrebbe egli sterminato i Cattolici tutti, eh erano nell’Italia. Giunto il Papa alla corte di Oriente col seguito di molti vescovi, e personaggi illustri di Roma, era con immensi onori ricevuto dall’augusto Giustino,

 

 

(1) Marc. Con. in Chron.

 

 

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e gli riuscì persuaderlo per la restituzion delle chiese agli Arriani. Ritornossene indi al re goto per dargli conto della sua legazione. Ma siccome non avea potuto egli ottenére tuttociò che Teodorico richiedeva in prò degli arriani, questi irritato altamente in vece di ringraziarlo, lo fece imprigionare in Ravenna, dove martire per li disagi consumò con gloria la sua vita.

 

Teodorico ardeva di odio implacabile contro i Cattolici ; e divenuto in breve il tiranno più crudele, terribili editti avea già preparato. Ma Iddio finalmente liberava i suoi fedeli dall’imminente rovina di quest’uomo, il quale assalito da febbre micidiale nel giorno medesimo che doveano promulgarsi i decreti della di lui vendetta, andò a render conto del suo regno alla suprema eterna giustizia.

 

Successe al trono d’Italia il fanciullo Atalarico, nipote dello estinto re, sotto la direzione della di lui madre Amalasunta. L’elezione venne approvata dal senato e popolo di Roma ; e Giustino imperador di Oriente, sebbene era rimasto nemico di Teodorico, riconobbe la di lui sovranità, e sempre ferma amicizia gli tenne.

 

 

 CAPO XIII. Impero di Giustiniano—Prima incursione del Saraceni in Sicilia.

 

A Giustino succedeva nell’impero di Oriente Giustiniano, principe grande per la pietà, per le armi, per le lettere. Egli intento a vincere le barbare nazioni diede il comando della sua armata al prode Belisario, uomo di altissime conoscenze nell’arte militare. Riuscì a questo insigne generale impossessarsi dell’Affrica; occupò la Sardegna, la Corsica, e tanti altri luoghi conquistò,

 

 

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scorrendo colla flotta il Mediterraneo sino allo stretto di Gibilterra. Passati alcuni anni, l’imperador Giustiniano spediva il valoroso Belisario per recuperare l’Italia dal potere dei Goti, i quali già infestavano la Sicilia. Da Costantinopoli sciogliendo verso la nostra Isola giungeva questo gran capitano in Messina a’Goti non soggetta (1), e coll aiuto e col valore dei cittadini improvvisamente assalendoli, ottenne fugarli da Catania, indi da Siracusa e dalle altre città, e castella, che tutte si davano al greco potere, riconoscendo Giustiniano a loro dominatore. I Goti concentrano tutte le loro forze in Palermo, sotto il comando di Senderico esperto capitano, ed opposta tutta la resistenza di cui erano capaci, furono costretti finalmente a rendersi alla discrezione di Belisario valoroso ed invitto.

 

Così soggiocata Palermo, fortezza de’ Goti, e liberata tutta la Sicilia dall’enorme peso degli invasori rapaci, di cui solo Messina non trova vasi oppressa, ritornava nella città di Siracusa, dove ricevè gli onori a suoi trionfi dovuti ; e poscia si condusse in Messina con tutto l’esercito, altamente ringraziando questo popolo, per avergli tanto soccorso prestato al consequimento di quella vittoria. In questa solleone occasione sappiamo fece l’illustre capitano ristorare il tempio di S. Maria la Nuova,

 

 

(1) Il monaco di Blasi al suo solito mette in disamina se Belisario approdò in Messina: noi stiamo fermamente a quanto scrisse il dotto Maurolico, e confermano altri storici illustri e stranieri. — Maurolico Sican. hist. l. 3.—Buonf. Ist. Sic. p. 1, l. 4. — Fazel. dec. 2, lib. 5. — Procop. lib. 2, De bello Gothico.

 

 

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che salito in gran fama, oggi veneriamo consacrato alla nostra Donni Deipara (1).

 

Quindi da Messina Belisario agli ordini imperiali passava nella Calabria, e nella Puglia, e combattendo e sbaragliando dapertutto le orde de’Goti, recuperò Napoli, Doma, finalmente rese la libertà a tutta Italia.

 

In questi tempi il patriarca Benedetto avea mandato in Messina Placido figlio di Tertullo patrizio romano, e di Faustina di nobile messinese lignaggio sorella della illustre Elpi, per fondare in Messina il monastero de’ Cassinesi sulle possessioni e rendite da Tertullo lasciate a questo inclitissimo ordine. Placido infatti, seguito da Gordiano e Donato monaci, gentilmente accolto in Messina veniva a capo di erigere il nuovo monistero, al divo Giovanni Battista dedicandolo, vicino il porto dal lato settentrionale della città. Molti nobili messinesi si racchiusero in quel claustro sotto la santa di lui disciplina, ed il grido de’suoi santi prodigi da Sicilia nell’Italia dilatassi. Ma quel divino Spirito che regge la sorte dei cristiani vuole spesso esercitare la loro virtù talvolta con de’ terribili esempi. La pietà di Placido e la invitta costanza di lui vien chiamata ad esperimento ; ecco ingombrato il porto di Messina da folto numero di legni, da’ quali si scatenano 16 mila ed 800 Agareni, venuti dalla Mauritania (2); disbarcano nel porto ; i Messinesi cercano impedire il primo assalto ; ma a quelli, vien fatto a prima giunta di guadagnare le porte del monistero di Placido,

 

 

(1) Dell’antichità e delle circostanze di questo tempio saremo per ragionare in un capitolo separato dei libro presente.

 

(2) Conosceremo nelle narrazioni seguenti l’origine, e ie imprese di questi barbariche dopo di aver abbracciato la legge di Maometto furon nominati Saraceni.

 

 

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ed assalire quel pio, e la sua religiosa famiglia, tutti miseramente trascinando in prigione oscurissima. E siccome giorni prima erano venuti da Roma, Eutichio, Vittorio, e Flavia, desiderosi di vedere il fratello, subirono questi listessa infame sorte. Indi per la costanza, e per la fede giurata nel piano dell’eretto monistero tormentati a colpi di scure «.esalarono la vita. Il loro sangue sparso, e le loro sante ossa nel luogo medesimo, tuttora adoriamo, ricordandone quel martirio assistito dalla turba degli Angeli, e dalla voce ispiratrice di Dio.

 

Dopo ciò i Saraceni guidati dal loro condottiero Mamucca tentarono con grande impeto assaltare la città ; ma conoscendo infruttuosi i di loro sforzi, per essersi i cittadini posti in forte difesa, pensarono rimontare su i legni, e correre alla distruzione di Reggio. Ed a pochi passi di distanza imbattendo ne’ vortici del Faro, subirono un inaudito naufragio, onde i cittadini liberati dalla schiavitù.?? colle mani al cielo, Cristo, il loro Dio, ringraziavano,

 

Il monaco Gordiano, che solo si era sottratto al furore de’Saraceni, occultandosi sul vicino monte Oliveto, i cadaveri di quei santi martirizzati nella chiesa di S. Giovanni Battista raccolse, ed a quella scena di sangue si unirono le incessanti lacrime del popolo spettatore. 1 Messinesi intanto destinano una ambasceria al S. Padre Benedetto, per degnarsi di una seconda missione per lo ristabilimento di quel monistero. Il Patriarca vi acconsentiva, ed i monaci spediti da Roma per la pia istituzione già si prostravano sulla tomba di Placido loro fratello, e sua santa famiglia trucidata per la sua costanza nella fede. Da quest’epoca conta Messina l’ordine di S. Benedetto fonte tra noi di religione purissima, di morale e di cittadine virtù.

 

 

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Papa Vigilio dovendosi abboccare in Costantinopoli con Giustiniano imperadore giunge in Messina, ove fa qualche tempo dimora. Giustiniano frattanto, siccome dovea in Oriente difendersi dagli attacchi di Cosroe re di Persia, richiamava Belisario dall’Italia, lasciandovi in sua vece Demetrio, il quale sebben prode generale egli fosse, non poteva riuscire nè al governo, nè alla difesa, perchè Totila nuovo re dei Goti lo vinse in una battaglia presso Napoli con grande strage de’Greci. Una ugual sorte incontrò l’altro generai Massimino, che mosso dall’Epiro, mentre colla flotta accorreva alla difesa di Napoli, fiera tempesta lo assaliva, e le navi disperse andarono appunto ad approdare sui lidi ch’eran il campo de’Goti, restando in tal guisa prigioniero.

 

Totila, occupata Napoli, rivolgevasi all’acquisto di Roma, Giustiniano frattanto sentendo le replicate sconfitte che i suoi in Italia ricevevano, pensò mandarvi di nuovo Belisario, dal cui talento e valore sperava, che i Greci potessero riacquistare il perdalo, o almeno conservare quel poco, che gli restava. Ritornato in Italia Belisario, trovò gli affari nel più arduo stato. Erano troppo poche di numero le truppe bizzantine a pugnare coi grandi eserciti di Totila, che fattosi forte continuava l’assedio di Roma. Cercò dunque nella miglior guisa di resistere ai progressi dei Goti; si fermò a Durazzo, donde ricevuti denari ed armati dall’imperadore, coraggiosamente s’incamminò per il Tevere ; ma nel mentre andava già fortemente rompendo gli argini posti da Totila ad impedirne il passaggio, la notizia pervenutagli che la moglie sua era caduta prigioniera de’ Goti, lo fece retrocedere dall’impresa.

 

Svanito cosi ogni soccorso, ne più potendo i Romani resistere alla fame, alcuni soldati Isauri con funi usciti fuori per le mura, si presentano a Totila,

 

 

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ed indi di notte per Io stesso modo rientrati nella città con quattro de’più forti Goti, ruppero la porta Asinaria, d’onde Totila col suo esercito a tradimento vi entrò. Egli risparmiava a’ Romani la strage, ma non lasciava il saccheggio, e fatte diroccar tutte le muraglie della città, e abbrugiare ??i! Campidoglio, ed altre fabbriche insigni, ancor volle, seco conducendo i senatori e gli altri abitanti, mandarli esuli nella Lucania sul pensiero che i Greci avrebbero desistito dall’ impegno di possederla. Ma s’ingannò pur troppo, poichè non scorsero più di 40 giorni che Roma fu ripopolata da Belisario; il quale vi rientrò coll’esercito, e richiamandovi gli esuli in breve tratto la rese nel primiero suo stato.

 

Quindi Belisario profittando del momento propizio alle armi greche, partiva da Roma per tentare il riacquisto delle usurpate province; una tempesta lo condusse a Cotrone. Totila però intrepido anche nelle sventure, sentendo la partenza di Belisario per la Puglia, gli spinse dietro tre mila cavalli, i quali diedero a’ Greci una gran rotta. Quindi facendo dirigger la marcia a Cotrone, la notizia fece tosto risolvere Belisario ad imbarcarsi colla moglie uscita già di prigione, e con vento propizio giungevi in Sicilia, io Messina approdando (1).

 

La lontananza di Belisario apri a Totila largo campo d’ingrandirsi. Intanto il generai Greco da Messina si risolse di mandare in Costantinopoli sua moglie Antonina per domanda re dall’augusto Giustiniano soccorsi di gente e d’armi al proseguimento della guerra. Nulla però potendo questa ottenere di ciò che chiedeva il marito, fece si che Giustiniano lo richiamasse dall’Italia, come l’uomo più abile per far fronte a’ Persiani, che contro l’Oriente eran ritornati a combattere.

 

 

(1) Procopio de bel. Got. l. 4, C. 19.

 

 

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Totila veggendosi libero dal suo potente nemico, continuò le conquiste, prese Perugia ; e ritornò allo assedio di Roma, di cui si fece nuovamente padrone; trattando però con umana politica, seppe in questa seconda conquista rispettare gli abitatori di quella illustre città. Volendo intanto far cessare i mali dell’Italia, spediva a Giustiniano proposte di pace, che furono da quell’augusto respinte, poichè intieramente bramava sterminati i Goti dall’ Italia. Totila perciò si accinse vieppiù alla vendetta, e con una possente flotta si diresse alla nostra Isola, Primieramente arrivato a Reggio, vi pose l’assedio, ma fu obbligato desistere dall’impresa, essendo respinto da’ Greci comandati dal prode Termondo. Volte le sue armi verso Taranto la conquistò. Quindi fattosi superbo tornava ad attaccar la Sicilia, dove in primo luogo alzò il pensiero all’assedio di Messina, come quella città che sempre si era mantenuta libera dalla servitù de’ suoi barbari (1). Dato vigorosamente l’assalto, Totila ebbe a sperimentare Cantico valore de Mamertini, i quali non volendo arrestarsi alla difesa delle mura, armati uscirono in campagna, e dando sopra agli alloggiamenti, obbligarono il nemico alla ritirata. Governava in quel tempo la città lo stradigò Domiziolo, il quale colle cittadine armi incalzando coraggiosamente il re goto, l’obbligò ad uscir da’ confini. Totila quindi avendo fatto preda di molte piazze e castella, si volgeva ad assediar Siracusa ; dove ancor quei cittadini dimostrando non essere spenta l’antica loro virtù, lo respinsero gagliardamente.

 

Giustiniano intanto alla nuova dei grandi progressi di Totila, udendo il tentato assedio di Reggio e di Messina, non indugiò a spedire con poderoso esercito it patrizio Germano, suo parente, per riparare ai danni d’Italia.

 

 

(1) Ciacconio in vitis Pontificum dove cita Procopio.

 

 

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Prevenuto costui dalia morte, Giustiniano fu sollecito apprestare un sollecito aiuto alla Sicilia vessata dapertutto dalle scorrerie de’ Goti, e vi spediva prima Liberio con una flotta di agguerriti combattenti, e poi Artabano; il quale costrinse Totila a partir dalla Sicilia co’ suoi Goti, gli ultimi de’ quali sbaragliô felicemente e distrusse. Finalmente l’eunuco Narsete valoroso generale cesareo fu l’ultimo vincitore e distruggitore de’ Goti, che avendoli superato in battaglia, ottenne ancora la morte di Totila; le cui vesti sanguigne, e la berretta gioiellata mandò a Giustiniano per segno della vittoria. Cosi rimase affatto estinta ne l’Italia la temuta possanza de’Goti.

 

            565 — Finalmente vecchio di virtù e di gloria compiva i suoi giorni nell’età di 83 anni l’augusto Giustiniano, quello imperadore che lasciava un nome immortale presso i posteri, che ha sempre meritato le lodi demolitici, non solo per gli ottimi principi come resse l’impero, e per le tante vittorie, ma soprattutto per quelle leggi che promulgò, le quali formano il Codice Giustinianeo, eh’ è stato e sarà sempre la norma a ben regolare i popoli e i regni.

 

 

 CAPO XIV. Impero di Giustino, e di Tiberio Costantino.

