Giustizia signorile e potere regio nel regno normanno

 

Sandro Carocci

 

 

Puer Apuliae. Mélanges offerts à Jean-Marie Martin, éd. E. Cuozzo, V. Déroche, A. Peters-Custot et V. Prigent, vol. 1, 123-137

(Centre de recherche d’histoire et civilisation de Byzance, Monographies 30), Paris 2008

 

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In queste pagine riprendo una notazione di Jean-Marie Martin fino ad ora trascurata dalla storiografia. La questione è tecnica, ma di forte rilievo per una corretta valutazione del rapporto fra la monarchia e la grande nobiltà in Italia meridionale durante l’età normanna. Riguarda le competenze giudiziarie dei conti e dell’alta nobiltà signorile.

 

In un passo della sua thèse sulla Puglia, Jean-Marie Martin osservava nel 1993 che, contrariamente a quanto sostenuto da «les spécialistes», l’esercizio di prerogative di alta giustizia da parte dei conti durante il regno di Ruggero II e dei suoi successori gli sembrava «mal assuré et, à vrai dire, peu probable» [1]. A questa dichiarazione, seguiva una argomentazione di poche righe, basata su tre elementi: la limitazione ai soli casi dei conti di Molise e Loritello delle attestazioni certe di un conte con funzioni di giustiziere; la difficoltà di immaginare che i conti estendessero i loro poteri di giustiziere anche all’esterno della loro contea, nelle terre demaniali; infine, l’ostacolo che contee autonome dal punto di vista giudiziario avrebbero posto, creando innumerevoli aree esenti, alla costituzione di quel regolare tessuto di province realizzato dai re normanni proprio sulla base della giustizia (giustizierati).

 

La notazione, forse a causa della rapidità e del carattere ipotetico, è passata sotto silenzio. Eppure contrasta con una tradizione di studi importante e, per il momento, egemone. Martin vi accenna con il generico riferimento a «les spécialistes » e il rinvio alla prima ricerca di Evelyn Jamison. Singolare figura di studiosa, dedita per un settantennio ad indagare l’amministrazione del regno normanno e la sua nobiltà [2], nel 1913 la Jamison, in una pionieristica ricerca sulle regioni continentali del Regno (Calabria esclusa), aveva concluso che sotto Ruggero II, Guglielmo I e Guglielmo II i conti esercitavano

 

 

1. J.-M. Martin, La Pouille du VIe au XIIIe siècle, Roma 1993 (CÉFR, 179), p. 799.

2. Interessanti ma brevi le note biografiche di D. Clementi e T. Kölzer, Foreword, in E. Jamison, Studies on the History of Medieval Sicily and South Italy, Aalen 1992, p. V-IX.

 

 

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«rights of criminal jurisdiction (...) comparable to that of the royal justiciars» [3]. In ricerche successive, sostenne che la carica di giustiziere «was annexed to the dignity of count» [4].

 

Con sfumature diverse, da almeno due generazioni questa posizione domina gli studi sulla giustizia meridionale. Già nel 1910 una posizione analoga a quella della Jamison era comparsa nella sapiente monografìa di Hans Niese su Die Gesetzgebung der normannischen Dynastie [5]. In seguito è stata ripresa da tutti i maggiori studi sulla feudalità e lo stato normanno. Nel limpido volumetto su Le régime féodal de l’Italie normande, pubblicato nel 1940 dal grande orientalista Claude Cahen, il diritto di giudicare le maggiori cause criminali venne considerato come tipico dei conti, e talvolta detenuto anche dai feudatari di minore livello [6]. Nel trattato di Mario Caravaie, Il Regno normanno di Sicilia, che ad oltre un quarantennio dalla pubblicazione resta l’indagine più sistematica sugli ordinamenti provinciali dello stato normanno, i diritti di alta giustizia dei conti sono oggetto di una lunga analisi, che nei decenni successivi lo stesso autore ha riproposto in fortunate sintesi [7]. Un intero capitolo è dedicato a La giustizia del conte nel libro pubblicato nel 1989 da Errico Cuozzo, la principale ricerca sul sistema militare del regno meridionale [8]. In seguito, il possesso di facoltà di alta giustizia da parte dei conti, e in alcuni casi anche di altri «grandi signori» [9], è stato sostenuto in numerose occasioni, anche in sintesi di grande rilievo, come quella di Donald Matthew [10], o in ricerche innovative, come il libro di Igor Mineo sulle aristocrazie siciliane [11].

 

Tutti questi autori, in realtà, hanno ribaltato un paradigma anteriore, che era stato dominante per secoli, dalla fine del Cinquecento in poi. Questa antica interpretazione muoveva dal riconoscimento della forte presa esercitata dai re normanni sulla nobiltà signorile e negava ai conti l’esercizio della piena giurisdizione criminale. Questa fu la posizione dapprima dei giuristi cinque-seicenteschi [12], poi degli scrittori del XVIII secolo e

 

 

3. E. Jamison, The Norman Administration of Apulia and Capua, more especially under Roger II and William I, 1127-1166, Papers ofthe British School at Rome 6, 1913, p. 211-481 (poi pubblicato in volume, con il medesimo titolo: Aalen 1987), a p. 333-335.

4. E. Jamison, The Administration of the County of Molise in the Twelfth and Thirteenth Centuries, The English Historical Review 44, 1929, p. 529-559, a p. 544-545, e 45, 1930, p. 1-34 (rist. in Ead., Studies on the History [cit. n. 2], p. 1-65).

5. H. Niese, Die Gesetzgebung der normannischen Dynastie im regnum Siciliae, Halle a. S. 1910, p. 171- 172.

6. C. Cahen, Le régime féodal de l’Italie normande, Parigi 1940, p. 112-113.

7. M. Caratale, Il Regno normanno di Sicilia, Milano 1966 (Ius nostrum, 10), p. 297-324; Id., Ordinamenti giuridici dell’Europa medievale, Bologna 1994, p. 357-361.

8. E. Cuozzo, «Quei maledetti Normanni». Cavalieri e organizzazione militare nel Mezzogiorno normanno, Napoli 1989 (L’Altra Europa, 4).

9. D. Matthew, I normanni in Italia, Roma-Bari 1997 (Storia e società Laterza) [ed. orig. Cambridge 1992], p. 204.

10. Ad es. Matthew, I normanni (cit. n. 9), p. 166, 204-205, 304-306.

11. E. I. Mineo, Nobiltà di stato. Famiglie e identità aristocratiche nel tardo medioevo. La Sicilia, Roma 2001 (Saggi Donzelli di Storia e scienze sociali), p. 13.

12. Ad es. M. Freccia, De Sub-feudis Baronum et Investituris Feudorum, Napoli 1554, p. 209v-210v; G.F. Capobianco, Tractatus de iure et officio baronum erga vassallos, burgenses..., Napoli 1622, p. 69.

 

 

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di età napoleonica ostili ai poteri feudali [13]. Alcuni giunsero anzi a sostenere che ai tribunali signorili era sottratta ogni competenza criminale, anche per i reati di minore conto [14]. In base all’analisi della legislazione dei re normanni e, soprattutto, di Federico II, anche la storiografia giuridica della seconda metà del XIX secolo accettò la totale riserva dell’alta giustizia ai tribunali del sovrano e dei suoi giustizieri [15]. E questa visione della giustizia in età normanna proseguì presso gli storici del diritto della prima metà del secolo scorso, interessati peraltro soprattutto al periodo svevo e angioino [16].

 

Per alcuni decenni, dal 1910 fino al 1950 circa, hanno così convissuto, senza intraprendere un’esplicita discussione, sia questo filone più giuridico e per così dire negazionista, circoscritto all’esame delle prescrizioni del legislatore, sia l’impostazione che trovava nella Jamison il principale esponente, e che privilegiava invece donazioni, carte di giudicato e altri atti della pratica. Dal secondo dopoguerra, questa posizione è infine prevalsa.

