Nefandissimi Langobardi. Le origini di un linguaggio politico

 

Stefano Gasparri

 

 

Puer Apuliae. Mélanges offerts à Jean-Marie Martin, éd. E. Cuozzo, V. Déroche, A. Peters-Custot et V. Prigent, vol. 1, 325-332

(Centre de recherche d’histoire et civilisation de Byzance, Monographies 30), Paris 2008

 

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Lo studio del linguaggio politico in età tardo-antica ed altomedievale rappresenta un campo certamente non nuovo [1]. Tuttavia oggi appare utile riprenderlo in considerazione, lavorando sulle fonti alla luce dei mutamenti, di metodo e di interpretazione, che negli ultimi due decenni sono intervenuti nella storiografia di quel periodo. In un saggio uscito di recente, mi sono occupato io stesso di linguaggio politico, analizzando il modo in cui veniva rappresentata nelle fonti la caduta del regno longobardo nel 774. In quel caso si trattava del linguaggio papale, esaminato sia nell’epistolario pontificio sia nelle vite del Liber Pontificalis relative al periodo considerato: ossia in fonti che entrambe, sebbene diverse fra di loro, avevano in comune il doppio carattere dell’ufficialità e della contemporaneità rispetto agli eventi [2]. In questa breve nota vorrei ampliare quelle riflessioni, andando indietro nel tempo e sviluppando un’intuizione già abbozzata in quella sede; ma prima devo brevemente richiamare le mie osservazioni relative al linguaggio papale contenute nel saggio sul 774.

 

Nell’epistolario pontificio emergono i momenti di maggiore tensione della situazione italiana, nei quali i papi chiedono aiuto e intervento politico e militare. Non si tratta, come si potrebbe pensare, dei fatti del 774, mai citati direttamente nelle lettere conservate, ma di tre altri momenti: l’offensiva di Astolfo contro Roma nel 756, le trattative nel 770-771 per il matrimonio di Carlo con una figlia di Desiderio e l’abortita sollevazione generale dei duchi longobardi contro i Franchi nel 776.

 

 

1. Un esempio di questo tipo di studi, abbastanza vicino al campo d’indagine di questo articolo, è in C. Azzara, L’ideologia del potere regio nel papato altomedievale (secoli VI-VIII), Spoleto 1997 (Testi, studi e strumenti del Centro italiano di Studi sull’alto medioevo, 12).

2. S. Gasparri, The Fall of the Lombard Kingdom. Facts, Memory and Propaganda, in S. Gasparri dir., 774. Ipotesi su una transizione, Turnhout 2008, p. 10-90.

 

 

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Ed è soprattutto nel 756 e nel 770-771, gli anni in assoluto più difficili per la chiesa romana, quando i due papi, Stefano II e Stefano III, non erano nemmeno del tutto sicuri del pieno appoggio franco, che il linguaggio impiegato nelle lettere è durissimo, addirittura violento [3]. Ad esempio Stefano II, nel febbraio del 756, accusa il nequissimus Haistulfus di malefatte così allucinanti da non risultare credibili: la campagna romana devastata, le case bruciate, le chiese incendiate e le immagini sacre bruciate e fatte a pezzi con le spade, le ostie consacrate mangiate dai Longobardi insieme con la carne, gli arredi sacri distrutti, i monaci e le monache uccisi, i contadini fatti schiavi, per finire con la strage dei bambini strappati dalle mammelle delle madri [4].

 

Le categorie impiegate dal papa nella lettera sono morali e religiose, ma il contenuto del messaggio è politico, perché si tratta di convincere il re franco ad intervenire per la seconda volta in Italia. Siamo dunque di fronte ad un pezzo di propaganda sopra le righe, ad un vero e proprio picco di retorica politica che però non è l’unico. Un altro esempio lo si può trovare nella fase, ugualmente critica, segnata dal pericolosissimo progetto di matrimonio fra un principe franco, che sarà poi Carlo, e una figlia di Desiderio, fase immortalata dalla celeberrima lettera in cui il papa, che stavolta è Stefano III, definisce i Longobardi una perfida ac foetentissima gens, che non può neppure essere computata fra i popoli, dalla cui natio è certo che si è originato il leprosorum genus, ossia la stirpe dei lebbrosi [5]. Tornerò più avanti su questa espressione.

