Il Molise dalle origini ai nostri giorni. Volume primo. La provincia di Molise

Giambattista Masciotta

 

 

XX. Il Bilancio morale di un secolo (1806-1912)

Le classi e le innovazioni sociali all’alba del secolo XIX.

La vita nei nostri paesi.

La famiglia.

L’amministrazione pubblica. Le industrie e i commerci.

L’agricoltura.

L’emigrazione.

Etnografia ed Etnologia del Molise

   - Zingari

   - Slavi

   - Albanesi

   - Indigeni

La ricchezza collettiva.

La crisi del lavoro agricolo ed il regime protezionista

 

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(Etnografia ed Etnologia del Molise)

- Zingari

 

 

Assai varia è la fisonomia etnica del nostro Contado. Fra i naturali — gli aborigeni — che costituiscono la grande maggioranza della popolazione, si sono infiltrati a lunghi intervalli di tempo elementi esotici dei quali è mestieri intrattenerci, pel motivo che tali elementi, lungi dall’essersi confusi e fusi con gli ospiti, hanno conservato e conservano tuttora in gran parte le caratteristiche fisiche e morali, ed il crisma specifico della rispettiva stirpe, conferendo al Molise una nota demografica particolare che manca del tutto ad altre provincie. Non si attenda però il lettore un compiuto studio demopsicologico, che richiederebbe il genio e la pazienza d’un Giuseppe Pitrè; ma si appaghi di un breve cenno quale ci è consentito dalle nostre modeste attitudini al grandioso argomento.

 

L’infiltrazione più antica è quella degli zingari. Non si tratta però di quei nomadi che in Europa vengono generalmente chiamati “boemi„ o “tzigani„ e “gitani„ nella penisola iberica; non si tratta nemmeno di quei randagi d’origine balcanica che si vedono in giro nel centro e nel settentrione d’Italia, raccolti in tribù organizzate, i quali si accampano fuori dello città e vivono riattando e vendendo i minuti arnesi di ferro per uso di cucina, come treppiedi, padelle, mestole, ecc.

 

Gli zingari nostrali — detti pure un tempo “gizzî„ o “egizii„ denunciano l’origine levantina, e sono indigeni del tutto e da secoli. È tradizione, anzi, che fin dall’età longobarda essi fossero — se non confinati — certamente accentrati a Ielsi, che sarebbe stata la loro capitale. Ielsi, invero, nei più vetusti diplomi feudali è detta “Gittia„ e “Gitium„ e “Terra Giptie„ in quelli del secolo XV. Da Ielsi si diramarono poi, man mano, nei paesi tra il Fortore e il Biferno, e questo fiume oltrepassarono sparpagliandosi nelle adiacenze.

 

Hanno oggi residenza abituale in alcuni Comuni dei Circondali di Campobasso o di Larino, donde poi escono alla spicciolata per convergere dovunque ricada o una fiera importante,

 

 

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o un mercato di qualche conto, o una festa di grido. Di feste, e mercati, e fiere, non essendo penuria nella provincia, essi seguono un itinerario di consuetudine, che li trattiene periodicamente un po’qua, un po’là; di guisa che nel paese domiciliare non dimorano forse più di due o tre mesi dell’anno. Menano, dunque, in realtà, una vita da girovaghi e da peregrinanti.

 

Al pari dei semiti , gli zingari rifuggono in modo assoluto dal lavoro dei campi. Detestano, anzi, ogni sorta di lavoro mannaie; e sono dediti esclusivamente al commercio degli equini e prevalentemente degli equini di scarto. In questo commercio concentrano tutta la loro attività, ed esplicano la loro viva intelligenza, l’astuzia più sottile, la furberia più matricolata, e la superlativa inclinazione all’inganno ed al raggiro, caratteristica nei levantini.

 

Gli asini più spedati, i ronzini più bolsi, i muli fiaccati da inguaribili guidaleschi, rifioriscono a vista in salute in seguito allo cure sapienti ed affettuoso che gli zingari sanno prodigare; o rimessi su, vengono presentati nelle fiere ben portanti e pasciuti, quasi non avessero mai lavorato durante la vita. Con droghe, aromi e mezzi fisici speciali, gli zingari sono capaci perfino di farvi apparire briose e scalpitanti quelle povere bestie, come se anelassero alla fatica ed alla corsa!

