Il Molise dalle origini ai nostri giorni. Volume primo. La provincia di Molise

Giambattista Masciotta

 

 

XI. Le incursioni barbariche

L’Impero d’Occidente e l’Impero d’Oriente. — I Visigoti con Alarico ed Ataulfo.— I Vandali. — Gli Eruli e i Turingi con Odoacre. — Gli Ostrogoti con Teodorico e successori. — I Greci con Belisario conquistano le nostre provincie. — La rivincita dei Goti. — Narsete ripristina il dominio dei Greci. — Condizioni del Molise durante l’epoca barbarica, e tracce di questa nel nostro patrimonio linguistico e nella toponomastica pag. 120

 

XII. L’epoca longobarda

La vendetta del grande eunuco. — I longobardi con Alboino. — Il ducato di Benevento. — Romoaldo duca di Benevento ospita Alczeco condottiero di slavi, e lo fa castaldo di Boiano. — Il castaldato di Boiano diventa la contea di Molise. — Le contee minori sorte nel X secolo (Boiano, Isernia, Venafro, Sesto, Pietrabbondante, Larino e Termoli). — Tracce e cimeli della dominazione longobarda nel Molise. — Le scorribande dei Saraceni. — Tracce copiose dell’influenza saracena nel Molise pag. 126

 

XIII. L’epoca normanna e i Conti di Molise

La Contea di Loritello e la Contea di Molise. — La Contea pentro-slava perchè fu detta di Molise? — I Castaldi di Boiano e i Conti di Molise dall’ anno 667 al 1326 pag. 131

 

XIV. Il Contado di Molise dal 1200 al 1806

La Contea di Molise s’identifica nel Contado di Molise. — Il feudo e l’organizzazione del regime feudale presso i Longobardi e i Normanni. — Il Baglivo, il Camerlengo e la Corte baronale; il Giustiziere e l’Udienza provinciale; il Gran Giustiziere e la Magna Curia; la Corte della Vicaria, il Sacro Real Consiglio, la Regia Camera della Sommaria. — L’Iliade del Molise. — Il Molise annesso al Principato. — Il Molise unito con Terra di Lavoro. — Il Molise aggregato alla Capitanata. — Il Molise nella circoscrizione repubblicana del 1799. — Il sistema tributario durante il regime feudale. — Il Bilancio di un comune molisano pel 1741. — Popolazione e Superficie del Contado di Molise dal sec. XII al XVIII. — Serie dei Giustizieri, Vicerè, Vicarî e Presidi del Molise pag. 140

 

 

XI. Le incursioni barbariche.

 

L’Impero d’Occidente e l’Impero d’Oriente. — I Visigoti con Alarico ed Ataulfo. — I Vandali. — Gli Eruli e i Turingi con Odoacre. — Gli Ostrogoti con Teodorico e successori. — I Greci con Belisario conquistano le nostre provincie. — La rivincita dei Goti. — Narsete ripristina il dominio dei Greci. — Condizioni del Molise durante l’epoca barbarica, e tracce di questa nel nostro patrimonio linguistico e nella toponomastica.

 

 

Sotto questa denominazione, molto impropria, che risente l’odio tradizionale del mondo latino, comprendiamo genericamente le irruzioni e le dominazioni dei Visigoti, degli Unni, degli Eruli, degli Ostrogoti, dei Greci, succedutesi dal V al VII secolo, sino alla conquista longobarda, con la quale si chiude per noi l’evo antico ed ha inizio il medio.

 

L’impero romano, la colossale compagine politica corrosa dall’età e dall’opulenza che infiacchiva animi e costumi, volgeva già da due secoli alla decadenza, quando nell’anno 394 dell’era cristiana si divise nei due imperi d’Occidente e d’Oriente, con in rispettivo corti a Roma od a Bisanzio.

 

 

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* * *

 

La morte dell’imperatore Eugenio, in tale anno avvenuta, portò sui troni del Tevere e del Bosforo due sei albe figure imperiali : Onorio ed Arcadio.

 

L’imperatore Arcadio morì nel 408. Onorio appreso la notizia in Ravenna, dove aveva trasferita la reggia; e fece brutalmente ammazzare il proprio genero Stilinone per tema ch’egli mirasse a ripristinare l’unità dell’Impero, carpendogli la corona d’occidente e succedendo nell’altra ad Arcadio.

 

Stilicone, prode generale in tempi in cui il culto dello armi era caduto in disuso, o presso a poco, nel mondo romano in isfacelo, aveva più volte affrontato o respinto i Goti nei loro frequenti tentativi di conquista delle provincie al confine dell’impero, e per le sue vittorie era stato chiamato lo Scudo di Roma.

 

Sgombrato il campo di un uomo così formidabile, ed anzi dell’unico uomo rappresentativo che condensava nel proprio individuo quelle antiche virtù che avevano guidato Roma al dominio del mondo, Alarico pensò o provvide a ritentare l’impresa.

 

Alarico, o All-reich, l’onnipotente, era il re dei Visigoti, cioè i Goti dell’ovest, che abitavano la zona meridionale della Gallia, e cioè l’Aquitania e la Narbona con sede a Tolosa, per concessione di Onorio, in compenso del servizio militare che prestavano all’Impero.

 

Alarico, dunque, alla testa delle sue genti passò i confini, e nella sua rapida corsa fino a Roma l’orda non incontrò resistenza alcuna : dapertutto, invece, dedizioni e tributi. Dove l’omaggio servile non era accompagnato da presenti volontari, rimediava il saccheggio. Roma fu saccheggiata per diciotto giorni; ed Onorio — l’imperatore — stavasi chiuso a Ravenna, trepido di eventi peggiori.

 

Da Roma, come abbiamo già detto, la Via Appia menava a Benevento, dove innestavasi alla via Traiana che conduceva a Brindisi. L’orda selvaggia dei saccularî s’istradò per la via Appia, ed evitando Capua, saccheggiò Noia e Benevento. L’avidità dei barbari mirava alla pingue Sicilia. Da Benevento, perciò, presero la via di Reggio : la scolta più prossima all’isola meravigliosa.

 

Reggio andò esento dal sacco. Era troppo ben munita, e non fu possibile aprir breccia nelle sue mura.

 

Rinunziando allora alla cospicua preda, accamparono sul litorale e si apprestarono allo sbarco a Messina. Senonchè, fosse difetto nella tecnica delle imbarcazioni, o poca perìzia nel pilotaggio, o incapacità nei comandi e nello esecuzioni, gli sbarchi tentati e più volte ripetuti andarono a vuoto. L’ultimo, anzi, a causa di fiero ed improvviso fortunale, si risolse in un enorme disastro.

 

 

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Alarico stesso, l’onnipotente, fu impari alla situazione. Vedendo la dirotta del naviglio, e ad una ad una disparire tra i vortici le unità costruite con tanto alacre lavoro, e impressionato che il granaio di Roma — difeso dalla furia degli elementi — non fosse terra pei suoi coturni, infermò per dolore, e morì in Cosenza nel corso dell’anno 410. Contava appena 34 anni di età, e godeva tal prestigio fra i suoi, che vollero tumularlo nell’alveo del Busento, insieme col tesoro (cosi la leggenda), perchè mano d’uomo non potesse, nel corso dei secoli, profanare lo spoglie dell’eroe.

 

I Goti passarono sotto il comando di Ataulfo cognato di lui; ed avendo Ataulfo sposata una sorella dell’imperatore Onorio, intervenne un accordo fra i due cognati. I Visigoti non possedendo più nè l’Aquitania nè la Narbona occupate da Clodoveo, esularono nella Spagna, dove ebbero assegnata la Tarrascona con Toledo per capitale.

 

II dominio della Spagna era oramai troppo lontano per l’imbelle coronato di Ravenna. Ciò nel 421.

 

* * *

 

Finiti i Visigoti, ecco la volta dei Vandali. I Vandali, tra il 455 e 456, batterono il medesimo itinerario degli incursori precedenti, iniziando la gesta col sacco dell’urbe, e non risparmiando nè Capua, nè la Magna Grecia, nè la Sicilia.

 

Essi non soltanto depredarono tutte le dovizie e i tesori metallici a portata di mano, ma da barbari autentici abbatterono ed incendiarono le più vistose e magnifiche manifestazioni dell’arto ellenica o romana nelle quali, per sciagura dell’umanità, s’incontrarono.

 

E il loro nome passò alla storia come antonomasia di distruzione !

 

* * *

 

Trascorre appena un ventennio, ed eccoci ad una delle date più memorabili della storia del mondo : l’anno 476.

 

L’ultimo imperatore d’Occidente, Romolo Augustolo, venne strappato dal trono per le armi e il valore di Odoacre; e

 

“l’imperio Romano fondato da Romolo, innalzato al massimo splendore da Augusto, dopo 1229 anni dalla fondazione della città, 723 di repubblica e 516 di monarchia, si dileguò ingloriosamente con un fanciullo, il quale — come piacque alla sorte — i nomi riunì del conditore e del più grande Imperatore di esso; e andò tutto in brani diviso tra i popoli boreali„ (62).

 

Romolo Augustolo era un adolescente : se si fosso trovato in età adulta, sarebbe stato un decadente, quale i suoi predecessori. Una fine tragica lo avrebbe elevato nella considerazione degli uomini e della storia; ma il simbolo di Roma non meritava ormai questi riguardi di natura esteriore, Odoacre lo fece prigioniero nella reggia, e lo relegò in una villa della baia puteolana perchè vi trascorresse la vita fra le gozzoviglie e i facili piaceri.

 

 

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Odoacre, il nuovo padrone d’Italia, capo degli Eruli e dei Turingi, regnò diciassette anni, insino al 493, non già col titolo di Re — come sovente si legge negli storici — sibbene con ufficio consolare e quale vicario dell’Imperatore d’Oriente. I Re barbari, nota il Bryce, per alcuni secoli non adoperarono titoli territoriali (63).