 

In altri momenti il tono delle lettere papali non raggiunge il grado di violenza verbale legato ai due episodi ora citati, anche se comunque non lo si può certo mai definire misurato. Un aggettivo pesante come nefandissimus scatta ad esempio in modo automatico nell’epistolario per tutti coloro che si trovano su un fronte opposto rispetto agli obbiettivi in quel momento perseguiti dalla chiesa di Roma. «Nefandissimi» sono così indifferentemente non solo i Longobardi e i loro re e duchi, ma anche i Beneventani, gli Spoletini, i Greci, i Napoletani e lo stesso arcivescovo di Ravenna, Leone. Personaggi e collettività che per di più perdono tale aggettivo anche a brevissima distanza di tempo, se il loro atteggiamento verso Roma cambia. In tali condizioni è evidente che nefandissimus per la cancelleria papale perde il suo vero e proprio valore semantico e diventa una pura etichetta politica, e non più morale, che individua semplicemente l’appartenenza ad uno schieramento avverso a quello papale [6].

 

Aggiungo solo un esempio preso dal Liber Pontificalis: la biografia di Stefano II, che va letta in perfetto contrappunto alle violente lettere inviate dalla cancelleria di quello stesso papa. La portata della minaccia politica rappresentata per Roma da Astolfo lo fa definire con tutti gli aggettivi negativi possibili: protervo, nefando, crudelissimo, atrocissimo, blasfemo, nequissimo, maligno, iniquo, pestifero, tiranno; la sua azione - in particolare la rappresaglia contro Roma del 756, la stessa descritta con toni accorati nella lettera ricordata prima - è caratterizzata sempre da crudeltà ed astuzia, ed il suo cuore di pietra,

 

 

3. Gasparri, The Fall of the Lombard Kingdom (cit. n. 2), p. 20.

4. Codex Carolinus, in Epistolae Merowingici et Karolini aevi I, ed. W. Gundlach, E. Dümmler, Berlino 1892 (MGH, Epistolae, 3), n° 8, p. 495.

5. Codex carolinus (cit. n. 4), n° 45, p. 561.

6. Gasparri, The Fall of the Lombard Kingdom (cit. n. 2), p. 30.

 

 

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secondo il biografo papale, non si fa intenerire dagli accorati appelli di Pipino e di Stefano, che vogliono a tutti i costi evitare uno spargimento di sangue [7].

 

I nefandissimi Longobardi, vera stirpe di lebbrosi: così, icasticamente, sono presentati dalle fonti papali del tardo VIII secolo i padroni di buona parte d’Italia. A questo punto, per evitare di far scattare automaticamente tutti i pregiudizi possibili esistenti sui Longobardi - il loro pervicace paganesimo, l’ostilità alla Chiesa, ai vescovi, ai Romani, tutti tratti negativi che sarebbero confermati dalle fonti ora citate -, bisogna ribadire con forza l’assunto iniziale, e cioè che quello ora rapidamente presentato è un linguaggio politico, le cui radici sono antiche e risalgono almeno al VI secolo [8]. Nel mio saggio sul 774 scrivevo che tali radici erano rintracciabili forse all’età di Gregorio Magno, il papa che in una lettera aveva gioito della morte del nefandissimus re Autari e che nei Dialogi aveva parlato della effera Langobardorum gens, che in nostra cervice crassata est. È una affermazione che va sfornata, anche se in effetti è possibile che l’età gregoriana sia stata importante sulla strada di una codificazione di questo linguaggio papale (ed ecclesiastico in genere) anti-longobardo [9]. Alla fine del secolo VIII, il rapporto fra Gregorio e i Longobardi sarebbe stato utilizzato o presentato come un precedente, giacché si riferiva ad una fase di tensione gravissima vissuta dal papato all’inizio del periodo del dominio longobardo, per molti versi paragonabile, nella sua pericolosità, a quella degli anni fra il 750 circa e il 774, quando il regno longobardo si avviava alla fine.

 

Il parallelismo senza dubbio è forte. Non è un caso che l’unico raffronto possibile per il racconto delle terribili devastazioni di Astolfo sia quello con la descrizione accorata dei Romani portati via in schiavitù legati per il collo more canum e dei contadini che si rifugiavano a Roma con le mani mozzate, ricordati appunto da Gregorio nelle lettere e nelle omelie. E non è neppure un caso che proprio tra il 772 e il 795 (l’età di Adriano I) sia stata fatta una prima raccolta delle lettere di Gregorio Magno - la cosiddetta collezione adrianea -, che riduceva pesantemente il corpus originario delle lettere, passando da dodici volumi a due, e che al tempo stesso metteva in circolazione una versione ridotta ed «ufficiale» del Registrum [10].

