Centro italiano di studi sull’alto medioevo

 

 

Importanza della immigrazione dei Bulgari nella Italia meridionale al tempo dei Longobardi e dei Bizantini

 

VINCENZO D’AMICO

 

Atti del 3° Congresso internazionale di studi sull’alto medioevo

Benevento - Montevergine - Salerno - Amalfi 14-18 ottobre 1956

 

In Spoleto

Presso la sede del centro di studi 1959

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In un congresso, che contempla tutta la vita dell’Italia meridionale nell’alto medio evo nei suoi rapporti col mondo bizantino non dovrebbe mancare ampio discorso sopra una importante immigrazione, quella dei bulgari.

 

Ma i limiti di una semplice comunicazione permettono presentare solo alcuni aspetti della loro attività bonificatrice agraria e manufatturiera nonché di manifestazioni religiose e di concorsi ai conflitti dei vari contendenti.

 

Torme di bulgari erano state condotte nella Italia nordica dagli ostrogoti, dai bizantini e dai langobardi. Gl’immigrati del 667 vennero in queste contrade diretti dal capo Altzek, quinto figlio di quel re Koubrat, che, nato verso il 567, educato a Costantinopoli ed ivi forse battezzato, fu dal 584 fino alla morte del 642 l’unificatore del suo popolo, sparso sul Volga, sul Don e sul Danubio, sempre in alleanza stretta con l’impero bizantino contro i nemici comuni persiani goti turchi ed avari.

 

Partirono essi dalla Pannonia, ove, sebbene vivessero sotto la supremazia or dei germani or degli avari, avevano in gran parte accolta la dottrina religiosa e la cultura di Costantinopoli.

 

Nelle terre dell’Esarcato di Ravenna fecero la prima sosta, e vi lasciarono gruppi gentilizi.

 

Da re Grimoaldo la massa, di attrezzi agricoli provvista e di bestiame, venne diretta a Benevento, dove governava il figlio duca Romualdo; e questi tutti dispose nel Sannio Pentro, nelle valli feraci ma impaludate del Volturno del Biferno e del Tammaro, dove si andavano dissolvendo i centri urbani un dì floridi di Sepino, di Boiano d’Isernia e di Venafro fra campagne spopolate. Data l’ampiezza del territorio, la sua relativa saturazione richiese almeno centomila unità. Altzek in quel distretto, non più col nome di duca ma di gastaldo, pur nell’orbita della legge statale langobarda,

 

 

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restò capo supremo amministrativo e giudiziario dei suoi connazionali. In relazione a tale stanziamento avemmo la scomparsa dei vescovi nel Sannio Pentro-Frentano fino al 1000 d. C. Che tale scomparsa nei primi tempi sia stata la conseguenza di ventata persecutoria dei langobardi pagani ed ariani si comprende bene. Ma, cessato il periodo delle avversioni, divenuti governanti ed arimanni fedeli seguaci di Santa Chiesa, sarebbero tornate fiorenti le diocesi, come in altre province avvenne.

 

Secondo noi la ragione vera è che i bulgari della contrada avevano concezioni cristiane proprie, aderenti agli atavici costumi e propri ministri del culto, più stregoni sciamani che sacerdoti, soggetti all’archimandrita di Castropignano e di Manicheismo impegolati.

 

A Roma tale stato di cose, anche per informazione dei vescovi di Benevento e di Capua, in quel tempo funzionanti, era noto.

 

Di conseguenza non restava che fare luogo all’azione missionaria.

 

E questa presto avvenne ad opera dei giovani Paldo e cugini Taso e Tato, che, dal franco abate farfense Tommaso di Morienna diretti a Roma per intese col pontefice, dopo preparazione spirituale, si fissarono in un romitorio di S. Vincenzo ad fontes Volturni, che divenne presto uno dei più celebri monasteri. Quei giovani erano partiti da Benevento; e, sebbene da un falsificato diploma di Gisulfo I siano detti al duca carnis consanguinitate propinqui, noi preferiamo ritenerli bulgari. Molti primati di tale gente rimasero nella città capitale (1).

 

Ne conosciamo con certezza quattro: Teupone e figlio Imed Tendank (800-817), Grausone e figlio Grausolfo (834), beneficiati di vaste tenute.

 

Essi con i connazionali vivevano intorno alla chiesa di S. Andrea detta da loro De Palafernis, alla quale in seguito venne unito un monastero di Agostiniani. I fondatori di S. Vincenzo ebbero vocazioni claustrali in un ambiente di pura ortodossia, succeduta alle pratiche pagane di Romualdo.