 

* * *

 

L’imperatore Zenone sedeva sul trono di Bisanzio, geloso della fama che circondava Teodorico, suo suddito, e capo degli Ostrogoti (i Goti dell’est) dimoranti nella Pannonia e nell’Illiria.

 

Teodorico, che pur tanti benefici aveva ricevuti dal sovrano, avvistosi della disgrazia in cui era caduto, marciò verso la capitale in attitudine ostile. Che cosa voleva il prode guerriero ? Egli voleva sottrarsi alla soggezione imperiale, ed esulare dall’Oriente dove destava apprensioni e sospetti. Voleva sottomettere a sè l’Italia sottraendola ad Odoacre. Una volta re d’Italia, ogni nube fra l’imperatore ed il suddito sarebbe dileguata, e tornata fra loro la buona amicizia d’un tempo. Espose siffatto programma a Zenone, e Zenone annuì.

 

Teodorico invase il Veneto, e dopo aspre battaglie astrinse Odoacre a Ravenna, lo prese e lo uccise; e con questa tragedia regia s’iniziò fra noi nel 493 e si stabilì poi la dominazione dei Goti, formalmente subordinata all’Impero d’Oriente, come è ben noto, e come meglio rilevano le monete italiche del tempo, recanti tutte l’effigie imperiale e il solo nome del vicario goto.

 

Teodorico cessò di vivere nel 526, un anno dopo la morte da lui decretata contro Cassiodoro, Simmaco e Boezio suoi ministri : uomini sapienti e precursori, che gli avevano procurato fama di buon re, secondandolo nella conservazione delle tradizioni romane e della romana legislazione, e nello straordinario impulso che egli impresso ai commerci ed alla pubblica economia.

 

Egli rifulge nella storia del VI secolo pel programma di fusione fra le stirpi dei soggetti, per l’egualità di trattamento osservata verso ciascuna e tutte, per la rifioritura delle arti e del vivere civile, per la prosperità dell’agricoltura: e il palazzo di Verona, nel quale la leggenda lo ammira fra gli splendori delle vittorie e le cure dello Stato, risuona nell’epopea coeva dei Nibelungi.

 

A Teodorico successe il nipote — da figlia — Atalarico, giovinetto bilustre, che morì nel 534 di abusi afrodisii; ed a costui Teodato nipote del gran re qual figlio di una di lui sorella.

 

Teodato, in fondo, non era che un simbolo mosso su dal partito ultranazionalista, desideroso di prepotere negli affari del regno in opposizione di Amalassunta.

 

Amalassunta, la giunonia figliuola di Teodorico, e madre infelice del degenere Atalarico, aveva concorso alla elezione di Teodato; ma non ne approvava il programma, nè simpatizzava col personale di cui si era circondato.

 

 

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Ella non era troppo ben vista dai Goti; ma godeva di una grande considerazione nell’animo dell’imperatore Giustiniano, sino al punto che l’ineffabile Teodora n’era gelosa.

 

Teodato conservandosi a lei devoto, come le aveva promesso, avrebbe potuto godere di riflesso la protezione imperiale. Invece, insinuato e sopraffatto da manovro cortigiane, la fece strozzare nel bagno, offrendo un vantaggioso e simpatico pretesto a Giustiniano d’invaderò il regno.

 

* * *

 

L’imperatore Giustiniano aveva già esteso i propri dominî su Cartagine e la Sicilia : e da tempo mirava alla penisola, alla cui sapienza giuridica aveva elevato già due insigni monumenti col Codice prima, e più recentemente con le Pandette.

 

Diede ordino perciò a Belisario, governatore della Sicilia, di passare sul continente. Non era giusto che il trono originario dell’Impero fosse occupato da un intruso, da un perfido, da un brutale strangolatore di donne.

 

La spedizione di Belisario fu una passeggiata litoranea da Reggio a Napoli e Benevento. Napoli si difese strenuamente, ma dovè arrendersi. Roma aprì le porte al conquistatore senza opporre la minima resistenza. Resistenze isolate, saltuarie, trovò nelle provincie centrali; ma seppe superarle con relativa facilità; e così nel 540 — dopo aver battuto due re goti Teodato e Vitige — Belisario divenne padrone assoluto d’Italia in nome e per conto dell’Imperatore.

 

* * *

 

Appena compiuta la conquista, Belisario ricevè ordine di tornare a Bisanzio.

 

Perchè si revocava il vincitore ? Nella Corte imperiale era corsa e si era accreditata la voce che egli intendesse proclamarsi re d’Italia, onde era mestieri sottrarlo dal possibile campo d’azione. Eu assunto al comando supremo contro i Parti.

 

Dell’evento fruirono i goti, i quali elessero re Ildebaldo e poscia Erarico, ambo poi uccisi por sospetti di tradigione. Totila ne fu il successore, uomo di singolari virtù, o di alto valore. Sorto dallo urne col programma della rivincita, dal 540 al 543 riannodò le sparse membra dell’antico esercito di Teodato e di Vitige, e nell’assenza di Belisario riconquistò quasi interamente l’antico dominio.

 

Il Sannio, fra i due padroni, preferiva i Greci; epperciò si oppose con fermezza alla restaurazione, e soffrì danni rilevanti. Benevento per mano di Totila ebbe le mura diroccate, il saccheggio delle case, la strage degli abitanti.

 

Belisario, allora, è rimandato in Italia a rimediare ai guai sopravvenuti; senonchè sciupato dagli eventi fortunosi della guerra partica,

 

 

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o già alquanto invecchiato, non è più il sagace ed energico organizzatore della vittoria. La guerra che si combatte ora, fra gli imperiali e i goti, è una lunga, una fastidiosa, una travagliata guerriglia, che non offre risultati ponderabili.

 

* * *

 

Bisanzio spedisce Narsete a sostituire Belisario, che si ritira a Roma e vi muore. Narsete, il grande eunuco, imprime alla guerra un carattere risolutivo.

 

Totila muore di ferite riportate in battaglia; Teia successore subisce il medesimo fato, e l’astro dei Goti volge al tramonto tra foschi bagliori di sangue.

 

Nel 555 la dominazione dei Goti era cessata, e Narsete governava l’Italia in nome di Giustiniano. La dominazione dei Greci, iniziata nel 540 aveva termino nel 569, un anno dopo che Narsete — vittima come Belisario degli intrighi di Corte — fu deposto dal governo e sostituito con Longino.

 

* * *

 

Dodici anni di permanenza dei Visigoti, duo dei Vandali, diciassette degli Eruli, quarantasette dei Goti, trenta dei Greci, non contribuirono certamente alla prosperità delle nostre contrade, perchè il regime di conquista è sempre regime di spoliazione.

 

L’antico Satinio pentro-frentano contava allora pochi centri urbani di qualche importanza, che si limitavano a Larino, Sepino, Boiano, Isernia, Termoli, Venafro, Trivento. L’agro circostante e intermedio era però disseminato di molti villaggi, o superstiti alla civiltà satinitica (Calene, Cliternia, ecc.), o sorti in dipendenza delle colonie romane al duplice intento di estendere la cultura granaria, e dare espansione al supero della popolazione urbana : motivi che originarono forse Riccia, Forli Ferrazzano, ecc.

 

Le istorie, gli archivii, l’archeologia non offrono il materiale occorrente a produrre un elenco preciso di tali centri minori; tuttavia, tenendo presente il grado politico od ecclesiastico che assunsero a breve lasso di tempo, è lecito ritenere che fin d’allora esistessero Guardialfiera, Sesto, Pietrabbondante, ecc.

 

Quali influenze svolgessero e quali conseguenze adducessero fra noi le dominazioni anzidetto nel loro fondersi e confondersi con l’elemento autoctono, non è possibile stabilire.

 

Probabilmente sorsero molti piccoli centri rurali, ed un esempio potrebbe essere Ripabottoni, che un tempo fu detta “Ripagottorum„ non si sa bene se perchè fondata, o soltanto ampliata durante l’epoca gota. Altre impronte la dominazione stessa lasciò certamente in diverse località della nostra provincia, in memoria di fasti o nefasti dileguati nella notte dei secoli,

 

 

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come pai1 designare il nome “Totila„ del monte comune agli agri di Sessano e Pescolanciano. Impronte, infine, dovevano pur essere rimaste nello stile degli edificî, delle chiese, delle case; senonchè esse non sono tangibili, poichè dei frequenti terremoti che funestarono il mezzogiorno d’Italia dal secolo IX in poi, non uno — come abbiamo detto — risparmiò il territorio molisano (64).

 

Fiori in questo periodo — o meglio dire nel secolo VI — la religione cattolica, pel motivo che i Goti, quantunque di confessione ariana, rispettarono le credenze dei vinti; e l’umanità assistè al singolare spettacolo che — mentre Costantino il Grande nel secolo IV proibiva la lettura delle opere di Ario — Teodorico, con maggior tolleranza, conservò por sè il credo degli avi, ma non lo impose ai soggetti; di guisa che la fede sanzionata nel Concilio ecumenico di Nicea — il primo della chiesa di Roma — trasse impulso a diffusione e prosperità per opera di chi ne ora il più interessato avversario, e contro esso impersonava l’opposizione ufficiale.

 

Della dominazione dei Greci corta traccia è rimasta, e pervenuta insino a noi, nel patrimonio dialettale della regione. Ma son parole che, come è facile intendere, la dominazione greca non essendo stata solo in terra di Molise, la nostra provincia ha comune con altro terre del Mezzogiorno d’Italia.