 

In modo implicito, Jean-Marie Martin propone dunque di ritornare su un’interpretazione antica: ma solo al patto di ampliarne la base documentaria ben oltre le fonti legislative al centro delle vecchie analisi storico-giuridiche. Riprendendo la sua suggestione, in questo intervento analizzerò le donazioni, le concessioni signorili, le pattuizioni e ogni altra fonte relativa all’esercizio della giustizia criminale. Più di un elemento, come vedremo, giustifica questo tentativo.

 

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I poteri di giustizia dei conti e di tutti i signori del meridione trovavano il limite che appare ai nostri occhi più evidente, e che è stato di gran lunga privilegiato dalla storiografia, nell’intervento della monarchia. La giustizia, del resto, era un elemento centrale della costruzione statuale normanna. I re riconoscevano alla giustizia un ruolo fondante da un lato nella definizione ideologica della propria sovranità, dall’altro nel concreto controllo di territori e società locali.

 

Al livello ideologico, la legislazione di Ruggero II e dei successori mostra sia l’operare di definizioni della sovranità di ispirazione giustinianea (e bizantina), per l’epoca in Occidente relativamente nuove, sia la presenza della tradizionale visione ecclesiastica. Fra gli elementi di (parziale) novità, spiccano l’assoluta superiorità del potere regio, la sua irresponsabilità rispetto ai sudditi, l’intangibilità delle res regales, la stessa formidabile esaltazione della maestà sovrana.

 

 

13. Mi limito a rinviare a P. Giannone, Historia civile del Regno di Napoli, Napoli 1770, p. 307; C. Pecchia, Storia civile e politica del Regno di Napoli, Napoli 1777-1783, II, p. 233-235.

14. R. Gregorio, Considerazioni sopra la storia della Sicilia, Palermo 1831 (la prima edizione è del 1805), p. 483-491.

15. N. Santamaria, I Feudi, il diritto feudale e la loro storia nell’Italia meridionale, Napoli 1881, p. 293; sui sovrani normanni, si noti peraltro la posizione generica, ma più cauta, di un testo di larga diffusione come A. Pertile, Storia del diritto italiano, Torino 1896-1903, II/1, p. 354-356.

16. Rinvio solo a R. Pescione, Corti di Giustizia nell’Italia meridionale, dal periodo normanno all’epoca moderna, Milano-Roma-Napoli 1924, p. 345-348; A. Caruso, I diritti e le prerogative dei feudatari nel Regno di Sicilia durante il periodo svevo, Archivio storico per le Provincie Napoletane 69, 1944-1946, p. 85- 94, a p. 90-93, e 71, 1950, p. 87-111; R. Moscati, Ricerche e documenti sulla feudalità napoletana nel periodo angioino, Archivio storico per le Provincie Napoletane 20, 1934, p. 224-256, ap. 224-229, e 22, 1936, p. 1-15.

 

 

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Questi attributi della maestà regale, che già caratterizzavano le Assise di Ariano, conobbero con Guglielmo II un’ulteriore accentuazione, connessa alla retorica della gloria e della virtù del re allora sviluppata dalla cancelleria regia. A fianco di queste concezioni innovative, le proclamazioni ideologiche contenute nelle arenghe dei documenti di Ruggero II e del figlio, e ribadite nello stesso proemio delle Assise, insistevano su un elemento tradizionale: quella giustificazione ministeriale del potere regio che appunto accordava alla giustizia il massimo rilievo. Riprendendo la funzione del potere nel pensiero cristiano, presentavano il re come strumento della volontà divina destinato a garantire la giustizia, e di conseguenza la pace e la tutela delle chiese [17].

 

Le affermazioni ideologiche, in questo caso, avevano fondamenta concrete. Nell’effettivo esercizio del potere regio sul territorio, la storiografia ha da tempo accertato la centralità della giustizia. Già durante la guerra di conquista del meridione peninsulare, e poi in modo più sistematico proprio dalla definitiva vittoria nel 1140, Ruggero II aveva creato strutture locali di giustizia, imperniate sui giustizieri, e in un secondo tempo anche sui camerari provinciali, con giurisdizione soprattutto sulle cause fiscali. I poteri di questi ufficiali e l’effettiva capacità di imporre il rispetto delle loro decisioni appaiono talvolta ridotti da resistenze locali; ma, nel complesso, giustizieri e camerari risultano operare con crescente efficacia.

 

Gli uffici di giustiziere e, in minor misura, di camerario sono stati ripetutamente indagati [18]. Molti punti restano oscuri [19], ma ormai le ricerche hanno sorpassato la tendenza, a lungo prevalente, ad immaginare strutture amministrative dotate di chiare competenze, di ambiti territoriali definiti e di precisi rapporti gerarchici, riuscendo a valorizzare l’evoluzione cronologica,

 

 

17. Il riferimento principale resta P. Delogu, Idee sulla regalità: l’eredità normanna, in Potere, società e popolo tra età normanna ed età sveva (1189-1210), Atti delle quinte Giornate normanno-sveve (Bari-Conversano, 26-28 ottobre 1981), Bari 1983 (Atti dell’università degli studi di Bari. Centro di studi normanno-svevi, 5), p. 185-214; bilanci storiografici in C. D. Fonseca, Ruggero II e la storiografia del potere, in Società, potere e popolo nell’età di Ruggero II. Atti delle terze Giornate normanno-sveve (Bari, 23-25 maggio 1977), Bari 1979 (Atti dell’università degli studi di Bari. Centro di studi normanno-svevi, 3), p. 9-26, e H. Houben, Ruggero II di Sicilia. Un sovrano fra Oriente e Occidente, trad. it., Roma-Bari 1999 (Fonti e studi del Centro europeo di studi normanni, 8) [Darmstadt 1997], p. 3 ss e 126 ss.

 

18. Fra le numerose ricerche sui giustizieri e camerari provinciali, restano fondamentali Jamison, The Norman Administration (cit. n. 3), e Caravale, Il Regno normanno (cit. n. 7), in partie, p. 219-283, nonché il più recente H. Takayama, The Administration of the Norman Kingdom of Sicily, Leida - New York - Colonia 1993 (The Medieval Mediterranean, Peoples, Economies and Cultures, 400-1500, 3). Sulla giustizia, altre analisi importanti sono di J.-M. Martin, Legislazione regia, consuetudini locali, procedura: l’alta giustizia in «Apulia» e Terra di Lavoro nel XII secolo, in O. Zecchino ed., Alle origini del costituzionalismo europeo. Le Assise di Ariano. 1140-1990, Roma - Bari 1996 (Fonti e Studi del Centro europeo di studi normanni, 1), p. 127-151, e M. Caravale, Giustizia e legislazione nelle Assise di Ariano, ibid., p. 3-20. Per i cambiamenti nelle strutture di amministrazione del Regno fra 1190 e 1220, cfr. M. Caravale, Le istituzioni del regno di Sicilia tra l’età normanna e l’età sveva, in Il Lazio meridionale tra Papato e Impero al tempo di Enrico VI. Atti del Convegno internazionale (Fiuggi Guarcino Montecassino, 7-10 giugno 1986), Roma 1991 (Pubblicazioni degli Archivi di Stato. Saggi, 16), p. 67-114; e (su posizioni diverse) J.-M. Martin, L’administration du Royaume entre Normands et Souabes, in T. Kölzer ed., Die Staufer im Süden. Sizilien und das Reich, Sigmaringen 1996, p. 113-140.

 

19. Insiste sul bisogno di ulteriori indagini Matthew, I normanni (cit. n. 9), p. 311-312.

 

 

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la varietà delle situazioni locali e la stessa personalità di alcuni ufficiali [20]. Senza tornare a descrivere la struttura di questi uffici, la loro evoluzione e le questioni ancora aperte, mi limiterò a ricordare che competenza dei giustizieri erano, in primo luogo, tutti i reati che minacciavano la pace del regno e l’autorità del sovrano.