 

Estinto Giustiniano, venne assunto all’ impero Giustino di lui nipote, alla quale elezione concorsero i voti de’ senatori. Forse il di lui governo sarebbe riuscito lodevole, se la moglie Sofia non fosse stata l’infausta cagione della rovina dell’impero. Le prime orme di lui vennero segnate dalla giustizia, e dalla moderazione. Il primo atto che oscurò la sua fama fu la morte apprestata a suo cugino Giustino sullo insussistente timore,

 

 

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che costui siccome era uomo di alto merito, ad aveva tutto il dritto all’imperio, poteva un giorno levargli la corona. Questi ingiusti sospetti e consigli venivano suggeriti dall’ altiera e ambiziosa sua compagna. Un altro divisamento che malamente intesero i sudditi, e che gli recò la perdita dell’Italia, fu di aver richiamato a Costantinopoli il valoroso generala Narsete, che dopo di avervi intieramente discacciate le torme de’ Goti, da 15 anni la governava con lode.

 

Ha una maggior apparenza di romanzo la storiella, che Narsete offeso ed istizzito da ingiurie lanciate dall’ augusta Sofia, avesse segretamente chiamato i Longobardi in Italia. Narsete era di animo generoso, nè pronto alla vendetta; egli poco sopravvisse al suo ritorno, nè tempo ebbe a poter ciò eseguire: altre furono le cagioni che mossero questi popoli ad invadere l’Italia. Alboino valoroso re di questa nazione dopo di aver distrutto la potenza de’ Gepidi, ed occupati i domini della Pannonia, e del Norico, insuperbito della gloria delle sue armi, rivolse le mire alla bella e fertile Italia, ch’era su i confini del suo regno. Finchè vi fu Giustiniano, e Narsete governi, egli nutri occulto nellanimo il disegno: quindi la nota indolenza del successore Giustino, e la morte del prode Narsete, che solo poteva fargli fronte, lo animarono alla conquista.

 

 

            568 — Alboino dunque sicuro quasi dell’impresa, seco menando le donne, i vecchi, i figli con immenso numero di altri barbari, Gepidi, Bulgari, Sassoni, entrava nell’ Italia. Costoro dopo le molte ottenute vittorie, sterminando per molti anni le più famose e potenti città, fondarono l’imperio loro nella Gallia Cisalpina, che da loro prese il nome di Lombardia. Mantova, Brescia, Milano, e quasi tutte le città soggiacquero alla loro forza.

 

 

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Quindi si estesero nella Emilia, e nella Toscana, e già si avvicinavano a Roma; ma questa capitale, ed altre città convicino tennero fermo. Ancor seppe sostenersi Ravenna difesa dalle poche truppe comandate da Longino Esarco dell’ Imperadore, per lo che gli assalitori stabilirono Pavia per loro Regia.

 

Frattanto Giustino starasi neghittoso in Costantinopoli, nè punto s’interessava delle perdite che faceva l’Italia : finalmente morì, e gli fu successore in Costantinopoli Tiberio Costantino III di questo nome. Alboino anco terminava ai vivi ucciso da un suo paggio. Il regno però de’ Longobardi perseverò in Italia per dugento e quattr’ anni, fintantochè non venne poi distrutto da Carlo Magno ; come a suo tempo più innanti vedremo.

 

 

            583 — Il novello imperadore Tiberio impegnato nella guerra con Cosroe re di Persia, non potè accorrere in favor dell’ Italia, schiava ed oppressa dall’intollerabile giogo di 36 Duchi Borgognoni, eh erano altrettanti tiranni. Egli dietro di aver dichiarato Augusto e suo successore il genero Maurizio, sen morì, fama lasciando di un principe di dolci costumi, le cui virtù per la voce degli scrittori ancor suonano (1).

 

 

 CAPO XV. Impero di Maurizio, di Foca, e di Eraclio.

 

Il novello augusto Maurizio, che tante prove avea dato per lo innanzi della sua virtù militare, durante il suo regno avendo dovuto difendersi da’Persiani e dagli Unni, non potè in verun modo riparare ai mali dell’ Italia ; ed invano andò per tanta impresa le armi di Childeberto re de’Franchi invocando.

 

 

(1) Paol. Diac. l. 5, c. 22. — Caruso Mem. hist. l. 1.

 

 

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            590 — Io questi tempi vide Roma sulla sede Apostolica il Pontefice Gregorio, il quale s’ impegnò ardentemente per la pace e libertà degli Italiani. Ma quando qui apparivano giorni tranquilli, aprivasi in Oriente la più lugubre scena. Maurizio tralignando da un animo liberale e generoso, siccome andò crescendo negli anni, divenne l’uomo il più avaro ; ciò fece acquistargli l’ odio generale delle armate e di tutti i popoli, frementi a liberarsi dalla sogezione di lui. I soldati sollevatisi, ponendosi a capo un basso uffiziale di nome Foca, si drizzarono a Costantinopoli gridando la perdizione a Maurizio. Era scelto novello imperadore lo stesso Foca, il quale accolto dal popolo, entrò in Costantinopoli, ed oh con quale tragedia! Maurizio è già nelle mani del nemico. Il crudele Foca fa prima ammazzare alla presenza del padre i cinque suoi Ggli maschi; indi fa morire Maurizio e Pietro di lui fratello gettandone nel mare i cadaveri ignudi.,

 

Foca dunque ascese all’impero per la via della tirannide ; e tiranno fu finchè visse, avendo ancora sagrificati i principali signori di Costantinopoli. Ma la di lui crudeltà affrettava la pena meritata. L’Egitto e l’Affrica, dove comandava Eraclio, si erano levate in armi contro di lui. Il senato invocava segretamente le forze di Eraclio, il quale con numerosa flotta giungeva a Costantinopoli. Avendo Foca fatto violenza alla moglie del nobile Fozio, questi avido di vendetta ascese al palazzo imperiale, uccise le guardie, e trascinando a forza colui, e toltogli la porpora, io condusse in presenza di Eraclio, il quale lo fece tagliare in pezzi ; e fatta apporre la di lui testa sopra una picca, ordinava condursi per la città ad allegrezza di un popolo, che l’abborriva. Il senato grato ad Eraclio della estinzione di un tal mostro, lo fece acclamare imperadore.

 

 

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 CAPO XVI. Dell’ Impero di Eraclio, e di Costantino IV.

 

Eraclio trovava nel più malagevole stato le cose dell’ impero ; imperciocchè i Persiani fattisi superbi sempre più nelle conquiste avanzavano, minacciando per fino la capitale. Vani i primi sforzi di Eraclio riuscirono per arrestare le invasioni di Cosroe re di Persia ; il quale dopo tante vittorie in Oriente, non essendovi alcun argine alle sue grandi forze, di Damasco s’impossessò; e nella Palestina anche innoltrandosi, vi prese la città di Gerusalemme. E colà dando nelle stragi e nel furore, saccheggiò i tempi, e i ricchissimi vasi e le sacre reliquie ne trasse, fra, le altre il Santo Legno della Croce. Nè qui stette, poichè crudele oltre ogni segno, ancor seco menando in Persia il patriarca Zaccaria, e un’immenso popolo prigioniero, lo vendè a’Giudei per massacrarlo : tragedia funesta che generalmente atterrì il Cristianesimo !

 

            615 — Non contento il Persiano della Palestina si affrettò ad abbattere l’Egitto, la Libia, Cartagine, per fino a Calcedone, l’impero di Oriente stringendo quasi nella sola Costantinopoli. Eraclio frattanto, sebbene da tante perdite atterrito, venne al punto di dimostrare, eh’ egli un principe imbelle non era, ma un prode capitano di eserciti: tale si addimostrò nella guerra, che per lo spazio di otto anni contro i Persiani sostenne ; i di cui vari avvenimenti fuor di argomento ci trarrebbero. Ci basta solamente far cenno, che Eraclio favorito dagli uomini, e più da Dio, in cui confidava, seppe in breve vincere il potente Cosroe re di Persia, e recuperar colle sue armi il Santo Legno della Croce. Eraclio l’impero di Oriente riprese, e tutte le province e città che da’Persiani erano state occupate.

 

 

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Solamente l’Arabia nella perfidia della ribellione rimase, essendosi di quella fatto signore Maometto falso profeta (1), che per fondare un nuovo imperio, introdusse una diabolica dottrina, la cui infame setta per gran parte del mondo propagossi.

 

Temendo Eraclio dei Maomettani divenuti potenti, la Sacrata Insegna tolse da Gerusalemme, e in Costantinopoli la trasse, Maometto quinci, l’anno 632, l’ estremo dei suoi giorni chiudeva in Arabia, dove ancor giace sepolto ; i di cui posteri il nome lasciando di Agareni, come provvedenti da serva, vollero esser chiamati Saracini da Sara. E crescendo costoro in ardire e in potenza, per lo spazio di novantaquattro anni la guerra in Oriente portarono; indi vennero nell’Italia, la nostra Sicilia assalirono; che per più di due secoli se l’ebbe a dominatori (2). I Saracini dunque fattisi padroni dell’Asia, e dell’Affrica, lungi dall’Europa non si tennero, Gerusalemme conquistarono, dove Omaro Califa giungendo, di quel sacratissimo tempio di Cristo ne Iacea una superba moschea a Maometto.

 

            641 — Eraclio frattanto afflitto per le tante sventure venne attaccato da una idropisia, che dal mondo lo tolse. Egli lasciava successori all’impero i due figli Costantino ed Eracleona, il primo nato dalla moglie Eudocia, il secondo da Martina Augusta, che in seconde nozze avea presa.

 

 

(1) Nacque Maometto da padre arabo, o come alcuni vogliono persiano, e da madre ismaelita non ignara delta legge mosaica, onde Maometto delle tradizioni della madre servendosi, aiutato dal falso Sergio monaco, la donnosa setta formò, dell’eresia di Arrio e disciplina delli Giudei mescolata.

 

(2) Sarà argomento del seguente libro la conquista dei Saracini, e la loro dominazione in Sicilia.

 

 

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Ma questa ambiziosa principessa mal soffrendo che suo figlio un compagno avesse sul trono , addettatasi col patriarca Pirro, cospirò alla vita del figliastro; e riuscendole propinargli un veleno, per questo tradimento cessava ai mondo Costantino, dopo quattro mesi, che dalla morte del padre avea di regno tenuto. Ma ben molto la principessa si deluse. Il popolo penetra glinfami disegni di Martina e di Pirro, e tumultuante dichiara imperadore Costante figlio dello assassinato Costantino. I parricidi vengono discacciati e puniti ; il patriarca Pirro, deposte le patriarcali vesti, sen fugge; Costante rimane a governar solo l’ imperio.

 

 

 CAPO XVII. Impero di Costante—Seconda incursione de’ Saracini in Sicilia.

 

Costante in mezzo a’ tumulti, in cui versava Costantinopoli per i fatti avvenuti, appena sul trono salito, ebbe a vedersi i Longobardi, che sotto Rotari loro re e condottiere a turbare l’Italia si erano mossi. Quindi i Saracini di varie province di Oriente si impadronirono; poco per ora interessandoci costoro, che non solo nell’impero ingranditisi, per fino nel regno di Persia arrivarono. Frattanto Costante poco curandosi delle perdite, solamente dilettavasi di fare il teologo, e imperversare nelleresie dei Monoteliti, che tanti danni alla religione recarono. Fu allora che il pontefice Teodoro in Roma convocò il concilio, dove Peregrino arcivescovo di Messina intervenne (1).

 

 

(1) Questi prelati di Messina, comechè primati della chiesa siciliana vestivano la porpora ad imitazione degli antichi sommi sacerdoti romani. (Piccolo de antiq. Jur. Eccl. Sic. cap. 4, pag. 94. — Sampieri Iconol. f. 95. — Gio. Pietro Villadicani — Bonfiglio Messina lib. 8, f. 118.

 

 

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            622 — Sembra che da qualche tempo la Sicilia godea pace, ma ecco uo nuovo turbine saracenico, che ad infestarla ritorna. Messina fervente di fede avea tanto coraggio acquistato, che contro i nemici della religione ogni rischio affrontava. Othmen saracino Califa di Damasco entra con numerosa armata io Sicilia, cento anni circa dopo la strage da Manioca recata; e i’avrebbe per certo conquistato, se validamente non vi si opponea la forza e il valore de’Messinesi, e il consiglio di Olimpio Esarco di Ravenna, che in difesa dell’Isola era accorso (1).

 

Cesare intanto visitava Roma. Il pontefice Vitelliano usci col clero ad incontrare Costante imperadore, il quale ne’ primi giorni del suo arrivo fingendo santità di costume, volle recarsi ne’ tempi, e colmò dapertutto di ricchi doni i santuari. Ma a momenti, prima di partirsi, dimostrò l’animo suo. Egli spogliò le chiese degli Apostoli, ed i palazzi di Roma delle cose più ricche, e delle più grandi memorie dell’antichità, involando perfino le tegole di bronzo, che ricoprivano il Panteon. In sette giorni egli portò più danno a quella sovrana città, che in gran tempo i barbari non avevanle recato. Finalmente Costante carico de’ tesori romani, e delle maledizioni di quel popolo, ritornò in Napoli, giunse a Reggio, d’onde passato lo stretto veniva in Sicilia, e in Siracusa recandosi, colà volle la sua sede fermare.

 

Veramente sembra la più felice risorsa per un paese, qualora i sovrani e la corte vi risiedono, conciosiachè a parte che una città diviene più brillante,

 

 

(1) Anastas. Bibliot. — Maurol. Sic. hist. l. 5. — Fazel. ed altri.

 

 

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un immenso numero di forestieri e di nazionali vi accorre; vieppiù in circolazione si mette il numerario, il commercio vi fiorisce. Altrimenti però ebbe la Sicilia a sperimentare ne’ cinque anni che la imperial stanza si fissò in Siracusa. Costante ne’piaceri e nelle dissolutezze immerso, nulla da Costantinopoli traendo, privo de’ mezzi al di lui grandioso mantenimento bisognevoli, cominciò a chieder prestiti, e ad imporre tributi gravissimi, cosi non solo la nostra Isola impoverendo, ma l’Italia e l’Affrica ancora. Quest’ avido principe non volle perdonarla neanco agli altari, che di tutti i tesori, e de’vasi al sacro culto destinati spogliò, maggiori e terribili esempi rinnovellando in Sicilia, di quanto di punibile avea in Roma commesso. I Siciliani dunque altamente sdegnati, liberarsi pensavano da questo tiranno, distruttore de’ loro beni e delle loro famiglie. Un certo armeno di nome Mezenzio, giovane di bello aspetto e di coraggio, che maestro delle milizie era, veggendosi generalmente amato dai Siciliani, il disegno concepì di atterrare questo mostro, e farsi del di lui capo sgabello per ascendere al trono di Sicilia. Egli di concerto col pretore Giustiniano Patrizio, e con Germano di lui figlio seppe con doni e con promesse indurre un certo Andrea, figlio di Troilo uffiziale della casa imperiale, ad eseguirne l’impresa.