 

Così anche da noi fiorisce il “cafone„ il “vastaso„ il “cato„ ecc., parole che non sapremmo però se, più che della dominazione greca di cui parliamo, non siano detriti che l’antica Magna Grecia — pur tra la diffusione del linguaggio di Roma — riuscì a far giungere insino a noi. Problemi non facili, nè lievi, che non è nell’indole dell’opera nostra sciogliere.

 

 

XII. L’epoca longobarda.

 

La vendetta del grande eunuco. — I longobardi con Alboino. — Il ducato di Benevento. — Romoaldo duca di Benevento ospita Alczeco condottiero di slavi, e lo fa castaldo di Boiano. — Il castaldato di Boiano diventa la contea di Molise. — Le contee minori sorte nel X secolo (Boiano, Isernia, Venafro, Sesto, Pietrabbondante, Larino e Termoli). — Tracce e cimeli della dominazione longobarda nel Molise. — Le scorribande dei Saraceni. — Tracce copiose dell’influenza saracena nel Molise.

 

 

Gli intrighi dell’imperatrice Sofia contro Narsete produssero danni infiniti al trono imperiale d’Oriente, e nel mondo occidentale — per contraccolpo — la instaurazione della feudalità e della teocrazia : i due chiodi che tennero infissa l’umanità pel decorso di quasi un millennio.

 

L’imperatrice voleva vedere Narsete in Bisanzio a filar la lana con gli altri evirati, e con le femmine della reggia; onde, come si è detto, lo fece deporre.

 

 

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Nella Pannonia era un popolo gagliardo ed esuberante, che sentiva le angustie dei propri confini : un popolo imbevuto ancora dell’antica barbarie, ed a mala pena dirozzato dal contatto con la civiltà bizantina. Questo popolo era il Longobardo, ed anelava all’espansione territoriale.

 

Naraete trascorreva a Napoli gli ozî a lui procurati dall’ingratitudine umana, e ben conoscendo i longobardi (per averli avuti fra le sue milizie quando aveva riconquistato a Bisanzio l’Italia) assunse l’ufficio di sirena allettatrice; e con lusinghevoli prospettive di dominio, di fortune, e di ricchezze, infervorò Alboino, loro capo, alla conquista della penisola.

 

Era la sua vendetta contro la perfida imperatrice, che dominava l’animo di Giustino, il piccolo e pusillanime successore di Giustiniano.

 

* * *

 

La conquista longobarda, per quanto non esente da grandi tragedie, da terribili ossidioni, e da sanguinose battaglie, procedè rapida e fortunata come le precedenti.

 

L’Italia, avvilita dal succedersi ininterrotto di tante incursioni, era rassegnata alla sventura. Serva doveva essere, epperciò lo riusciva indifferente il padrone. Uno ce n’era, un altro ne veniva : sbrigassero fra loro la questione del chi dovesse restare. Questa, la miserabile condizione della terra, che pure aveva tenuto il dominio del mondo !

 

I longobardi, stanziati a Pavia, tenevano soggetta la maggior parte d Italia: e i dominii divisero in sette ducati che presero il nome del Friuli, di Trento, d’Ivrea, di Torino, di Perugia, di Spoleto e di Benevento.

 

L’esarca di Ravenna governava per l’imperatore d’Oriente gli avanzi dogli antichi dominî bizantini, inframmezzati dai nuovi dominî longobardi.

 

* * *

 

La nostra provincia, nella sua sagoma attuale, andò compresa quasi integralmente nel ducato di Benevento, che riuniva in una vasta compagine il Sannio, la Campania e la Lucania.

 

Questo ducato confinava a settentrione col ducato di Spoleto (comprensivo di Chieti), ad occidente col Lazio, col ducato di Napoli e col Tirreno, a mezzogiorno col fiume Busento e col Ionio, ad oriente con l’Ofanto e l’Adriatico.

 

Napoli, Calabria e Puglia dipendevano dall’esarca.

 

Siffatte confinazioni non erano rigorose, come avviene nei primordi della conquista, nè furono stabili; poichè in prosieguo — al declivio del secolo VII — con la presa di Brindisi, Taranto ed Otranto, entrò nella circoscrizione del vasto ducato anche la penisola salentina.

 

Non sembra dubitabile, por altro, che la zona attualmente molisana, racchiusa tra il Biferno e il Trigno fosso, nei primi tempi, pertinenza del ducato di Spoleto.

 

Si è molto dibattuta fra gli storici la questione se il ducato di Benevento venisse istituito dai re longobardi,

 

 

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oppur vantasse origine anteriore, determinata dai primi longobardi che avevano militato da ausiliari con Narsete, i quali poi ne avrebbero ricevuta formale investitura dalla Corte di Pavia. La questione, in verità, non ci sembra molto importante; e noi possiamo sorvolarla non interessando essa all’obbiettivo precipuo che perseguiamo in questa fugace rievocazione del passato.

 

Occorre invece dire che il primo duca di Benevento fu Zotone, il quale entra ufficialmente nella cronologia beneventano-longobarda nell’anno 569 ed inizia la serie ducale, che termina con Liutprando nel 757; mentre nel 758 comincia con Arechi la serie dei principi la quale si estingue con Landolfo nel 1079.

 

* * *

 

In questo secondo periodo di oltre cinque secoli un evento, comunissimo nella storia, si svolse nelle nostre contrade, il quale è per noi altamente memorabile.

 

Da appena un secolo era installato in Benevento il ducato longobardo allorchè nel 667 — essendo Grimoaldo re d’Italia e duca di Benevento Romualdo suo figlio — un condottiero slavo a nome Alczeco venne con pacifiche intenzioni nella penisola chiedendo ospitalità per sè ed i suoi al Re, e profferendogli il servigio militare.

 

Il re, che temeva l’eventuale rinnovazione delle ostilità da parte dei Greci della Puglia e del Ducato di Napoli contro Benevento, inviò Alczeco al figlio: il quale accolse benevolmente il profugo, e gli assegnò tutta la contrada che si estende al di qua del Matese, da Sepino ad Isernia, Boiano compresa. Cosi il Giannone, sull’autorità di Paolo Warnefrido (65).

 

Alczeco — secondo attesta Camillo Pellegrino — prese col tempo il titolo di duca di Boiano; ma il duca di Benevento, mal sopportando che adoperasse un titolo pari al suo proprio, gliene vietò l’uso, e gli assegnò quello di “castaldo„ assai minore e pertinente piuttosto ad ufficio che a signoria, ed indicante piuttosto grado e mansione temporanea che dignità perpetua.

 

Questi slavi trasfughi dallo contrade del basso Danubio, questi Bulgari in esilio (non sappiamo quanto volontario e come motivato) venuti fra noi in cerca di asilo, senza disegno di prepotenza e di ostilità, vissero e prosperarono nel vasto territorio loro concesso tenendosi segregati dagli indigeni, cosi corno fino al secolo XVIII gli slavi e gli albanesi nella zona orientalo della nostra provincia.

 

Essi slavi

 

«sebbene centocinquanta e più anni da poi, quando Warnefrido scrisse la sua istoria, avessero appreso il nostro comune linguaggio italiano, non avevano però nei tempi di quest’istorico ancora perduto l’uso della lor propria favella; come egli rapporta nel lib. 5, de’Gesti de’Longobardi al capo 11. Nel qual luogo dovrà notarsi, che scrivendo egli elio i Bulgari ritenessero nella sua età il proprio linguaggio, sebbene parlassero ancora latinamente — quamvis etiam latine loquantur

 

 

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non perciò dovrà intendersi, come si diedero a credere alcuni (per es. il Ciarlanti), che favellassero colla lingua latina romana, la quale nei tempi noi quali scrisse Warnefrido, cioè verso il fine del nono secolo, era già andata presso al comune in disusanza, e solo nelle scritture, ma molto corrotta, era ritenuta : ed un’altra nuova popolare e comune, dalle varietà e mescolamenti e confusione di tante straniere lingue colla latina cagionata, erasi già in Italia introdotta, che italiana appellossi» (66).

 

Essi conservarono, forse più a lungo che non l’idioma, le costumanze e i riti, sebbene la coscienza di essere ospiti graditi li rendesse inclini alle leggi e consuetudini locali : donde nacque in loro la possibilità di dilatare pacificamente i primitivi confini della concessione territoriale, e colonizzare gli agri incolti e resi deserti dapprima dalla conquista romana ed in ultimo dalle incursioni dei barbari.

 

Non destavano sospetti, nè timori, nè erano vicini impertinenti e fastidiosi. Si andavano, in una parola, nazionalizzando; e col lavoro delle braccia e i lauti rendimenti delle culture cereali, potevano eliminare (ciò che Romoaldo aveva desiderato) la rarefazione demografica, dando sfogo alla fecondità incessante che caratterizza i popoli meno evoluti.

 

Tale opera di penetrazione e di assimilazione dovè per forza di cose esser lenta, ma dovè essere pure diuturna e costante.

 

* * *

 

Il castaldato di Boiano costituì dunque il nucleo iniziale di quell’unità feudale che nei tempi normanni prese il nome di Contea di Molise (Comitatus Molisii), quando il titolo di “comes„ aveva finito d’indicare, come presso i Greci bizantini, un capo di comitive militari, od affermava grado specifico di signoria personale, prima vitalizio e poi ereditario.

 

Il ducato di Benevento, nella evoluzione del regime feudale, venne a suddividersi in cinque grandi contee, dette di Conza, dei Marsi, di Sora, d’Abbruzzo, e di Molise: delle quali quelle d’Abbruzzo, di Sora, e dei Marsi ebbero qualche punta di giurisdizione territoriale nell’agro dell’attuale nostra provincia, attorno alla Contea di Molise che ne racchiudeva la massima parte.

 

La contea dei Marsi comprendeva forse, nella propria circoscrizione, la zona ora molisana che si svolge fra il Sangro e il Trigno.

 

La contea di Sora estendevasi a tutto il versante destro del Volturno, o comprendeva certamente Venafro.