 

In realtà Gregorio dovette valere come precedente per gli ambienti intellettuali del palazzo lateranense anche, e forse soprattutto, perché aveva inquadrato l’arrivo e l’insediamento dei Longobardi in Italia in una chiave apocalittica: dai Dialoghi, alle omelie, alle stesse lettere - in particolare quelle inviate ad interlocutori lontani, a Bisanzio, in oriente -, l’avvento dei Longobardi, delle «spade longobarde» (Langobarodum gladii), come egli scrive ossessivamente, è un evidente sintomo che annuncia la fine dei tempi.

 

 

7. Le Liber Pontificalis, ed. L. Duchesne, Roma 1886, Stephanus II, 94, I, p. 440-462.

8. Accenni utili per una rilettura della «storia religiosa dei Longobardi» (per riprendere Gian Piero Bognetti) si possono trovare in S. Gasparri, Roma e i Longobardi, in Roma nell’Alto Medioevo (Spoleto, 27 aprile-1 maggio 2000), Spoleto 2001 (Settimane di studio del Centro italiano di studi sull’alto medioevo, 48), p. 219-253.

9. Gasparri, The Fall of the Lombard Kingdom (cit. n. 2), p. 25, dove si cita anche, come indicativa di un linguaggio e di un approccio culturale, l’epistola inviata all’imperatore Maurizio dai vescovi dell’Italia nordorientale nel 591.

10. Gasparri, The Fall of the Lombard Kingdom (cit. n. 2), p. 30.

 

 

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Si trattava di una lettura forte, che collocava definitivamente i Longobardi dalla parte del male assoluto, e che Gregorio offriva ai suoi interlocutori bizantini [11]. Essa tuttavia conviveva tranquillamente con un atteggiamento diverso, presente nelle lettere inviate da Gregorio ai sovrani longobardi Agilulfo e Teodolinda a partire dagli ultimi anni del secolo VI, dove il linguaggio politico è misurato e pieno di riconoscimenti di meriti anche religiosi nei confronti dei due sovrani longobardi [12]. Non è una prova di ipocrisia, ma semplicemente della capacità di Greogrio di utilizzare due registri linguistici diversi, applicandoli a situazioni e interlocutori politici differenti, per ottenere risultati efficaci e, ancora una volta, diversi.

 

Per ciò che riguarda strettamente il linguaggio politico dei papi del tardo VIII secolo, però, se è vero — e va ribadito — che Gregorio fu certo un tramite importante, è possibile sicuramente risalire ancora indietro nel tempo alla ricerca di precedenti. Prima di compiere questa operazione, va però sottolineato un fatto, che non può passare sotto silenzio: tra l’età di Gregorio e quella di Stefano II, ossia nel corso del secolo VII e della prima metà circa dell’VIII, non ci sono tracce di questo linguaggio aggressivo, che viene ripreso solo nei grandi momenti di crisi più sopra ricordati [13]. Saltando questa fase di relativa stabilità, dobbiamo quindi rivolgerci al periodo della crisi tardo-antica, risalendo anche oltre Gregorio Magno. È una lettera di Pelagio II ad Aunario vescovo di Autun a riportarci nell’atmosfera che abbiamo già incontrato. Siamo nel 580 e da pochi anni i Longobardi sono diventati una presenza minacciosa per Roma e i pontefici, che fino ad allora li avevano ignorati.

 

 