 

Quindi sulla fine di Settembre dell’anno 668, mentre Costante stava nel bagno di Dafnide, dove soleva spesso trastullarsi, Andrea si fece animo percuoterlo gravemente con un secchio di acqua calda sul capo, che a morte lo trasse (1). Cosi terminava la vita di questo imperadore, il cui regno tanti gravissimi mali apportò a’sudditi, e pur tanti alla religione,

 

 

(1) Anastas. Bibliot. in Chronogr. — Paolo Diacono in Chronogr. — Teofene l. 5.

 

 

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 CAPO XVIII. Impero di Costantino Pagonato.

 

Appena ucciso Costante, venne da’congiurati esaltato Mezenzio al trono di Sicilia. Arrivata intanto in Costantinopoli la nuova della morte data all’augusto Costante, e della usurpata dignità, successo nell’impero Costantino, figlio virtuoso di padre cosi malvagio, volse le mire a riparare gli affari di Siracusa, e a trarre vendetta dell’ assassinio al suo genitore recato.

 

            669 — Radunata quanta più gente aver potè dalia Italia, Costantino venne subito a Siracusa; dovei Mezenzio rinserratosi nella città, da un lungo assedio si difese, finchè venne ucciso da quelli medesimi che lo avevano acclamato. Finalmente Siracusa si rendeva al legittimo signore, il quale puniva colla morte gli uccisori del padre, le cui teste in Costantinopoli ne mandava (1).

 

Lieto intanto dell’esito felice dell’ impresa il nuovo imperadore per la sua reggia parti, seco traendo il gradimento di tutti i Siciliani. Non era egli ancora giunto in Costantinopoli, quando i Saracini con una potente armata, alla cui testa era Mauro Settimo Califa di Damasco, tentano per la terza volta l’acquisto dell’Isola. E giunti in Siracusa dove tutto era io quiete, facile riuscì loro di sorprenderla, e saccheggiarla con molta strage di cittadini. E temendo quindi di un’armata, che contro loro in Italia si preparava, imbarcaronsi sulle navi la preda,

 

 

(1) Paol. Diac. lib. 5, c. 22. — Caruso Mem. hist. lib. 1.

 

 

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la quale fu notabile per i tesori, e per fino i bronzi che Costante avea prima a’ Romani involato (1).

 

Ma i Saracini di ciò non contenti, prima di tornarsene in Egitto amarono di far bottino nel resto della Sicilia (2). I paesi marittimi più che gli altri erano soggetti a tali incursioni. La pirateria era una solita azione di cotesti barbari; il commercio era indebolito, i Siciliani vivevano di palpito e di timore. Non ostante la sperimentata superiorità di Messina, i Saracini per trarne preda improvvisamente vi recaron l’assedio. E quantunque la trovavano ben presidiata e munita, tuttavia discesero sull’istesso luogo, dove anni prima era stato Mamuca, ed appena in terra posto il piede, uccisero molti cittadini, che per sciagura fuori delle mura trovavansi, e quindi colla forza nel monistero di S. Giovanni Battista penetrando, la seconda strage fecero della famiglia Benedettina, il di cui abate Martino fu una vittima del loro furore (3).

 

Per lo spazio quindi di sette anni durò in Oriente la guerra co’ Saracini, i quali per varie volte di prendere anche Costantinopoli tentarono, d’onde sempre furono dai valorosi Greci respinti. Finalmente l’invenzione del fuoco greco (4) i morì talmente intimorì, che lasciando ogni disegno, colle navi per l’Egitto fuggivano;

 

 

(1) Anast. Bibl. — Paol. Diac. — Il Maurolico però vuole, che Costantino si trasportò tutto in Costantinopoli. Sic. hist. lib. 1, pag. 92.

 

(2) Maurol. loc. cit. pag. 92.

 

(3) Baron. ann. 669. — Anast. Bibl. — Fazel. lib. 1. — Ferrar. Cat. Ss.— Mauro, Sampieri, ed altri molti.

 

(4) Il fuoco greco cominciò a mettersi in uso presso l’anno 678, il quale si buttava sulle navi del nemico, né potendo estinguersi coll’acqua bruciava gli uomini e le navi.

 

 

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ma una insorta tempesta parte di esse sommerse, e parte sbalzò negli scogli.

 

Una battaglia terrestre che seguiva colla perdita di 30 mila mori; la sollevazione dei Maroniti cristiani, che padroni si eran fatti del monte Libano, avendoli vinto per più volte; tutti questi disastri l’orgoglio abbassarono di Moavia Califa de’ Saracini; onde venne costretto a conchiuder pace coll’augusto di Oriente. Costantino spedi con alti poteri in Soda il patrizio Giovanni, che con quel Califa i patti più vantaggiosi all’impero stabili.

 

            685 — Non però a luogo durava la vita del Pagonato dopo di aver dichiarato augusto il di lui primogenito Giustiniano II. Egli terminò i suoi giorni, lasciando di sè il quadro di un principe liberale e virtuoso, che render seppe la pace alla chiesa.

 

 

 CAPO XIX. Impero di Giustiniano II, di Leonzio, e di Absimero.

 

 

            685 — Successe nell’impero Giustiniano II di giovane età; il quale degenere dalla condotta del padre, dandosi in preda al capriccio, con la sventura dei sudditi tutto l’ordine del governo sconvolse. Rinnovi Giustiniano la pace coi Saracini per un decennio, che suo padre avea per trent’anni stabilita, essendo principe di quella nazione Abimelec. E dopo due anni, reggendo sempre a suo mal talento gli affari, gli venne in pensiero assaltare i Bulgari, nazione tanto guerriera, i quali venuti a fatto d’armi, con tal forza lo attaccarono, che sconfitta una gran parte del di lui esercito, egli per sorte potè trovar campo di salvarsi (1).

 

 

(1) Teofane in Cronogr.

 

 

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Nè da ciò quindi scoraggito, volle romper la pace co Saracini; i quali sotto il comando di Abimelec fatti più potenti, in campagna uscirono portando ad un asta come per bandiera il trattato della pace violata, e lo fecero pentire, riducendo i cesarei a prender la fuga, ed a ritrarsi (1).

 

Giustiniano era generalmente odiato dai Greci, al che non poco contribuì la scelta ch’egli fece di avari e crudeli ministri. Il popolo non potendo più oltre soffrire una tale oppressione, si leva in armi per far sbalzare dal trono il tiranno Augusto, ed acclama Leonzio imperadore. Giustiniano preso e condotto nel circo, ebbe mozzato il naso, e per consenso universale relegato venne a Cherson a, città della Crimea. Restarono però vittima delle fiamme i due scellerati ministri Stefano e Teodato alla presenza dell’offeso popolo (2).

 

            695 — Leonzio esaltato imperadore, intento a frenare gli abusi regnar fece la tranquillità. Ma l’anno seguente vide muoversi i Saracini, che l’Affrica assalivano, e che si eran fatti padroni di Cartagine. Vi spedi perciò coll’esercito il generale Giovanni Patrizio ; il quale attaccò e seppe vincere i Saracini, facendoli intieramente sgombrare dalle città dell’Affrica, che tutte alla dominazione imperiale restituiva.

 

            698 — I Saracini non ostante con un esercito più formidabile ritornarono ad assaltare la stessa provincia; ed entrati nel porto di Cartagine, loro riuscì attaccare in angusto luogo il generale cesareo, che a sorte liberandosi andò a rifuggiarsi nell’isola di Candia. Cosi se ne fecero di nuovo padroni. Le truppe intanto comandate da Giovanni, veggendo che il loro capitano dopo quella ritirata non avea buona voglia di presentarsi in Costantinopoli,

 

 

(1) Teof. loc. cit.

(2) Teof. loc. cit

 

 

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arditamente scelsero per nuovo generale Tiberio Absimero, e lo acclamarono puranco imperadore.

 

Absimero dall’isola di Candia venne a Costantinopoli, dove entrando per tradimento di alcuni uffiziali, saccheggiò le case de’ cittadini che gli si opposero, e assicuratosi di Leonzio, il barbaro costume di quei tempi seguendo, fece il naso mozzargli, e lo confinò in un monastero della Dalmata. Quindi creava generale degli eserciti suo fratello Eraclio, il quale riportò molte vittorie sopra i Saracini nemici dell’impero.

 

Or è tempo dover ritornare a Giustiniano II esule in Chersona. Egli dopo vari inutili mezzi tentati per risorgere nel perduto impero, ricorse a Trebellio signore dei Bulgari, la protezione implorandone. Questi di buona grazia ne’ suoi domini lo accoglieva, e una forte armata gli preparava de’ suoi Bulgari, e di Schiavoni per secondargli il disegno.

 

            705 — Giustiniano dal medesimo Trebellio accompagnato, giunse a Costantinopoli, vi pose l’assedio; e per mezzo di una via sotterranea con altri dei suoi gli riuscì nella città penetrare. Appena entrato si impossessò del palazzo imperiale, e con ricchi doni si congedò dall’amico Trebellio ; il quale parti pei suoi stati, soltanto lasciandovi una forte guardia dì Bulgari per custodirlo. Poiché ebbe le redini del governo riprese, ecco rinnovellarsi in Costantinopoli e per tutto limpero i tristi esempi della crudeltà e della vendetta. Tiberio il primo, che fuggiva, venne subito preso in Apollonia, sotto una scure perì: Eraclio suo fratello insieme con tutti gli uffiziali della milizia supplizio di morte subbirono, e così tanti altri Cittadini e soldati in vari modi caddero vittime innocenti di questo mostro, avido di uman sangue.

 

            708 — Scordando quindi i benefizî da Trebellio, e da’ Bulgari ricevuti, le armi contro di costoro rivolse.

 

 

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Era egli già presso la città di Anchialo colla di lui cavalleria, quando i Bulgari scuoprendolo dalle alture, improvvisamente lo assaltarono, e lasciandone parte prigionieri e parte uccisi, occuparono il campo con farsi padroni de’ carriaggi e de’ cavalli. Giustiniano potè appena colla fuga salvarsi nella prima fortezza de’ suoi domini; dove i Bulgari incalzandolo, venne di notte costretto a partirsi per Costantinopoli.

 

Grandi furono negli anni seguenti le prepotenze e le stragi, che quest’ imperadore usò contro gli abitanti di Ravenna, la cui patria un deserto ridusse. Quindi non contento di aver fatto tanto macello nei suoi stati, le sue vendette rivolse in Chersona, dove dannati a distruzione tutti dai primi agli ultimi del paese, ordinò che neanco a’ ragazzi ed a’ vecchi si perdonasse. Questi terribili ordini, che di frequente il sanguinario Augusto emanava, fortemente sospinsero i Chersonesi, ed altri popoli soggetti a liberarsi da siffatto flagello, Armati ed unitisi a propulsazione fra di loro, in aiuto chiamarono i Cazari, acclamando per imperadore Bardane; il quale il nome prendeva di Filippico.

 

Il nuovo imperadore postosi in marcia alla testa de’ collegati, giunto alla città imperiale non trovò alcuna resistenza; ed entrandovi colla pace, spedi subito Elia generale del deposto Augusto. Venne Giustiniano raggiunto, e condotto in Costantinopoli, dove gli fu con un colpo di sciabla troncata la testa, che fatta prima spettacolo a quei cittadini, venne in Roma spedita per vendetta ancora di quel popolo offeso.

 

Durante il regno di Giustiniano, raccontasi da Anastasio Bibliotecario (1) che il pontefice Costantino dovendosi portare in Costantinopoli per cause di religione,

 

 

(1) Anastas. Bibl. in Costantin.

 

 

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da Roma venne in Messina, dove onorevolmente accolto dal popolo, festeggiossi il suo arrivo. In quale lieta circostanza Teodoro stradigò, che da Infermo l’istantanea salute ricuperava, prestò i debiti omaggi a questo sommo reggitore della Chiesa.

 

 

 CAPO XX. Impero di Filippico, di Anastasio, di Teodosio, di Leone Isaurico.

 

Filippico novello imperadore, non meno eretico Monotelita, che perfido tiranno, intento solamente ad ammassar denaro, e rotto alla libidine per fino a macchiare i chiostri sacri delle vergini, poco curava che i Bulgari Costantinopoli infestassero, e che i Saracini si fossero di già fatti padroni della Misia, e di Antiochia. Sdegnati perciò i sudditi lo vollero bentosto deporre dal potere, e fattigli cacciar gli occhi, io esilio lo mandarono.

 

Venne quindi acclamato all’impero Artemio, che il nome prese di Anastasio, valente politico, e difensore della cattolica dottrina. Questi, la cui condotta facea sperare ai popoli giorni lieti e tranquilli, la sciagura incontrò, che le milizie rivoltatesi nominarono un nuovo imperadore di nome Teodosio; il qualo colla forza entrava in Costantinopoli. Anastasio stretto agli estremi veggendosi, a risparmiare il sangue di tanti cittadini amò meglio cedere il comando; e vestito l’ abito monacale, esule se ne andò in Tessalonica, lasciando Teodosio libero possessore del trono. Quest’altro novello signore, che altro non vantava che di essere un buon cattolico, conobbe non esser le sue forze sufficienti a regger l’impero; e poichè l’anno 717 Solimano Califa de’ Saracini minacciava di assediare Costantinopoli, renunciò da se stesso la dignità,

 

 

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preferendo l’abito chiericale in una vita tranquilla. Fu allora scelto per Augusto Leone Generale, detto l’Isaurico per la sua origine. Il quale non ancora avea preso la corona, che Solimano comparve sotto le mura di Costantinopoli. Ma dopo un’ostinatissimo assedio venne obbligato a ritirarsi co’ Saracini, atterriti più dal distruttor fuoco greco, che dal coraggio di Leone, e dal valore de’ difensori.

 

            718 — Accadde intanto nella nostra Isola che Sergio protospatario, credendo sicura in mezzo a tante invasioni di barbari la perdita dell’impero di Oriente, facendo cotal timore nutrire al popolo ed a’ soldati, si animò a coronare imperadore un certo Basilio. Leone, ciò avendo saputo, spedì Paolo suo archivista in Sicilia, al cui arrivo Sergio e il posticcio Augusto si ricovrarono in Calabria presso i Longobardi. Paolo quindi assicurati i Siciliani sulla situazione felice delle greche armi contro a’ Saracini, seppe trovar modo che i Longobardi gli consegnassero i rubelli Sergio e Basilio, che la pena meritata subbirono (1).

 

Leone che sino al nono anno del suo impero avea saggiamente governato, da esperto militare che fu, l’uomo il più superstizioso divenne negli affari della religione. Egli fu quel Leone che l’infame editto promulgava, che per tutto l’impero le immagini sacre si togliessero, vietandone il culto e la venerazione. Cosi prese fuoco leresia degli Iconoclasti, che a spegnerla tutto il zelo mosse, e gli sforzi del papa Gregorio li, e de’ successori, per cui si presero ancora le armi fra il sacerdozio e l’impero. Ordinò questo ignorantissimo Augusto incendiarsi fa famosa libreria di Costantinopoli, ove il grande Teodosio avea raccolto oltre a trecento mila volumi;

 

 

(1) Teof. in Chronogr.