 

Nessuno conosce al pari degli zingari i farmaci più efficaci nei casi estremi, i rimedi eroici, gli espedienti per attenuare l’età, il regime clinico per giungere a dissimulare un qualunque difetto evidente, od un vizio inveterato. Nelle fiere popolose i credenzoni abboccano facilmente; e gli zingari realizzano il profitto per cui hanno travagliato da mesi.

 

Di vizî redibitori essi non rispondono. Sono al di sopra della legge. Ed ecco come. Contrattando con zingari, voi non riuscirete mai a comprendere chi sia il proprietario vero e il vero interessato, e chi il sensale, il compare, l’amico, il semplice curioso o l’indiscreto; poichè non appena si avvedono che avete posto gli occhi su di un capo, vi accerchiano in frotta uomini e donne, o si dànno tumultuariamente ad esporvi e decantarvi i pregi della bestia.

 

Tutti s’interessano al negozio, ed essendo bilingui hanno modo di congiurare e mettersi d’accordo sul come debbano raggirarvi, senza che voi possiate comprendere una sola parola. Fingono sempre di essere dissenzienti fra loro durante il tira e molla del prezzo, e per darvela a credere altercano e sono capaci perfino di venire alle mani. Quando il colpo è riuscito, sfollano, ed ognuno prende la propria via, pronti a ripetere la manovra quando e dove occorra.

 

Il compratore si avvedrà più tardi elio la bestia è avariata, e ch’egli è stato miserabilmente giuntato; ma nel frattempo il mariolo che glie l’ha venduta ha già interposto qualche miglio di strada fra sè e la vittima. Dove rintracciarlo? Vattelapesca. Nessuno degli zingari stati presenti al negozio ne sa nulla : nessuno lo conosce, nessuno è al caso di indicare il paese dove risiede, l’hanno visto quel giorno per la prima volta.....

 

 

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Gli zingari trovan modo d’esimersi dall’espiazione delle frequenti condanne che ricevono nelle Preture; sanno esimersi talora finanche dal servizio militare; figurarsi se riesca loro difficile a ciurmare un uomo dabbene e tanto meglio un dabben’uomo !

 

Il tenore di vita degli zingari è quanto di più semplice si possa immaginare. Ha del primitivo, del selvaggio, del trogloditico. Usciti dalla residenza abituale — dove convivono in qualche stalla in più famiglie, nella più completa promiscuità, bestie comprese — essi non prendono alloggio nei paesi dove sostano: non ne hanno bisogno. Un materasso di paglia, una coltre e una marmitta, è suppellettile bastevole alla piccola famiglia. Un albero fronzuto , un riparo qualunque , un marciapiede, un angiporto, un’intercapedine qualsiasi è asilo sufficiente e benevolo auspicio al sonno sotto il cielo costellato od inclemente.

 

Prima che a sè, accudiscono i derelitti con cure materne alle povere bestie, loro unico capitale. La provenda non manca mai, e consiste in quanto essi hanno potuto asportare di fieno, di ristoppie, d’erbe e di strame dai campi incustoditi nei quali transitarono. Durante le non brevi soste nei singoli paesi si “arrangiano„ come possono. Vanno foraggiando di notte, e cosi è provveduto al mangime pel domani. Il furto: ecco la risorsa sistematica, ecco il genio tutelare degli zingari, pei quali è postulato il distico della musa indigente :

 

‘A rrobba che sta ’n campagna

È dde Ddio e dde chi z’a magna.

 

E pazienza si limitassero soltanto alla roba che sta in campagna, alla mercè della pubblica fede! Poco male. Invece non è al sicuro dal loro istinto di rapina nemmeno quella custodita nelle case, poichè le zingare dimenticano troppo spesso il distico che integra il precedente ed afferma che

 

‘A rrobba dent’u cascione

È dde Ddio e d’u patrone.

 

L’arrivo degli zingari in un paese è la jattura dei pollai, e particolarmente delle galline a libero pascolo nei vicoli fuori mano o nelle strade di circonvallazione. Le zingare hanno un’abilità speciale ad attiraro ed adescare le galline, ed una destrezza insuperabile nell’acciuffarle e nasconderle sotto le vesti ed impedirne il chiocciare. La preda va a finire nella marmitta, anzi nel “pezenetto„ che nei vesperi assolati o a sera, bolle in un cantuccio della via pubblica, fra l’aspettazione ghiotta degli zingarelli sudici ed irrequieti, che le fanno corona, e che hanno racimolato il combustibile nelle vicine siepi, o nelle biche di frasche e sarmenti addossate alle case.