 

La contea d’Abbruzzo non è certo so si estendesse a tutto il versante sinistro del Biferno.

 

La contea di Molise occupava, infine, la zona che intercede fra il Volturno, il Trigno, l’Adriatico, il Fortore e il Matese.

 

In prosieguo di tempo la popolazione accresciuta e le necessità amministrative che no dipesero, addussero un’ulteriore frammentazione alla circoscrizione; e così verso il 1000 il ducato di Benevento presentavasi partito in 34 contee,

 

 

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delle quali non meno di otto ebbero a capoluogo università attualmente molisane, quali Molise, Boiano, Isernia, Venafro, Sesto, Pietrabbondante, Larino e Termoli (67).

 

Giova fermare questi dati, tanto per rilevare che la Contea di Molise è di origine longobarda, contrariamente a quanto si ritiene dai più, che la fanno normanna.

 

* * *

 

Tracce della dominazione longobarda, precise e chiare, non sono avvertibili che in pochi luoghi della nostra provincia, e specialmente nei ruderi di parecchi castelli e di non poche abbazie, delle quali facciamo cenno trattando della Chiesa regolare nel Molise.

 

Più palesi sono invece nella toponomastica, come ad es. Pontelandolfo (comune molisano fino al 1861) nome di sapore prettamente longobardo, Roccamandolfi (la Rocca Maginulfa dei longobardi); Ponte Latrone, forse non altra cosa che ponte Landone, dal nome del principe che lo costruì; ecc.

 

* * *

 

Durante il periodo longobardo, nel IX secolo, i nostri luoghi furono teatro alle feroci scorribande dei Saraceni, sbucati dalla Sicilia.

 

Nella “Cronaca„ di Leone Ostiense è detto che, nell’anno 865, essi percorsero il Contado di Molise iniziando l’impresa col saccheggio e l’incendio della Badia di S. Vincenzo, ricca di tesori artistici e pecuniarî.

 

Il Muratori nell’opera magistrale “Rerum Italicarum scriptores„ narra che nell’881, essi, capitanati dal fiero Sadoam, devastarono o quasi ridussero al suolo Sepino, Venafro, Isernia e Boiano.

 

* * *

 

Tracce di cosi doloroso vicende rimasero nella toponomastica numerose ed evidenti. Castelbottaccio molto probabilinento è d’origine saracena (come illustriamo nella sua monografia nel IV volume); Macchia Saracena era detta fino a qualche secolo addietro il comune che ora si chiama Macchia d’Isernia; nell’agro di Sepino scorre il torrente Saraceno; Monte Saraceno è detto quello alle cui falde è edificata Pietrabbondante (68); Monte Saraceno, parimenti, quello ad oriente di Cercemaggiore, comune che fino al 1861 fece parte del Molise; Ripa Saracena è una contrada rustica dell’agro non sappiamo con precisione se di Lucito o di Potrella, ecc.

 

 

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XIII. L’epoca normanna e i Conti di Molise.

 

La Contea di Loritello e la Contea di Molise. — La Contea pentro-slava perchè fu detta di Molise? — I Castaldi di Boiano e i Conti di Molise dall’anno 687 al 1326.

 

 

La conquista normanna — per essere più recente — ha lasciato nella storia del Molise orme più profonde e tangibili di quelle che l’avevano preceduta.

 

Goffredo, fratello di Roberto Guiscardo, nel 1059 assediò e prese Ielsi, come attesta il monaco Goffredo Malaterra, storico grave o ponderato; e poi nello stesso anno Guglionesi. Naturalmente, tutta la zona da Ielsi a Guglionosi fece parte da quel tempo del territorio normanno sottratto ai longobardi.

 

In questo territorio, un piccolo paese, un paese mai conosciuto per lo innanzi, doveva ascendere ad una grande notorietà ed importanza — se non reale — nominale: Rotello. E cosi da luoghi della nostra provincia attuale presero nome le due maggiori unità feudali di quell’interessantissimo periodo storico: la Contea di Molise o la Contea di Loritello, delle quali il nome dalla prima sopravvisse e fiorisce attraverso i secoli, come dotato di giovinezza perenne.

 

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Della Contea di Loritello trattiamo con doverosa accuratezza nella monografia di Rotello nel IV volume; della Contea di Molise occorre parlare qui, perchè investe direttamente la genesi della provincia intera.

 

La Contea pentro-slava perchè fu detta di Molise?

 

Si ò molto favoleggiato in proposito, e specialmente intorno alla famiglia di Molisio, de Molinis ed anche Marchisio, chi sostenendo tale famiglia essere di origine normanna, chi facendone una diretta prosapia di Tancredi Marchese che seguì Guglielmo di Buglione in Terrasanta, e furono cantati dal Tasso.

 

Il Giannone, ad esempio, sulla scorta di Camillo Pellegrino, opina che il Castaldato di Boiano diede origine alla Contea di Moliso; e giudica per proprio conto che la nuova Contea fu denominata da Molise, città antica del Sannio (non altrimente che Boiano ed Isernia) da cui quindi prese il nome la famiglia Moliso poi estinta (69).

 

Il Tria, in mancanza di altro criterio critico, fa dipendere il nome della Contea semplicemente dal trasferimento della sede di questa da Boiano a Molise (70).

 

Giovanni Fontano, prima di loro, aveva ritenuto che la Contea prendesse nome dal castello di Molise, dal quale ebbe origino la famiglia: avviso che fu pure del Summonte (71).

 

 

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Il Ciarlanti è di parere, invece, che la famiglia e non il luogo di origine avesse conferito il nome alla Contea (72); e gli fanno eco il de Attollis e il Galanti.

 

Il Giustiniani, a sua volta, presume di poter precisare che da un castello edificato da Ugone di Molisio, ed al quale diede il proprio nome (cioè il comune di Molise) venisse la denominazione della Contea.

 

Contrasta a tutto queste ipotesi e congetture un dato positivo che ha un certo peso, una vera e propria pregiudiziale : il comunello o feudo di Molise, non è mentovato nel Catalogo borrelliano dei baroni del 1187.

 

Che cosa esprime il silenzio del Catalogo? Che Molise non esisteva, ed in tal caso le spiegazioni del Pontano, del Giannone, del Giustiniani e del Tria, mancano di fondamento. Resta quella del Ciarlanti, la quale non merita del pari una grande considerazione pel fatto che i nomi delle università precessero quelli delle stirpi feudali, le quali furono molto ristrette di numero nei primi secoli, e le cui ramificazioni assunsero man mano il nome del feudo lor proprio, quasi per una certa ostentazione di autonomia dal ceppo originale. Questo fatto (di cui ci siamo convinti nell’annosa elaborazione dei nostri quattro volumi) meriterebbe una lunga illustrazione, che pertanto intendiamo risparmiare al lettore, nella fiducia ch’esso vorrà accettare senza diffidenza il nostro asserto.

 

Ed ecco presentarsi un problema che non si è mai affacciato alla mente degli storici. La famiglia Molisio non potrebbe essere la medesima di quella ch’ebbe a capostipite Alczeco, divenuta indigena di fatto dopo quattro secoli d’immigrazione e di sedentarietà?

 

Riesce, è vero, impossibile di poter dimostrare la continuità della stirpe slava; ma la logica non consente che tale continuità debba scartarsi con sentenza aprioristica, tanto più che tratterebbesi di una filiazione di soli quattro secoli. I discendenti di Alczeco, come e per tali, sono rimasti ignoti a noi nei nomi e negli eventi; ma non vi ha nessun documento, nessun cenno nella storia, nessuna testimonianza di autore che alluda o alla perdita che essi avessero fatto dei domini, od all’estinzione della stirpe.

 

La continuità della compagine territoriale è elemento di qualche efficienza por inferire la continuità della stirpe, tanto più che se la prima intrusione di pochi slavi profughi nel nostro territorio non passò in silenzio nella storia del secolo VII, non si comprende come avesse potute passare inosservato nel secolo XI il trapasso di così vasta plaga da una signoria quattro volte secolare ad una signoria novella e forestiera.

 

Nei documenti, nei diplomi, nelle istorie relative al secolo XI, troviamo inoltre indifferentemente adoperate le denominazioni di Conte di Molise, Conte di Boiano e Conte d’Isernia : fatto non scevro d’importanza, perchè può attestare che l’antica famiglia feudale slavo-pentra, creata dai longobardi, sopravviveva in numerose propaggini all’inizio del periodo normanno; ed era anzi pervenuta ad un’integrazione cosi completa, da potersene considerare l’insieme dei domini quale unità speciale per sè stante,

 

 

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nella grossa divisione del Regno in provincie, la quale si andava allora maturando.

 

Giova inoltre prospettare, a conforto della nostra tesi, che la conquista normanna fu lenta nel tempo e blanda nei mezzi : non certo contrassegnata da quei furori ed esternami che sono corollario alla presenza di grossi eserciti avidi ed insaziabili; onde i vecchi signori longobardi ebbero tempo ed agio di patteggiare coi nuovi venuti, non isforniti di una tal quale vernice cavalleresca, e di accedere lealmente al novello regime.

 

La scarsezza numerica dei grossi feudatari longobardi non metteva in pensiero i normanni. Certo fu mestieri ridurre di numero ed estensione le loro giurisdizioni, ma non occorse la loro ecatombe : ecatombe che subirono poi i feudatari svevi, delle cui spoglie Carlo I d’Angiò dovè satollare tutti i capitani che lo avevano seguito e che gli avevano procurato un trono.

 

Si potrebbe obbiettare, alla nostra argomentazione, che il cognome Molisio o Marchisio deve pure avere un suo particolare significato. È giusto. Ed eccoci a rispondere.