 

 

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e con essa fece perire nelle fiamme dodeci illustri bibliotecari, che non vollero allo infame editto prestar mano.

 

Durò per molto tempo questo ferocissimo mostro, che contro i popoli incrudelì, solo per difendere una falsa sua opinione. Egli richiamò su di sè le scomuniche de’ pontefici, i quali liberando i popoli dal giuramento di soggezzione, gli spronava ad eligersi un nuovo imperadore. Dal che avvenne, che l’Italia il giogo scosse de’Greci, ed in Ravenna fu ucciso Paolo Esarco Imperiale, e scacciato Enrico, nel quale, dopo lo spazio di 175 anni, ebbe fine l’esarcato.

 

            741 — Finalmente Leone tratto a morte da una idropisia, andò a render conto dei suoi delitti al gran Dio, lasciando al trono Costantino degnissimo figlio di tanto degno padre.

 

 

 CAPO XXI. Impero di Costantino Copronico, di Leone IV, d’Irene, e di Costantino VI.

 

Fu a Leone successore nell’ impero e nella eresia Costantino, cui il nome venne poi dato di Copronico. Quest’empio signore di bruciarsi ordinava le reliquie dei martiri, ed anco il nome di santi loro togliendo, non volle in essi alcun potere appo Iddio riconoscere. Da’ricordi de’terribili tempi, in cui visse questo fiero novatore del culto, sappiamo che vennero i popoli dai tremuoti, dalla peste ancor danneggiati, ei più terribili naturali fenomeni avvennero (1). Per Io corso di 34 anni lo scettro imperial tenendo, alla fine Copronico moriva da disperato, e da infame qual visse.

 

Leone IV, sorse a dominatore di Oriente, il potere del padre non men che la perfidia ereditando.

 

 

(1) Teodor. stud. Orat. de S. Platone. — Teofane rapportato dal Baronio.

 

 

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Egli nel terzo anno del suo governo il velo dagli occhi levandosi, si dichiarò nemico ai Cattolici, e siccome di questi facea parte la di lui moglie Irene, donna illustre ateniese, mal soffrendo che le immagini sacre ella venerasse, immantinente dalla reggia la distaccava. E quindi temerariamente tratte avendo varie gemme dalia corona di Dio nel tempio, consacrate prima dallo imperadore Maurizio, di queste Tempio suo capo volle cingere. Ma non pertanto tardava lo sdegno divino a ferirlo, e già Leone IV fra i supplizi della morte agli empi dovuta, lasciava la vita e l’ impero.

 

In questo mentre Pippino re francese era venuto in Italia contro Astolfo re dei Longobardi, oppressore allora dei papi e della chiesa ; finchè Carlo di lui figliuolo, che si meritò il cognome di Grande, il regno longobardo distrusse, dopo ch’era già durato duecento anni, e ne menò prigione in Francia il re Desiderio; dal quale tempo cominciò il nome de’ Francesi ad essere assai chiaro e temuto.

 

            787 — La pia Irene imperatrice assunse il comando di Oriente per la tutela di Costantino VI, suo figliuolo ; e durante la di lui minore età, ella siccome cattolica santamente reggendo, volle colf assistenza dei legati apostolici, che si celebrasse in Nicea di Bitinia il settimo concilio generale di 350 vescovi, fra quali Gaudioso prelato di Messina intervenne (1). L’eresia degli Iconoclasti da quella augusta assemblea condannatasi, il culto delle sacre immagini rimettendosi, venne la chiesa ai suoi riti elevata e al suo splendore.

 

Ma il giovine Costantino compito appena il vigesimo anno, la direzion della madre lasciando, vero figlio di tanto perfido padre dimostrossi.

 

 

(1) Ex tom. 5, con. gen. — Mauro Mess. Protom. cap. 20.

 

 

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Egli ogni decreto del sacro concilio abrogò ; e incrudelendo contro ai Cattolici dapertutto, fu allora che Niceta Stradi gò di Messina, siccome per difensore delle sacre immagini si addimostrò, si ebbe a meritare il trionfo del martirio (1).

 

            797 — Costantino abbandonato intieramente in balìa del capriccio, al consiglio di una savia madre quello d’infami adulatori preferendo; trovatosi egli perdutamente innamorato di Teodora cameriera dell’augusta Maria sua consorte, questa principessa ripudiò, ed obbligandola a rinserrarsi monaca in un chiostro, la sua innamorata nel talamo imperiale introdusse (2).

 

Così barbaro trattamento l’odio generale del popolo contro allo imperadore rivolse. Irene imperatrice che in vita privata era stata costretta a viver lontana dalla corte, vide avvicinarsi il momento di riprendere il governo, e del figlio, e de’di lui consiglieri vendicarsi. Ecco al suo partito un gran numero di uffiziali, di cortigiani e soldati, non che tutti i monaci di Costantinopoli, che in gran potestà allora andavano. Ecco i congiurati nel palazzo imperiale, che le mani addosso all’Augusto ponendo, in ceppi lo condussero. Quindi nella stanza del palagio dov’era nato traendolo, gli cavarono gli occhi così acerbamente, che poco mancò di non farlo morire fra i tormenti.

 

Irene dopo che al figlio e la vista e lo imperio ebbe tolto, in oscura prigione lo condannò finchè visse. Ella in assumere nuovamente il comando richiamò tutti i cattolici dall’esilio, e la quiete in tutta la chiesa di Oriente restituì.

 

 

(1) Menol. Ecc. Parac. s. Nicolai Graecorum Messanae — Mauro loc. cit.

(2) Teof. in Cronogr.

 

 

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Ma non pertanto sebbene avesse la religione e la repubblica tranquillato, di lei infastiditisi i Greci, ebbe a conoscere come la corona le vacillava. Non potendo sopra un volubile popolo aver fiducia, io fronte a molti pretensóri, che eran sorti a contenderle il trono, prudentemente Irene consigliossi spedire ambasciadori a Carlo Magno, già imperador di Occidente (1) principe potentissimo, per ristabilir pace fra Greci e Romani, offrendo a quell’Augusto la di lei mano in matrimonio: che fosse riuscito di grande utilità, perchè nuovamente in un sol capo i due imperi riuniti si sarebbero, A tanto era Carlo già per addivenire, quando i Greci, scoperto il maneggio, mai soffrendo che nelle mani di Carlo cadessero, e che ad altri dovesse darsi la corona di Oriente, il gran disegno della imperatrice Irene impedirono.

 

            802 — Fra i più fervidi aspiranti della corona fu il più sollecito a sorgere Niceforo archipatrizio ; il quale uniti a se avendo molti nobili, e gran parte del popolo, al palagio imperial si fe strada, l’imperatrice Irene vi rinserrò, e dopo averla con lusinghe indotto a manifestargli il luogo dei tesori dell’impero, impossessatosi del tutto, il velo si tolse, ed esule la mandò ad un monistero di Metellino; dove oppressa dal crude! trattamento nello breve spazio di un annò questa principessa la sua vita terminava.

 

 

(1) Carlo Magno era stato in Roma acclamato imperador di Occidente dal buon pontefice Leone, in premio dell’insigne pietà di Carlo, per averlo ricondotto in Italia, ed alla sua autorità in Roma, con vendicarlo dello iniquo tradimento, che ricevuto anzi avea dai due scellerati Rimicerio e Sacellario nipoti del morto pontefice Adriano, che l’ ardire ebbero di aggredirlo, onde in Francia venne costretto a rifuggiarsi.

 

 

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 CAPO XXII. Impero di Niceforo e di Michele Curopolato.

 

Furon presenti alla espulsione dell’ angusta Irene gli ambasciadori di Carlo Magno, che dietro l’invito di quella principessa, spediti li avea a Costantinopoli. Niceforo empio e tiranno, non meno che altiero e superbo, sulle prime non volea udirli, ma quindi della potenza di Carlo temendo, le loro istanze intese, e unendovi i suoi oratori faceali ritornare alla corte di Occidente per trattare con quel l’Augusto la pace; la quale conchiusa io condizione che ognuno ciò che possedeva ritenesse; a Costantinopoli se ne tornarono; onde la nostra Sicilia al dominio di Oriente rimase.

 

Quindi Niceforo uscito con forte armata in campagna contro Drummo re de’ Bulgari, ed a battaglia venuto, cosi notabile rotta ricevette, che insieme allo intiero suo esercito, ed a moltissimi signori greci, egli stesso vittima ne restò, e la di lui testa venne ad una lancia pubblicamente esposta per vergogna di quei pochi greci, che la vita scamparono. Cosi il regno dellodiato Niceforo fini.

 

            811 — Morto che fu Niceforo nella guerra, Michele Curopolato per le virtù di cui era adorno, venne scelto dal senato e dal popolo a successore del trono. Questo buon principe non tardi ebbe a vedersi di fronte la vittoriosa nazione de’ Bulgari, per cui mandò a stringere amicizia con Carlo Magno, il cui nome anco presso le barbare potenze veniva rispettatole Carlo non indugiò a destinare degli inviati per ossequiare il nuovo Augusto, e la pace confermargli.

 

            813 — L’anno seguente i Bulgari spedirono ambasciadori a Michele per la pace, ma a tanto non trovarono il di lui animo, qual prima, disposto. I di lui consiglieri in opinione si divisero; altri alla pace inclinavano,

 

 

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altri furon di parere utile impresa essere di far la guerra al re de’ Bulgari. Michele cesse al consiglio e alle ragioni di coloro, che non altro, che l’onor del nome greco stimando, dissero guerra, senza affatto riflettere, se armi avevano bastanti, e truppe capaci a poter vincere. Michele dunque marciò con gente più atta a fuggire che a combattere, e venuto appena alle prime azioni di battaglia con Grummo re de’ Bulgari, in un momento lasciar videsi dal fuggitivo suo esercito, ed anch’egli costretto fu di salvarsi, ritirandosi a Costantinopoli, per cui ebbe ad affidare il comando di quel resto di truppe a Leone Armeno suo generale (1). Ma Leone, sebben prode guerriero egli fosse, infedele però al suo principe da più tempo ambiva a togliergli dal capo la corona, come alla per fine gli riusciva; dapoichè egli stesso concertò prima la fuga, ed indi declamò ai soldati, che la timidezza di Michele, ch’era come un cervo, era stata la causa per cui i prodi Greci fuggirono. Seppe egli così ottenersi il favor dell’esercito, che fu sollecito ad acclamarlo per imperadore. Michele in udendo il tumulto delle soldatesche, depose ad un tratto la corona, e in un monastero rinserrandosi co’suoi figliuoli, l’abito monastico alla porpora preferiva.

 

            814 — Qui ricordo far dobbiamo della infausta morte di Carlo Magno, di quel monarca, cui più grande non havvi dalle storie celebrato (2). Ludovico Pio in udire la fine del padre, corse subito in Aquisgrana, dove solenni funerali celebrando, e infinite grazie ai popoli compartendo, la paterna volontà esegui. Ivi intanto giunsero glinviati di Leone nuovo imperador di Oriente, che diretti erano al già estinto Carlo;

 

 

(1) Teofane in Chronogr.

(2) Leggansi le azioni di questo principe presso Ouchesne tom. 2, Ner. Fran.

 

 

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onde al figlio Ludovico presentandosi, onorevolmente gli accolse, e confermando la pace fra i due imperi, spedi anch’egli degli ambasciadori a Leone, onde semprepiù l’amicizia co’ Greci rafforzare.

 

            817 — Frattanto nell’impero di Oriente Leone Armeno regnando, questo fiero nemico delle sacre immagini con grandi crudeltà rinnovato ne avea la persecuzione. Ma lira del cielo, a frenar quella ingorda sete di sangue, sopra quella iniqua testa coronata era già vicina a piombare.

 

            820 — Era stato da Leone sentenziato di morte Michele detto il Balbo, patrizio e capitano delle imperiali guardie. La vigilia del natale del Signore era il giorno appunto, in cui Balbo al supplizio trascinato veniva ; quando la imperatrice ordinò la esecuzion differirsi, perchè non le parve esser tempo di versar sangue quello in cui anche lo stesso cesare dovea prepararsi a ricevere il pane Eucaristico. Fu allora che Michele alla prigione ricondotto il favor di molti amici incontrò, i quali nel giorno stesso di Natale, io cui Leone nel tempio assisteva, congiurati lo assalirono, e lasciandolo estinto, corsero alle carceri, e fra il tumulto popolare ritrassero Michele, e coi ferri a’ piè come trovavasi, sullo imperial trono trasportandolo, lo acclamarono imperatore.

 

Dapoichè brevemente tracciato abbiamo gli avvenimenti sotto l’impero de’ principi romano-greci, a cui era la Sicilia, e la nostra Messina soggetta, sarà del seguente libro argomento come la Sicilia in poter venne dei Saracini, e dall’epoca romano-greca alla saracina passò. Frattanto gli articoli che appartengono allo Stato della nostra Messina in quest’epoca andremo secondo il nostro istituto trattando.

 

 

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 CAPO XXIII. Cittadinanza romana—Leggi— Costumi.

 

La Sicilia, considerata come l’ottava provincia dell’impero romano, da Costantino il grande sino alla invasione saracenica, si governò colle leggi patrie, con quelle della repubblica, colle costituzioni degli imperadori, colle di loro novelle ; e talune leggi riguardavano la Sicilia sola, come quella sulle appellazioni dei magistrati, da farsi non più al prefetto di Roma, ma a quello del pretorio, l’altra in cui si prescrive la menomazione dei pesi straordinari sui fondi patrimoniali ed enfiteutici di Sicilia, altra che riguardava il corso delle poste; le quali tutte sparse erano in quel corpo di dritto civile, ed al governo di Sicilia peculiarmente spettavano. Dubbio non sorge che colle medesime costituzioni Messina sotto a’ Bizantini non avesse dovuto regolarsi. Ma noi sappiamo lo importare de’ dritti quiritarî, quello de’ peregrini, quello del Lazio; quindi fuori del cittadino romano i dritti dei quiriti non si estendevano; cosicché le nozze, la patria potestà, la tutela, la fazion testamentaria attiva e passiva, l’intervento ne’ comizi Roma sola potea avere, o le città a lei confederate. Sarebbe dunque lo esame circoscritto a vedere, se Messina fosse stata città federata, e se la federazione facea partecipare anco del dritto di cittadino romano. Che la federazione facesse partecipare i dritti quiritarî è questione fra’dotti giureconsulti, nè si può desumere dalla differenza dei tutori dativi delle province, regolate colla legge Giulia e Tizia, eccettuata la Sicilia provincia federata de’ Romani, il tutore dativo de’ quali accordavasi per la legge Attilia.