 

Quando la gallina mancasse, la marmitta accoglierà volentieri un rappresentante del genere felino, e la festa non sarà minore; perchè per gli zingari “prendere una gatta a pelare„ è frase vuota di senso.

 

Gli zingari sono uomini robusti, agili, vivaci, dai capelli neri, dal volto bruno od olivastro:

 

 

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un volto avvivato da occhi che esprimono pronta intelligenza, e contornato da “fedine„ o “chantillons„ che gli conferiscono un aspetto caratteristico e bizzarro.

 

Le zingare sono generalmente simpatiche di viso, dall’espressione arguta, e regolari di persona; di rado hanno una figura slanciata, e conservano intatto il tipo etnico per l’estrema repulsione della razza ai matrimonî misti: repulsione ricambiata d’altronde dagli indigeni con eguale fermezza, per tradizione, sentimento e disaffinità.

 

A vederle in gruppo nelle fiere, nelle taverne, nei bivacchi, per via, le direste balzate fuori da un disegno immaginoso del Dorè. E ve ne sono di bellissime, dal viso ovale, dal profilo perfetto, dal pallore caldo e delicato, vibrante di vita, che ricordano alcune figure del Murillo.

 

Secondo gli Spagnuoli perchè una donna sia bella devono riscontrarsi in lei trenta “si„ a quanto afferma il Mérimée nella Carmen: ebbene, noi non esitiamo a dichiarare che taluni tipi di zingare molisane potrebbero sostenere con sicuro successo la lunga disamina, sempre che si prescinda dal biondo, che non esiste nella gamma di questi ardenti fiori del clima meridionale.

 

Pur troppo, per la vita che menano, le zingare non hanno cura alcuna della “toilette„ e sono quasi tutte un poco o molto sudicie; senonchè per l’artista che si sofferma dinanzi alla purezza delle forme, all’armonia della figura, agli occhi profondi, vellutati, pensosi, dai fulgori strani di sensualità, la nota fastidiosa passa in seconda linea.

 

Il ciclo della loro venustà se non è effimero come quello della rosa — “l’espace d’un jour„ — ha però breve durata. Fiorenti e nel vigor pieno della bellezza fra i sedici e i venti, a trent’anni sono già vecchie. La vita trapazzata, le privazioni d’ogni sorta, le fatiche della maternità ne sfioriscono il volto che vantava leggiadrie tizianesche, e ne stremano il seno che pareva plasmato sugli esemplari del Rubens.

 

Parlano, gli zingari, un idioma in cui abbondano radicali arabe e voci greche più o meno deformate : un idioma gutturale di cui sono gelosi, perchè costituisce la suprema risorsa difensiva nei momenti d’imbarazzo e di pericolo.

 

Credono alcuni che gli zingari segnano riti domestici e confessionali speciali e misteriosi. Non è esatto. Hanno su per giù i nostri medesimi costumi, e sono cattolici come il popolo col quale convivono; senonchè non eccellono per assiduità nell’osservanza del culto, e può dirsi anzi, che — eccezion fatta delle occasioni di battesimo, di nozze e di funerali — raramente è dato vedere zingari in chiesa. Manca loro il tempo, o la volontà? Non sappiamo. Forse sono cattolici per mero adattamento opportunistico di secoli; e riducono la propria osservanza soltanto ai riti che non possono evitare senza differenziarsi spiccatamente coi più.

 

- Gli Schiavoni

Meno antica di quella degli Zingari è la immigrazione serbo-dalmata, o slava, della quale si ha la notizia più remota in una bolla del 1297 di papa Bonifacio VIII, riprodotta nella “Storia Generale dell’Ordine di S. Giovanni Gerosolimitano„ del Bossio.

 

 

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È superfluo qui rilevare che prescindiamo dagli slavi capitanati da Alczeco (dei quali abbiamo trattato nel capitolo XII del presente volume) e dalle immigrazioni ulteriori fino al mille, attestato da Paolo Diacono nel “De Gestis Longobardorum„ nel Muratori.

 

Gli Schiavoni — come li chiama per consuetudine il popolo — vennero fra noi probabilmente per iniziativa dell’Ordine suddetto, desideroso di mettere in valore le torre incolte che possedeva in feudo nelle nostre contrade. E di certo Acquaviva fu il loro primo asilo, donde si propagarono poi a S. Felice anteriormente al secolo XIV, a Mafalda (già Ripalta del Trigno) nel 1483, a Tavenna e Montemitro alcun tempo dopo, a S. Giacomo nel 1561, a S. Biase e Morrone, nel quale ultimo Comune la contrada più bassa e prossima all’abitato porta ancora il nome di “Schiavonia„.