 

Anzitutto può darsi che il silenzio del Catalogo Borrelliano in rapporto all’università di Molise sia una mera omissione, e che Molise non solo esistesse nei tempi longobardi, ma fosse un’antica città del Sannio, e precisamente “Melae„ o “Meles„ distrutta da Fabio nel 538, ritenuta irpina da Livio (XXIV-XX) ed identica a Molise dall’Olstenio nelle sue “Annotazioni a Cluverio„ (73). In tal caso si può ammettere che i lontani discendenti di Alczeco, avendo edificato un castello in ricordanza e sul voluto posto della città distrutta, ricevessero da questo il nome, come era costume generale.

 

Potrebbe però anche sospettarsi che i cognomi Molisio (come scrive Pietro Diacono) o Molino (come scrive il Capecelatro) fossero deformazioni del cognome Marchisio, frequentissimo oltre ogni credere nella diplomatica remota di molti comuni pentri ed anche frentani. E non è chi non veda che Marchisio è derivativo di “marchia„ della quale la potente stirpe era signora. Nulla osta, dunque, ad ammettere che i Marchisio o Molisio fossero nel secolo X ed XI gli eredi o diretti o collaterali del condottiero slavo del secolo VII : tanto più , poi, quando si consideri che della famiglia Molisio — pur cosi celebre nei fasti della storia — nessuno ha saputo indicare nè le origini, nè la provenienza. E normanna, certo, non fu.

 

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Passiamo ora in rassegna i Conti di Molise, dei quali è stato possibile rintracciare i nomi e le azioni, attraverso laboriose indagini e fatiche molte da controllo.

 

Dopo Alczeco, castaldo di Boiano nell’anno 667, non si ha notizia che di Guadelberto, pur castaldo di Boiano, vivente nell’anno 870, cioè due secoli dopo.

 

 

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Questo Guadelberto o Guandelperto è mentovato dal Giannone, il quale ne rilevò il nome dagli scritti di Erchemperto pubblicati da Camillo Pellegrino (74).

 

Qualche autore, di cui ci sfugge il nome, ritiene che costui fu il primo a fregiarsi del titolo di Conte di Molise.

 

Raoul, o Rodolfo, è menzionato dal Ciarlanti qual padre di Ugone.

 

Ugo od Ugone di Molinis, figlio di Raoul, è il primo che trovasi cosi cognominato. Portava il titolo di Conte di Boiano, ed ò noto per aver fatto costruire la cattedrale in questa città nel 1080, tre anni dopo la caduta del ducato di Benevento (75); nonché per due donazioni, la prima celebrata nel 1088 in favore d’un monastero d’Isernia (76), la seconda nel 1105, con la quale diede il castello di Viticuso (attualmente in provincia di Caserta) al monastero di Montecassino (77). Da siffatti diplomi e munificenze, si può argomentare non solo la vastità dei feudi che gli appartenevano, ma pur anche l’entità del patrimonio.

 

Il Ciarlanti, per dare un’idea della potenza cui era pervenuta la stirpe dei Conti di Boiano o di Molise, narra che nei 1105 essendo morto in Isernia, Simone, figlio di Ugone, la salma ne fu trasportata con riti solenni od imponente corteo nella lontana Badia Cassinese.

 

Roberta, conte di Boiano, fu probabilmente figlio, certo erede di Ugone. Egli nel 1119 fece donazione del monastero della Vergine Maria “quod constructum est in veteri Civitato Saepina„ alla Badia di S. Sofia di Benevento, in consideraziono che “in nominato Monasterio S. Sophiae videntur requiescere quadraginta quatuor Corpora Sanctorum„ (78).

 

Ugone di Molisio ò detto indifferentemente Conte di Boiano o Conte di Molisio. Figlio di Roberto, che gli diede il nome del proprio padre.

 

Quando nel 1127 mori il duca di Puglia senza prole successoria, il pontefice o Ruggiero Conte di Sicilia si contesero il dominio del Reame : quegli per pretesi diritti di devoluzione, questi per diritti di parentado. Ugone di Molisio parteggiò per la S. Sede : cosa che, se non costituisce una prova diretta, è però un indizio serio che la famiglia comitale non era normanna, ma longobarda. Ruggiero prevalse con le armi, ed Ugone volle riconciliarsi con lui, per ricuperare alcune castella che durante la lotta Ruggiero gli aveva confiscate. Il re Ruggiero acconsenti al perdono, e gli diede in isposa una propria figlia naturale, a nome Clemenzia, fratto d’illeciti amori con la contessa di Catanzaro. Le nozze ebbero luogo nel 1135.

 

Ugone di Molisio mori anteriormente al 1160.

 

La contessa Clemenzia, donna di suprema bellezza, fu da vedova follemente amata da Matteo Bonello, genero del terribile Maione; e finì la sua vita nella rocca di Taverna in Calabria dove il Ro Guglielmo, suo fratello consanguineo, l’aveva fatta chiudere per fellonia.

 

 

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Da Ugone e Clemenzia nacque Clarizia, la quale sposò Teobaldo di Baro, nobile borgognone, portando per dote Sepino, Campobasso, S. Giovanni in Golfo e Tappino.

 

Riccardo della Mandra nel 1162 fu creato Conte di Molise, essendo devoluta al demanio in tale anno la Contea, forse per non avere Ugone lasciato prole maschile.

 

Il Giannone riferisce sulla testimonianza di Ugone Falcando — lo storico della Sicilia dai 1146 al 1170 — che a quel tempo si costumavano ancora le vecchie cerimonie dell’investitura, con squilli di trombe e timballi in ciascuna terra feudale (79).

 

Il nuovo signore feudale del Molise ripeteva l’ascenso all’essersi trovato presente alla reggia quando re Guglielmo era per cadere vittima della congiura orditagli contro dai più stretti parenti.

 

Riccardo della Mandra ora stato, solo, ad impedire con la parola e col braccio l' esecuzione del delitto; ed il re, per grato animo, oltre la Contea di Molise gli conferì l' ufficio di Gran Contestabile del Regno — il maggiore nella gerarchia politica e militare sotto i normanni.

 

Egli mori in dura prigione nel 1169 per imputazione di congiura, insofferente del predominio di Stefano di Poitiers, che la regina Margherita di Navarra — vedova di Guglielmo e tutrice dell’erede del trono — aveva nominato Cancelliere del Regno.

 

 

Ruggiero della Mandra, primogenito di Riccardo, ne fu il successore feudale.

 

Il partito di opposizione, essendo riuscito ad abbattere F intruso Stefano, ed a farlo esulare, fece lealmente atto di devozione verso il re giovanetto. E il nuovo Conte di Molise fu, anzi, del numero di quei dieci della Reggenza creata pel governo dello Stato durante la minorità del sovrano (80).

 

Guglielmo II non avendo avuto prole dalla regina Giovanna, sposata nel 1177, dichiarò propria erede alla corona sua zia Costanza, unica discendente diretta della regia stirpe, e moglie all’imperatore Arrigo VI; ed a rendere più solenne e formale la ricognizione convocò in Troia i baroni pel giuramento di rito.

 

Morto il buon re nel 1189, il corpo feudale si divise in due fazioni : Funa ghibellina parteggiante per Costanza, F altra guelfa in favore di Tancredi Conte di Lecce, bastardo del primogenito di Ruggiero I. I Siciliani, fra cui era sorta e risiedeva la monarchia, e non intendevano assoggettarsi ai tedeschi, gridarono re Tancredi, e solennemente ne celebrarono in Palermo la coronazione nel 1190.

 

Gli eserciti imperiali scesero nel Reame, e fra le prime provincia ad essere invase e ridotte a soggezione furono Terra di Lavoro e Molise.

 

Ruggiero della Mandra, aperto fautore di Tancredi, andò a fortificarsi nel castello di Roccamandolfi. Cosi Riccardo di S. Germano nella sua “Cronaca„ all’anno 1193; senonchè, persuaso della impossibilità di resistere,

 

 

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si arrese salvi gli averi e la vita, ed esulò in Provenza, dove qualche anno appresso mori.

 

Corrado di Luzelinhart (cui venne affibiato il nomignolo di “Mosca in Cervello„ per l’indole bizzarra e stravagante) fu nello stesso anno 1193 creato Conte di Molise.

 

Era un valoroso e fedele soldato, e del suo valore aveva dato prova nell’assedio di Capua, allorché ridotto all’estremo strettezze, aveva ottenuto di uscire dalla vecchia città con l’onore delle armi. Nel maggio del 1193, essendo morto Bertoldo — comandante generale dell’esercito imperiale — nell’assedio di Monteroduni (81), Mosca in Cervello n'era stato il successore.

 

Corrado mori nel 1197. In un diploma imperiale del 30 marzo 1195, relativo alla donazione della terra di Morcogliano al monastero di Montevergine, figura la sua firma “Corradus Marchisius de Molisio„ la quale fece ritenere a qualche storico che “Marchisius„ fosse il di lui cognome specifico; mentre egli adoperava il “marchisius„ nel senso tedesco di titolare della “marca„ del Molise. Ciò che conferma quanto abbiamo esposto, nel capitolo precedente, in rapporto a Molisio o Marchisio, voluti ma non veri cognomi.

 

 

Marcovaldo de Menunder noi 1197 ebbe l’investitura della Contea di Molise.

 

Era già Siniscalco dell’Impero, duca di Ravenna, e “marchisius„ di Ancona, e fra i primari condottieri dello armi sveve. Morto Arrigo li nel 1197, egli, di fronte ad una donna quale era Costanza ed un fanciullo di appena due anni, quanti allora contava Federico erede del trono, si considerò il più eminente rappresentante della parte ghibellina e degli interessi tedeschi, e concepì l’insano disegno di ascendere al trono di Sicilia. La regina Costanza ri usci a confinarlo nella Marca d’Ancona, e finché ella fn in vita non potè allontanarsene.