11. Qualche esempio dalle lettere: Gregorio Magno, S. Gregorii Magni Registrum epistularum, ed. D. Norberg, Turnhout 1982 (Corpus Christianorum, series latina, 140), V, 36 (a Maurizio augusto: sui contadini fatti schiavi e legati come cani), 39 (a Costantina augusta: inter Langobardorum gladios vivimus), 40 (al vescovo Sebastiano di Sirmio: malitiagladios Langobardorum vidi), 42 (al vescovo Anastasio di Antiochia: quantas vero in hac terra tribulationes de Langobardorum gladiis), VI, 61 (al vescovo Eulogio di Alessandria: quanta autem nos a Langobardorum gladiis in cotidiana nostrorum civium depraedatione vel detruncatione atque interitu patimur), tutte lettere del 595-596. Quanto all’uso di nefandissimus da parte di Gregorio, oltre all’esempio già citato del nefandissimus Aurati (è in una lettera a Maurizio, Gregorio Magno, Registrum epistolarum, I, 17, dell’anno 591), si vedano due altri esempi ancora nelle lettere e sempre relativi ai nefandissimi Langobardi: V, 38 (anno 595, nefandissimus Autharith) e VII, 23 (anno 597). Infine, nei Dialoghi si parla di carmen nefandum a proposito di un rito pagano dei Longobardi: Gregorii Magni, Dialogi libri IV, ed. U. Moricca, Roma 1924 (Fonti per la Storia d’Italia pubblicate dal’Istituto storico italiano. Scrittori, 57), III, 28, p. 199.

 

12. Si vedano ad esempio le lettere inviate da Gregorio a Teodolinda a proposito dell’elezione dell’arcivescovo di Milano Costanzo, in un primo tempo non accettata dalla regina: Gregorio Magno, Registrum Epistolarum (cit. n. 11), IV, 4 e 33 (sett. 593 e lugl. 594); o la lettera scritta dal papa ad Agilulfo sulla pace stipulata con l’impero: Gregorio Magno, Registrum epistolarum, IX, 66 (anno 598).

 

13. È degno di nota che questo linguaggio non appaia neppure nell’età di Liutprando, quando l’offensiva militare di quel re arrivò a minacciare seriamente, per la prima volta, l’Esarcato. Solo alla fine della vita di Zaccaria, nel Liber Pontificalis, fa capolino, alla morte di Liutprando, una definizione negativa (insidiatore e persecutore) di quel re: ma è molto poco (Liber Pontificalis, [cit. n. 7], Zacharias, 93, p. 431). Evidentemente il contesto dell’età di Liutprando, che, sullo sfondo della crisi iconoclastica, vedeva il fronte romano (papale e bizantino) spaccato al suo interno e fortemente legato, l’una o l’altra parte alternativamente, ai Longobardi, impediva definizioni ideologiche troppo nette dei conflitti in corso. Sull’età di Liutprando: P. Delogu, Il regno longobardo, in G. Galasso, Storia d’Italia, Torino 1980, I, p. 145-163.

 

 

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Ora invece Pelagio scrive in modo accorato ad Aunario, che non può venire da lui perché gentilis motus obsisteret, ossia perché i Longobardi lo impediscono, esortandolo a premere fortemente sui suoi re - Childeberto II di Austrasia, ancora giovanissimo, e il suo tutore Guntramno di Borgogna - perché intervengano per aiutare Roma e l’Italia a superare questi temporalia flagella, autentiche prove cui Dio sottopone i suoi fedeli: Pelagio è sicuro che qui nequiter agunt exterminabuntur, tuttavia ritiene che sia il momento di agire. Non è un caso, scrive, bensì accade per disposizione della divina Provvidenza che i vestri reges, i re franchi, siano simili all’impero romano nell’ortodossia della fede: ed è per questo che è necessario soccorrere la città da cui tale impero fu originato e con essa tutta l’Italia. Per fare ciò, conclude Pelagio, su istigazione di Aunario i due re dovranno però recedere dall’alleanza con i Longobardi: quorum virtutem quaeritis, eorum tempia a pullucione gentium liberari [...] festinetis, affinché ab inimiciciis et coniunctione nefandissimi hostis Langobardorum salubrae se provisione segregare festinent e non vengano quindi colpiti anche loro, quando il tempo verrà, dalla vendetta divina [14].

 

Pur se solo abbozzato, il tema che accomuna degenerazione fisica e condanna morale è lo stesso sviluppato più ampiamente nella lettera di Stefano III contro il matrimonio fra un principe franco e una figlia di Desiderio: i Longobardi sono una polluzione, una degenerazione fisica, materiale, che è il riflesso della loro colpa morale; è la strada aperta per definirli lebbrosi, come farà appunto Stefano due secoli dopo. Inoltre, analogamente ai testi di fine VIII secolo, e nell’ambito di una crisi politico-militare ugualmente violenta, contro i Longobardi detti non certo a caso nefandissimi si invoca l’intervento franco.