 

In siffatti centri, ad eccezione di Morrone e S. Biase, essi assunsero man mano il predominio numerico; e rimasero infine padroni del campo allorchè gli indigeni — ridotti ad esigua minoranza — conversero nei Comuni vicini.

 

La penetrazione slava non fu opera di legge, nè di privilegi, e molto meno di sopraffazioni e prepotenze; fu dovuta, invece, alla rigogliosa propagazione della specie, alla buona fama dei nuovi venuti, alla loro operosità agricola, all’onesta dei loro costumi, alle simpatie che seppero dovunque suscitare.

 

Gli slavi molisani, lungi dal dare un contributo al brigantaggio, lo hanno dato e validissimo alla sua repressione; e fino al 1861 non si contava fra loro un sol renitente alla leva! (461).

 

Sono gente che rispetta il prossimo e vuole essere rispettata: ignara d’ogni codardia, aperta di carattere e piena di coraggio civile, ammiratrice dei propri novellatori, fiera dei rapsodi della stirpe, e della poesia ingenua e gagliarda dei secoli lontani, della quale daremo qualche notizia nel IV volume.

 

L’idioma slavo, attualmente, è parlato soltanto in Acquaviva e S. Felice, e tende a disparire.

 

( Gli Albanesi)

Recente, infine, l’immigrazione degli Albanesi, pur risalendo alla seconda metà del secolo XV.

 

Nel 1461 Ferrante I d’Aragona versava in dure angustie pel prevalere nel Reame della fazione angioina, e cercò aiuti a Giorgio Castriota, detto “Scanderberg„ già beneficato dal re Alfonso I. Il Castriota, memore e grato , spedi nelle spiagge adriatiche una scelta milizia, che fu mandata nei feudi del Principe di Taranto, dove — scrive il Summonte —

 

“niuna cosa vi lasciorno sicura, non v’era armento cosi distante che per il corso del di non fusse preso; era attissima à furti, & à rapine questa schiera di genti.... „ (462).

 

Cessata la guerra, gii Albanesi chiesero di restare nel Regno, e Ferrante I assenti al loro proposito , non tanto in guiderdone dei servigi ottenuti,

 

 

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quanto perchè ampie distese di terre incolte qua e là nelle varie provincie abbisognavano di coloni. Gli Albanesi, perciò, presero stabile dimora in alcune località quasi deserte della Calabria e della Capitanata.

 

Nel Molise — conforme l’odierna circoscrizione — furono introdotti da mons. de Misseriis, larinese di nascita e vescovo di Larino, il quale nel 1465 li ospitò nel feudo antico d’Aurola, disabitato in causa del terremoto del 1456. Colà ossi edificarono, secondo le patrie costumanze, il villaggio che poi fu detto Ururi.

 

Da Ururi si diramarono poscia in varî luoghi tra il Biforno e il Fortore, e segnatamente a Campomarino, Portocannone, Chieuti, S. Elena e Collo Lauro (casali in agro larinese), S. Barbato (casale in agro Casacalenda), Montecilfone, e S. Croce di Magliano.

 

La morte dello Scanderberg avvenuta a Lissa il 17 gennaio del 1466, avendo agevolata l’ulteriore espansione musulmana nella Scanderia, gli Albanesi per sottrarsi alle crudeltà degli Osmanli od ai massacri e saccheggi cui si abbandonavano le soldatesche, affluirono a Cattaro e ad altre città tenute da Venezia; ed i più arditi ed agiati esularono nel Reame, dove, nelle colonie già esistenti, ritrovavano congiunti, amici, vecchie conoscenze, pace certa, e prosperità maggiore.

 

Animosi, irrequieti, turbolenti, usi ad “inquietare i popoli, predare e commettere delle scelleraggini„ (463) non conseguirono la pacifica espansione e l’incremento demografico degli slavi, perchè venivano male accolti e respinti dovunque intendevano stabilirsi. E dove ebbero ospitalità — per benevolenza degli abitanti o protezione dei feudatarî — furono confinati in zone speciali dell’agro comunale, od in particolare quartiere dell’abitato, come gli ebrei nei ghetti, e sottoposti a regime speciale.

 

È noto infatti, che a S. Croce di Magliano, fin dal primo momento, ebbero assegnata la parte postrema del paese, detta perciò “Quarto dei Greci„ cui si accedeva da porta distinta; mentre gli indigeni abitavano nei quartiere migliore, che fu detto “Quarto dei Latini„ con ingrosso del tutto diverso.