 

L’elenco presente nelle Assise di Ariano [21] riservava ai giustizieri, senza proporre nessuna gerarchia di importanza, il giudizio tramite duelli e altre ordalie [22], e quello di rapine, furti, brigantaggio di strada, violenze carnali, omicidi, false denuncie, incendi, e, genericamente, di tutti i reati per i quali il condannato e i suoi beni finivano alla mercè della curia regia (fonti successive parlano dei reati punibili con la pena di morte o la mutilatio membrorum) [23]. Un’altra lista, del 1153, e poi in età sveva la stessa costituzione federiciana che riprendeva l’antica assisa, aggiunsero la distruzione furtiva di vigne e alberi da frutto (peraltro già punita in una assisa ruggeriana) [24], e indicarono anche il valore minimo dei furti di competenza dei giustizieri (cinque romanati nel 1153, poi venti augustali) [25].

 

La funzione di giustiziere, peraltro, comportava ampia possibilità di intervento in ogni questione, anche civile. Anzi, tutti i documenti superstiti sull’attività delle corti dei giustizieri riguardano contenziosi civili,

 

 

20. Si vedano in particolare le conclusioni di Takayama, The Administration (cit. n. 18), p. 162-167: «chronological changes were great enough to invalidate any generalization about the Norman administrative system»; «it was common for high officials to hold more than one office concurrently, which caused a problem in defìning the duties and functions of offices»; «the power and authority of offices were greatly affected by personal character of the individuals who held the offices».

21. Le Assise di Ariano. Testo critico, traduzione e note, ed. O. Zecchino, Cava dei Tirreni 1984, p. 96 (cass. 36): Sancimus ut latrocinia,fracture domorum, insultus viarum, vis mulieribus illata, duella, homicidia, legesparabiles, calumpnie criminum, incendia, forisfacte omnes, de quibus quilibet de corpore et rebus suis mercedi curie debeat subiacere, a iustitiariis iudicentur, clamoribus supradictorum baiulis depositis, cetera vero a baiulis poterunt definiri.

22. Così interpreto la presenza di duella e leges parabiles fra quanto veniva riservato al giudizio dei giustizieri (cfr. n. 21); peraltro una interpretazione alternativa, meno probabile, potrebbe essere la riserva ai giustizieri di perseguire quanti senza autorizzazione avessero imposto un’ordalia. Per il mutato atteggiamento di Federico II in materia, rinvio solo a Die Konstitutionen Friedrichs II. fur das Königreich Sizilien, ed. W. Stürner, Hannover 1996 (MGH, Constitutiones et acta publica imperatorum et regum, 2. Supplementum), p. 336-341: 2, 31 (rubricata De legibusparibilibus et pugnis sublatis), 2, 32 e 2,33, dove vengono vietate le ordalie, mentre il ricorso al duello è limitato alla lesa maestà e all’omicidio compiuto furtive (tramite veleno o altro).

23. Riferimenti espliciti, oltre che alla pena capitale, anche alla mutilatio membrorum si diffondono dalla fine del XII secolo (ad es. Pergamene di Barletta del R. Archivio di Napoli (1075-1309), ed. R. Filangieri di Candida, Bari 1927 [Codice diplomatico barese, 10], n. 47, p. 69-70, a. 1205, pena corporis vel membrorum), ma già Ruggero II si riservava la possibilità di scegliere, come pena per gli incendiari, fra il periculum vite e la privatio membrorum (Le Assise di Ariano [cit. n. 21], p. 94, cass. 35). Contrariamente a quanto è stato talvolta sostenuto, espressioni come periculum vite o pena corporis indicano una pena capitale, e non semplicemente corporale.

24. Le Assise di Ariano (cit. n. 21), p. 94, vat. 35.

25. Jamison, The Administration of the County (cit. n. 4), p. 556-557, n. 2, a. 1153; Die Konstitutionen (cit. n. 22), p. 202-203 (1, 44), che aggiunge anche la lesa maestà (per la quale Le Assise di Ariano [cit. n. 21], p. 38 e 79, vat. 18 e cass. 12), il porto di armi proibite e le defense imposite et contempte. Analisi comparativa fra Liber Augustalis, elenco del 1153 e l’assisa vat. 36 in Jamison, The Administration of the County, p. 548- 551.

 

 

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di ogni tipo [26], dalla lite fra signori di castelli confinanti a quella per la proprietà di una terra, dal contrasto fra una comunità assoggettata e i suoi signori alle più diverse rivendicazioni di chiese e monasteri [27]. Nella costruzione statuale della monarchia normanna la carica di giustiziere aveva una forte valenza politica, e proprio questa valenza determinava l’ampiezza delle materie di intervento [28].

 

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Fra le tante incertezze sui giustizieri di età normanna, un elemento centrale per le vicende della signoria meridionale, ma fastidiosamente sfuggente, è come dicevo il loro rapporto con i conti e i grandi signori. Secondo l’impostazione oggi prevalente, già ricordata, il mondo dei signori laici sarebbe stato percorso da una netta differenziazione di competenze giudiziarie. Tutti i signori giudicavano in campo civile. Ma nella giurisdizione penale i baroni e i domini castri sarebbero stati subordinati ai giustizieri, poiché avrebbero avuto soltanto la facoltà di giudicare i reati di minor conto, come i furti di basso ammontare e i crimini punibili con multe o pene corporali minori.

 

Viceversa i poteri dei conti sarebbero stati alternativi a quelli dei giustizieri. Conferendo la dignità di conte, i sovrani avrebbero anche attribuito la funzione di giustiziere all’interno della contea, con la possibilità di intervenire nei crimini maggiori e di emanare condanne a morte o alla mutilazione. Soltanto Federico II avrebbe sottratto ai conti la titolarità dell’alta giustizia, secondo alcuni nel 1220, con le Assise di Capua, secondo altri solo dopo il 1231 [29].

 

 

26. Elenco dei documenti in Martin, Legislazione regia (cit. n. 18), p. 148-149; descrizione di molti contenziosi in Caravale, Il Regno normanno (cit. n. 7), p. 231-233, 245-247 e 260-267.

 

27. Gli studi sui giustizieri normanni attribuiscono loro anche una giurisdizione su questioni feudali, dividendosi poi circa la possibilità che già in età normanna vigesse la norma federiciana che sottraeva ai giustizieri, riservandola direttamente al sovrano, la giurisdizione sui feudi maggiori e i castelli (Jamison, The Norman Administration [cit. n. 3], p. 325-328; Caravale, Il Regno normanno [cit. n. 7], p. 262-265; la costituzione è in Die Konstitutionen [cit. n. 22], p. 202-203, 1, 44). Tuttavia in questi studi sono considerate questioni di materia «feudale » tutti i contenziosi di natura patrimoniale che coinvolgevano chiese, nobili, o comunità soggette a signoria: opera insomma in queste ricerche una presunzione sulla natura feudale di ogni patrimonio nobiliare ed ecclesiastico che è uno schema di lettura fuorviante dell’età normanna (si vedano ad es. gran parte delle cause descritte da Caravale, Il Regno normanno [cit. n. 7], p. 238-239, 245-246, 251-253, 260-267). Nulla indica, in realtà, che per l’età normanna sia già possibile applicare quella distinzione fra questioni civili e questioni feudali che appare nella legislazione federiciana (dove peraltro non ha la nettezza di solito attribuitagli).

 

28. Va osservato che il carattere eminentemente politico della carica di giustiziere aiuta a risolvere il problema della sovrapposizione di competenze, in materia civile, fra i giustizieri e i magistrati inferiori, sia cittadini che signorili: possiamo infatti pensare che il giustiziere intervenisse ogni volta che un contenzioso aveva rilevanza politica forte e potenzialmente perturbatrice della pace e del potere monarchico. E. Jamison ha invece sostenuto che già in età normanna vigesse la normativa sveva, che permetteva ai giustizieri di giudicare le cause civili solo in caso di mancato pronunciamento dei giudici inferiori (defectus iusticie): Jamison, The Norman Administration (cit. n. 3), p. 321-324, e le critiche di Caravale, Il Regno normanno (cit. n. 7), p. 232-233 e 262-263.