 

Il linguaggio impiegato da Pelagio non è isolato. Se ne possono rintracciare altri esempi spostandoci fuori dall’ambito strettamente papale: ed è questo che rende il fatto ancora più interessante. Nel corso del 584 e 585, con qualche breve appendice subito prima e subito dopo, si ebbe un nutrito scambio di lettere fra la corte franca e quella imperiale, relativa fondamentalmente a due fatti, fra loro strettamente collegati: un trattato di pace ed alleanza fra i Franchi e l’impero e un intervento in Italia contro i Longobardi. Nelle lettere franche si cerca faticosamente di accreditare un piano di parità con l’impero, parlando dell’una e l’altra pars, o gens, ciascuna delle quali avrebbe ricavato vantaggio dalla pace; più solennemente, da parte sua l’imperatore Maurizio parla della vestrae gentis unitas atque felicissimae nostrae reipublicae (peraltro anche da parte franca l’impero è sempre definito solennemente Romana respublica). Mediatori terreni della pace sono di frequente dei vescovi, a riprova del legame rappresentato dalla comune fede cattolica (la ricerca della pace è motivata del resto studio catholicae caritatis); come intermediario spirituale è invocato Cristo stesso [15]. Su questo sfondo di trattative e di ricerca di un piano comune di incontro si inseriscono le lettere relative all’intervento in Italia, che sono molto più drammatiche in quanto scritte sotto l’incalzare degli avvenimenti militari.

 

 

14. Epistolae aevi Merowingici collectae, in Epistolae Merowingici et Karolini aevi I (cit. n. 4), n° 8, p. 448- 449.

15. Epistolae aevi Merowingici collectae (cit. n. 14), n° 25-48 (alcune lettere si occupano anche, a latere rispetto alle trattative di pace vere e proprie, della restituzione di giovani imparentati con la famiglia merovingia e prigionieri a Bisanzio), p. 138-153. La lettera di Maurizio è la n. 42 (585 o forse 590), p. 148-149; l’altra citazione è in una lettera di Childeberto (n. 36, p. 143) del 584.

 

 

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È l’esarca (Smaragdo o Romano) a scrivere, mettendo in relazione le notizie che riceve sulla christianitas di Childeberto con la sua pronta volontà di intervenire ad liberationem Italiae. Egli descrive le vittoriose fasi iniziali dell’offensiva contro la gens Langobardorum nefandissima, che portano all’occupazione di Modena, Altino, Mantova, poi esprime la sua delusione per gli accordi di pace che i duchi franchi hanno preso con Autari, ritirandosi carichi di bottino (cosa che oltretutto era contro gli accordi: i Franchi non avrebbero dovuto saccheggiare il paese). I Longobardi sotto la sua penna sono detti ancora gens perfida, inimici Dei et communes (ossia sia dei Franchi che dei Romani) [16].

 

È lo stesso vocabolario utilizzato da Pelagio II, ma qui non siamo più in ambito ecclesiastico, bensì in un contesto ufficiale, romano-imperiale. Nel finale della lettera, poi, quando l’esarca esorta Childeberto ad inviare rapidamente degli altri duchi, degni davvero del compito loro affidato e non inclini a facili compromessi pur di ricavarne vantaggi, lo scopo che addita al re è quello di mettere fine alla strage del sangue cristiano e alla rovina delle chiese e di provvedere alla salvezza dei sacerdoti che sono riusciti a sfuggire alle distruzioni [17].

 

Il quadro qui rapidamente tracciato dall’esarca ricorda in modo immediato la lettera di Stefano II sulle profanazioni di Astolfo. L’attacco alla chiesa viene presentato come il motivo politico determinante che deve far scattare l’intervento di una potenza, il regno franco, il cui legame con l’impero era stato precisamente (e faticosamente) costruito sulla comune natura cristiana e cattolica. Se l’alleanza legittimava i ruoli reciproci, allora la guerra contro i Longobardi ne era la logica ed inevitabile conseguenza: e poiché l’alleanza era basata sulla condivisa christianitas dei due partner, il regno franco e l’impero, allora i Longobardi, in quanto nemici, erano fuori dalla christianitas. In tutto questo, il fatto che essi fossero pagani, ariani o cattolici (ed è probabile che in quel periodo fossero tutte queste cose contemporaneamente) contava relativamente poco: la guerra era non solo per liberare l’Italia, ma anche per venire in aiuto dei cristiani (pro defensione Italiae auxilium christianae gentis) [18]. Il fatto fondamentale dunque è che i Longobardi erano fuori rispetto all’asse franco-imperiale e correvano il rischio di essere stritolati politicamente e militarmente nello stesso tempo in cui venivano isolati ideologicamente. E ovviamente la chiesa di Roma era del tutto inserita nello schieramento imperiale romano, del quale più avanti nel tempo erediterà il linguaggio insieme con le ambizioni politiche in Italia [19].