 

La comunità visse sempre al di fuori di ogni controllo e favore ducale sia di Benevento che di Spoleto, solo ispirata e diretta da Roma; e ciò non sarebbe avvenuto se il monastero fosse stato di fondazione di langobardi.

 

Ebbero nome bulgaro l’abate di S. Vincenzo Hayrirad (780), quello di S. Felice Cieguerohin (787) e monaci, come Beccius Radohin, ecc. Altri ebbero nome non sangue germanico.

 

 

(1) Chron. Vultur. Ed. Federici, vol. I, pagg. 133-34. I.S.I., Roma 1940. Il passo è rifiutato dal Muratori, dal Bethmann e dal Holder Egger; Del Treppo M., Due secoli di storia Vulturnese, in Arch. St. Prov. Nap., 1955.

 

 

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Dal gastaldato sannitico molti bulgari passarono agli Abruzzi, per lo più nella piana di Sulmona e nella valle del basso Aterno, ove le carte ci segnalano la toponomastica dei loro Canati e la pratica religiosa del rito d’Oriente, persistita oltre il sec. XIII in 7 comuni.

 

Sempre in rapporto all’agraria bonifica troviamo tale gente sparsa nel Tavoliere Appulo, specie lungo il fiume Latonteo, che da essa prese la denominazione di Bulgano, nonché nelle campagne di Foggia, di Manfredonia, di Barletta, di Bari, di Monopoli, di Bitonto e di Brindisi.

 

Speciale menzione dobbiamo fare della Campania. Erano quivi tratti vastamente impaludati per acque male contenute nei canali detti Lagni.

 

Qui fu la 3a Dodecapoli degli Etruschi. I Bulgari vi furono loro successori nella bonifica. Diplomi ci parlano di essi per S. Pietro a Paterno per Pomigliano per Aversa per Gaeta per S. Germano per Melito per Sorrento per Massalubrense per Gragnano.

 

Ma tanta rurale attività di si distesi e feraci poderi con produzione di grano di riso di canapa di lino, con allevamento di bestiame bovino equino e suino, con raccolta di lana e di pelli, chiedeva centri di manifattura e di smercio.

 

Non potevano essere questi centri che le città di Amalfi e di Napoli, favorite per i loro stretti rapporti con Bisanzio, presso i numerosi e fiorenti scali di Oriente. Oltre 30 diplomi ce li attestano per Napoli. Ma la documentazione migliore ce la porge una Pianta del sec. XI, illustrata dal Capasso. Sappiamo per essa che nella odierna strada S. Giuseppe dei Ruffi sboccava una volta il Vicus Bulgarum, il cui nome, dopo il secolo XIV sparì sostituito da quello di Pozzo Bianco. Considerato che detto Vicus parallelo al Vicus Virginum era lungo circa 250 metri, che per la Via Summa Platea e Via Radii Solis penetrava con cenobî con abitazioni con opifici e negozi nel comprensorio dell’episcopio, per i rilievi topometrici dobbiamo considerare un’area di circa 40.000 mq. con forse 1000 anime (2).

 

Inoltre se i Bulgari avevano qui coi vescovi, come a Genova, rapporti stretti, dovevano risultare i fornitori ed anche gli agenti di tutto il ceto ecclesiastico secolare e claustrale per il vestiario per gli arredi e per le derrate.

 

Tutto questo ci spiega perché vennero agevolate penetrazione ed influenza dei duchi di Napoli entro Capua Vecchia dopo la fuoruscita degli elementi langobardi.

 

 

(2) Arch. Stor. Pr. Nap., vol. XVII.

 

 

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Papa Giovanni VIII fu costretto a fare delle due Capue due diocesi nell’879. Nell’880 nel grande anfiteatro, per istigazione di Attanasio duca e vescovo di Napoli e col consenso dei cittadini, prese posto un presidio di saraceni, terrore dei dintorni. Poco dopo apertamente in nome del medesimo Attanasio col titolo di console vi governò tale Guaiferio, il quale con ausiliari napoletani e saraceni tentò la presa di Capua Nuova. Solo gli eccessi di Guaiferio fecero sì che i cittadini disillusi aprissero le porte al signore langobardo Atenolfo nell’887. I bulgari campani produttori in perfetta intesa con quelli partenopei manifatturieri e mercanti avevano interesse prevalente a mantenere contatti amichevoli coi bizantini ed anche coi saraceni.

 

Coi saraceni di Agropoli furono certo in buoni rapporti quei bulgari, che, disposti nella piana di Pesto nonché fra il capo Palmuro ed il golfo di Policastro, vi prosciugarono gli acquitrini, v’incrementarono l’agraria produzione e fissarono il nome della contrada.