 

A Casacalenda, quando vi esularono da S. Barbato dopo la peste del 1656, agli Albanesi venne data una zona addirittura fuori dell’abitato denominata S. Leo (che oggi è al centro del medesimo), col patto espresso di non dover entrare nella cerchia comunale, ed obbligo di costruire una propria chiesa o cappella, onde non togliessero pretesto a violare il patto nemmeno per adempiere gli esercizî del culto.

 

Gli Albanesi, oltre ad essere bilingui, erano fra loro divisi in rispetto al culto; giacchè alcune colonie avevano adottato fin dall’inizio della immigrazione il rito liturgico latino, mentre altre conservavano il rito greco e venivano dette “Kudrovi„ con voce dispregiativa di cui noi ignoriamo il significato preciso. I Kudrovi aderirono al rito romano al declinare del secolo XVII, ad iniziativa e per le insistenze del vescovo di Larino, mons. Catalani.

 

 

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La differenza del rito era motivo di discordia e di disgregazione fra gli stessi connazionali, e di disaffinità e repellenza fra costoro e gli indigeni; e la storia delle religioni c’insegna che gli osservanti d’una fede sono più tolleranti verso una fede opposta, che verso le dissidenze formali della propria.

 

Gli attriti fra Albanesi ed indigeni furono perciò sempre assai vivaci; e fra Albanesi e Larinesi attinsero il tragico. Gli Albanesi erano vicini cosi maneschi e molesti, da rendere penosa — non diciamo la convivenza — ma la semplice vicinanza: ed i Larinesi (nelle Capitolazioni dell’11 agosto 1540 fra l’università ed il balio del possessore feudale), avevano ottenuto che

 

“detto Signor è contento fare sfrattare et in futurum non fare più habitare de Greci li Casali de S. Elena et Colle de Lauro, in lo territorio e demanio de detta Città, nè s’abbia ad fare Casali nuovi nel tenimento d’essa città, da habitarnosi da Greci Albanesi o Schavoni„ (464).

 

E questi doverono andar via.

 

La dura disposizione, lungi dal produrre una resipiscenza, inasprì l’animo dei reietti, sicchè espulsi da Colle Lauro e da S. Elena e riversatisi in Ururi, ripresero con astio accresciuto ad infastidire i contadini e i proprietarî larinesi ed a danneggiarli nei beni.

 

I Larinesi si gravarono al vescovo; e dopo lunghe trattative, addossatisi i pesi che gli Albanesi corrispondevano alla Mensa, ottennero il costoro sfratto anche da Ururi. Gli Albanesi tentarono di resistere all’esecuzione del decreto della E. Camera; ed il vicerè D. Pietro di Toledo fu costretto nel 1550 a mandare in Ururi la forza pubblica per disarmarne ed espellerne gli abitanti, ed incendiarne i casolari perchè smettessero ogni pensiero di tornarvi !

 

Raminghi ed in estrema povertà, affluirono allora nelle colonie sorelle, assoggettandosi al trattamento d’ospiti non desiderati : un trattamento da quarantena reso più rigoroso a causa della recente gesta : un trattamento presso che da idioti e da pestilenti, simile a quello dei Cagoti nella Biscaglia cantati dall’Heine nell’Atta Troll: un regime, infine, che avrebbe dovuto sospingerli a rimpatriare, se l’odio schipetaro verso il turco non avesse superato di gran lunga l’avversione agli ospiti latini.

 

Tra il declinare del secolo XVI e la seconda metà del secolo XVII andarono via da Casacalenda; ed un po’ più tardi da S. Croce ed altri contri minori; e conversero in Ururi — loro riaperta fin dal 1583 — a Portocannone e Campomarino : Comuni dove s’istallarono in modo definitivo.

 

Nel 1799 gli Albanesi scrissero una fosca pagina di storia col fervido concorso al movimento sanfedista (proficuo di lucri), capitanati dalla più ricca famiglia di Campomarino, come illustreremo nel IV volume; e da allora, insino al 1865, diedero un notevolissimo contingente al brigantaggio ed alla delinquenza generica.

 

Da tempo però è ridotta di molto fra gli Albanesi la criminalità; ed in forza del progresso incalzante, dei matrimoni misti, della diffusa coltura popolare, e del servizio militare che disciplina gli animi, i loro costumi si vanno affinando ed adeguando a quelli indigeni.