 

 

16. Epistolae aevi Merowingici collectae (cit. n. 14), n° 40 (585 o 590, da cui discende l’incertezza fra Smaragdo e Romano), p. 145-147.

17. La traduzione letterale del passo non è semplicissima, ma il senso complessivo dovrebbe essere quello indicato qui. Poche righe sopra, sempre nella stessa lettera (la n° 40), si nomina anche il nefandissimus Autharit, la stessa definizione che poi utilizzerà Gregorio Magno (supra n. 11).

18. Citazione in Epistolae aevi Merowingici collectae (cit. n. 14), n° 41, p. 148: si tratta di un’altra lettera dell’esarca a Childeberto, dello stesso anno della precedente.

19. Su questo argomento vedi G. Arnaldi, Le origini del Patrimonio di S. Pietro, in G. Galasso, Storia d’Italia, Torino 1987, VII/2, p. 94-147.

 

 

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Anche nelle lettere di parte imperiale, come più tardi nelle fonti papali, chi passava nello schieramento romano perdeva gli epiteti negativi: il duca del Friuli, il longobardo Gisulfo II, è gratificato del suo titolo onorifico di vir magnificus dallo stesso esarca, in un’altra lettera inviata a Childeberto nello stesso anno. Qui la parte imperiale è definita sancta respublica, una definizione destinata a grande successo in futuro, quando sarà assunta dalla chiesa romana che si presentava come erede dell’impero, nell’ VIII secolo: è un altro filo rosso che unisce i due periodi [20]. Ma ancora più interessante è una lettera del 585 di Chidelberto, ormai maggiorenne, al vescovo milanese Lorenzo, nella quale il re gli chiede di fare da intermediario presso Smaragdo, per comunicargli la sua intenzione di intervenire in Italia l’anno successivo ed invitarlo però ad agire fin da subito, per quanto può. Nella lettera, l’intervento franco è motivato ideologicamente ut catholicae parti nostra non desinent solatia, dunque Franchi e impero costituiscono la pars catholica; di conseguenza i Franchi interverranno, iuxta votum Romanae reipublicae vel sacratissimi patris nostri imperatoris - qui è riconosciuta una superiorità «paterna» all’imperatore, che precisa meglio i rapporti fra regno franco e impero — contro la gentem Langobardorum religioni ac fidei iniquissimae perfidam [21].

 

Il vocabolario di denigrazione politica che più tardi sarà proprio dei papi del secolo VIII qui è già tutto presente. Alla luce delle lettere appena analizzate, non è affatto da escludere l’ipotesi che il primo impiego in senso strettamente politico di questo tipo di vocabolario sia da rintracciare nelle cancellerie romane (di Costantinopoli o di Ravenna) : una traccia di ciò potrebbe essere trovata ad esempio nella Pragmatica sanctio di Giustiniano del 554, dove Totila, normalmente gratificato dell’epiteto di tyrannus, viene una volta definito nefandissimus, e nefandissimi sono chiamati i tempi dei Goti [22]. Più avanti nel tempo, a metà del secolo VII, Giuliano di Toledo nella sua Historia Wambae regis etichetterà sempre come nefandissimus Paolo, ribelle contro il re legittimo Wamba: il contesto culturale di Giuliano è ovviamente quello tardo-romano, quindi anche questa è una testimonianza significativa [23]. Sono tutti accenni che indicano altre possibili direttrici di ricerca [24].

 

 

20. Epistolae devi Merowingici collectae (cit. n. 14), n° 41, p. 147.

21. Epistolae aevi Merowingici collectae (cit. n. 14), n° 46, p. 151.

22. Corpus iuris civilis, ed. M. Kriegel, Pragmatica sanctio Iustiniani, Lipsia 1887, III, cc. 8 e 15 (per Gothicae ferocitatis nefandissima tempora).