 

29. Sostiene ad esempio il possesso comitale fin dopo Melfi di competenze di alta giustizia la Jamison, The Administration of the County (cit. n. 4), p. 544.

 

 

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In età angioina si sarebbe peraltro tornati alla pratica normanna, giungendo anzi, soprattutto nel tardo Trecento, ad ampliare anche al di fuori del gruppo dei conti, verso il mondo dei baroni, la cerchia dei signori ai quali era concessa la facoltà di giudicare i crimini maggiori [30].

 

Questa ricostruzione, tuttavia, poggia su fondamenta piuttosto inconsistenti. La legislazione di Ruggero II e dei suoi successori attribuisce diritti di alta giustizia solo al re e ai suoi rappresentanti, e tace sulle eventuali prerogative dei conti. Proprio per questa ragione gli storici del diritto hanno a lungo negato ogni prerogativa di alta giurisdizione alla nobiltà. I documenti processuali mancano del tutto, poiché, come in molte altre regioni ed epoche, nei giudizi penali difficilmente veniva fatto ricorso allo scritto. Nessun documento testimonia l’intervento dei tribunali signorili in materia penale, proprio come un analogo silenzio circonda, come si è detto, le attività in campo penale dei giustizieri.

 

Anche gli indizi indiretti sono, in questo caso, di poco profitto. Ad esempio la presenza di carceri signorili, testimoniata con relativa frequenza, è inutilizzabile per sostenere prerogative di alta giustizia, poiché la detenzione poteva avvenire per reati minori, o per debiti. Privo di significato è anche il tenace silenzio mantenuto sui reati riservati al sovrano da fonti che pure trattavano con ampiezza di questioni giudiziarie, come le consuetudini locali e gli accordi sulla giustizia raggiunti fra signori laici, chiese e monasteri. Frutto della pattuizione fra domini e sottoposti, le consuetudini trattavano soltanto dei rapporti interni alla signoria, disinteressandosi in partenza delle relazioni con il potere regio. Garantivano così ai sottoposti una serie di privilegi e diritti, come la possibilità di evitare tramite fideiussori la carcerazione, la rinuncia a giudizi attraverso duello e altre ordalie, l’impegno signorile ad utilizzare le leges langobardorum e le consuetudini locali, la salvaguardia dei beni della moglie per i reati del coniuge, la garanzia di venire giudicati in loco, e altre concessioni meno frequenti [31]. Ma nulla occorreva dire dei tribunali regi [32]. Un analogo discorso va fatto per gli accordi sulle competenze giudiziarie pattuiti fra i signori e le chiese locali.

 

 

30. L’analisi più ampia resta Moscati, Ricerche e documenti (cit. n. 16), da integrare con Caruso, I diritti e le prerogative dei feudatari (cit. n. 16).

 

31. A titolo di esempio, vedi le seguenti consuetudines: Archivio della SS. Trinità di Cava dei Tirreni (d’ora in poi, AC), XXIV, n. 61 (privilegium dell’abate di Cava in favore di Castellabate, del 1138); Codice diplomatico del regno di Carlo I e II d’Angiò, ed. G. Del Giudice, Napoli 1863-1902, n. XXVII, p. LIII-LVIII (consuetudini di Corneto, del 1172); L. Fabiani, La Terra di S. Benedetto. Studio storico-giuridico sull’Abbazia di Montecassino dall’VIII al XIII secolo, Montecassino 1968 (Miscellanea cassinese, 33), I, n. 4, p. 426-427 (consuetudini concesse dall’abate di Montecassino a Piedimonte nel 1183), n. 5, p. 427-430 (Pontecorvo 1190) e n. 6, p. 431-433 (S. Angelo in Theodice 1190); G. e A. Magliano, Larino. Considerazoni storiche sulla città di Larino, Campobasso 1895, p. 397-401 (Montecalvo, a. 1190); H. Houben, Una lista di monaci dell’Abruzzo: San Giovanni in Venere, 1° gennaio 1200, in Id., Tra Roma e Palermo. Aspetti e momenti del Mezzogiorno medioevale, Galatina 1989 (Pubblicazioni del Dipartimento di studi storici dal Medioevo all’età contemporanea, 8, Saggi e ricerche, 7), p. 219-237 (trad. it. dell’articolo apparso in G. Althoff et alii ed., Person und Gemeinschaft. Festschrifi fur Karl Schmid zu seinem 65. Geburtstag, Sigmaringen 1988, p. 477-490).

 

32. Le uniche due eccezioni a questo ostinato silenzio delle consuetudini signorili non fanno in realtà che confermare come le competenze dei tribunali regi fossero estranee alla normale sfera di pattuizione fra signore e sottoposti: nelle consuetudini di Corneto, del 1172, l’espressione nisi de forisfacto quatenus regie curie pertineat alla fine della rubrica sul carattere locale della giustizia sembra dovuto all’intervento dei giustizieri regi, che in questo caso corressero le consuetudini signorili (Codice diplomatico del regno di Carlo [cit. n. 31], n. XXVII, p. LVI); le consuetudini di Fella, del 1207, parlano poi di reati que pertinent ad regalia poiché, come vedremo, nel 1194 Enrico VI ne aveva assegnato la competenza all’abate di Montecassino, signore del castello (E. Gattola, Ad historiam abbatiae Cassinensis accessiones, Venezia. 1734, p. 284).

 

 

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Anche in questo caso, gli scopi della pattuizione rendevano superfluo ogni riferimento al potere regio. In discussione, erano le rispettive competenze di nobili ed ecclesiastici, che avevano tutti un comune interesse a passare sotto silenzio i limiti che i tribunali regi ponevano alfambito di esercizio (e ai redditi) della propria giustizia [33].

 

Gli studi sulle facoltà signorili di giustizia hanno di conseguenza utilizzato esclusiva- mente le concessioni di diritti giudiziari che re, conti e altri signori elargirono a chiese e monasteri. Di per sé, il ricorso ad un’unica tipologia documentaria è già una procedura rischiosa. Ma in questo caso anche il riesame dei documenti più utilizzati dalla storiografia solleva molti dubbi. Le perplessità riguardano sia la genuinità delle fonti, sia i criteri di interpretazione.

 

In primo luogo, v’è il problema delle falsificazioni. Quasi tutti i documenti più espliciti circa le competenze giudiziarie dei signori laici ed ecclesiastici, e per questo alla base dell’interpretazione prevalente, sono adesso considerati interpolati, o del tutto falsi. Falsa è la concessione di piena immunità fiscale e giurisdizionale elargita nel 1137 a Montevergine [34]; falso risulta l’analogo diploma di Guglielmo I del 1154 in favore dell’abbazia di Cava [35]. Interpolato appare il passo sui diritti giudiziari del privilegio di Ruggero II per S. Maria di Brindisi [36]. Pesantemente sospetto è l’atto con cui nel 1175 il conte di Andria concedeva al vescovo di Monte Verde la giustizia sopra i suoi dipendenti, ma riservava alla propria curia i crimini maggiori (preter criminalia que mortem inducunt) [37], come di dubbia genuinità è la cessione perpetua di foris facturas et iudicis compiuta nel 1177 da Gugliemo II per S. Salvatore di Messina [38]. Certamente falso è il privilegio di Enrico VI, del 1195,

 

 

33. Fra gli accordi e le concessioni che, per indicare le rispettive competenze di signori laici e enti ecclesiastici, stabiliscono il principio del forum rei, ricordo Codice Diplomatico Verginiano, ed. P. M. Tropeano, Montevergine 1977-<2000>, n. 533, a. 1171 (fra Montevergine e il signore di Montella, conte di Acerra;); ivi, n. 569, a. 1174 (fra Montevergine e il conte di Avellino). Fra i patti e le donazioni che prevedono altre soluzioni, si possono vedere: Collectionis bullarum sacrosanctae Basilicae Vaticanae tomus... auctus, & illustratus, Roma 1747-1752, I, p. XXVI-XXVII, a. 1183 (accordo fra S. Salvatore sulla Maiella e Rainaldo de Lecto); AC (cit. n. 31), L, n. 23, a. 1187 (fra Cava e il signore di Montorio, il conte Ruggero di Tricarico); AC, L, n. 27, a. 1188 (fra gli stessi, ma per gli uomini di Occiano); L. Mattei Cerasoli, Tramutola, Archivio storico per la Calabria e la Lucania 13, 1943, p. 32-46 e 91-118, n. 20, a. 1190 (fra Cava e il conte di Marsico); ecc. La sola eccezione, a mia conoscenza, è la donazione del 1193 edita in F. Ughelli, Italia sacra, 10 vol., Venezia 1717-1722, IX, coll. 344-345, per la quale vedi n. 46.