 

Dipendenti e forse collaboratori dei bizantini anche nelle armi furono i bulgari bonificatori della mortifera valle del Crati, sparsi nei casolari delle colline di Castrovillari, integrati nei secoli posteriori dagli ungheri e quindi con maggiori apporti dagli albanesi.

 

Dei bizantini furono essi pure dipendenti e collaboratori nelle sicule contrade di Leontini di Burgio di Corleone e di Ribera (3).

 

Premessa una necessaria, per quanto rapida, esposizione della diaspora dei bulgari di Altzek per le varie meridionali regioni, reso evidente il merito loro di avere bonificato le contrade più malsane di avervi circoscritte e sistemate le unità poderali, e di avervi prodotto un definitivo incremento economico e demografico,

 

 

(3) Per gli stanziamenti bulgari in Italia possono essere consultate le opere seguenti:

 

 

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perfezionato soltanto nel nostro secolo con la lotta idromeccanica e chimica contro la malaria, resta compito dello storico e del giurista precisare in primo luogo se tale gente sia stata inserita nella organizzazione statale langobarda fra i liberi fra gli aldi o fra i servi, e, se almeno nei grandi accentramenti, abbia beneficiato di leggi speciali nell’ordine civile penale amministrativo e consuetudinario.

 

Tutte le carte ci presentano i bulgari concessionari di vasti distretti per la intera Italia, elevati anche nel primo periodo e mondo langobardo a gastaldi scultasci giudici, all’ufficio, se non al titolo, di duca (almeno per la campagna di Milano e di Pavia).

 

Essi erano perciò liberi (4) uomini e quasi tutti massari (conduttori di tenute proprie o prese a livello), ad eccezione dei funzionari degli esercitali dei manifatturieri e dei commercianti.

 

La dovizia prodotta dalla molteplice attività permise loro dal 1000 in poi di sostituirsi ai langobardi nella signoria nel comando nella preminenza ecclesiastica.

 

Bisogna ritrovare i servi fra quelli condotti dai conquistatori e soci dalla Pannonia, fra quelli dell’Italia preesistenti alla conquista germanica, fra i romani spogliati, fra i vari prigionieri specie fra i non cristiani. Con Agilulfo e Teodolinda, per opera di papa Gregorio i romani migliorarono la loro sorte.

 

I servi recavano l’indelebile marchio della schiavitù di generazione in generazione fino al giorno dell’affrancamento.

 

I servi vissero perciò vincolati ai langobardi nei palazzi nell’esercito e nella pars dominica della curtis, ai bulgari nella pars massaricia negli opifici e nei trasporti.

 

Gli aldî, generati dall’unione illegale di madre libera con padre servo od ignoto, restavano sotto il patronato per lo più di parenti materni, che cercavano agevolare certo la loro elevazione.

 

Affini agli aldî erano i liberti, servi affrancati con residuo di vincoli verso i signori.

 

Di aldî e di liberti furono certo molti presso i langobardi e presso i bulgari.

 

Ora passiamo alla domanda :

 

Venne ai bulgari concesso l’uso delle loro leggi tradizionali, come lo fu per i romani ?

 

 

(4) Liberos homines defensanos... indicati bulgari per gran parte dal nome: Bartoloni F., Carte dell’Abbazia di S. Modesto, L.S.I. per il M.E., Roma 1950, doc. 5, p. 15.

 

 

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Il Troya (5) ed altri ammettono che tale uso fu tollerato solo prima che le Cadarfede langobarde venissero codificate dall’Editto di Rotari.

 

Molti ne trovano la concessione nei capi 377 e 390 dell’Editto stesso.

 

Tale concessione troppo è manifesta nel capo 100 del L. VI delle Leggi di Liutprando, nei capi 28, 29 e 46 delle Leggi di Pipino, e meglio nel capo 37 delle Leggi di Lotario.

 

Per altro in tutti i codici fino a noi pervenuti dichiarano i Bulgari vivere lege longobarda salica et romana.

 

Nessuno dice lege bulgara. Ma si deve osservare:

 

1) che detti documenti sono tutti posteriori al 1000, quando i particolarismi si andavano fondendo nel diritto langobardo franco ovvero in quello romano;

 

2) che il sistema feudale generalizzato aveva sconvolto qualsivoglia costituzione statale;

 

3) che i dichiaranti si riferivano al vincolo giuridico principale.

 

Inoltre i toponimi Brolo, Brolio, Brolli, Broletto, Birolas, numerosi per tutte le italiche province, precisano che furono in Italia sedi di consessi giudiziari ed amministrativi di genti pannoniche. In Ungheria il giudice di qualsivoglia grado e genere viene detto birò in relazione a bir (potere e possedere) e birodalom (regno).