 

 

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Ciò solo non basterebbe per risolvere il dubbio, nè quellaltro passo di Cicerone (1) che mostra che due furono le città federate de’ Romani, Messina cioè e Taormina, state escluse dal peso della decima: ciò non avrebbe significato il godimento assoluto di cittadino romano a’ Messinesi. Plinio (2) porta l’uguaglianza della condizione de’ Latini in Centoripe, in Alesia, e in Segesta, ed assolutamente conchiude, che i Messinesi fossero stati soli cittadini romani. Infatti a’medesimi ordini equestri appartenevano, e noi ricordiamo che la madre di S. Placido di nome Faustina, moglie di Tartullo, era anch’essa nobile messinese, e con cavaliere romano nozze contrasse, e non matrimonio, ed a quellordine equestre fu congiunta. Questa congettura, e molte autorità di cordati scrittori potrei addurre, e tanti passi sì di Cicerone, che di Lucio Floro lo stabiliscono (3) ; passando pure sotto silenzio i celebrati privilegi di Ap. Claudio, e di Q. Fabio, accordando pure per poco a’contradittori, che apocrifi fossero e inventati (4). Nè dicasi, che l’orazione di Tullio contro Verre in quelle parole ove dice: Coelebatur virgis in medio urbis Messanae interea nulla alia vox audiabatur nisi ista : civis Romanus sum. Non dicasi, che ciò voglia dire, che Messina era parte di una provincia, assimilata alla condizion de’Latini, e perciò in essa non potea giustiziarsi un cittadino romano;

 

 

(1) Cic. Orat. in Verr. orat. 8. — Federatae civitates duae sunt, quarum decuma venire non soleant Mamertina et Tauromenitana.

 

(2) Plin. lib. 3, cap. 8. A Peloro Mare Jonium Messana, Civium Romanorum, qui Mamertini vocantur.

 

(3) Cic. Orat. pro Cornel. Balbo — Paulo Manuzio in notis — Sigonio de antiq. Jur. Provinc. lib. 1, c. 3.

 

(4) Parlasi dei privilegi dei quali abbiam parlato nei cap. II e IV del lib. IV Epoca Romana, da noi rapportati nella nota infine lett. DD. EE.

 

 

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perchè è Cicerone stesso che parla dove leggiamo : Neque in uno Cornelio id fecit, nam, et Gaditanum Adsdrubalem ex bello affricano, et mamertinos obvios civitate donavit. Così in molti altri luoghi fa menzione deiraccordata cittadinanza a’Messinesi. Cosa vuol dir dunque essere cittadino romano? Non potremo supporre essere questo un mero titolo scompagnato dal fatto. Dovremo legalmente persuaderci che la parola cittadinanza romana importa più della federazione. Per quali ragioni i Messinesi gli stessi dritti de’ Quiriti godevano.

 

E lasciando questa opportuna digressione, osserviamo, che sotto gl’imperadori di Oriente, presso noi andò in osservanza il dritto romano, oltre i patri statuti: nè tampoco interrotti vennero da’Goti per quella parte d’isola che governavano, perchè Teodorico lasciò le medesime leggi che sotto gl’imperadori vigevano. Resa poi di dritto comune la nuova giurisprudenza giustinianea, divenne dritto universale il codice di questo riformatore, i di cui semi erano già stati sparsi da pretori, corregendo e supplendo le leggi delle dodici tavole.

 

I costumi dei popoli ne’ tempi in cui scriviamo dovettero, come osservano gli storici, mantenersi ugualmente a quelli che furono durante la romana republica, imperciocchè i Siciliani conservavano i medesimi usi sotto gl’imperadori romani; nè possiamo adattarci a quella opinione che doverono in un tratto cambiare per l’occasion delle guerre e delle rivoluzioni, o almeno’ sarebbe questo un mottivo a discettare ; ma in fatto di storia le notizie devono essere vere e non possibili, perchè il lettore ama venire in traccia de’ fatti.

 

 

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 CAPO XXIV. Magistrati in quest’ epoca.

 

Costantino il Grande, riunendo l’uno e l’altro imperio. dovette moltiplicare le braccia del comando, e la Sicilia apparteneva al prefetto pretorio d’Italia. Un ministro dello stesso era il correttore, assistito nell’amministrazione da’subalterni. Questo poi cambiò il nome in quello di pretore e di strategoto, che era l’ esecutore delle leggi e della giustizia. Il quale titolo da’ tempi dei bizzantini fu sempre proprio dell’ antica Messina, mentre sin da’ fatti dell’ impero di Arcadio leggiamo, che Metrodoro era stradigò, ufficio nobile e militare scelto dal seno delle più cospicue famiglie.

 

Eranvi gli amministratori della Sicilia chiamati conti, siano di provincia, siano di città. Gli amministratori de’beni patrimoniali o enfiteutici erano detti rationali summarum, perchè amministravano le rendite delle tre provincie, Sicilia, Sardegna e Corsica.

 

Il razionale delle cose private amministrava i beni di casa imperiale, e l’ uno e l’altro erano soggetti al conte delle sacre largizioni. La parola conte nascea dal latino Comes, in quanto siffatti personaggi comitavano col principe.

 

Eranvi i questori addetti alle esazioni dell’erario del principe, come a’ pagamenti militari e civili per l’ amministrazione della giustizia. Indi Giustiniano depurò più questa carica con sua costituzione (1), ordinando che le appellazioni, che prima in Roma al prefetto ed a quello del pretorio si facevano, portar si dovessero innanzi al questore nella città regia.

 

 

(1) Di Giov. Cod. Dipl. p. 91.

 

 

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Altri uffiziali compresi nei Codici di Giustiniano e dì Teodosio, chiamati i difensori delle città, intendevano all’osservanza delle leggi. Eranvi i così detti Cartolarî, cioè i custodi de’ pubblici archivi. Eranvi gli Scribani per conoscere i requisiti nella ascrizione alla milizia. Questi ed altri uffici minori a’ magistrati apparteneano.

 

 

 CAPO XXV. Agricoltura— Commercio—Zecche.

 

Sull’ agricoltura e sul commercio dell’ epoca che battiamo, è da contemplare costantemente quella stessa terra ferace, quello stesso clima che per qualunque politico cambiamento esser deve sempre fruttifero e salubre. L’esperienza insegnava, che le terre di Sicilia erano terre di oro; che due volte in un anno geminavano i semi lor frutto. I cavalieri romani avidi ed astuti, che calcolavano di non essere indegno all’ ordì ne equestre l’esercizio di pubblicani, la coltura delle terre, l’applicazione al commercio, sorgive e mezzi dell’ umana ricchezza, questo ceto callidissimo pensò di tempo in tempo conferirsi in Sicilia, e coll’ immenso numero degli schiavi coltivare le terre, e ricavarne dovizie coll’aiuto del commercio.

 

Un’ isola dove si esperimenta la ubertà di tutte le semigne, di tutte le piante, di tutti gli alberi, dovea concorrere alla speculazione dei cavalièri romani, siccome oggi vi concorre alle speculazioni nel commercio degli Inglesi e degli Oltramontani, che in vece nostra ritraggono in ogni mese tutto il profitto, ed i vantaggi che noi stessi potremmo acquistarne. Sono queste le ingiurie de tempi, l’educazione, i costumi, che arretrano il corso all’ ingrandimento di una nazione e dello stato.

 

 

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Romani dunque traeano i grani, i cereali tutti, le sete, gli olî, i vini, provvedano l’Italia, li spedivano in Oriente, e così questo soggiorno facea loro scordare V orgoglio quintario, e s’ingrandiva la di loro potenza. Il commercio era animato ed attivo. Messina, di cui celebratissimi erano i vini detti Mamertini, ne risentiva ancor utile, perchè da questo punto le merci si spedivano ; tuttocchè altri porti in Sicilia sin d’allora vi esistevano, quello di Messina fu sempre il più protetto, ed attivato dalla mercatura.

 

Il governo facilitava il commercio, lo facilitarono ancora quelli che si chiamavano barbari, i Goti istessi ; e l’avo di Teodorico scriveva a Senatore conte delle cose private, di voler proteggere le navi delle Gallie, che avean sofferto naufragio, di esimerle dalle contribuzioni. Crudelitatis enim, sono le parole de’ voluti barbari, genus est ultra naufragium, velle desevire, et illos ad dispendia eogere, quibus impeti vitam probantur immania elementa cessisse. Con pari religione Gregorio il Santo nel secolo sesto scrivea a Pietro suddiacono. Ma questi era, un santo, e la Chiesa è sempre pietosa.

 

Poche cose convien dire della Zecca. Decladiano in pareri diversi i Nummografi. Convengono tutti che le parole iniziali delle monete coniate significano il luogo, dove seguì il conio. De Blasi, invido al solito delle cose nostre, parla di differenti Zecche di diversi luoghi di Sicilia, e toglie Messina anco dalla geografia, non dico dalla storia. Ma Messina sin da’ tempi de’Greci coniò sempre monete, che esistono, e si conservane, e si vedono, e si toccano, che cadono sotto i sensi. E vano sarà sempre, e audace pur troppo il negare, che Messina conservò sempre questo uso ne’ tempi ancora della romana libertà, e sotto l’imperio de’Romano-greci. Il privilegio romano ben lo spiega nelle parole:

 

 

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Siciliae caput illic fungi potestate romana : il privilegio di Arcadio lo comprova, ed il più incontrastabile monumento abbiamo nello antichissimo edifizio della Zecca, avente sulla porta uno scudo su cui si veggono scolpite le tre torri, che le armi cittadine formavano prima della imperiale insegna della Croce di oro in campo rosso. Messina dunque ebbe la Zecca sin dagli Zanclei a’Messeni, ed ai Mamertini, e da questi ai Romani; dritto che poi sotto i Normanni Io esercitò esclusivamente a tutta la Sicilia; conservandolo sinochè le vicende politiche non ne interruppero il corso.

 

 

 CAPO XXVI. Arti—Scienze—Uomini illustri.

 

Le arti, nei tempi in cui scriviamo, non poteano tanto fiorire in Messina, imperciocchè le meccaniche erano depresse ed avvilite, ed i Romani che signoreggiavano la Sicilia si servivano dell’ estere manifatture, principio in economia eversivo di ogni nazionale ricchezza. Le arti poi liberali, che hanno un nesso coll’ umano sapere, laddove questo non si coltiva, nè tampoco possono prosperare.

 

Fra le concause del decadimento delle arti e scienze, quella si novera, che l’imperador Costantino, traslocando sua sede in Bizanzio, a far di Costantinopoli una Roma novella, ivi si trasferirono i migliori artisti. I quali sieguono sempre il lusso, che si esercita nei luoghi delle corti, dove è appunto la reggia. Nè un ottimo artista può avere mai altrove spaccio di grandi opere di meccanismo, che sono soltanto valutabili ed apprezzate nelle città capitali.

 

Inoltre l’invasione de’ Goti, il vivere in continua tema, e colle armi alla mano, facea maggiormente occupare nelle cose di guerra, si terrestri come marittime,

 

 

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la gran parte degli uomini, essendo consacrati alla milizia ed all’arte nautica, mezzi di necessaria difesa. Con ciò noi non intendiamo ch’ era obbliato il commercio, nè l’ agricoltura, che conservarono sempre il loro vigore, ma vogliamo parlare delle arti liberali e meccaniche; imperciocchè niun famoso autore di quei tempi l’ istoria ci trascrive, nè opere esistono, che ce ne possano additare sicure tracce.

 

Sappiamo che i Goti istessi, tuttoché non aveano coltura, pure, Cassiodoro riferisce, essere stato loro impegno di generalizzare in Sicilia le lettere. Ma quest’ epoca, confessano tutti, è troppo oscura in ramo di arti e di scienze per la Sicilia.

 

Fra gli uomini insigni di quest’epoca è il primo, che dagli scrittori ci si rapporta Capitone vescovo di Messina, il quale nel generai Concilio Niceno intervenne ; e delle opere contro Arrio scrisse (1).

 

Giustiniano arciscovo fu altro uomo insigne; questi appartenne a Messina, e gli toccò di reggere la nostra Chiesa, sulla fine del quarto secolo. Egli scrisse contro Pietro Graffeo vescovo di Antiochia sostenitore dell’eresia degli Eutichiani, Apollinaristi, Sabelliani. La sua lettera al Graffeo diretta vedesi nella Edizione de’Concili, in cui de’principali dogmi della fede fa pompa. Egli il santo Prelato Vescovo della Sicilia si nomina, uso antico de’Metropolitani il nome di tutta la provincia adottare (2).

 

Rammentar dovremo per la Sicilia in questa età i due Gregorj, il primo vescovo di Agrigento, ed il secondo il Pontefice, celebratissimo per noi, perchè figlio di Santa Silvia donna illustre messinese,

 

 

(1) Morab. nell’an. 306. — Reina not. Ist. f. 192.

(2) Alberto Piccolo pag. 1. — Morab. ad an. 483. — Reina Not. Ist.

 

 

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come del pari memorar dobbiamo i tre dotti Papi nati io Sicilia Sergio, Leone II. e Sant’ Agatone.

 

In questi tempi fiori pure Pietro detto il Siciliano Vescovo di Argo, San Metodio patriarca di Costantinopoli, e Teofane Siracusano celebre nelle divine ed umane scienze: possiamo asseverare che la sede della letteratura era ne’seminarî de’ vescovi, e ne’ monasteri di San Benedetto e San Basilio, imperciocchè i vescovi avendo potestà grandi da Costantino, tratti da’ monasteri ove eravi la coltura, avevano principale impegno che nel clero le scienze si conservassero.

 

Pasqualino vescovo del Lelibeo nel secolo V, celebre astrologo onorato dal pontefice San Leone occupa onore voi luogo negli scienziati : finalmente menzioneremo il celebre filosofo Porfidio.

 

Fra gli amatori delle arti belle si classificano due oratori e due poeti in questa età, il primo era messinese, detto Claudio Mamertino, di cui fanno menzione Vergerio, ed Alazio, che lo vogliono essere stato l’ inventore de’ tropi, che prima di lui nelle chiese non erano in uso, e scrisse delle Odi che ne’Menei de greci rinvengonsi, e molti anni compose. Visse nell’ età di Giuliano l’apostata, cui fece un’orazione in rendimento di grazie del consolatoci cui fu onorato (1).

 

L’altro oratore e poeta si chiamò Latino Pagato di cui altro non si ha che un panegirico, che recitò innanti Teodosio il grande.

 

Viene appo gli storici celebrata per una insigne poetessa Elpide, donna illustre messinese; e che di alto ingegno dotata, avea così bene coltivato lo spirito, che passò nel novero de’ filosofi e degli scienziati. Costei nacque in Messina da nobile prosapia :

 

 

(1) Alber. Fabr. Bibl. l. 3 p. 387.

 

 

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era sorella di Faustina moglie di Tartullo senatore romano, e prese per marito Severino Boezio insigne anche per le lettere. Da’ quali scienziati ed eruditi genitori nacquero i due figliuoli Patrizio ed Ipugio che si meritarono da Teodorico il titolo di consoli romani.

 

Di Blasi istoriografo, allorché parla di Elpide, dicendo essere stata siciliana, si ritenne, cora’è suo costume, dal pronunciarla messinese. L’aver questo scrittore con tanta fronte taciuto e negato la verità, che piò di qualunque patriottismo deve seguire uno storico, so patriottismo e non animosità pur fosse, ci fa spesso ricorrere a queste osservazioni, che non degne sarebbero dei presenti tempi e della presente civiltà. Elpide dunque fu Messinese, della quale insigne poetessa sono celebri molti Inni Sacri, che suonano per tutte le chiese cristiane (1).