 

34. Cfr. H. Enzensberger, I privilegi normanno-svevi a favore della «congregazione» Verginiana, in La società meridionale nelle pergamene di Montevergine: i normanni chiamano gli svevi, Atti del secondo Convegno Internazionale (Montevergine, 12-15 ottobre 1987), Montevergine 1989 (Centro studio Verginiano, 2), p. 71- 89.

35. Cfr. la nota critica a Guillelmi I. regis diplomata, ed. H. Enzensberger, Colonia-Vienna 1996 (Codex diplomaticus Regni Siciliae. Ia Series, Diplomata regum et principum e gente Normannorum, 3), n. 1.

36. Cfr. gli apparati a Rogerii II. regis diplomata latina, ed. C. Brühl, Colonia-Vienna 1987 (Codex diplomaticus Regni Siciliae. E Séries, Diplomata regum et principum e gente Normannorum, 2, 1), n. 29.

37. Rinvio alle osservazioni di Martin, La Pouille (cit. n. 1), p. 732.

38. C. A. Garufi, Documenti inediti dell’epoca normanna in Sicilia, Palermo 1899 (Documenti per servire alla storia di Sicilia, Ia Series, Diplomatica, 18), p. 168.

 

 

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per S. Stefano di Monopoli [39]. Sono soltanto alcuni fra i tanti possibili esempi, scelti fra i documenti tuttora più citati negli studi sulla giustizia meridionale. I progressi della critica testuale e dell’analisi diplomatica hanno intaccato in profondità il complesso documentario utilizzato per lo studio dei diritti giudiziari di nobiltà e chiese.

 

Altre minacce alla visione tradizionale vengono poi da alcuni dubbi circa l’interpretazione di solito proposta per le donazioni di facoltà giudiziarie compiute da conti e baroni. Due punti, in particolare, appaiono problematici. Entrambi tradiscono una sottovalutazione dell’impatto della legislazione regia sul dettato formulare della documentazione privata.

 

Il primo punto di perplessità riguarda il significato da attribuire ad alcune esplicite concessioni signorili di diritti di plena iustitia. Un buon esempio, tante volte citato nella storiografia sulla giustizia signorile, è la donazione compiuta nel 1148 da Giroldo de Fay e dal figlio, signori di due castelli della contea di Civitate (Gebiza e Sant’Angelo de Vico). Dopo avere rinunciato al possesso della chiesa di S. Sofia di Gebiza per paura del conseguente detrimentum animarum, i due nobili diedero alla chiesa e ai suoi sottoposti, che vivevano nel vicino casale, una francitiam et libertatem, che garantiva una serie di diritti nella caccia, nell’imposta di plateatico e nell’uso dei boschi, delle acque, dei mulini e delle gualchiere. Inoltre -ed è questo il passo utilizzato negli studi sul sistema giudiziario- lasciarono alla chiesa, ad plenam iustitiam faciendam, chiunque vi avesse trovato rifugio dopo avere commesso un reato passibile anche di condanna a morte, eccettuando solo chi avesse agito contro la maestà del re (nisi contra maiestatem gloriosissimi regis egerint) [40]. Una donazione simile, che assegnava il giudizio dei fuggitivi alla chiesa tranne per chi agiva contra pacem domini nostri regis, venne compiuta nel 1159 dal signore di Sepino, nella contea di Molise, in favore della locale chiesa di S. Croce [41].

 

In apparenza, ecco signori addirittura di livello baronale, e dunque inferiori ai conti, che tuttavia «concedevano terre con piena giustizia, ad eccezione della lesa maestà riservata al monarca» [42]. Sembra una prova certa degli ampi poteri di giustizia in mano ai semplici nobili, e a maggior ragione, dunque, ai conti. Appunto in questo modo sono stati di norma interpretati. Viceversa questi passi hanno, con ogni probabilità, una spiegazione opposta. Attestano la capacità di affermazione locale della monarchia, non la sua debolezza.

 

 

39. Vedi quanto notato in D. Clementi, Calendar of the diplomas of the Hohenstaufen Emperor Henry VI concerning the Kingdom of Sicily, Quellen und Forschungen aus italienischen Archiven und Bibliotheken 35, 1955, p. 86-225, n. 88.

40. E. Jamison, Notes on Santa Maria della Strada at Matrice, its history and sculpture, Papers of the British School at Rome 14, 1938, p. 32-96, doc. 1, p. 76-80: talem vero francitiam et libertatem supradict[e ecclesie Sancte Sophie] concessimus, ut si aliquis homo vel femina aliquod malefactum fecerint quo debeant condempnari vel occidi, postquam ibi confugium fecerint, nisi contra maiestatem gloriosissimi regis egerint, nemo in [curia nostra iudicetur] set adplenam iustitiam faciendam eos ecclesia detineat (le integrazioni fra parentesi quadre, e dunque anche il riferimento alla curia signorile, sono della Jamison).

41. Le pergamene di S. Cristina di Sepino (1143-1463), ed. E. Cuozzo e J.-M. Martin, Roma 1998 (Sources et documents d’histoire du Moyen Âge, 1), n. 2, p. 76-78: si aliquis ex nostris hominibus aliquod forisfactum fecerit etpredicte ecclesie fugerepotuerit, ibi sitsecurus, excepto si contra pacem domini nostri regis fuerit, sub tali condicione quod rector ecclesie eum ad iusticiam faciendam teneat.

42. Caravale, Il Regno normanno (cit. n. 7), p. 303.

 

 

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Vanno infatti collegati alla legislazione regia sul diritto di asilo delle chiese. Le Assise di Ariano avevano garantito a tutte le chiese di accogliere i liberi che vi facessero confugium [43] mentre privilegi regi come quello del 1132 in favore di S. Nicola di Bari chiariscono che, in questi casi, il giudizio poteva appunto spettare alla chiesa stessa, con la sola eccezione (e qui si noti il parallelismo testuale con le donazioni dei nobili) di chi avesse agito contro il re (nisi contra dignitatem regis egerit) [44]. Nel largheggiare di concessioni alle chiese, i signori di Gebiza e di Sepino sembrano insomma limitarsi a ribadire, sul diritto di asilo, quanto stabilito dal sovrano. Nulla prova che essi stessero rinunciando a facoltà di alta giustizia in loro possesso.

 

Il secondo punto dove le analisi condotte sulle donazioni di diritti giudiziari sollecitano più di un dubbio riguarda i casi in cui il nobile donatore, cedendo con ampiezza facoltà giudiziarie a abati e vescovi, eccettuava i maggiori reati criminali. Di solito, queste donazioni sono state considerate prove risolutive degli ampi diritti di giustizia nelle mani dei nobili, e dell’importanza che essi attribuivano all’alta giustizia, evitandone l’alienazione. Ma, anche in questo caso, sembra più verosimile una interpretazione diametralmente opposta.