 

 

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Le classi elevate dànno già un bel numero di professionisti, di insegnanti medî e di funzionarî degni della pubblica stima; e l’emigrazione dilaterà gli orizzonti della mentalità della massa popolare; poichè in nessun luogo della provincia le condizioni di vita dei contadini sono cosi arretrate come nella piccola comarca, dove suona il “ghiaku iòn iscprisciur„: il nostalgico saluto di riconoscimento che sintetizza la psiche della stirpe.

 

(Gli indigeni)

Ed ora una breve rassegna degli indigeni.

 

I contadini del Molise usavano un tempo abiti ed indumenti caratteristici, assolutamente distinti da quelli delle provincie limitrofe.

 

Gli uomini avevano caro il nero e tradizionale cappello di feltro a cono, a falde strette, che portavano sulle ventitrè, adorno di qualche piuma : il breve panciotto vermiglio a bottoni d’ottone (che aveva loro procurato nelle provincie contiguo il nomignolo di “pettirossi„) : la giacca breve ed orlata: le brache sino al ginocchio: e calze di lana o bianche, o nere, o di colore marrone.

 

Nel Distretto di Larino l’uso delle scarpe era consuetudine remota e generale anche fra i contadini più poveri; ma in molti paesi del Distretto di Campobasso ed in tutto il Distretto d’Isernia si costumava — come ancora generalmento — la calzatura primeva dei Romani : gli strani “zampitti„ formati da “cuoio d’asino non concio, con cordelle annodate al disopra dei malleoli, a guisa di socco„ (465).

 

Nel Larinese — dalla civiltà più evoluta — siffatta costumanza destava l’ilarità, ed era ed è motivo alla canzonatura ed al motteggio. Vi si parlava e vi si parla dei “zampitti„ e dei “zampettari„ con quell’aria di superiorità con cui i napoletani sogliono parlare dei villici di Panicuòcoli e i fiorentini di Perètola : così scarsa era l’affinità della zona litoranea del Molise con gli Abbruzzi, e cosè profondo il distacco etnico fra la medesima e il resto del Contado, ali Abbruzzo più vicino.

 

Il Longano aveva scorta e notata nel suo complesso la difformità permanente, e con la rudezza del campagnuolo sinceramente scriveva che

 

“Per la valle di Boiano, da Sepino ad Isernia, e luoghi adiacenti, gli abitatori sono tutti rozzi, malvestiti, peggio cibati. Si vede in essi avverato il Samnis sporcus homo degli antichi : all’incontro nel resto della provincia, massime in Campobasso, e luoghi vicini, ci si ammira la gentilezza, lo spirito, ed una singolarità di talenti. Onde si potrebbaro i primi chiamare i Beoti, e gli altri gli Attici del Contado„ (466).

 

Vi era dell’esagerazione, ma il fondo dell’osservazione non differiva dalla verità, specialmente in rapporto al ceto delle campagne : e tanto non no differiva, che anche ai nostri giorni si avverte una diversità per quanto in proporzioni ridotte, por altrettanto evidente e tangibile.

 

Nei circondari di Larino e di Campobasso non troverete ì più miseri tugurî campestri con tettoia a lastre (nel dialetto “bàsole„ o “lisce„) : tettoie che sono, invece, comunissime ed anzi prevalenti fin nei centri urbani del Circondario d’Isernia;

 

 

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tettoie che rievocano nella memoria i meschini casolari inerpicati nel brullo appennino toscano, e i tugurî svizzeri sperduti fra le gelide solitudini delle Alpi, ed inducono in chi li osserva una impressione penosa di abbandono e di miseria, in aperto contrasto con lo stato economico delle bello contrade dal Matese al Volturno.

 

I costumi muliebri si prestavano, naturalmente, ad una più ricca varietà di fogge, di tinte, di adornamenti, di bizzarrie, ed erano presso che differenti da un Comune all’altro, pur conservando una relativa unità di tipo.

 

In una fiera, in una pubblica festa, nei mercati, nella via, dal solo costume era dato distinguere donde fosse una donna. Nella folla un’allegria, un fasto di tinte, un’orgia di colori che allietava l’occhio dell’artista, e nulla toglieva all’entità individuale in rapporto all’eguaglianza morale delle classi sociali. Questa nota graziosa e simpatica è finita in alcuni luoghi, è in via di decadenza in altri. Il mondo tende all’uniformità.