 

Morta Costanza nel 1198, Marcovaldo Conte di Molise non fece più mistero dei propri esorbitanti propositi. Tornò nella Contea, che assoggettò di fatto, assediò e saccheggiò Capua difesa dallo armi pontificie condotte da Landono di Montelongo, e cinse d’assedio Montecassino. Il pontefice Innocenzo III (tutore dell’imperatore per testamento di Costanza) gli lanciò la scomunica.

 

L’audace avventuriero tentò allora la corruzione, promettendo 20.000 once d’oro al pontefice e dichiarandosi pronto al giuramento di vassallaggio alla S. Sede. Il pontefice non abboccò. Ed il Conte passò ad assediare Avellino o Salerno, e da Salerno raggiunse la Sicilia. Accolto lietamente a Messina, mosse contro Palermo, e con l’aiuto dei Saraceni se ne impadronì. Ma dopo qualche tempo, le milizie spedite dal pontefice lo trassero a battaglia, e gli inflissero una provvida sconfitta.

 

Egli si ecclissò pel momento; senonchè più tardi, con infinite astuzie e doppiezze, riuscì a farsi considerare quasi principe in Palermo e nella Sicilia intera.

 

 

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Mori in Palermo nel 1202, chi dice di mal di pietra, chi di dissenteria.

 

 

A chi vennero concessi il titolo e il fondo della Contea di Molise?

 

Gli storici maggiori tacciono : non" manca però qualche cultore di patrie memorie che pretende no fosse investito Pietro Conte di Celano. Noi seguiamo altra traccia.

 

Ugo di Molisio, signore di Sepino e Boiano, fu il novello Conte di Molise. E il suo nome balza fuori da una donazione celebrata nel 1206 da Adelaide — moglie di Ugo — in favore della cattedrale di Boiano (82).

 

Non bisogna equivocare sul conto di Ugo del 1206. Ugo marito di Clemenzia, morto verso il 1160, e costui, erano avo e nipote, poichè Ugo juniore era figliuolo di Clemenzia e Teobaldo, e portava il cognome materno come più insigne, e forse per patto stipulato.

 

Verosimilmente i Molisio non avevano mai abbandonato il titolo comitale omonimo, perchè essendo il Reame in preda alle due fazioni in lotta fra loro, ciascun sovrano conferiva per proprio conto le investiture, che diventavano poi effettive se l’eletto era favorito dalla sorte dello anni nel succedersi dei pubblici eventi.

 

 

Tommaso di Molisio fu successore di Ugo, o parecchi storici, erroneamente, lo chiamano Tommaso di Celano Conte di Molise. L’errore è fondato sul fatto ch’egli era marito della figlia di Pietro Conte di Celano, unica erede dei feudi patemi.

 

Pietro Conte di Celano aveva avuto due maschi : Rinaldo arcivescovo di Capua, e Belardo, il quale nel 1200 battendosi presso Venafro contro i tedeschi di Diopoldo, fu fatto prigione o morì nella fortezza d’Arce.

 

Tommaso Conte di Molisio e poi Conte di Celano, pei diritti della moglie, era guelfo ad oltranza, epperò per niente affatto nelle grazie del giovane Imperatore.

 

Nel 1221 Federico II, dopo emanata la costituzione “de novis aedificiis„ (che ordinava la demolizione di tutte le fortezze edificate dai baroni senza il sovrano assentimento), percorse le provincie allo scopo di assicurarsi di persona dell’osservanza, o capitò anche nelle terre della Contea di Molise. Avendo visto Boiano o Roccamandolfi seriamente fortificate, spedì al Conte Tommaso una formale ingiunzione di mettersi in regola con la legge.

 

Tommaso inviò all’Imperatore il proprio figlio Matteo per invocare misure di benevolenza; ma l' Imperatore non volle riceverlo. Gli fece bensi intimare dicesse al padre di osservare le leggi dello Stato ed inchinarsi alla volontà sovrana.

 

Il Conte di Molise, in un eccesso di estrema albagia, delibera la resistenza. Si fortifica dentro Boiano, ed avendo poi qualche sospetto della fedeltà degli abitanti , saccheggia la città e si ritrae con la famiglia a Roccamandolfi. E là che attendeva le truppe imperiali.

 

Tommaso d’Aquino, d’ordine di Federico II, lo cinse d’assedio in quel forte arnese di guerra.

 

 

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La resistenza fu lunga, e le ostilità

 

“più oltre procedute sarebbero, so colla mediazione del Papa non fosser le cose venute a composizione. Si pattuì uscirebbe il Conte di Celano e di Molise con le robe, o con le persone che seguire il volessero; cederebbe Celano, Obinolo e le altre castella che possedeva; il Contado di Moliso sarebbe serbato a sua moglie„ (83).

 

Il conte Tommaso esulò a Roma, dove fu assunto in servizio nelle milizie pontificie; e la consorte tenne il feudo comitale poi figlio minore. Questo accadeva nel 1221.

 

La contessa di Celano chiamavasi Isabella Acquaviva, secondo assevera l’Ammirato (84), ed apparteneva alla nobilissima stirpe della quale diamo i ragguagli storici e nobiliari nella mon. di Cantalupo del Sannio nel III volume.

 

Il conte Tommaso visse a lungo, e l’ultima sua impresa militare fu quella del 1241, quando il pontefice Gregorio IX lo spedi a presidiare Spoleto, minacciata da Federico II che frattanto assediava Ascoli Piceno per aprirsi la via di Roma (85).

 

 

Matteo di Molisio, figliuolo di Tommaso e d’Isabella, fu privato del titolo e dei dominî dallo stesso Imperatore,

 

“sotto pretesto che, chiamato dal Gran Giustiziere (Arrigo Marra) che esporgli doveva gli ordini di lui, non aveva voluto andarvi„ (86).

 

Evidentemente tra i Molisio, guelfi accaniti, e il geniale Imperatore che impersonava il principio ghibellino, non c’era buon sangue.

 

 

Ed eccoci ai Conti nominali.

 

L’Imperatore dopo qualche anno da che la Contea giaceva devoluta al demanio, ne investì Enzo suo bastardo. Enzo, nato nel 1222, fu nominato da Federico re di Sardegna e suo Vicario Generale in Lombardia. Caduto in mano dei Bolognesi, guelfi, venne da questi tenuto prigione per circa cinque lustri nel Palazzo del Potestà, dove morì il la marzo 1272. Fu poeta gentile, e il Tassoni lo cantò nella “Secchia rapita„. Prima di morire fece testamento, lasciando erede per la Contea di Molise Corrado d’Antiochia.

 

Corrado d’Antiochia non ebbe la fortuna di fruire della pingue eredità, per un motivo assai semplice : era morto nel 1268, cioè quattro anni prima del testatore (87). Povero Enzo ! Che sapeva egli, dello vicendo del tempo e degli uomini, nel suo carcere dorato ?

 

 

Morto l' Imperatore Federico II nel 1250, ne fu successore Manfredi, di lui bastardo.

 

Matteo di Molisio — il destituito del 1223 — profittò delle ansie di Manfredi nel periodo in cui la corona gli veniva contesa, ed ottenne la reintegrazione nei domini paterni. Noi ignoreremmo questo evento, e la continuità della stirpe dei Molisio, so lo storico Summonte si fosse dispensato dal riferire un’avventura galante nel modo come si compiacque narrarla il Villani.

 

 

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L’avventura accadde nel 1258 e ne fu protagonista “Messer Amelio di Molisio„ (si noti il cognome), nipote del Conte di Molise (certamente Matteo, allora nel suo undicesimo lustro di età).

 

La Corte di Manfredi era a Barletta. Nella notte del 21 marzo messer Amelio, mentre era a letto con una popolana nella costei abitazione, venne sorpreso dai fratelli dell’amante, che lo condussero dal giustiziere, invocando ad alte grida la punizione. L’indomani gli stessi fratelli, e il padre, si gravarono presso il re per avere un’adeguata riparazione alla offesa nell’onore.

 

Il re, l’avventuroso e galante Manfredi, ordinò senz’altro ad Amelio, suo gentiluomo di camera, di sposare la ragazza.

 

Messer Amelio informò della cosa lo zio, il quale — da quel fiero barone che era — rispose che in nessun modo accondiscendesse all’esortazione del re: si poteva rimediare con l’offerta di duecento onze (cioè 1200 ducati) che il nipote avrebbe erogate alla peccatrice, cd altrettante che egli, il Conte zio, avrebbe date del proprio per saldare la partita. Un’offerta, insomma, di 2400 ducati. Manfredi tenne duro: la ragazza — sentenziò — non doveva perdere la ventura che la bellezza le aveva procurata !

 

Messer Amelio, messo alle strette, obbedi; ed a nozze celebrate , il re — in segno del real compiacimento — gli assegnò la terra di Alberona, in Capitanata. Il Conte di Molise restò corrucciato dell’accaduto; ma Re Manfredi, gran corteggiatore delle beltà muliebri, divenne l' idolo delle donno, e i suoi cortigiani d’allora in poi, “tennero la bracchetta legata a sette nodiche.„ (88)

 

Nel 1262, allorché il pontefice Urbano IV mosse la crociata contro Manfredi, il Conte Matteo ospitò il Re di passaggio a Campobasso.

 

Tutti i baroni del Reame convennero presso il Re nel campo di Frosinone, dove era ad attendere le milizie franco-guelfe poste sotto il comando di Roberto di Fiandra. Durante l’attesa, si seppe che i ghibellini avevano fatto un colpo in Roma, ribellandosi al papa o nominando i magistrati popolari (o “capo-rioni„). Si seppe altresì che le truppe crociate retrocedevano verso Roma, e che gli insorti invocavano aiuti da Manfredi.