23. Giuliano di Toledo, Historia Wambae regis, ed. B. Krusch e W. Levison, Hannover 1910 (MGH, Scriptores rerum Merovingicarum, 5), p. 522 e 533 (ristampa anastatica, Hannover 1979); e v. anche la lettera di Leone III sui nefandissimi Mauri che minacciano l’Italia meridonale in Leonis papae epistulae X, in Epistulae Karolini aevi, ed. E. Dümmler, Berlino 1899 (MGH, Epistolae 5), n° 6, p. 96 (anno 812).

24. Un esempio della necessità di compiere altre indagini è ad esempio nell’uso di nefando da parte di Cassiodoro nell’Expositio psalmorum (n° 67 e 91), dove è applicato agli Ebrei: rispettivamente, nefandi Iudaei e nefanda perfidia Iudaeorum. È una spia della probabilità di un’origine prima del linguaggio di cui ci stiamo occupando in testi ecclesiastici, ma con un valore religioso (contro gli Ebrei o magari gli eretici); in seguito (inizio-metà del VI secolo?) esso potrebbe essere stato mutuato dalle cancellerie romane e trasportato così sul piano politico, nella contrapposizione tra l’impero cristiano (la sancta respublica) e i suoi nemici. Nello stesso modo lo avrebbe anche utilizzato, autonomamente o per mutazione dalla parte imperiale, la corte papale nello stesso VI secolo e poi di nuovo nell’VIII. Questo così delineato però è un percorso che per il momento è solo ipotetico, e al quale varrà la pena di dedicare future ricerche.

 

 

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Tornando al contesto di cui ci stiamo occupando, è significativo che anche la cancelleria franca, nel momento in cui si colloca saldamente in uno schieramento complessivo romano-cattolico, faccia proprio il linguaggio politico romano, definendo come abbiamo visto i Longobardi gente al massimo grado iniqua e perfida verso la religione e la fede. E ancora, in una lettera al duca longobardo passato con i Romani, Grasulfo, lo stesso Childeberto scrive che il suo intento è quello di pariter iniuria Dei et sanguine parentibus nostris Romanis, Cristo presule, vindicare: con ciò presentando l’occupazione longobarda come un atto contrario alla volontà di Dio e sottolineando al tempo stesso anche la parentela, ossia l’alleanza politico-religiosa dei Franchi con i Romani [25]. Un’alleanza che consentiva di inserire il regno dei primi, in forte ascesa in occidente, in un quadro politico-ideologico consolidato e cementato dalla comune christianitas.

 

Da questo quadro invece erano fuori i Longobardi. Il loro esserne fuori dipese dalle circostanze politiche della fine del secolo VI più che dalle loro presunte preferenze o scelte in materia religiosa. Ma il fatto gravido di conseguenze per il futuro è che, passato il momento di crisi acuta ed assestatosi il dominio longobardo in Italia, questa situazione di partenza in realtà non muterà. La conventio ad excludendum nei confronti dei Longobardi da parte dei Franchi e dei Bizantini (e poi dei papi che ne prenderanno il posto) riemergerà infatti intatta ogni volta che si scatenerà nuovamente la lotta politica per il dominio della penisola italiana, fino allo sbocco drammatico della fine del secolo VIII. E il fatto che i re longobardi di quel periodo fossero dei sovrani cattolici al pari di quelli franchi [26] non sposterà minimamente non solo la lotta militare nei loro confronti, ma anche la condanna infamante di perfidia e nefandezza che - in chiave del tutto ed esclusivamente politica - verrà impressa su di loro da parte dei papi e dei nuovi re franchi, quei Carolingi che sull’alleanza con la chiesa in generale e quella di Roma in particolare avevano costruito anche la loro legittimità di stirpe regia e le loro fortune nel gioco politico interno al regno franco.

 

 

Dipartimento di Studi storici

Facoltà di Lettere e Filosofia

Università Ca’Foscari Venezia

 

 

25. Epistolae aevi Merovingici collectae (cit. n. 14), n° 48, p. 152-153.

26. Si veda Gasparri, Roma e i Longobardi (cit. n. 8), e anche S. Gasparri, La regalità longobarda. Dall’età delle migrazioni alla conquista carolingia, in S. Gasparri dir., Alto medioevo mediterraneo, Firenze 2005 (Reti medievali, 3), in particolare p. 219-221.

27. Sull’ideologia carolingia si veda ad es.: P. Fouracre, The Long Shadow of the Merovingians, in J. Story, Charlemagne. Empire and Society, Manchester 2005, p. 5-21.

 

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