 

Finalmente verso l’anno 683 per la morte di papa Agatone, Messina ebbe la sorte di vedere Leone II suo cittadino, pontefice grande per la chiesa, perito nella greca e latina favella, e nella musica. Egli nacque da Paolo nobilissimo messinese, da cui il cognome trasse f antica famiglia dei Papaleoni (2).

 

Non possiamo più trattenerci intorno a scienze, lettere, arti ed uomini illustri nell’epoca di cui trattiamo, per le poche notizie che gli scrittori ci trasmisero, e per lo decadimento che abbiamo osservato della letteratura nella Sicilia e in tutte le più grandi province dell’imperio.

 

 

(1) Sono celebri quelli composti per San Pietro, e Paolo; cioè quello che comincia: Aurea luce et decoro roseo: l’altro: Jam bone Pastor Patre clemens accipe: quello Petrus Beatus catenarum laqueos, e non pochi altri. Ragusa Bibi, vetus — Mongit. Bib. Sic.

 

(2) Intorno la famiglia de’ Papaleoni vedi infine lo nota lett. D.

 

 

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 CAPO XXVII. Lingue che si parlarono nell’ Epoca romano-greca.

 

Dubbio non sorge che sotto il governo della repubblica la greca e la latina entrambe fossero state le lingue in Sicilia usitate; la prima ch’era stata introdotta dalle greche colonie, come cennato anzi abbiamo, e la seconda dai Romani, che nel fiorente secolo di Augusto a perfezione la levarono. Il quale idioma sebbene lontano dalla finezza romana, egli è certo, che fu per cinque secoli all’incirca in Sicilia fiorente (1). Qual linguaggio dunque sotto a’ Bizzantini la Sicilia mantenne? Trasferita la metà dell’imperio in Oriente, nei Siciliani le greche usanze introducevansi, e quindi levato ad altezza il gustò della letteratura in Costantinopoli, dove i più grandi geni del mondo accorreano, se ne diramava il vantaggio alle province, conciossiacosachè la Sicilia certamente la perfezione della greca lingua acquistò. È da ritenersi dunque che nell’epoca che descriviamo, la greca lingua servì all’uso del governo, della letteratura e del commercio ; nè andremo errati credere che stata fosse in esercizio anche la latina, imperciocchè rimase la chiesa siciliana al pontefice di Roma soggetta, e perchè doveva esser comune il latinismo per tanto tempo in Sicilia invecchiato.

 

Quindi è da ricordare che invasa la Sicilia dai Vandali (2), poscia dai Greci riacquistata, i Goti nuovamente sotto Teodorico la soggiogarono (3).

 

 

(1) Aprile Cronol. Sic. f. 590.

(2) Baronio ad ann. 454.

(3) In veges Pal. sac.

 

 

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Vinti i Goti da Belisario, ritornava la Sicilia sotto lo impero di Oriente (1); conciossiacosachè colla pratica di tanta gente diversa di nazione, di usi, di favella non era possibile che costantemente il greco e il latino linguaggio nel pieno suo essere mantenuti si fossero. E sul proposito dobbiamo l’autorità di più celebratissimi autori (2) richiamare, che stabiliscono esser nata la lingua italiana dalla confusione dei linguaggi, in Italia da tante e si diverse nazioni portati; onde poi nella splendida età di Federigo cesare la nostra Sicilia di esserne stata la madre va gloriosa.

 

Che sin dal secolo ottavo sia stata già nata la lingua italiana, grandi sono le prove colle testimonianze degli scrittori anche sincroni (3);

 

 

(1) Procopio de bello goth. lib. 3.

 

(2) Bembo nelle prose lib. 1. — Speroni nel Dialogo delle lingue. — Ruscelli Comment. della ling. Ital. lib. 1, c. 8. — Giambullari Origine della lingua Fiorentina. — Minturno Poet. lib. 4. — Lancellotti Oggidì p. 2, dst. 2, f. 169. — Tassoni Pensieri diversi lib. 9, c. 15.

 

(3) Paolo Diacono autore sincrono le gesta dei Longobardi scrivendo, nel cap. 29 del libro 5, dice, che al suo tempo i Bulgari già ricevuti in Italia dal re Grimoaldo, 150 anni prima: quamquam latine loquantur linguae tamen propriae usum minime amiserunt. Di qual lingua latina avesse il Diacono parlato, lo dichiara il di lui dotto commentatore Orazio Bianco nello stesso cap. 29. Hoc est communi popularique Italico Sermone. Ma con più chiarezza lo scrisse il celebre Camillo Pellegrino nella dissertazione sul ducato Beneventano con l’autorità del Dante, del Petrarca, e del Boccaccio: Sic latinè loqui apud Dantem Aldigherium, Petrarcam, et Boccacium dicti sunt, qui haud prisca, et Latiari, sed usurpata nunc nobis Italis lingua utebantur. Otto etiam Frisigensis de gestis Federici II, capit. 13 eadem verbi usus est acceptatione, cum Longobardos Italos ob Latini sermonis elegantiam laudat.

 

 

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molta autorità fanno quei versi sopra il sepolcro di Gregorio V scolpiti nella Basilica vaticana nel 999, in cui di aver professato tre lingue si legge, fra le quali litaliana:

 

Usus Francigena, Vulgari, et voce Latina

Instituit populos eloquio triplici.

 

Fornerio attesta, che ne’ tempi di Giustiniano in Ravenna un istrumento si stipulò conceptum eo fere sermone, quo nunc vulgus Italiae utitur. Altro esempio si ha di Costantino Porfirogenito, quando incirca all’anno 910 chiamò Benevento e Venezia città nuova, ambedue parole italiane. Leggasi finalmente ciò che scrive monsignor Fontanini, nel suo trattato dell’eloquenza italiana, per stabilire che nel secolo ottavo il linguaggio italiano avea già mostrato le prime sue forme. Dalle addotte ragioni noi raccogliamo, che nell’epoca greco-romana il greco ed il romano idioma si parlò; e che nel secolo ottavo, prima della invasione saracenica, la italica lingua conoscevasi, formatasi dal greco e dal latino col miscuglio del gotico, vandalo, e co’dialetti di altre nazioni: il quale idioma ruvido in allora, e detto volgare, in appresso a quella perfezione elevossi da formare un perpetuo monumento di gloria per l’Italia.

 

 

 CAPO XXVIII. Religione.

 

L’argomento della religione nell’ epoca romano-greca ci chiama a molte distinzioni da fare. È vero che la Sicilia a questo tempo abbracciava la religione di Gesù Cristo ;

 

 

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ma non dimenticandoci che i Siciliani provvenivano da greca origine, non era perciò dell’intutto scordato il gentilesimo; e quindi fra’ cristiani medesimi erano già diffuse le sette dell’eresie. Dunque bisogna tutto distinguere e classificare.

 

            Pagani — Quantunque gl’ imperadori romani abbracciarono la religione cristiana, pure non venne impedita la libertà del culto. L’ apostata Giuliano la protesse, per essere anzi un fiero persecutore della fede; e sino al quarto secolo perdurò l’idolatria, allorchè Onorio sotto pena di morte proibì sagrificarsi a’ falsi Dei, legge che irritò parte de’ popoli, ma che di tratto in tratto andava generalizzando la religione di Cristo.

 

            Ebrei — La Sicilia era abitata ancora dagli Ebrei, e questi conservavano le loro sinagoghe, avevano i loro rabbini, e nelle più cospicue città sino a’di nostri contiamo le loro strade, e i loro quartieri; come nella nostra Messina la strada Cardines, detta altrimenti Giudeca dai Giudei, che ab antico lungh’essa abitavano. Il pontefice San Gregorio il Grande era impegnato a richiamare all’ovile di Cristo siffatta gente, contro cui fulminavano le profezie; ma gli Ebrei eran sordi alle voci del pontefice per non desistere dalla loro fervente opinione. San Gregorio, conoscendo mezzo sufficiente a convertire un ebreo l’esca facile dell’interesse, raccomandò a’vescovi, ed ordinò al suo procuratore in Sicilia, di minorare le pensioni da essi dovute alla chiesa romana, non che di menomare i censi; e difender coloro, che convertiti si fossero. All’incontro ordinò al prefetto Libertino, che punisse severamente il giudeo Rasa seduttore dei cristiani; non che si mettessero sotto la protezione della chiesa gli schiavi circoncisi, negando il prezzo con cui gli Ebrei avessero comprato un cristiano, imperciocchè ciò non permettea la romana legge.

 

 

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            Cristiani — Mostrano le cose enunciate che nella epoca di cui scriviamo per la libertà del culto esisteano i Pagani, e gli Ebrei. Ma con ciò non diremo che la religion dominante la cristiana non fosse stata. Costantino ed il conte Ruggieri furono entrambi presi dalla religione di Cristo, e per l’uno e per l’altro essa ebbe stabilità durevole nella Sicilia. Tocca per ora a parlare del primo. Le armi di Costantino furono la Croce, vinse egli con questo segno. Egli può appellarsi il distruttore dell’idolatria: fonda nel vasto imperio vescovadi, assegna rendite ai medesimi ed al clero; ecco in che è comparabile a quel Ruggiero che più innanzi conosceremo (1).

 

Messina era stata una delle prime città che avea abbracciata la fede nell’ Isola sin da’ tempi degli Apostoli, come già abbiam conosciuto. Or sappiamo che in quest’epoca i Manichei, gli Origenisti, i Pelagiani, i Donatisti, gli Ariani, gli Eutichiani, i Monoleliti, i Nestoriani, e gl’ Iconoclasti dieserò la religione cattolica, turbando la chiesa di Occidente, e di Oriente. Indi i Goti nella loro dominazione, sebbene non abbracciarono lo arianismo, tuttavia escludeano dalle cariche quei che seguivano il culto cattolico ; massima che adottavano, prima dei tempi recenti, gl’inglesi con i popoli d’Irlanda. Contro gli arianisti lottò il vescovo di Messina Capitone nel generai concilio di Nicea, onde ottenne il nome di uomo apostolico, tanto elogiato da S. Atanasio. Papa Giulio fece unire un nuovo concilio dei vescovi cattolici cogli ariani; il numero de’primi era di 300, fra’quali eranvi i nostri siciliani, ed i prelati arianisti erano ottanta.

 

 

(1) L’epoca di Ruggiero, e la dominazione dei Normanni in Sicilia forma l’argomento del libro I del volume secondo.

 

 

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L’eresie fecero maggior progresso in Italia, che nella Sicilia, San Leone contesta la parità della fede nella nostra isola; la on descrivendo al vescovo Anatolio ebbe a dire per Pasquasino vescovo siciliano: Fratrem et Coepiscopum nostrum Pasquasinum nobis probabilem virum, de securiore provincia fecimus navigare. Il romano pontefice dovette confessare, che nell’ orbe cattolico era la Sicilia la più costante nella fede di Cristo. La Sicilia, massime Messina, non obbedì mai gli empî ordini di Leone Isaurico, e di Costantino Copronico tendenti ad abbattere le immagini della Vergine, della Croce e dei Santi. Nè le minacce di costoro distolsero i nostri popoli dal culto cattolico, e dalle dottrine della chiesa.

 

Giunse il Copronico a distruggere i monasteri, a mettere alla berlina i monaci condotti nelle strade pubbliche dalle donne di malaffare. Leone IV segui l’esempio de predecessori lanciandosi contro le sacre immagini, e giunse a tale che divorziò dalla moglie Irene, perchè dessa sotto il guanciale tenea l’immagine della Vergine. Ma il di lui impero fu breve, e gli succedeva Costantino Porfirogenito ; che imbevuto della religione d’Irene restitui le immagini alla chiesa, ed assicurò il cattolicismo. Irene per abbattere l’eresia impegna il cattolico patriarca a far celebrare un concilio generale, dove stabilire ii dogma cattolico, e troncare gli errori degli Iconoclasti. Era pontefice Adriano I quando gii furono destinati il vescovo di Lentini Costantino Siciliano, ed il vescovo di Napoli Doroteo, pregandolo di conferirsi personalmente al concilio generale, il quale fu trasportato nell’adunanza di Nicea, ultimo concilio che distrusse l’eresia degli Iconoclasti, ed in cui vi intervenne il vescovo di Messina Gordiano, di cui non ne fa motto il Di-Blasi, come ha per istituto di negare a Messina ancor l’acqua ed il fuoco. In questo concilio tutti i vescovi di Sicilia furono i più costanti sostenitori del dogma.

 

 

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La Sicilia intorno a disciplina ecclesiastica conservò il rito della chiesa romana sino a’ tempi di Leone Isaurico. L’eresia di questo principe fece distaccare le chiese siciliane dal patriarca romano, assoggettandole a quello di Costantinopoli. Venne introdotto il rito greco; conferivasi il battesimo nella sollennità del l’Epifania; il quale uso durò fino all’undecimo secolo, quando liberata la Sicilia dai Normanni ritornarono le chiese ad obbedire il sommo pastore di Roma.

 

Possiamo adunque conchiudere, quando non si voglia incorrere in contradizione, che a’ tempi dell’imperio bizzantino si esercitava in Sicilia il rito greco come il latino; quantunque il secondo fosse stato di gran lunga maggiore.

 

 

 CAPO XXIX. Ordine monastico, e regolare.

 

Sin da Costantino il grande conosceansi i solitari, che staccati dal secolo menavano una vita ascedica, separati dal tumulto del mondo per vivere non alla società, ma alla religione, non al lusso ed a’ piaceri mondiali, ed alle dolcezze della vita, ma a’ tormenti, a’ rigori, a’ digiuni, ed a’ patimenti del corpo per fruire del bene solo dello spirito. Questa fu l’istituzione eremitica tratta da Santo Ilarione che venne in Sicilia, e se ne passò poi in Dalmazia.

 

Quindi gli eremiti pensarono unirsi a corpi, ed i primi che si stabilirono nell’Isola furono i seguaci di Sant’Agostino venuti dall’Affrica nell’anno 439, che abitarono le vicine campagne di Messina (1).

 

 

(1) Vedi infine la nota lett. E.

 

 

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In seguito s’introdussero i monaci dell’uno e dell’altro sesso viventi sotto le regole dei loro pii fondatoli. Le decretali di papa Gelasio I a’ vescovi di Sicilia contestano questo fatto. Quindi nel quinto secolo dell’era cristiana erano già le istituzioni monastiche introdotte in Sicilia, e rapporta il Surio in quest’epoca, che a’tempi di San Fulgenzio vi esisteva un monistero proprio del vescovo Eulalio.