 

Manfredi, chiamati in assemblea i baroni, mise in evidenza la necessità dell’intervento, ed invitò tutti a seguirlo. Il Conte di Molise, rendendosi interpreto dell’opposizione alle mire di Manfredi, disse che i baroni erano tenuti ad obbedire il re per difendere il Regno, non per conquistare altri Stati; epperò al dovere avendo adempiuto lealmente, non intendevano secondare il Re in un’impresa alla quale non avevano alcun interesse.

 

Manfredi, comprendendo lo spirito di “Fronda„ del sermone, simulò indifferenza : chiese ai baroni un prestito di danaro (che non potevano denegargli, ciascuno avendone dovuto portar seco per le speso di guerra), ed alla testa dei fidi saraceni mosse verso Roma per suo conto esclusivo.

 

 

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Del Conte Matteo non sappiamo altro.

 

Roberto di Molisio fu successore di Matteo; pur egli Conte di Molisio; senonchè, con la conquista angioina, il titolo sopravvisse, non la vasta compagine territoriale che le era inerente a tutta l’epoca aveva. Roberto era in vita nel 1277.

 

Guglielmo di Molisio, figlio di Roberto, fu l’ultimo titolare della stirpe e del titolo comitale, poichè mori nel 1326 senza prole maschile.

 

Lasciò due figlie : Tommasella ed Adolisia. La prima sposò Riccardo di Gambatesa, ed in secondo nozze — pare — Alberico Carafa duca d'Ariano. La seconda fu maritata a Iacopo Carafa, da cui discesero i Conti di Policastro e Principi della Roccella (89).

 

 

XIV. Il Contado di Molise dal 1200 al 1806.

 

La Contea di Molise s’identifica nel Contado di Molise. — Il feudo e l’organizzazione del regime feudale presso i Longobardi e i Normanni. — Il Baglivo, il Camerlengo e la Corte baronale; il Giustiziere e l’Udienza provinciale; il Gran Giustiziere e la Magna Curia; la Corte della Vicaria, il Sacro Real Consiglio, la Regia Camera della Sommaria. — L’Iliade del Molise. — Il Molise annesso al Principato. — Il Molise unito con Terra di Lavoro. — Il Molise aggregato alla Capitanata. — Il Molise nella circoscrizione repubblicana del 1799. — Il sistema tributario durante il regime feudale. — Il Bilancio di un comune molisano pel 1741. — Popolazione e Superficie del Contado di Molise dal secolo XII al XVIII. — Serie dei Giustizieri, Vicerè, Vicarî e Presidi del Molise.

 

 

Il Contado di Molise, qual’ora certamente al tempo dei normanni e forse anche nel periodo svevo, si confondeva con la Contea di Molise; e le annessioni successive ch’esso ebbe di altre terre qua e là nella propria periferia, non solo non valsero a far tramontare il suo nome primevo, ma parvero accreditarlo e consolidarlo per la reverenza dovuta alla vetustà, e per la forza ineffabile della tradizione.

 

Estinta col conte Guglielmo la stirpe comitale di Molise, la contea fini di fatto e di nome. Pini di fatto perchè il titolo — come si è detto — non venne più adoperato; finì di nome poichè nell’evoluzione dei tempi il ceppo originario dei Marchisio o Molisio crasi diramato in numerose branche collaterali, titolari ciascuna di minori compagini territoriali.

 

Non deve, invero, sfuggire alla nostra attenzione che i longobardi — a quanto annuncia il Giannone — in mancanza di cognomi propri, atti a denotare le particolari famiglie che possedevano terre in feudo, le distinguevano appunto col nome delle terre medesime. Nell’epoca normanna la consuetudine non venne a cessare; e il Mabillon avverte che i cognomi propri cominciarono a sorgere non prima del secolo XIII e si diffusero nel secolo successivo (90).

 

Per parecchie famiglie regnicole, divenne cognome — ed era titolo di orgoglio —

 

 

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il nome del feudo originario, che da qualche secolo aveva loro conferito notorietà e ricchezza; e nelle monografie dei tre successivi volumi noi c’imbatteremo di frequente negli Acquaviva e coi d’Alife, i Belmonte, i di Capua, i d’Evoli, i Gaetani, i Gesualdo, i Sangro, i Sanseverino, ecc. Ma c'imbatteremo altresì, e con frequenza maggiore, coi Gambatesa, i Montaquila, i Pesche, i Seggano, i Pescolanciano, i Luparia, i Montagano, i Castropignano, ecc, famiglie particolari e specifiche del nostro Molise, ed evidenti diramazioni della vetustissima stirpe dei Marchisio o Molisio, la quale a sua volta risaliva nel tempo al bulgaro Alczeco del secolo VII, come innanzi abbiamo congetturato.

 

La Contea di Molise, però, a causa della sua primitiva vastità, aveva dato il proprio nome al Contado amministrativo, o topografico che dir si voglia; di guisa che gli storici usarono bene spesso indifferentemente i vocaboli Contea e Contado di Molise come se fossero sinonimi. Ed in conseguenza, al tempo della divisione del Pegno in dieci provincie o “giustizierati„ (istituita dai normanni e ripristinata da Federico II), noi troviamo la provincia del Contado di Molise come unità a parte e formalmente distinta dalle altre.

 

La provincia del Contado di Molise ebbe per arma o blasone una stella crinita di bianco in campo vermiglio, racchiuso da una ghirlanda di spighe di grano. La stella di bianco in campo vermiglio può indicare, araldicamente, la prosperità che rifulge dopo tante vicende fortunoso e luttuose; la ghirlanda di spighe, la fecondità delle campagne produttrici di ottimi frumenti.

 

Alcuni autori, fra cui il Mazzetta ed il Parrino, presumono che la stella crinita (elemento dell’arma di casa del Balzo) sia stata adottata dal Contado in considerazîone dei molti feudi che tale famiglia vi possedeva. Il che è assolutamente erroneo ed infondato; ed invero dal catalogo da noi formato delle famiglie che ebbero feudi noi Molise e che verrà inserito nel IV volume, risulta che le famiglie prevalenti per numero di feudi furono i Caracciolo, i Carafa e i di Capua Altavilla, mentre i del Balzo n’ebbero il minor numero e forse non più di quattro o cinque !

 

* * *

 

Il territorio dello Stato, fin dai tempi longobardi, era diviso in feudi. Alla voce “feudum„ sono state assegnato varie spiegazioni, le quali però collimano tutte nella sostanza del contenuto.

 

Cuiacio, l’immortale esegèta francese della scienza legislativa di Roma, sostiene “feudum„ valer “fides„ por la fedeltà che il concessionario doveva al concedente. La scuola tedesca, invece, lo vuole derivato da “fehe„ (mercede o ricompensa nell’antico idioma teutonico), parola che sopravvive in “fee„ nell’inglese moderno, col significato di feudo, onorario, competenza, ecc. Nè manca, infine, chi con qualche artificio filologico ritiene che “feudum„ provenga da “fruenda„ cioè cosa data a fruire.

 

 

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Il feudo era un bene immobile — rustico, urbano o misto — capace di un reddito annuale di venti once di sei ducati : e doveva al principe il servizio d’un milite e due soldati a cavallo, “servientes„. Il mezzo feudo, il quarto di feudo, corrispondevano una prestazione in proporzione.

 

Il servizio feudale, personale nelle prime origini dell’istituto, col volgere del tempo divenne convertibile in danaro a richiesta del titolare e per grazia sovrana; ed infine si trasformò in servizio reale, mediante la prestazione pecuniaria detta “adohamentum„ o “adohum„ ed in ultimo comunemente “adhoa„ forse dall'adunamento generale che veniva stabilito perchè ogni contribuente recasse la propria quota.

 

Nell’epoca longobarda i titolari dei feudi ed i suffeudatari loro dipendenti, oltre la funzione feudale esercitavano direttamente o per delegati anche le funzioni fiscali o giudiziarie. Ruggiero I, normanno, privò di siffatto carattere generico e cesareo i conduttori di feudi, e stabili funzionari speciali pei due rami anzidetto. Questo audace ed energico provvedimento ripristinò le garanzie giuridiche, e segnò una grande battuta nel progresso civile delle nostre provincie pel sollievo che n’ebbero le popolazioni.

 

Alfonso I d’Aragona ritornò parzialmente all’antico, ed avendo

 

“per la sua sterminata liberalità, resi esausti tutti gli altri fonti, cominciò ad essere profuso anche delle più supreme regalie, che non doveano a verun patto divellersi dalla sua corona„ (91),

 

e ripose in uso, nello investiture, la concessione della giurisdizione criminale. Questa consuetudine si protrasse fin’oltre la metà del secolo XVIII, allorché con R. R. 1° agosto 1759 venne decretato che la giustizia non sarebbe resa altrimenti che in nome del Re.

 

* * *

 

In ciascuna terra feudale vi era un “Baglivo„ o “Baiulo„ il cui ufficio consisteva nel giudicare le cause civili cosi reali che personali (purché non feudali) e le contravvenzioni; nel sorvegliare l’annona; nel provvedere di tutela i pupilli; nell’imporro l’assise sui principali generi di consumo, ecc. Vi ora altresì un Capitano, o “Camerlengo„ di nomina baronale, estraneo per nascita ed aderenze alla giurisdizione, nominato ad anno e confermabile. Esso teneva il comando degli armigeri baronali, sopraintendeva alle carceri locali, esercitava la polizia giudiziaria, ed era giudice in materia civile e penale nell’orbita di una ristretta competenza. Stava a capo della Corte, di cui facevano parte il Baglivo e il basso personale.

 

Il Giustiziere era a capo della provincia. Pur non essendo un funzionario ambulante, non aveva sede stabile nel proprio circolo: ed infatti il Galanti ci fa sapere che nel nostro Contado, nel secolo XVI, la Corte del Giustiziere sedeva intercalatamonte a Limosano, Boiano o Campobasso.