 

 

Gl’indumenti maschili cominciarono a perdere il pittoresco ed a declinare dopo il 1861; ed in breve volgere di tempo andarono gradatamente in disuso, tranne che in alcuni paesi del Circondario di Campobasso ed in quasi tutto il Circondario d’Isernia, dove perdurano ma finiranno di qui a poco con la disparizione della vecchia generazione.

 

La coscrizione militare prima, l’emigrazione dopo, furono le due cause precipue dell’abbandono degli abiti e delle fogge che avevano durato secoli, e nei secoli si erano andati abbellendo e perfezionando.

 

Una volta tornati dalle guarnigioni dell’Italia dell’Arno e del Po, i nostri giovani contadini mal tolleravano di riadattarsi ai calzoni corti, che non avevano veduto in uso colà, fra i loro eguali; e coraggiosamente li mettevano in disparte. I vecchi brontolavano contro la novità e deridevano l’andazzo; ma le ragazze del paese occhieggiavano ai calzoni lunghi..... una innovazione di sapore esotico, che metteva i contadini alla pari con gli artieri e con “galantuomini„ : un’innovazione che, in fondo, costituiva (non fosse altro che esteriormente) una promozione di classe!

 

L’ostracismo ai calzoni corti si diffuse in breve ora, e con l’emigrazione si generalizzò. Quelli che erano andati esenti dal servizio militare e non avevano perciò avuto mai il destro di barattare i calzoncelli, li smisero durante il soggiorno in America, e tornarono in patria con la civiltà dei calzoni lunghi.

 

Tale ostracismo era stato preceduto di molti anni da quello dei cappelli a cono : simpatico copricapo che conferiva al volto un’aria sbarazzina : cappelli che perirono quando le piccole fabbriche locali — specie quelle di Riccia — non poterono sostenere la concorrenza dell’industria piemontese e lombarda, la quale invase le nostre provincia, e dettò leggi ai nostri gusti.

 

 

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Durarono più a lungo — e durano tuttavia — i costumi muliebri, non esposti come i maschili all’impero della socialità ed all’emulazione col vestire delle classi più elevate. Sennonché vanno aneli’essi cadendo in disuso per l’invadenza della grande industria coi suoi tessuti, coi suoi filati, coi suoi cataloghi, coi suoi fastidiosi commessi, e per l’influenza della vita d’emigrazione.

 

Ai nostri giorni, una contadina che attendo dal marito emigrato il biglietto d’imbarco, più che la visione fantastica di nuovi paesi e di genti nuove, più che l’allettamento d’un mondo meno circoscritto, pregusta nell’intimo l’orgoglio..... indovinate un poco ? Del cappello da signora. Sicuro ! il cappello che inizierà la trasformazione radicale del suo vestire rusticano.

 

Basta, in verità, vedere la fotografia d’una qualunque dello nostre emigrate, per provare un senso di ragionevole disgusto, e qualche volta di pietà, dinanzi alla goffaggine della “miss„ o della “lady„ improvvisata. Che volete ? Fa pena vedere delle ragazze o dello donne bellocce e simpatiche — talora belle davvero — sfigurate, deformate, ridotte a manichini carnascialeschi da far ridere i polli.

 

Fortunatamente, al ritorno in patria (ove abbia luogo) esse smettono il vestito “all’uso d’America„ e lo smettono forse per un istintivo rispetto alla tradizione, se non pure perchè intuiscono la dissonanza fra le fogge d’oltre Atlantico e l’inscenatura dell’ambiente nativo. Ma il gradevole vestito, il vestito pittoresco d’altri tempi non l’indossano più : quelle vecchie fogge dei vecchi tempi sono destinate ai musei etnografici a rappresentare — nella perpetuità solenne della vita dei popoli — una tappa della storia del costume.

 

L’incivilimento si fa strada con chiara tendenza all’uniformità. Non certo ci dorremo di quello, ma di questa sì, poichè le è implicito il trionfo della scialbezza e della monotonia. Fra venti o trent’anni, nei nostri paesi, nei nostri campi, nei nostri grandiosi panorama, mancherà del tutto la gamma vivace e gioconda delle vesti muliebri, leggiadre nella pendula mappa, nei galloni floreali, negli ampî sgonfi della camicia candida, nelle piccole giubbe stringate che fra la bianchezza dei rustici merletti espongono al bacio del sole la floridezza del seno robusto.

 

Siffatte note di colori stridenti, cozzanti, sfarzosi, saranno cessate; e l’artista si troverà dinanzi ad una folla grigia che non gli desterà alcuna sensazione particolare nel suo insieme inestetico : tanto vera ed acuta l’osservazione del Richet che “la stabilità biologica dell’essere umano contrasta meravigliosamente con la sua instabilità sociale„ (467).