 

Nel 1180 e nel 1185, ad esempio, il potente conte di Lecce (e futuro re) Tancredi concesse al monastero leccese di S. Cataldo, da Tancredi stesso fondato, il giudizio de vestris hominibus ex universis causis, preter illas que in publico et ad censuram regiam pertinere videntur [45]. È corretto attribuire queste esclusioni al desiderio di conservare ai tribunali comitali la competenza diretta sui crimini più pericolosi? Non sembra proprio. Da preferire, ancora una volta, è una lettura in parallelo con la legislazione regia: possiamo cioè pensare che l’esclusione dei crimini maggiori non nascesse dalla volontà nobiliare di conservare diritti giudiziari,

 

 

43. Le Assise di Ariano (cit. n. 21), p. 28, vat. 6 (De confugio ad ecclesiam. Presente lege sancimusper loca regni nostri omnia deo propitio in perpetuum valitura nullos penitus, cuiuscumque condicionis de sacrosantis expelli ecclesiis, autprotrahi confugas, nec pro his venerabiles episcopos, aut yconomos exigi, que debentur ab eis qui hoc moliri autfacerepresumpserit, capitispericulo, aut bonorum omnium ammissioneplectendis. Interim confugis victualia non negentur) e p. 72, cass. 4 (Sancimus sub capitispericulo nullospenitus cuiuscumque condicionis de sacrosanctis ecclesiis expelli aut protrahi confugas; nec pro his venerabiles episcopos vel iconomos exigi que debentur ab eis; nec ipsis confugis interim victualia negentur).

 

44. Rogerii II. regis diplomata (cit. n. 36), n. 20, p. 54-56 (et si aliquis culpatus fugerit ad ecclesiam vel ad curtem Sancti Nicolai, non capiatur, nisi contra dignitatem regis nostri egerit, sed ibi per legem iudicetur, sine mortem vel lesionem sui corporis, etsi si dignus fueritpati).

 

45. P. De Leo, Le carte del monastero dei Santi Niccolò e Cataldo in Lecce (secc. XI-XVII), Lecce 1978 (Monumenti del Centro di studi salentini, 2), n. 3, a. 1180 (il conte dota il monastero con una serie di beni fra cui il casalem nostrum Aurium... cum universis tributariis ibi manentibus et eorum heredibus et cum omni iure quod habuimus in affidatis et francis hominibus ipsius casalis, e concede all’abate in ipsa civitate Lidi de extraneis et adventitiis affidandi licentiam. Assegna poi al monastero curiam etiam, iudicem et notarium de vestris hominibus ex universis causis, preter illas que in publico et ad censuram regiam pertinere videntur; quod si is, qui prò temporeprelatus extiterit, primo secundo tertiove admonitus iustitiam facere distulerit, volumus ut executio ipsius negotii deveniat in curiam nostram et heredum nostrorum; et si qua compositio inde exacta fuerit, volumus ut ad manus ecclesie conferatur) en. 12, a. 1185 (su richiesta dell’abate, il conte prebemus auctoritatem eidem ecclesie affidandi adventitios homines, non tamen de comitatu nostro, in suo proprio solo, de quibus etiam curiam, iudicem et notarium habere concessimus ex universis causis preterquam de illis que in ius publicum et ad censuram regiam pertinere videntur, et ut ab ipsis nichil servicii vel adiutorii exigamus).

 

 

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ma piuttosto dal rispetto delle assise regie, che riservavano appunto al sovrano e ai suoi giustizieri i crimini maggiori. Il richiamo alla competenza regia, del resto, è esplicito (censura regia, iustitia regia). Come pure è significativo che l’esclusione dei reati maggiori compaia anche in donazioni effettuate da nobili di livello molto meno eminente del conte Tancredi. Nel 1193, ad esempio, il signore di Brahalla (Altomonte), in Calabria, concesse alla curia dell’abate di S. Maria delle Fonti di giudicare i propri sottoposti, ma exceptis de criminalibus que ad curiam regis pertinent [46]. Se si considerano quelle donazioni comitali come una prova del possesso dell’alta giustizia, allora occorre ammettere, contro ogni evidenza, che simili facoltà appartenevano anche a semplici signori, come appunto il dominus di Brahalla. Tutto si spiega molto più facilmente, viceversa, se si ammette che queste pie donazioni nobiliari dovevano rispettare un formulario almeno in parte condizionato dall’amministrazione regia. L’esistenza di un simile formulario, del resto, è chiaramente attestata dalla generale diffusione, in tutte le donazioni pro anima posteriori alla piena affermazione del potere regio, di una clausola che, riprendendo quanto già in uso nella Sicilia premonarchica, faceva obbligo ai nobili donatori di richiedere la salvezza eterna del sovrano prima di quella propria e dei parenti [47].

 

Scartando le falsificazioni e prestando un diverso senso alle cessioni di plena iustitia o alle (apparenti) riserve signorili dei diritti maggiori, la base documentaria utilizzata per lo studio della giustizia comitale si sgretola quasi del tutto. In definitiva i documenti sicuramente genuini che attestano un esercizio dell’alta giustizia da parte di conti e signori laici appaiono davvero rari. Di fatto, riguardano soltanto due conti di eccezionale potenza, il conte Loritello e quello di Molise [48]. Ad esempio, una celebre donazione del conte Ugo II di Molise, del luglio 1153,

 

 

46. Ughelli, Italia sacra (cit. n. 33), IX, coll. 344-345: homines, vassalli, angarii et villani del casale di Lungro, donato ai monaci, numquam teneantur nisi monasterio respondere et in curia monasterii iudicare, exceptis de criminalibus que ad curiam regis pertinent.

47. In assenza di specifiche ricerche sui formulari di donazione e sui condizionamenti esercitati dagli interventi regi, mi baso sull’analisi della documentazione dell’AC (cit. n. 31), e di altri fondi archivistici editi.

 

48. Su questi conti e le loro prerogative giudiziarie, v. Jamison, The Norman Administration (cit. n. 3), p. 334-336; Ead., The Administration of the County (cit. n. 4); e soprattutto Martin, La Pouille (cit. n. 1), p. 773 e 799. Segnalo qui i dubbi che riguardano un documento molto citato, secondo il quale anche il conte di Loreto Gozolinus, connestabile e giustiziere del re, avrebbe donato diritti di alta giustizia: la domenica 29 dicembre 1169, festum beati Thome martyris et Anglorum apostoli, il conte confermò le donazioni dei suoi predecessori al monastero di S. Maria di Picciano, rinunciando fra l’altro ad ogni intervento sugli abitanti del casale del monastero; per gli altri soggetti monastici residenti nel suo comitato che si fossero resi colpevoli di rixa inter se vel cum aliis hominibus, il conte attribuiva la giustizia (rectum et iustitiam) all’abate, mentre in caso di omicidio e incendio il monastero aveva solo il diritto di incamerare i beni mobili e immobili dei condannati, ma la loro persona (e il giudizio) restava al conte (C. Minieri Riccio, Saggio di codice diplomatico formato sulle antiche scritture dell’Archivio di Stato di Napoli, Napoli 1878-1883, n. 17). La donazione ci è però giunta in una tradizione tarda, e per più ragioni sospetta: nella datazione, non c’è coincidenza fra anno dell’incarnazione, indizione, anno di regno e indicazione del giorno domenicale, né appare corretto il riferimento a Tommaso di Canterbury, ucciso nel dicembre 1170; le concessioni del conte sono considerevolmente più ampie di quelle da lui stesso effettuate nel 1178 (disponiamo solo del regesto in A. L. Antinori, Annali degli Abruzzi dall’epoca preromana sino all’anno 1777 dell’era volgare, ed. anast. Bologna 1971-1973, VII, p. 764-765; alle p. 627-630 il regesto della donazione del 1169); nel documento compaiono termini, come la concessione in baroniam, attestati nelle altre fonti solo qualche decennio più tardi; sul conte Gozolinus, mi limito a rinviare alle schede di E. Cuozzo, Catalogus Baronum, Commentario, Roma 1984 (Fonti per la storia d’Italia pubblicate dall’istituto storico italiano per il Medio Evo, 101**), p. 328-330.