 

Come abbiamo visto alcuni hanno dato ai toponimi suddetti diverse interpretazioni, tutte improprie, compresa quella del Du Cange, che vuole riferirsi all’orto cintato. Giorgio Giulini nelle sue Memorie di Milano (6) ci precisa che il brolo nella sua città risultava un recinto fuori le mura, ove furono in seguito edifizi sacri e profani, che era di giurisdizione dell’arcivescovo ed estendevasi dal verzaro a S. Balbina (tra porta Roma e porta Orientale). Aggiunge che anticamente serviva per mercati, spettacoli, passeggi, esercizi guerreschi ed anche per concili ed esecuzione delle sentenze di morte; che vi si abbruciavano i rei; che un piccolo brolo detto broletto era in Milano dove ora è il palazzo di corte e serviva per tribunale e convegno di cittadini (vol. I, p. 58).

 

 

(5) Troya, Codice Dipl. Longobardo, Napoli 1950.

 

(6) Giulini G., Memorie di Milano, Milano, Ed. Celso 1754. Il Summonte fa derivare biro-las da viri lassi; il Mazzocchi scompone la voce in var o bar (arx civitas) ed olt (vetus); lo Schipa definisce la parola misteriosa; altri la fanno derivare da un ipotetico arabo bir (fortezza), che invece in arabo è Cala Calta o Calata.

 

 

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Nel vol. II troviamo passo dov’è detto «In Monasterio seu in Brolio S. Ambrogi», ove l’abate aveva propria giurisdizione; e nel vol. IV p. 22 Ospedale del Brolo. Le carte di Lodi citano «brolium pro publico arengo».

 

Il regesto di S. Apollinare Nuovo nel doc. 18 (anno 1017) ci descrive i confini di un «Brolio» che per avere la iniziale maiuscola, deve indicare, non un comune recinto orticolo, bensì vero e proprio cittadino istituto, e nel doc. 154 (anno 1192) ci dice: «Murus Broli nostri dominicati». I Broletti non erano al certo recinti di spiazzi ma veri e propri edifizi. Furono e sono detti biro-las (in vernacolo Vir-lasc) gli anfiteatri di S. Maria di Capua e di Venafro.

 

Nella città di Pavia per i langobardi amministrava Gastaldus Regis nel Sacro Palazzo presso la chiesa di S. Michele Maggiore. Ma nel rione settentrionale, fra l’antica piazza Annunziata e la presente piazza Castello si ergeva la chiesa di S. Andrea, che faceva corpo col Brolio, ufficio giudiziario ed amministrativo per le famiglie della campagna verso Milano, detta Bulgaria (7).

 

Relitti di tali numerosi toponimi, oggi riscontriamo in centri abitati grossi (Brolio di Messina), od in piccoli presso Castiglion Fiorentino, Figline Valdarno, Nomio Novarese, Ca’ d’Andrea, ecc. Cessa perciò pure la supposizione che luoghi così nomati significassero verzieri o spiazzi più o meno ricinti, occasionalmente adibiti a giudizi ovvero ad assemblea deliberativa.

 

Resta incontrovertibile che abbiamo avuto veri e propri uffici d’ordine giudiziario ed amministrativo permanenti in recinti in edilizi ed in anfiteatri. Il luogo quindi ricevette il nome della funzione alla quale era stato adibito e non viceversa. Restringendoci all’Italia meridionale possiamo affermare che molta luce a noi sarebbe venuta dal Chronicon Vulturnense, ove questo ci avesse riferito di vertenze giudicate nei Biro-las di Capua e di Venafro, come ci fa cenno dei Sacri Palazzi e delle Corti. Vengono registrate vertenze solo per i tumulti dei servi di Abruzzo, ove la ferrea legge langobarda vigeva in pieno.

 

Eppure un documento giuridico, unico sì ma di una eccezionale importanza, sussiste (8).

 

È questo un lungo e circostanziato verbale di un giudizio reso in Bari nel 1127,

 

 

(7) Vanno considerati pure i cognomi Di Brolio e Di Broglio.

 

(8) De Blasiis G., La Insurrezione Pugliese e la conquista normanna, vol. III, Napoli, Detken e Rocholl, 1873, pp. 451-436.