 

Non entreremo nellesame, se prima l’ordine di San Basilio, o quello di San Benedetto fosse stato introdotto, concordando tutti che il primo ebbe luogo in Sicilia, e precisamente in Messina sin da’tempi antichissimi, in cui quel santo patriarca vivea; quando suo fratello San Pietro vescovo di Sebaste commesso avendo in Italia, ed in Sicilia, verso l’anno di Cristo 370, la sua regola in lingua greca propagò. Ed allora abbiamo che fu eretto il monistero di San Pantaleo, restaurato poi da Presbitero Scolaro nel 1114 (1) come l’altro diruto di Cumia, di cui fu abate San Teotisto nel secolo ottavo (2), e quello di’San Nicadro fondato verso la medesima epoca (3).

 

Dopo i romiti semplici fra i monaci, non resta oscurità istorica, che quei militanti sotto il divo Basilio fossero stati j primi introdotti in Sicilia, ed in Messina; e sarebbe anacronismo l’attribuire la precedenza a quei dell’ ordine Cassinese (4).

 

 

(1) Vedi infine la nota lett. F.

(2) Vedi infine la nota lett. G.            (3) Vedi infine la nota lett. H.

(4) Ci basta per ora solamente cennare l’origine di questi due insigni ordini. È dall’ epoca del conte Ruggieri in poi, doverci più a lungo trattenere sui progressi de’ Basiliani e Benedettini in Messina, su’ loro eretti monasteri, su i loro tempî.

 

 

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Convengono i Cronisti che il padre Benedetto, stabilita la regola in monte Cassino, poi nel 536 di Cristo, fece da Placido fondare un monistero in Messina; e questa società monastica consacrò il tempio in San Giovanni Battista; d’onde poi si diramò in altri luoghi della Sicilia (1).

 

Nello stesso secolo ascese al pontificato San Gregorio Magno figlio di Santa Silvia Siciliana, il quale fondò in Sicilia, ed in Messina vari monasteri, frai quali, al dir del Maurolicoe del Bonfiglio, fii quello detto oggi di San Gregorio, dal medesimo santo pontefice dedicato a Santa Maria Extra moenia, ed alle vergini dell’ordine di San Benedetto con ricchissima dote donato (2) : e quello parimenti di Santa Maria del Carminello (3), e quello di San Clemente allo Sperone (4).

 

Or grave disputa è sorta fra gli storici nostri circa all’ esistenza dei monisteri Gregoriani, per modo che ogni città dell’Isola levossi chi due chi tre a pretenderne. Piò vasto campo alle decladiazioni apri poi lo stabilimento della patria di Santa Sii via, madre del magno Gregorio : immagini comparse, iscrizioni, codici, manoscritti, antiche tradizioni sbucciarono fuori in un punto. Noi sopra documenti di altro genere ragionando, abbiamo tutte le ragioni a credere essere stata messinese, e non da Palermo, come gratuitamente, secondo il costume, asserisce de Blasi panormitano, che in Sicilia non fa esistere altro che la città sua. È una digressione necessaria e propria de’dotti, che Santa Silvia poteva essere messinese, o tauromenitana.

 

 

(1) Vedi infine la nota lett. I.            (2) V.v. 1 , p. 1, note p. 258, e infine la nota lett. L.

(3) Vedi infine la nota lett. M.            (4) Vedi infine la nota lett. N.

 

 

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Chiunque conosce il dritto civile romano dallo abecedario dello stesso ravvisa, che nozze i romani non poteano contrarre, se non fra ingenui e soli cittadini romani; perchè sarebbero state altrimenti vietate come indecorose. Palermo non entrò mai nella federazione, e nella cittadinanza di Roma per fruire de’ privilegi de’ cittadini romani, che altronde Messina godeva. Si persuaderà perciò chi ha sale in zucca, e conosce l’istoria, che S. Silvia, avendo sposato il senatore Giordano dell’ordine equestre, non potea appartenere ad una città provinciale, che godea il dritto de’latini, non de’quiriti; il che non ignora un semplice istituzionista di dritto civile romano.

 

 

 CAPO XXX. Martiri messinesi in questa epoca.

 

Eccoci a far breve cenno di quei santi messinesi, che la fede cristiana col loro sangue difesero. Ed il primo è che si presenta il divo Vittorio Angelica, che fu martirizzato in Sardegna, Giuliano l’apostata essendo imperadore. E sebbene non ci pervennero con chiarezza le gesta di questo guerriero di Cristo, dallo di lui epitafio ritrovato io Cagliari l’anno 1623 per cittadino messinese nominato lo veggiamo. Alla sinistra della porta maggiore del nostro grandioso duomo, sorge l’ altare di questo Santo colla sua marmorea statua, e nel tempio dei padri di San Filippo Nerio le sacre reliquie si conservano (1).

 

 

(1) Sappiamo per le antiche scritture della nostra famiglia, ch’ella riconosce una linea di parentado dal divo Vittorio Angelica, onde tuttora ne possediamo alcuni fondi, e propriamente le terre confinanti al Cenobito di S. Maria di Gesù. Da moltissimi anni i nostri autori hanno celebrato la di lui festività; e lo esimio nostro avo Placido Arena-Primo Porzio barone di Montechiaro un pietoso legato formò nel suo testamento, acciò dai successori non si mancasse in ogni tempo avvenire allo adempimento della devota cerimonia.

 

 

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Quindi sotto l’impero di Graziano ricordano gli storici il martirio di S. Orsola colle sue compagne, fra le quali leggiamo Cerasina messinese y col nome di regina di Sicilia. Questo titolo, seguendo il giudizio del Reina, e del Morabito, dobbiamo credere essere stato un contrasegno di nobiltà; imperciocchè la Sicilia, allora provincia dell’ impero, proprio re non faceva. Il corpo di questa santa matrona ritrovasi in Treves di Francia, io quel monistero di Santa Mattia; ed il capo conservasi in Messina nel tempio dei cenobi ti minori di San Francesco; dove una volta nel sito della attuai sacrestia eravi una chiesetta alla diva S. Orsola e compagne dedicata.

 

Or l’argomento ci conduce a dover nuovamente far cenno del martirio dei PP. di San Benedetto, del divo Placido e compagni, Giustiniano imperadore regnando (1). Noi non possiamo non maravigliarci come il De-Blasi, uomo sacro e politico, e che tanto la Sicilia illustrò, abbia potuto anche tacciare di apocrifa la storia di San Placido, dando al monaco Gordiano la veste di un falsario, e ciò per mettere in dubbio, al pari di ogni altra cosa di Messina, ancor questa ; al che non erano ancor giunti nè il Pirro, nè l editore dell’ Isagoge, che grandi contradittori furono delle cose di Messina.

 

 

(1) Chronic. Cassin. Leon. Hostiens lib. 1 ubi not. D. Angeli de nuce apud Murat. rer. Ital. scr. t. 4.

 

 

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Egli è sicurissimo, ed il De-Blasi non ha potuto negare, che San Placido fu in Messina nel 530, e che sin d’allora l’istituto Benedettino s’introdusse nell’Isola. Le cronache cassinosi (1), il Muratori negli annali d’Italia, e quasi tutti gli storici, parlano della missione di San Placido con Gordiano e Donato in Messina. È puranco verissimo che nello assalto che il corsale Mamuca diede a quel monistero, Gordiano per una porta segreta sfugì (2). Ed è finalmente certo che lo stesso Gordiano, dopo di aver dato sepolcro a quei santi corpi, passò in Costantinopoli allo imperador Flavio Giustiniano presentandosi, ed ivi come fedele testimonio scrisse gli atti di quei santi; i quali furono dallo stesso Giustiniano a Vigilio papa mandati, acciocché nelle biblioteche della chiesa si conservasse la memoria. Formano di ciò maggior testimonianza le parole dello imperadore nella lettera al pontefice indirizzata (3), come del pari la lettera della città di Messina a San Benedetto, quella dello stesso Gordiano al papa Vigilio, l’altra del medesimo a San Mauro (4). E finalmente l’autorità delle cronache cassinesi, e de’più veridici scrittori che la verità ne confermano.

 

Si condannino dunque, e di un velo si ricoprino quelle pagine del Di-Blasi, nella sua storia siciliana, dove lautenticità del martirio del divo Placido e compagni contende; imperciocchè, sebbene un prudente critico in materie, che lasciano da dubitare, non deve volentieri il suo assenso prestarvi; pure egli è certo che quando tutti gli scrittori in un fatto convengono, la chiesa l’approva, l’esperienza lo dimostra,

 

 

(1) Vedi addietro lib. 5, cap. XIII, p. 46.            (2) Goto Invenz. di S. Placido.

(3) Vedi infine la nota lett. O.            (4) Vedi infine la nola lett. P.

 

 

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il mettersi in dubbio da un solo i limiti oltrepassa della giusta critica ; è questo uno spirito di contraddizione, di animosità, è un allontanarsi in somma dalle vere regole, con cui scriver si debbono le storie.

 

Finalmente per chiudere queste osservazioni, dobbiamo rammemorare la seconda strage fatta della famiglia Benedettina nel 699, quando il Califa di Damasco co’suoi Saracini, assalendo il monastero di San Giovanni Battista, dopo aver ucciso non pochi cittadini, che fuori delle mura trovavansi, i monaci tutti ne mandarono a tormenti ed a morte, insieme allo abate San Martino, il cui corpo intiero si venera cogli altri martiri nel santuario di questo tempio (1). Ed ecco quanto abbiamo potuto ritrarre intorno ai santi messinesi, che in quest’epoca fiorirono, e sotto gl’imperadori, e quando già Vandali, Goti, Saracini sopra la Sicilia piombavano.

 

 

 CAPO XXXI. Intorno la storia e privilegio di Arcadio (2).

 

Sarebbe inutile in riguardo alla situazion presente di Messina sulla storia, e sul privilegio di Arcadio trattenerci. Abbastanza ne’ tempi andati il Maurolico, il Buonfiglio ed altri celebri scrittori ne hanno la verità dimostrato : tuttavia, onde ammutolire gl’ insorgenti nuovi contraddittori, noi faremo rapide riflessioni.

 

Questa storia che registrata era in un Codice pergameno antico MSS. in lingua greca, che portava il titolo Praxis fon Basileon,

 

 

(1) Ved. addietro lib. 5, cap. XVIII, pag. 61.

(2) Vedi le narrazioni nel cap. VIII del presente libro pag. 22 a. 31.

 

 

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conservatosi nella biblioteca dello antico monistero del SS. Salvadore, fu dalla greca nella latina favella tradotta d’ordine di Corrado re di Sicilia (1), intorno al 1252, da Emmanuele de Mogis e da Riccardo Fromentino ambi nel greco e nel latino idioma espertissimi. Quindi nel 1459 che fissava il secondo anno del re Giovanni, come all’ età sua osserveremo, a richiesta del senato di Messina venne sollennemente transuntata la traduzione per gli atti di notar de Florellis, alla presenza de’ giudici di Messina, e di altri sei notari che al solenne atto di transunto intervennero (2).

 

Per lunga serie di tempo questa storia nel buon credito si mantenne: quando molti impegnati critici, esaminate tutte le parole, dandone la loro sentenza per impostura la dichiararono. Fra tutti volle il primo segnalarsi l’abate Don Rocco Pirro, che scrisse:

 

Postremum addo haud insolens fuisse Lascari aliquid in Messanensium gratiam comminisci. Ipse enim fabulam dedit de Arcadii privilegio Messanensibus dato, in quo quam egregie mentiatur satis ostendunt qui illic sunt parochronismi et paradoxa.

 

Risposero in allora molti de’ nostri; onde ebbero a ceder vinti i contrarî al decreto del supremo consiglio della corte di Madrid dopo strepitosa causa, che venne a favor di Messina dichiarata (3).

 

Dopo una tale decisione che più sarebbe di aggiungere? Diremo solamente agl’ insorgenti imitatori del Pirro : haud insolens fuisse Pirro aliquid in odiam Messanensium comminisci : imperciocchè egli lo Abate attribuisce al Lascari la invenzione di questa storia,

 

 

(1) Maurolico rer. Sican. ann. 407, f. 85.

(2) Vedi l’esemplare del privilegio, e l’atto di transunto nella nota infine lett. Q.

(3) Tappia decis. vol. 2 della seconda edizione.

 

 

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il titolo dandogli di mentitore; e pure quanto il Pirro egregiamente mentisca, abbastanza lo dimostrano i parocronismi suoi e i paradossi. Lascari, come prima abbiam cennato, non venne in Messina che nel fine del 1465, quando lasciando Napoli, dove era maestro di lingua greca, l’impiego di precettore della lingua medesima ebbe in Messina nel 1467, in qual’epoca sappiamo ch’ egli fiori (1). La storia, di cui è parola, fu nel 1252 tradotta, nel 1459 transuntata, quando Lascari era in Napoli, quando nulla avea da sperare da’ Messinesi, che non avea ancor visti. Non fu dunque il Lascari che fabulam dedit de Arcadii privilegio messanensibus dato, ma fu Pirro, che ardentedi contrastare a Messina il vantato privilegio, cercò parochronismis et paradoxis di gettare il tarlo sopra il nome di un letterato, illustre per altissima erudizione, non meno che per intemerata coscienza (2),

 

Messina usa al giorno di oggi per arma la Croce di oro in campo rosso, che vanta di aver avuto in dono di Arcadio. Quest’arma l’usava ancora ne’tempi del re Giovanni, quando la greca cronica si transuntò; tale l’alzava ne’ tempi di Corrado, quando fu tradotta; tale nel 1282, quando Palermo nel Vespro Siciliano (3) sulle proprie mura accanto all’Aquile la Croce di Messina inalberò ;

 

 

(1) Vedi i documenti nella nota infine lett. R.

 

(2) Vedi le Notizie storico-critiche alla Sicilia sacra dell’ ab. Rocco Pirro, pubblicate dal P. D. Gregorio Cianciolo abate cassinese, erudito storiografo, dove con scritture autentiche e diplomatiche, da lui rinvenute, dimostra ad evidenza la verità della storia in discorso.

 

(3) Bartolomeo de Neocastro Ist. di Sic. cap. 15.

 

Così nel Vespro Siciliano i Palermitani a’ Messinesi scrissero; Illi (Panormitani) patienter audita substinent, nec annis nec verbo quidquam praesumunt, sed cruces messanenstum proximus aquilis eis ostendunt: come a suo luogo intieramente rapporteremo.

 

 

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tale era nell’ epoca del conte Ruggieri, tale era, col testimonio di Curopalata, nel decimo secolo, quando a’ Saracini con onorevoli patti di guerra si arrese (1).

 

A questo non interrotto uso delle armi si aggiunga, che allora vantavasi quel che in oggi vantiamo di esserci stata quella Croce dallo imperadore Arcadio donato. Uno incontrastabile documento sorge dalla Raccolta degli scrittori d’ Italia dello insigne Muratori (2). Prima di questa storia, ch’ è del 1060, abbiamo il monumento delle armi, e l’ autorità di Curopolata nella resa di Messina a’ Saracini; cosicchè abbiamo sino al presente dieci secoli di continuata tradizione con autorità di scrittori, e con monumenti.