 

Il Giustiziere presiedeva l'Udienza provinciale, coadiuvato da un giudice e da un notaio (mastrodatti),

 

 

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e giudicava le cause civili e penali (non feudali) : era giudice di appello alle sentenze delle Corti baronali : aveva competenza di condannare “ad modum belli„ i ladroni che infestavano le macchie e le pubbliche strade : di destinare “ad opus publicum„ la gente oziosa e dedita alla mala vita. Doveva altresì esercitare la sorveglianza e il controllo sulla gestione dei Capitani e dei Baglivi, od assolvere mansioni di tutela.

 

I Giustizieri delle provincie dipendevano dal Gran Giustiziere, presidente della Magna Curia, la quale aveva sede in Palermo (capitale del Regno sotto i normanni), e nell’epoca sveva fu ambulante, seguendo le peregrinazioni di Federico II o poi di Re Manfredi.

 

Nella Magna Curia si agitavano le cause civili e criminali, le cause feudali, le cause di appello alle sentenze delle Udienze provinciali, e quelle di lesa maestà.

 

Tutti, senza distinzione di classi, erano soggetti alla Magna Curia.

 

Carlo I d’Angiò fissò la propria sede in Napoli, e da tale epoca ebbe inizio la politica di accentramento nella capitale di tutta l’amministrazione dello Stato.

 

Questo re, a cagione delle frequenti assenze dalla città, istituì la Corte del Vicario, così detta per esserne capo un membro della famiglia reale con funzioni di Vicario del Re; onde per l’altezza del preside, la dottrina e nobiltà dei Consiglieri, la Corte del Vicario si rese superiore alla Magna Curia. Col tempo poi, l’una Corte, invadendo le competenze dell’altra e viceversa, finirono con l’apparire gemelle, epperciò Alfonso I d’Aragona le fuse in un sol corpo denominato la Gran Corte della Vicaria, composta di ordinari magistrati.

 

Contro le sentenze della Gran Corte non oravi azione di appello, ma soltanto di ricorso al Re. Ne conseguiva che venivano rivolti al Re innumeri piati, che il Re poi doveva sottoporre allo studio ed al giudizio di fidati consiglieri prima di decretare; epperò ben presto si vide la necessità di una Corte suprema di appello, allo scopo — se non altro — di avere una maggiore uniformità di responsi. Ad ottenere l’intento, Alfonso I istituì il Sacro Real Consiglio, presieduto dal re, o da un vicario, o da un delegato. Questo Tribunale è pur chiamato dagli autori “Consiglio di S. Chiara„ per la lunga sede ch’ebbe nel monastero omonimo, oppure “Corte Capuana„ per essere stato dal viceré di Toledo trasferito, nel 1540 in Castel Capuano, dove rimase fino alla sua abolizione.

 

La R. Camera della Sommaria assorbì, a sua volta, l’antico Tribunale della R. Zecca e quello della Regia Camera, o Corte della Sommaria; e nel decorso del tempo, pur tenendo il secondo posto dopo il Consiglio di S. Chiara (Tribunale Sapremo della giurisdizione ordinaria) lo pareggiò per eminenza e supremazia, ed in qualche circostanza parve perfino superarlo. Esso era l’organo massimo dell’amministrazione finanziaria, e non meno che dal Consiglio predetto uscivano dalla R. Camera decisioni ed arresti che avevano forza di legge.

 

 

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La R. Camera aveva cura del patrimonio regale, cognizione delle cause feudali, delle investiture, delle successioni feudali, dei relevi, delle devoluzioni, dei regi patronati, nonchè la sopraintendenza dell’amministrazione delle città regie, dei dazi, e di tutti i conti ministeriali.

 

* * *

 

. . .


 

NOTE ILLUSTRATIVE E BIBLIOGRAFICHE

 

(62) Nugnes Massimo — Storia del Regno di Napoli dall’origine dei suoi primi popoli sino al presente. Napoli. Da Raffaele de Stefano e Soci. 1838. (Confr. volume I, a pag. 229).

 

(63) Bryce Giacomo — Il Sacro Romano Impero, tradotto da Ugo Balzani. Dr. Leonardi Vallardi Ed. Napoli, 1886. (Scrive l’A. a pag. 23:

 

"Quando Romolo Augustolo, fanciullo che lo scherno del fato aveva scelto ad ultimo indigeno Cesare di Roma, dietro un cenno di Odoacre annunziò formalmente al Senato la sua rinuncia, una deputazione di quell’assemblea mosse alla Corte orientale per deporre le regali insegne ai piedi del regnante imperatore Zenone, L'Occidente, dichiaravano essi, non abbisognare più d’un imperatore suo proprio; un monarca solo bastare al mondo; Odoacre essere adatto per suo senno e valore a proteggere lo stato loro, pregarsi Zenone che gli conferisse il titolo di patrizio e l’amministrazione delle provincie italiane. L’imperatore concesse ciò che non potea rifiutare, e Odoacre pigliando titolo di re (*) mantenne l’ufficio consolare, rispettò le istituzioni civili ed ecclesiastiche dei suoi sudditi, e per quattordici anni governò come vicario nominale dell’imperatore d’Oriente.

 

(*) "Non re d’Italia come spesso si è detto. I re barbari per alcuni secoli non usarono titoli territoriali; il titolo di Re di Francia, per cagion d’esempio fu prima usato da Enrico IV, Giordane dice che Odoacre non assunse mai le insegne regali.

 

 

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" Legalmente non vi fu in alcun modo estinzione dell’Impero occidentale, ma solo una riunione d’Oriente e d’Occidente. Nella forma, e fino a un certo segno anche nella credenza degli uomini, le cose tornavano al punto in cui erano nei primi due secoli dell’Impero, salvo che in luogo di Roma, sede del governo civile era Bisanzio.

 

(64) Confr. la nota (19).

 

(65) Giannone Pietro — Istoria Civile del Regno di Napoli. Napoli. Mariano Lombardi, editore. 1865. (Confr. volume II, libro IV, a pag. 69),

 

(66) Op. alla nota (65), volume II, libro IV, a pag. 70.

 

(67) Op. alla nota (65), volume II, libro VI, a pag. 215.

 

(68) Qualche autore inclina a ritenere che il monte Saraceno fosse realmente denominato monte Caraceno, come pertinente al Sannio Caraceno, avente a capitale Alfedena. Senonchè da molte attestazioni storiche, che per brevità ci dispensiamo dal riferire, pare che i Caraceni non avessero mai oltrepassato nè il Sangro, nè il Volturno; e Pietrabbondante — o sia l’antica Aquilonia o il "Bovianum vetus„ — fu sempre pentra. Il monte, perciò, ha nome Saraceno, e non Caraceno, in ricordanza di chi sa quale gesta degli incursori omonimi.

 

(69) Op. alla nota (65), volume III, libro XVII, a pag. 530.

 

(70) Op. alla nota (10), libro II, cap. Ili. 16.

 

(71) Summonte Giovannantonio — Historia della Città e Regno di Napoli. In Napoli, l’anno santo M.DC.LXXV. A spese di Antonio Bulifon. (Confr. vol. III, a pag. 414).

 

(72) Ciarlanti Gianvincenzo — Memorie storiche del Sannio. Isernia. Camillo Cavallo, M.DC.XLIV(Confr. Libro III, cap. XXXV).

 

(73) Op. alla nota (1), volume I, a pag. 347.

 

(74) Op. alla nota (65), volume II, libro VI, a pag. 219.

 

(75) Op. alla nota (4), a pag. 466.

 

(76) Sarnelli Pompeo — Memorie cronologiche dei vescovi ed arcivescovi della S. Chiesa di Benevento, etc. In Napoli. MDCXCI. Presso Guglielmo Roselli (Confr. a pag. 80).

 

(77) Della Marra Remante — Discorsi delle famiglie estinte, forestiere, o non comprese nei Seggi di Napoli, imparentate colla casa Della Marra. Napoli. 1641. (Confr. a pag. 226).

 

(78) Op. alla nota (76), a pag. 129.

 

(79) Op. alla nota (65), volume II, pag. 474.

 

(80) Op. alla nota (62), tomo I. pag. 58.

 

(81) Il Giannone scrive “monte Rodano„ prendendo abbaglio fra un ipotetico monte e il castello di tal nome — oggi Monteroduni — mentre Riccardo di S. Germano nella "Cronaca„ (da cui il Giannone attinge) dice chiaramente “castrum montis Rodonis„.

 

(82) Op. alla nota (4), a pag. 469.

 

(83) Op. alla nota (62), tomo I, pag. 167.

 

(84) Ammirato Scipione — Delle Famiglie nobili napoletane. In Firenze. Per Amadore Massi da Furli. MDCLI (Confr. Parte II, a pag. 19).

 

(85) Capecelatro Francesco — Storia di Napoli a miglior lezione ridotta dal prof. Pierluigi Donini. Torino. Unione Tip. Editrice, 1870. (Confr. vol. II, pag. 205).

 

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(86) Op. alla nota (85), volume II, a pag. 60.

 

(87) Corrado d’Antiochia impersonava in Sicilia il partito svevo, essendo nipote del morto re Manfredi, e vi capitanava le ultime resistente alle anni angioine. Assediato nel 1268 nel forte castello di Centuripe, presso Catania, dovè arrendersi, e preso prigione fu impiccato d’ordine del fiero e crudele Guido di Monforte.

 

(88) Op. alla nota (71), volume II, pag. 157.

 

(89) Op. alla nota (77), a pag. 227.

 

(90) Confr. libro II, cap. VII dell’opera del benedettino padre Mabillon Giovanni — De re diplomatica.

 

(91) Op. alla nota (65), volume V, cap. VII, pag. 151.

 

 

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