 

 

Ed eccoci ad una domanda arrischiata: Dove sono più belle lo donne nella regione molisana?

 

Non diremo elio il Molise sia una più vasta Sabina. Sarebbe un’esagerazione, e nelle esagerazioni non bisogna cadere. Nondimeno, è forza riconoscerò che nel Contado — per peculiari circostanze etniche e naturali — la pianta donna cresce in alcuni paesi più bella e leggiadra che non in certi altri.

 

 

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Il Galanti, che pel primo studiò l’interessante problema, scriveva che

“Sono belle le donne di Campochiaro per regolarità di tratti, bianchezza, ed un’aria graziosa ed amabile, più che a Frosolone, Carovilli, Pescolanciano, Vastogirardi e Capracotta, dove sono pur belle„ (468).

Come è facile rilevare, il chiaro A. non fa cenno del Circondario larinese (allora pertinente in gran parte alla Puglia) e tace del tutto della zona extra-iserniana.

 

L’ingiustizia ora così evidente che Giuseppe del Re, pugliese di Gioia, fu tratto a correggerla, ampliando la circoscrizione della bellezza molisana in confini meno angusti. Mezzo secolo dopo il Galanti, il giudizio suo fu questo : che

“Fra tutte meritano vanto di bellezza le donne di Ripamolisano, di Campochiaro, di Capracotta, di Baselice, d’Isernia, di Montagano, di Cameli, di Frosolone, di Carovilli, di Pescolanciano e di Vastogirardi„ (469).

 

Nel campo degli estimatori, dunque, le donne di Campochiaro riportavano la vittoria su tutte della provincia nella graduatoria della venustà. Conservano esse tuttora l’inestimabile primato? Non siamo in grado di rispondere, ma ne sarà consentito d’emettere un parere : ed è che in fatto di donne, e di giudizî in merito alla loro bellezza, il partito più savio è quello della indulgenza : l’indulgenza più larga e benevola, alla quale appunto si atteneva la musa facilona del Guadagnoli.

 

Se al Circondario d’Isernia si vuol riconoscere il vanto d’una più diffusa beltà muliebre, è doveroso però constatare che nel Circondario di Campobasso godono pur fama d’avvenenza le donne della città, nonché quelle di S. Elia, di Ripalimosano e Castropignano; e nel Circondario di Larino quelle di Ripabottoni o del capoluogo, mentre il sesso gentile di Morrone si distingue per l’alta e nervosa statura ed un maschio aspetto che non manca d’attrazione e lusinghe. Nè d’altri paesi diciamo, perchè gli estranei potrebbero sospettare che l’affetto verso i luoghi nativi possa far velo al nostro giudizio.

 

A giudicare, d’altronde, serenamente la bellezza femminile, occorrerebbe all’esaminatore la visione di tutti gli elementi che concorrono a determinarla: bisognerebbe che l’esaminanda gli apparisse sgombra di veli come Frine dinanzi ai togati, come Clemenzia d’Angiò dinanzi alle dame francesi, come Paolina Borghese dinanzi all’arte ed all ammiraziono del Canova.

 

La donna, invece, sa nascondere il meglio di sè; ed Amleto è in preda ad un vero eccesso d’orgoglio maschile quando esclama “Frailty, thy name is woman!„ poichè non ricorda che la donna, dal primo giorno della creazione, mise in un fascio il serpe, l’uomo e lo stesso Creatore !

 

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NOTE ILLUSTRATIVE E BIBLIOGRAFICHE

 

(461) Vegezzi-Ruscalla Giovenale — Le colonie serbo dalmate del Circondario di Larino. Torino, 1864. Tipografìa degli eredi Botte. (Confr. a pag. 16).

 

(462) Op. alla nota (71), pag. 346.

 

(463) Op. alla nota (10), pag, 315.

 

(464) Op. alla nota (225) pag. 358.

 

(465) Op. alla nota (16), volume II, a pag. 17.

 

(466) Op. alla nota (13), pag. 23.

 

(467) Richet Carlo — Fra cento anni, con prefazione di Scipio Sighele. Milano. Fratelli Treves, Editori, 1892. (Confr. a pag. 12).

 

(468) Op. alla nota (16), voi. II, pag. 16.

 

(469) Op. alla nota (449), volume III, pag. 13.

 

 

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