 

 

(1) Giovanni Curopolata che fiorì ne’ tempi dello imperadore Isacco Comneno (Zonara Annali t. 5) cioè a dire nel XI secolo, scrisse la Storia de’ Saracini in Sicilia, e questi, secondo il Fazello ed il Maiolico, è lo scrittore più accreditato. Egli riferisce che i Saracini acquistarono Messina a patti, e fra gli altri, che liberamente potesse sopra le mura inalberare la cristiana insegna della Croce, arma propria della città.

 

(2) Muratori tom. 6 della raccolta degli scrittori di Italia, scrive nel 1060:

 

Scias enim Dux Invictissime, hanc Sacratissimam Crucem tuae Messanae vexillum esse, quod ab Arcadio Imperatore olim Tessalonicae a suis proditoribus obsesso, ejusque imperio a Messaneosibus restituto suscepit: Ab ipsomet inquam Imperatore Messana Civitas tamquam de eodem optime merita, ejusdem fuit sacratae crucis dono decorata.

 

 

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Si dirà più dunque impostura, falsità? E da quando ebbe questa impostura principio? Altro certamente non potrebbe rispondersi che nel 1200, quando si trovò quel Codice MSS. Praxiston Basileon, in cui v’era questo fatto, a lor senno, per farlo comparire antico, inserito. Ma come risponderebbero alla cennata storia del 1060? come all’ uso delle armi più antico? come all’autorità del Curopolata? E d’altronde quale il fine poteva essere perchè questo fatto inventare? L’uso forse per arma della Croce? E già prima del 1200 era in osservanza. Il godere delle immunità e preeminenze in quel privilegio descritte? E già prima assai di questo tempo Messina n’era in possesso. Per dar riparo forse alle dissenzioni? Ma queste non nacquero che dopo il giro di più secoli, nè prima del Pirro vi fu mai chi si opponesse. Non vedesi dunque qual mai poteva esservi oggetto, onde alcuno si levasse a falsificare un codice, ad ere una cronica, una storia, che tale non era.

 

San Giovan Crisostomo Patriarca di Costantinopoli, che visse ne’ tempi di Arcadio, dona lume chiarissimo di questi accidenti (1). Sino al secolo ottavo abbiamo una costante tradizione comprovata da monumenti e da scrittori di quel tempo ; non manca un lungo periodo per giungere ai tempi di Arcadio ; nè può mai una tradizione credersi esser nata nel tempo istesso che ad averne i testimoni s’incomincia. E se scrittori contemporanei, o vicini al fatto, ci mancano, ciò addiviene,

 

 

(1) San Giovan Crisostomo nella Omelia, che per errore va col nome di Eutropio, non trattandosi in essa del caso di Eutropio, come ben nota il Baronio; e sopra di ciò leggasi l’Eternità delle conversioni felici del Mazzara che con molta erudizione questo fatto delucida.

 

 

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perchè di quella epoca nessune o poche memorie si conservano per i barbari tempi che seguirono, nè avvi chi possa assicurare, che non sia stato questo celebre avvenimento scritto in alcuna di quelle opere, che per le inondazioni de’ barbari, per le devastazioni delle città, per i saccheggi, per gl’incendi si sono perdute. Nondimeno Claudiano Niceforo, Calisto, Pomponio Leto parlano delle rivoluzioni accadute ad Arcadio, dalle quali si argomenta, che non è un sogno dei Messinesi una storia, che tutte le sembianze della verità addimostra.

 

Finalmente, onde semprepiù i nostri contradittori persuadere, facciata presenti le due antichissime medaglie di Arcadio, che quanto più son mute, tanto parlano più chiaramente (1). Ecco l’imperadore avente a’piedi il principale ribello vinto da Metrodoro stradigò di Messina: quella mano in aria che sta per porre la corona sul capo di Arcadio, non usata giammai sulle medaglie di altri Cesari, altro non può spiegare che lo improvviso soccorso de’Messinesi, da’quali fu quello Augusto liberato, mentre in Tessalonica cinto di assedio stava per lasciare la vita e l’imperio.

 

Questo è quanto abbiam potuto riferire, per adempiere al nostro istituto, e per i’onor della Sicilia, perchè l’onore di una città qualunque alla gloria dell’intiera nazione ridonda; sendoci stati di guida il Muratori, il Fazello, il Maurolieo, e tutti quegli scrittori ed esteri ed italiani (2) che si son fatti a narrare questo classico avvenimento.

 

 

(1) Impresse nella Tav. XVII, Fig. 1 nel libro digli Accademici peloritani Spiegazioni delle due mazze.

 

(2) Ugone Falcando scrittore del secolo decimoterzo, tuttochè poco amico de’ Messinesi, ebbe a dire: Age nunc Messana potens, et multa Civium nobilitate prepollens, quo putas incolumitati tuae prospiciendum esse concilio.... Si vires tuas inspicias, quibus saepe Graecorum superbiam contrivisti.

 

Il Maugerio scrittore del 1400. — Jacopo d’Adria da Mazzata nel 1500. — Tommaso Fazelio da Sciacca dec. 1, lib. 2. — Girolamo Grandi siracusano scrittore del 1500 l. 3 delle Croniche. — Orlandini da Palermo nel Trapani descritto fog. 27. — Carnovale descrizione di Sicilia l. 11.

 

Carlo Tappia marchese di Belmonte nelle Dec. del Con. sup. d’Italia D. XXIII scrive: Ideo tu Messana Protometropolissis, quod latino sermone caput Magnarum Civitatum interpetratur; Princeps Urbium, et Imperatrix Regnorum sola siculis domineris. —  Gio. Batt. Castelli Pro Imm. Mess. f. 33. — Il Maurolico Sic. Ist. p. 80. — Il Buonfiglio nelle storie di Sicilia. — Samperi nella Iconologia, e nella Messina illustre. — Il Reina nelle Not. Ist. p. 2, c. 407. — Il Ferrarotto. — Il D’Angelo. — Il Cariddi. — Il Giurba.— Antonio Mirelli nello Arcadio liberato impresso in Bologna, ed altri molti.

 

 

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 CAPO XXXII. Interno l’origine e storia del duomo di Messina.

 

Svariate abbiamo avuto finora le sentenze degli storici intorno l’origine e fondazione del tempio metropolitano di Messina, salito in tanta e giusta rinomanza. L’abate Rocco Pirro valoroso scrittore dei fasti delta siciliana chiesa, e fiero nemico dei Messinesi, e qualche altro che lo seguì proclamavano questo tempio come un opera di epoca normanna. Or mentre la questione si è agirata se fosse di origine bizantina o normanna, e se Ruggiero conte o Ruggiero re fundavit o restauravit, taluni di recente, dando a questo sacro edifizio una origine più nuova,

 

 

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lo vollero come innalzato regnando il secondo Guglielmo, quando gli altri due grandiosi tempi in Monreale ed in Palermo sorgevano. Cosi poneva il signor duca di Serradifalco nella sua Descrizione del duomo di Monreale (1). Noi teneri dell’onor nazionale, lontani d’intrudere anco in fatto di letteratura e di arti quegli antichi odi, e basse ambizioncelle di municipio, tristi cause di sventure alla infelice nostra Sicilia, invitiamo il nobile scrittore delle antichità siciliane a svolgere per poco il diploma di Federigo imperadore (2) la Sicilia sacra dello stesso Pirro (3), e precipuamente le opere di Ugone Falcando scrittore contemporaneo, sulla cui fede riluce, che ai tempi del secondo Guglielmo, detto il buono, il tempio di S. Maria di Messina era compito, ed atto alle popolari ragunanze (4). Se poi colle parole innalzare sorgere tempi intendesi con senso canonico anche esprimere di un tempio restaurato, abbellito; il duomo di Messina possiamo con franca voce attestare, che a’tempi dei Guglielmi non godette di alcuna restaurazione nè di alcun melioramento (5).

 

Porteremo quindi giudicio che il tempio messinese sia stato edificato a’ tempi di Giustiniano imperadore, e forse riconosca i principi dall’età del gran Costantino,

 

 

(1) Ragionamento 1, foglio 16.

 

(2) Diploma, con cui concedesi alla chiesa di Messina la terra di Calatabiano: Ut labor tuus (parla con l’arcivescovo Berzio) in retributionem Eccl. tuae transeat pro remdemptiono magnifici regis Rogerii avi nostri, qui ad laudem et gloriam Salvatoris Messanensem Ecclesiam propriis sumptibus cum multa devotione fundavit. (Pirro Not. Eccl. Mess. f. 330).

 

(3) Notizie della chiesa di Messina fog. 330.

(4) Ugone Falcando Hist. Sic. fog. 173.

(5) Vedi infine la nota lett. S.

 

 

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quando l’impero della Croce per tutte le romane province consolida vasi. Dobbiamo però convenire che dopo le destruzioni dei barbari venne questo tempio restaurato e a sontuose forme ridotto dalla pietà dei guerrieri normanni ; che scosso il giogo saracenico diedero alla nostra Sicilia e costituzioni e culto e costumi t e a novella vita i rovinati tempi e i monisteri recando, abbadie e vescovadi istituendo, di altissima aurea luce fecero la siciliana chiesa risplendere.

 

Il Pirro dunque poggiava i motivi della sua opinione sul rammentato diploma di Federigo imperadore, astutamente notando con asterisco sul margine: Templum messanense a Rogerio fundatum — volendo così manifestare che primo e solo fondatore il re Ruggiero ne sia stato. Ma quanto avesse ciò del falso e dello immaginario viene ad evidenza chiarito dalla ineluttabile verità, che regnando Guglielmo II il buono, il tempio di S. Maria la Nuova era compiuto. Una lettera di questo re; ci rapporta Ugone Falcando, che al popolo messinese dovea leggersi, per cui ordinava lo stradigò, che ogni cittadino nella chiesa nuova si convenisse (1). Ora tra il regno di Ruggiero re, e Guglielmo non vi scorsero per mezzo che 37 anni, e supposto che Ruggiero ne avesse dato il principio, non potevasi certamente in così breve spazio di tempo dalle fondamenta recarsi al suo termine il grandioso edifizio di sì magnifico duomo.

 

Non resterà più da contraddire, quando colle stesse parole del Pirro noi proveremo quanto falsamente abbia egli asserito :

 

 

(1) Ugone Falcando Hist. Sic. — Has literas recipiens strategotus jussit ad Ecclesiam novam populum convenire (Santa Maria la Nuova era allora detta la Chiesa) ut eas faceret coram universis civibus recitari.

 

 

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Templum a Rogerio fundatum. Guglielmo arcivescovo di Messina io un rescritto del 1123 proclamava, che il Conte Ruggiero e la di lui moglie Adelasia la chiesa di S. Maria ristorarono da vilissima stalla, chè tale i Saracini avean ridotto. Così scrisse il prelato Guglielmo nell’anno 18 di Ruggiero II, o sia in tempo di quel medesimo re, che a creder di Pirro avea quella chiesa edificato. Questo rescritto rapportato dallo stesso Pirro (1) gli avrebbe dovuto far riflettere che un vescovo, non facevasi ardito vivente il fondatore di una grand’opera, e fondatore re, a manifestare di essere stato altri prima il fondatore o il ristoratore, quando n’erano ancor recenti le memorie, e forse ne viveano gli artefici. Nè qui l’abate trovò nota, nè asterisco di poter intrudere per distinguersi di essere stato Ruggiero conte il restauratore dei tempio; nè vi fu margine, onde il tempo se ne potesse segnare. Se dunque il padre conte ristorò la chiesa, non vi sarà certo più luogo ad asserire che il figlio ne sia stato il fondatore; nè alcuna ragione vi sarà più a scrivere, che regnando il secondo Guglielmo, come in Monreale, ed in Palermo, in Messina la cattedrale innalzavasi.

 

Conosciutosi, che il normanno conte Ruggiero fu il ristoratore dell’edifizio, forti motivi ci conducono a credere che la sua fondazione era stata pria del 817, quando la Sicilia alla invasion saracenesca soggiaceva. Impegnati i Messinesi a difendere col sangue la lor patria dalle prime aggressioni degli Arabi, non potevano allora certamente ideare la formazione di un gran tempio;

 

 

(1) Pirro Not. Eccl. Messan. f. 303, t. 1. — Ecclesiam Santae Mariae quam gloriosus Comes Rugerius, atque gloriosa Domina Adelasia Comitissa Siciliae et Calabriae de vilissimo stabulo restauraverunt.

 

 

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quindi colla intiera isola avendo do voto piegar la fronte al vincitore, sebbene avessero avuto per patti della resa concesso il tollerantismo del culto, non avrebbero certamente aspirato allo innalzamento di una chiesa di Cristo in faccia alla dominante legge del Corano. Quindi dovendo noi credere ciò che gli storici riferiscono, che negli ultimi anni della dominazione degli Arabi sia stato quel sacro luogo profanato, e in vece degl’ inni di Dio risonò de’ nitriti dei cavalli dobbiam convenire che il tempio prima dell’arabesco imperio esisteva.

 

Percorrendo adunque i tempi che i Saracini precessero, noi non troviamo tempo più opportuno e proporzionato, onde il disegno di un cosi grande edifizio eseguirsi, che negli anni di Belisario, quando scacciati i Goti dalla Sicilia e dall’Italia, la chiesa di Dio ebbe pace, Giustiniano imperadore in Oriente regnando.

 

Poggiarono gli storici questa opinione sopra alcune monete di oro, che in un Iato di quel duomo si rinvennero, mentre dovendosi erigere un altro campanile dirimpetto al primo esistente, le antiche fondamenta si disfacevano. Ma con più savio pensamento una più alta origine possono le scoperte medaglie indicare. I campanili sono l’ultima parte del fabbricamento dei tempi; inoltre le monete furono rinvenute nelle pietre della seconda torre, in modo che dobbiamo tenere anco in conto tutto quel tempo che bisognò per la costruzion della prima, e dedurre un altro secolo almeno che dal rinvenimento delle medaglie precesse.

 

Tutte le cose dette raccogliendo, chiaro risulta, che il cominciamento del duomo messinese va a coincidere coi tempi di Costantino il grande, o almeco con quelli di Arcadio, quando ebbe culto la Croce; e che poi di tempo in tempo fabbricandosi, sotto l’imperio di Giustiniano al suo fine si condusse.

 

 

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Indi da’ Saracini sfregiato, e in parte mandato a rovine, venne dal Normanno restaurato, abbellito, e nei tempi posteriori dal messinese municipio ridotto a quella splendidezza che si vede.

 

Sussequentemente nel luogo opportuno ci occuperemo della descrizione di questa basilica, la quale andò in tanta celebrità per la voce dei papi del Vaticano, e degli scrittori più insigni e imparziali (1) che forma di presente uno dei più grandi monumenti dell’antichità, e si contempla in Italia come un nobile avanzo della siciliana grandezza.

 

 

(1) Il pontefice Giulio III chiamò questa basilica: Insignis et sumptuosissimis Edificiis constructa: Urbano VIII: Insignis structurae: Francesco Aparo: Toto orbe celeberrimum: Il Fazello nella Dec. 1 del libro 1: Cuique Italicae non temere comparandum.

 

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