 

 

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ivi governando da principe il langobardo Grimoaldo Alferanite, dal crite (giudice) Michele assistito da nobili cittadini. Un certo Lupone, difeso dall’avvocato Pasquale, venuto a conoscenza che sua madre, fungente da serva in casa di tale Nicola Imbarati, ove lo aveva procreato con ignoti amplessi, era bulgara, chiedeva l’affrancamento dal suo stato servile. Testi responsabili, tra i quali la bulgara Kuranna, giurarono sulla qualità nazionale di Maria; e Lupone venne dichiarato libero con procedura compiuta dal bulgaro Kaloianni turmarca (capo militare).

 

La sentenza ci precisa che solo potevano essere servi o i colpevoli di delitti o gli infedeli o gli slavi. I casi contemplati dalle leggi speciali, secondo re Pipino, erano le successioni, i giuramenti, le composizioni, gli stati di ingenuità.

 

Poiché prima del 1000 troppo notoriamente al di fuori dei langobardi e dei franchi, che imponevano senza distinzione a tutti gli articoli di difesa e di tutela delle prerogative statali, al di fuori degli ecclesiastici applicanti nell’orbita delle loro giurisdizioni i principi del diritto romano e canonico, al di fuori delle provincie bizantine, non erano altre nazionalità nell’Italia, tranne quella dei bulgari, che potessero meritare le concessioni speciali di Rotari di Liutprando di Pipino e di Lotario. Furono dei bulgari quindi esclusivamente i broli, i broletti, i birolas che quando non applicarono più norme penali e civili, rimasero come ufficio per il diritto amministrativo e consuetudinario.

 

Per quest’ultimo le leggi di Carlo Magno al capo 148 e quelle di Pipino al capo 35 erano state così larghe che solo giudici di fon speciali potevano determinarne la portata e l’applicazione.

 

Nella Settimana di studio di Spoleto 26 marzo-1° aprile 1953, il Leicht, riferendo sulla mancanza di fedeltà nelle Consuetudini feudali dei milanesi, ammise la resistenza dei vassalli fra le cause.

 

Ebbene questi abitavano quasi tutti le terre comprese nel ducato di Bulgaria, dove erano vissuti per secoli in un regime tanto difforme da quello feudale, e dove per contrasto d’interessi e di sentimenti sorsero i grandi moti sociali e religiosi della Motta e della Pataria specie contro l’arcivescovo Ariberto d’Intimiano, che proprio nel capoluogo del ducato, Abbiategrasso, aveva i suoi personali possessi. Ed ai movimenti antifeudali del Milanese fanno riscontro quelli del Sannio.

 

L’angioino Bertrando del Poggetto di Estandard ebbe concesso fra vari feudi quello di Canzano, ove richiese prestazioni vessatorie mai prima colà conosciute. Tutti gli abitanti, nessuno eccettuato andarono via.

 

 

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Il re con un primo provvedimento in seguito ad istanza del feudatario, ordinò che i fuggiti tornassero. L’ordine restò lettera morta (9).

 

Il Del Poggetto chiese in conseguenza di venire esonerato dalle contribuzioni fiscali; e ne ottenne il regio rescritto. Non si contano le reazioni anche sanguinose contro i signori ed i loro armigeri. Fra i bulgari nel campo penale due pratiche furono al certo, la prova giudiziaria resa col transitare a piedi nudi sopra carboni ardenti e la tortura inquisitoriale chiamata in Toscana colla forse con parola bulgara. Nel campo del diritto di famiglia avemmo ed abbiamo ancora in qualche luogo, il matrimonio col ratto (10). Solo studiando le remote ed odierne istituzioni degli stati della pianura danubiana, solo confrontando i vari statuti e capitolari antichi dei comuni potremo trovare la luce per tanti nostri medievali organi forensi. Il prof. Bognetti, nella commemorazione di Enrico Besta, ricordando che l’alto medio evo è il dominio dell’indizio, il regno dell’enigma, consigliava unire la erudizione del Manzoni e l’audace pensiero del Vico.

 

Nell’epilogo del nostro primo volumetto del 1933 dicemmo la cosa istessa nel riferire il giudizio del Tommaseo:

 

«la filologia nella mente del Vico contempla non solo la parola ma i fatti tutti che nelle parole sono come simboleggiati... Il fatto è quasi scala al principio, il certo ala del vero.

 

Le etimologie dei vocaboli sono storie di idee, e conducono alla scienza delle origini delle cose».

 

Quando in armonico concorso al ricercatore d’archivio si uniscono il filologo l’antropologo ed il giurista, il successo diventa indefettibile.

 

Vincenzo D’amico

 

 

(9) Reg. Ang. D. 1271, f. 15, Reg. Ang. 5, f. 44 a t.

 

(10) Gobbi Belcredi, in Vie d’Italia, 1938, n. 9. 

 

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