 

 

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ricorda come i balivi del conte ibant ad placitandum in due castelli di S. Sofia di Benevento situati all’interno della sua contea: supplicato dall’abate e dai monaci di porre fine a tale pratica, il conte cedeva l’amministrazione della giustizia minore ma tratteneva alla propria curia la competenza sui crimini maggiori, proponendone un elenco che comprendeva l’omicidio, l’incendio, la rapina, il furto di grosso ammontare e altri gravi reati [49]. Oppure, nel 1179 il conte di Loritello concedeva a S. Leonardo di Siponto che i suoi homines residenti in una località di dominio comitale, Casal Nuovo, fossero esenti dall’adiutorium, dalle imposte sui pascoli e sulle vendite, e, appunto, da ogni intervento giudiziario del conte, fatta eccezione per i crimini maggiori [50].

 

Anche in questi casi, tuttavia, restava l’ingombrante presenza del re e dei suoi giustizieri. Il conte di Loritello, proprio nella donazione del 1179 che ci rivela le sue prerogative di alta giustizia, le definiva come placita ad iustitiariam pertinentia, facendo dunque riferimento all’apparato giudiziario regio, e ammetteva che le cause maggiori erano di competenza regia, prima ancora che comitale (parla infatti di una loro riserva in manibus domini nostri gloriosissimi regis et nostris). Nei documenti dei conti di Molise, poi, sembra che i diritti giudiziari maggiori provenissero dalla carica di iustitiarius attribuita in aggiunta al titolo comitale; lo stesso tribunale comitale, del resto, veniva presentato con la doppia qualifica di curia del re e del conte (iudicium curie regalis et comitis Ugonis) [51]. Peraltro il conte poteva disporre, ma con chiare limitazioni, dei diritti giudiziari. Nella citata donazione del 1153, pur trattenendo alla propria curia la competenza sui crimini maggiori, definiti come spettanti ad domini nostri Roggerii excellentissimi regis iusticiam (ed elencati riprendendo la lista delle assise regie), poteva permettersi di donare a S. Sofia la metà dei proventi che sarebbero scaturiti dall’amministrazione di queste cause -

 

 

49. Jamison, The Administration of the County (cit. n. 4), doc. n. 2, p. 556-557 (pergamena danneggiata; le lacune sono indicate nell’edizione con tre punti): alla presenza dell’abate di S. Sofia, il conte Ugo de Molisio, ricordato che balivi nostri ibant adplacitandum in Castello Vetulo et Toro et in castello Sancii Iohannis in Gualdo et... infra nostrum comitatem, et com [pelle]bant homines predicte ecclesie per vim ante eos venire, su richiesta dell’abate e dei monaci supradicta ... amoveri iussimus et reservato tamen ibi quod ad domini nostri Roggerii excellentissimi regis iusticiam ... stabilitura, scilicet homicidium, voluntarie incendio, latrocinium boum equorum et asinorum, ruptura do[morum] violenta, furtum quoque aliarum rerum valentium ultra quinque romanatos, incisio arborum fructusferentium et vinearum ..., aggressio et depredatio quesint hominibus simpliciter per viam euntibus, et violentia mulieri illata atque adul[terium]... si de hoc adulterio proclamano nostre curie facta fuerit. Etsi de his omnibus supradictis aliquis confessus vel comprobatus nostra curia iudicatus fuerit occidi vel semationes corporis sustinere autfrustati vel decalvari, et per misericordiam nostre curie... cum fuerit medietas nostre curie et medietas iamdicte ecclesie detur.

 

50. Codice diplomatico del regno di Carlo (cit. n. 31), n. XX, p. XLIII-XLIV: ut omnes homines quos eadem ecclesia Sancii Leonardi nunc in presentiarum in Casali Novo tenet et possidet, et quos in antea ibidem iuste habitura est dummodo non fuerint de demanio nostro, liberi sint et franti de omni exactione adiutorii, forisfacturarum, plaze vel cuiuslibet alterius exactionis quas usque nunc nostri baiuli ab ipsis hominibus exigere solebant, ut a modo in antea ipsi homines liberi inde sint et absoluti sine omni nostra nostrorumque heredum et successorum contrarietate vel requisitione, placitis ad iustitiariam pertinentibus in manibus domini nostri gloriosissimi regis et nostris omnimode retentis. Altra concessione simile, sempre del 1179, in A. Petrucci, Codice diplomatico del monastero benedettino di S. Maria di Tremiti (1005-1237), Roma 1960 (Fonti per la storia d’Italia pubblicate dall’istituto storico italiano per il Medio Evo, 98), n. 121.

 

51. Jamison, The Norman Administration (cit. n. 3), p. 334, en. 17, p. 418-419.

 

 

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però, come è stato sottolineato, non sembra avesse la possibilità di cedere in modo diretto i diritti di giustizia [52], ed è anche possibile che la limitazione della generosità comitale alla metà soltanto degli introiti indichi che essi venivano per l’appunto divisi con il sovrano.

 

* * *

 

Vi sono dunque ottime ragioni per sostenere che una sistematica cessione dell’alta i giustizia ai conti appare «mal assuré et, à vrai dire, peu probable» [53]. L’evidenza documentaria, come si è visto, non soltanto è fragile e rarefatta, ma anche passibile di interpretazioni nuove, molto meno favorevoli alla tesi di una generalizzata alta giustizia comitale. Più in generale, va aggiunto che l’idea di una formale rinuncia, in favore della turbolenta aristocrazia comitale, a competenze così centrali nell’ideologia della sovranità e nel suo concreto dispiegarsi sul territorio appare davvero inappropriata, per non dire estranea, alle linee guida della costruzione monarchica normanna.

 

Ignoriamo, naturalmente, quale scarto esistesse fra la rivendicazione della esclusiva competenza dei tribunali regi e le concrete pratiche di giustizia nei territori signorili. Le usurpazioni erano sempre possibili, soprattutto nelle fasi di ribellismo nobiliare o per i conti più potenti - lo stesso Martin è tentato di interpretare in tale modo le ricordate competenze dei conti di Loritello e di Molise [54]. Si può pensare, inoltre, che i conti e gli altri grandi signori, laici ed ecclesiastici, potessero talvolta avere il pieno giudizio sui sottoposti più umili, che meno interessavano al potere pubblico a causa dello scarso rilievo sociale e dei bassi profitti ritraibili dalla condanna. Ma tutto orienta nel delineare un potere monarchico geloso custode delle proprie alte competenze di giustizia.

 

Questa presa regia sulla giustizia traspare anche, per contrasto, dalle vicende successive alla morte di Guglielmo II, nel novembre 1189. Il rapporto fra tribunali regi e tribunali signorili era allora destinato a subire molti cambiamenti, di portata limitata durante i contrastati regni di Tancredi, Enrico VI e Costanza, e poi cospicui nel ventennio di crisi del potere centrale iniziato alla morte dell’imperatrice, nel 1198. Nel loro insieme, rivelano quando diversa fosse stata la situazione sotto i tre primi sovrani.

 

In primo luogo, si moltiplicarono le formali cessioni di tutti i diritti giudiziari in favore di signorie monastiche e di chiese. Durante il governo di Ruggero II e dei due Guglielmi, le concessioni di diritti di giustizia criminale in favore di vescovi, chiese e monasteri avevano quasi sempre riservato ai tribunali regi i reati maggiori. La sola eccezione certa sembra costituita, sotto questi re, dall’abate-arcivescovo di Monreale, che ottenne sulle proprie terre le facoltà dei giustizieri [55]. Altre concessioni di alta giustizia, come quella in favore del vescovo di Troia nel 1156, sono sospette di interpolazione, mentre per molte altre ancora,

 

 

52. Jamison, The Administration of the County (cit. n. 4), p. 543-544.

53. Martin, La Pouille (cit. n. 1), p. 799.

54. Martin, La Pouille (cit. n. 1), p. 800.

55. Garufi, Documenti inediti (cit. n. 40), n. 87, p. 210-211, del 1186, che riprende concessioni già effettuate nel 1176 e nel 1182.

 

 

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come quelle di Cava e di Montevergine, appare ormai sicura la falsità [56]. Nell’ultimo decennio del XII secolo si avverte un certo cambiamento. Montecassino ottenne da Enrico VI, nel 1194, il privilegio di trattare di fronte ai propri giudici le questioni in passato soggette alla cognitio dei giustizieri [57]. L’anno successivo fu la volta di S. Maria del Patir, in Sicilia, e di altre chiese e monasteri [58]. L’abbazia della S. Trinità di Cava ottenne lo iustitiariatus officium nel 1209, l’arcivescovo di Salerno nel 1220 [59]. Si tratta di un elenco sicuramente parziale [60]. Per questo periodo, il possesso di tutti i diritti giudiziari risulta infatti sia dalle consuetudini concesse a castelli sottoposti da enti che sappiamo beneficiati da una concessione regia di diritti giudiziari, come Montecassino nel caso del castrum calabrese di Fella nel 1207, sia da altre consuetudini elargite da monasteri per i quali non è giunta nessuna concessione, come S. Giovanni in Venere nel 1200 [61].

 

Mutamenti di rilievo riguardarono soprattutto l’autonomia e i poteri della grande aristocrazia. Come ha mostrato proprio Jean-Marie Martin, durante la crisi del potere regio nelle regioni del continente si moltiplicarono il numero delle contee e le facoltà di comando rivendicate dai titolari [62]. In campo giudiziario, la crescente autonomia dell’aristocrazia comitale finì spesso per sottrarre ai giustizieri regi ogni possibilità di operare all’interno delle precedenti, vaste circoscrizioni. Il loro raggio di azione fu ristretto ad un’area minore o ad una singola città.

 

Alcuni conti ottennero dal papa o dal cancelliere palermitano, i due centri di potere in concorrenza dopo il 1198, il titolo di magister iustitiarius. La novità più significativa sembra però scaturire dal basso, senza attendere concessioni dei detentori formali del potere: comparvero giustizieri di nomina comitale (iustitiarius comitis), che esercitavano la carica a nome del conte e, sembra, senza nessuna autorizzazione centrale. La loro presenza, attestata in tutte le regioni peninsulari, appare particolarmente frequente in Capitanata, Molise e Abruzzo. È la prova di un parziale collasso, in quegli anni, delle strutture regie di giustizia di fronte alla potenza della grande aristocrazia.

 

Al tempo stesso, la comparsa di iustitiarii comitum è anche un indizio forte sulla debolezza delle prerogative di alta giustizia in precedenza detenute dai conti:

 

 

56. J.-M. Martin, Les chartes de Troia. I, 1024-1266, Bari 1976 (Codice diplomatico pugliese, 21), n. 75, p. 239-241; per le false concessioni in favore di Cava e Montevergine, cfr. n. 34 e 35.

57. Gattola, Ad historiam (cit. n. 32), p. 279 (cfr. Fabiani, La Terra di S. Benedetto [cit. n. 31], II, p. 41- 42, e Clementi, Calendar of the diplomas [cit. n. 39], n. 36).

58. Constantia imperatricis et reginae Siciliae diplomata (1195-1198), ed. Th. Kölzer, Colonia-Vienna 1983 (Codex diplomaticus Regni Siciliae. IIa Séries, Diplomata regum e gente Suevorum, 1-2), n. 29, a. 1196.

59. Die Urkunden Friedrichs II.. 1198-1212, ed. W. Koch, Hannover 2002 (MGH, Diplomata regum et imperatorum Germaniae, 14, 1), I, n. 105; J.L.A. Huillard-Bréholles, Historia diplomatica Friderici secundi, sive constitutiones, privilegia, mandata, instrumenta quae supersunt istius imperatoris etfdiorum eius, Parigi 1859-1861,1/2, p. 798.

60. Vasti diritti giudiziari furono ad es. concessi nel 1209 all’ospedale di S. Giovanni di Messina e a tutte le domus dei Giovanniti esistenti nel Regno (Die Urkunden Friedrichs II. [cit. n. 59], I, n. 110).

61. Magliano, Larino (cit. n. 31), p. 397-398; Gattola, Ad historiam (cit. n. 32), p. 284.

62. Per quanto segue, rinvio a Martin, L’administration du Royaume (cit. n. 18), in partie, p. 120-135 (da preferire a Caravale, Le istituzioni del regno di Sicilia [cit. n. 18], p. 77-81).

 

 

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giudici di questo tipo mancano totalmente nel periodo precedente, e la stessa scelta di conferire l’antico titolo ufficiale di iustitiarius ai propri agenti rivela come i conti fossero abituati a lasciare le maggiori questioni proprio al giudizio di personaggi che quel titolo portavano, e che in passato sappiamo essere sempre stati di nomina regia.

 

Come altri sviluppi dell’autonomia aristocratica, anche questa recente e in larga misura spontanea proliferazione di giustizieri suscitò nel 1220 la reazione di Federico II, al momento della sua entrata nel Regno. Fra le assise di Capua, volte a riaffermare il potere monarchico ripristinando la situazione del tempo dei sovrani normanni, la diciottesima stabiliva che soltanto i giustizieri direttamente nominati dal sovrano erano legittimi, e vietava a nobili e ecclesiastici di applicare quelle pratiche locali (consuetudines) che assegnavano loro l’officium iusticiarie nei rispettivi dominii [63]. Ad essere in primo luogo colpiti erano i signori che più avevano potuto approfittare della crisi del potere centrale, e dunque proprio i conti e i maggiori monasteri [64]. In breve l’imperatore revocò anche le formali concessioni di diritti di alta giustizia effettuate nei decenni precedenti (a Montecassino lo ius sanguinis fu sottratto già nel 1221) [65].

 

Tutta l’alta giustizia tornò nelle mani dei giustizieri, che di nuovo furono esclusivamente di nomina regia [66]. La breve stagione dei iustitiarii comitali si era chiusa. Ancora per alcune generazioni, solo in via eccezionale i tribunali signorili del Regno di Sicilia, e poi di Napoli, poterono vantare quell’ampiezza di competenze giudiziarie tipica di molte altre regioni europee. Ma il futuro riservava loro completa soddisfazione: alla fine medioevo e in età moderna, proprio l’amministrazione della giustizia ad ogni livello divenne, com’è noto, una generale caratteristica dei feudatari meridionali, e uno strumento formidabile per data loro un’eccezionale potere.

 

 

Dipartimento di storia

Università di Roma-Tor Vergata

 

 

63. Ryccardi de Sancto Germano notarti, Chronica, ed. C. A. Garufi, Bologna 1937 (Rerum Italicarum Scriptores, 7, 2), 2, p. 103.

64. Commentando la diciottesima assisa di Capua, e la costituzione del Liber Augustalis che la riprese (Die Konstitutionen [cit. n. 22], p. 208, 1,49: quod nullusprelatus, comes vel baro officium iustitiarii gerat), E. Jamison ha giustamente sottolineato come le disposizioni avessero un carattere «conservativo », mirando a ripristinare la situazione in vigore al tempo di Guglielmo II: ma poiché la studiosa era convinta che in età normanna «la franchigia della iusticiaria fosse sempre data ai conti», ha sostenuto che la restaurazione della prassi normanna condotta da Federico II previde fin dopo il 1231 che «l’ufficio di giustiziere fosse annesso alla dignità di conte», e che solo negli ultimi lustri di regno l’imperatore si fosse arrogato tutta la giustizia maggiore (Jamison, The Administration of the County [cit. n. 4], p. 544).

65. Fabiani, La Terra di S. Benedetto (cit. n. 31), II, p. 42-43.

66. Per una visione sintetica sull’età sveva, con amplia bibliografìa, rinvio soltanto a M. Caravale, Sicilia, Regno di, Amministrazione della giustizia, in Federico II. Enciclopedia fridericiana, Roma 2005 (Orsa Maggiore), p. 735-743.

 

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